IL MISTERO DEL TTIP

Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP)

(III)

di Marco Borsotti

Continuando l'analisi del materiale messo a disposizione dalla Commissione europea per illustrare, per chi fosse interessato, i contenuti del TTIP, vediamo quali sono stati i perché che hanno suggerito d'avviare i negoziati.

Il Commercio Estero e gli Investimenti

Il volume di scambi tra le due sponde dell'Atlantico sono considerati molto rilevanti. Cominciamo con il dare alcune cifre di riferimento espresse in miliardi di Euro.

Volume degli scambi tra Unione europea e Stati Uniti

Valori espressi in miliardi di Euro

Fonte Commissione europea Direzione per il Commercio

Importazioni

Esportazioni

Beni e Manufatti

2011

192

264,1

2012

206,5

292,8

2013

196

288,2

Servizi

2011

134,7

138

2012

141,1

148,1

2013

148,9

163

Interno (Inward)

Esterno (Outward)

Investimenti

2012

1536,4

1655

Per mettere in un contesto i dati appena citati, preciso che circa il 17% delle esportazioni europee sono dirette verso gli Stati Uniti dove risultano essere seconde, per importanza, soltanto a quelle provenienti dalla Cina, mentre gli USA sono il terzo paese per volume delle esportazioni verso l'Europa, con l'11% del totale, dopo Cina e Russia. L'EU, a sua volta, é la seconda regione per importanza, dopo il Canada, nelle destinazioni delle esportazioni americane, rappresentandone il 19% del totale.

Per completare il quadro di riferimento, dobbiamo anche prendere in considerazione, il valore aggregato del Prodotto Nazionale Lordo che, nel 2012, é per gli Stati Uniti di $ 16.800 miliardi, mentre per l'Unione europea é di € 17.372 miliardi. Le stime date sono quelle del IMF e differiscono leggermente da quelle prodotte dalla Banca Mondiale. Comunque, per il ragionamento che stiamo facendo, bastano ordini di grandezza generali per capire di che cosa stiamo discutendo.

Risulta subito evidente, infatti, che il valore degli scambi tra le due parti, anche aggregando importazioni ed esportazioni di beni a quelli dei servizi, rimane comunque limitato se confrontato con quello dell'economia reale sia dell'Europa che degli Stati Uniti, mentre gli investimenti si avvicinerebbero al 10% del totale del PIL degli USA. Guardando la questione dal punto di vista europeo, il valore globale delle importazioni rappresenta il 2% del PIL europeo, e le esportazioni il 2,5% mentre gli investimenti interni rappresentano l' 8,8% e quelli esterni il 9,5%. Da soli questi numeri indicano subito l'ordine di grandezza e quindi d'importanza di questi due fattori; gli investimenti infatti sono quattro volte maggiori del commercio estero e quindi non deve stupire se nel materiale reso pubblico, la Commissione europea costantemente si riferisca agli investitori come la controparte maggiormente interessata nei risultati di queste negoziazioni.

Esaminando il commercio estero tra le due regioni, per comparti, emerge, in ordine decrescente che quattro settori ricoprono un ruolo predominante sia per le importazioni che per le esportazioni: macchinari e mezzi di trasporto, prodotti chimici, idrocarburi ed altre materie prime, prodotti agricoli. La somma aggregata di tutto il resto risulta superiore al totale delle importazioni ed esportazioni di idrocarburi e altre materie prime, comparto che occupa il terzo posto nella precedente graduatoria, ma molto distante in valore sia dalla seconda classificata, i prodotti chimici, che dalla prima, macchinari e mezzi di trasporto, che totalizza in milioni di Euro un valore doppio della sommatoria di tutto il restante del commercio estero sia in uscita che in entrata. Il comparto metalmeccanico e chimico rappresentano, quindi, la quota maggiore del commercio estero tra l'EU e gli USA.

Commercio di beni tra l'EU e gli USA

Valori espressi in milioni di Euro

Fonte Eurostat

120000

104429

100000

80000

60000

61810

70850

55819

40000

40134


38776

20000

23112

24645

0

11368

13874

Agricoltura                        

Idrocarburi e    Materie  Prime

Chimica

Manifatturiero

Varie

Importazioni EU marcate in verde; esportazioni in rosso.

Analizzando il flusso degli investimenti, emerge che gli investimenti in uscita dalla Unione europea sono diretti per il 35% verso gli Stati Uniti ed il Canada, il 24% verso il resto dell'Europa non associata nell'EU, il 15% verso l'Asia, il 17% verso l'America Latina (questa cifra comprende anche il Messico), il restante si divide tra Africa, Oceania e Paesi arabi. Valori sostanzialmente simili si registrano per gli investimenti in entrata nella EU. Infine, vale la pena notare che sia in entrata che in uscita centri finanziari di importanza globale come Hong Kong, Singapore e la Svizzera controllino un flusso notevole di questi capitali.

Dall'esame di queste tavole che sono tratte dal materiale messo a disposizione dalla Commissione europea, si deduce che gli interessi maggiori per il raggiungimento di un accordo siano tra gli investitori ed anche se non ho trovato cifre precise che potessero confermarlo, mi pare possibile desumere che questi investitori siano in gran misura rappresentanti di interessi finanziari, altrimenti non si spiegherebbe la rilevante presenza di flussi che vengano dai tre centri finanziari che ho appena menzionato. Assumo, poi, che sia anche veritiero che gli investitori agiscano in generale attraverso grandi corporazioni più che attraverso imprese di media o piccola grandezza, dal momento che sono queste le tipologie d'impresa che meglio sanno posizionarsi nel mercato globale di cui controllano quote rilevanti.

Mi pare quindi ragionevole presumere che l'interesse per questo tipo di negoziazioni sia stato portato all'attenzione della Commissione europea e del governo degli Stati Uniti da coloro che maggiormente ne trarranno beneficio e non dal desiderio di arricchire le famiglie europee con supposti benefici che ne deriverebbero qualora gli accordi fossero firmati e le condizioni ottimali di realizzazione raggiunti, come asserito nei documenti ufficiali.

Gli ostacoli da rimuovere per  promuovere una crescita del Commercio estero

Lo studio “indipendente” condotto dal Centro di Ricerca di Politica Economica di Londra sotto la direzione di Joseph François, segnala sin dalle prime pagine alcuni elementi importanti per il nostro discorso. L'ambizioso accordo (con l'uso di questo aggettivo vogliono riferirsi al fatto che i grandi benefici ci saranno soltanto se si adotterà l'alternativa più liberista delle varie sul tappeto delle discussioni) produrrà, quando in piena applicazione, un guadagno annuale per l'Europa di 119 miliardi di Euro. L'effetto sarà anche benefico per il resto del mondo che dovrebbe guadagnare circa 100 miliardi l'anno. Perché questo si avveri, sarà necessario ridurre la barriere non tariffarie come elemento chiave per la liberalizzazione transatlantica. Lo studio stima che 80% del guadagno potenziale verrà dal tagliare costi imposti dalla burocrazia e dai regolamenti, come dal liberalizzare il commercio nei servizi e nelle gare d'appalto pubbliche. Il rapporto sostiene anche, ma non lo quantifica, che nuovi posti di lavoro saranno generati a radice dell'accordo con impatto limitato sulla mobilità del lavoro. Assicurano anche, che tutto ciò avrà effetti trascurabili sulle emissioni CO2 e l'utilizzo sostenibile di risorse naturali.

Quest'ultimo commento é francamente incredibile visto che lo dovrebbero sapere anche i sassi che Europa e Stati Uniti non solo non possono aumentare l'emissione di CO2, essendo loro i principali inquinanti del pianeta, ma devono invece trovare soluzioni sostenibili per ridurre sostanzialmente il loro marchio ecologico. Il solo fatto che questo accordo non si muova su queste linee, dovrebbe essere ragione sufficiente per far cessare ogni interesse nel proseguire nell'intento di realizzarlo. Ovviamente a Bruxelles la Direzione Generale che si occupa di questioni ambientali non deve essere a conoscenza di quanto i colleghi del Commercio stanno pensando di mettere in piedi, anche loro nelle tenebre vista la segretezza dei negoziati.

Ma esaminiamo anche gli altri punti di rilievo visto che, almeno per ora, i negoziati proseguono.

Circa il guadagno annuale previsto,  al momento sembra che siano allo studio cinque possibili alternative, dalla più minimalista che produrrebbe soltanto un guadagno di circa 24 miliardi di Euro sino alla più “ambiziosa” che ne produrrebbe  119 . Bene, 119 miliardi sarebbero circa un incremento dello 0.5% del PIL, un valore francamente modesto che potrebbe ulteriormente ridursi se non si riuscisse ad ottenere un accordo su tutti i punti o se altri fattori influissero negativamente sul risultato finale. Mi sembra la montagna che partorisca il topolino visto che l'ultima crisi economica, quella del 2007, sta generando una recessione che ha portato, almeno l'Italia, ai valori del PIL degli inizi degli anni novanta.

Altro aspetto che richiede attenzione é il fatto che sembrerebbe che i negoziati si stiano concentrando sulla questione delle barriere non tariffarie al commercio e sul modo di condurre le dispute legali qualora gli investitori considerassero che i regolamenti vigenti in una Nazione siano ostacoli al libero flusso degli investimenti e del commercio.

Barriere non tariffarie

Cerchiamo di capire di che cosa stiamo parlando e per questo facciamo uso dello studio indipendente commissionato dalla stessa Commissione europea. Si inizia con il chiarire che gli ostacoli possono essere di due tipi: sia requisiti che facciano lievitare il costo dei prodotti, o norme che possano impedirne l'accesso come potrebbe essere il caso delle quote o dei regolamenti che squalificano il prodotto per la vendita. Il rapporto continua poi illustrando i risultati di una ricerca  condotta con investitori ed esportatori delle due parti che rispondendo ad un questionario  hanno offerto le informazioni necessarie per costruire un indice degli impedimenti che ostacolerebbero il flusso di beni e capitali tra le due sponde dell'Atlantico. Gli ostacoli sarebbero maggiori per il commercio dei beni che per quello dei servizi con i livelli più alti riscontrati nel settore aerospaziale, ma anche nell'esportazione dagli Stati Uniti di prodotti chimici, cosmetici ed in genere nella bio-tecnologia, mentre gli effetti nel settore farmaceutico sarebbero minimi.

Prima di proporre altre considerazioni, voglio subito chiarire che trovo scorretto da parte dei ricercatori aver condotto il loro lavoro intervistando esclusivamente le categorie degli investitori e degli esportatori dal momento che, prendendo solo nota degli interessi di parte di queste categorie, é ovvio che i risultati ottenuti siano viziati da un errore sistematico. Maggior valore avrebbe avuto condurre la ricerca intervistando anche altre categorie come le associazioni dei consumatori, le organizzazioni ambientaliste, le rappresentanze sindacali, i settori responsabili nell'apparato pubblico per la tutela dell'ambiente, della salute e la lista potrebbe continuare. Sono certo che i risultati si sarebbero discostati significativamente da quelli ottenuti. Il metodo adottato, invece, dimostra in modo praticamente univoco che la ricerca é stata realizzata con l'intento di dimostrare che la crescita degli investimenti e del commercio avrebbe prodotto dei benefici.

Ma torniamo agli spunti che quel documento offre. Gli ostacoli maggiori sarebbero nel settore aerospaziale dove i governi pongono severe limitazioni dal momento che considerano l'area di massima importanza strategica per il paese sia dal punto di vista della difesa che da quello della ricerca scientifica. Il rapporto non lo menziona, ma non mi stupirebbe se risultati simili siano stati riscontrati anche in settori che generalmente non appaiono nelle ricerche perché vengono aggregati con altri come la produzione d'armamenti o la ricerca nucleare. Il rapporto però menziona tre settori critici, la chimica, la cosmetica e la bio-tecnologia. Questi sono settori dove a considerazioni di segretezza per tutelare la sicurezza nazionale o il valore commerciale dei brevetti, si aggiungono prepotentemente anche considerazioni di ordine etico ed ambientale. Le regole tra le due parti, infatti, su questi temi differiscono molto e sono certamente più restrittive dal lato europeo. Illustrare a fondo le complessità dell'argomento eccederebbe le mie competenze, ma é certo che esistono opinioni scientifiche che non collimano e leggi e regolamenti assolutamente incompatibili tra loro.

A questo punto appare l'importanza della seconda barriera, quella delle norme, dei regolamenti e delle leggi. Tutti sappiamo o dovremmo sapere che importanti istituzioni finanziarie, come la J.P. Morgan, hanno espresso chiaramente il loro punto di vista sulla questione affermando che al momento leggi costituzionali ed ordinarie sono un ostacolo che deve essere rimosso per permettere alla globalizzazione di trionfare. In realtà volevano asserire che queste abrogazioni avrebbero permesso loro di trionfare ed aumentare a dismisura i loro margini di profitto. Mi si permetta un commento di natura ideologica che in parte esula dal filo del discorso. Per quanto si continui a negarlo, la questione della caduta del tasso di profitto, tesi sostenuta nel Capitale, rimane uno dei fattori centrali che meglio di qualunque altra spiegazione illustra perché la Finanza internazionale sia ossessionata dalla necessità di trovare nuove forme per sostenere la crescita dei tassi di profitto che altrimenti sarebbero in diminuzione.

Come aggirare il problema, visto che le leggi le fanno i Parlamenti che a loro volta sono eletti dai cittadini? Semplice, si deve riuscire a spostare il livello del contenzioso fuori dalle legislazioni nazionali o persino comunitarie.

Prima di spiegare come tutto questo potrebbe succedere, debbo fare una breve precisazione sulla profonda differenza nel sistema giuridico europeo (sola eccezione l'Inghilterra) da quello statunitense. Le norme, in Europa, sono approvate dai Parlamenti e poi messe in atto dal sistema giudiziario che attraverso diversi livelli di giudizio si assicura della corretta interpretazione e della conformità della norma con i principi costituzionali. Se ci sono dubbi, la Corte Costituzionale esamina la norma per verificare se sia conforme con la Costituzione. Quando la norma non é riconosciuta costituzionale, viene ipso-facto abrogata e spetta poi al Parlamento redigere una nuova norma che non abbia lo stesso difetto. Negli Stati Uniti, invece, le leggi sono approvate dal Parlamento, ma la giurisprudenza é frutto della pratica dove le sentenze dei tribunali si sommano alle norme ed ai regolamenti per definirne l'interpretazione autentica. Anche questo tema é complesso e tecnicamente superiore alle mie competenze per poterlo spiegare in modo adeguato. Basti però capire che i due sistemi giuridici sono profondamente differenti e le procedure che valgono da un lato dell'oceano non sono applicabili sic et simpliciter dall'altro richiedendo complessi adattamenti che spesso toccano questioni di fondo della filosofia del diritto.

Se questo é il problema, quale sarebbe la risposta che metterebbe tutti d'accordo? Introdurre nell'accordo un meccanismo che permetta chi si consideri negativamente svantaggiato da una legge vigente in un paese di portare la questione ad un livello esterno al sistema giuridico di quel paese in un foro giuridico che abbia il potere di discutere del caso e prendere decisioni che poi diverrebbero obbligatorie per il paese in questione qualora dovesse perdere la causa. Le leggi non le farebbero più i Parlamenti, ma le decisioni prese da terzi.

Questo é di certo uno degli aspetti più controversi del possibile trattato, l'adozione di un sistema per il “Regolamento delle Controversie tra Investitori e Stato” (in inglese, ISDS- Investor State Dispute Settlement). Stiamo parlando di un meccanismo di arbitrato privato tra gli investitori e gli Stati che si sostituirebbe alle giurisdizioni esistenti, permettendo così agli investitori privati di liberarsi da tutte le leggi, di aggirare le decisioni per loro ingombranti e di consacrare la privatizzazione del potere legislativo. Gli Stati e i Parlamenti non potrebbero nulla contro queste sentenze.

Non stiamo parlando di fantascienza, già oggi un meccanismo simile esiste presso la Banca Mondiale ed é a questo meccanismo che imprese come la Philip Morris hanno fatto ricorso per combattere leggi fortemente restrittive sul commercio dei derivati dal tabacco. Compagnie internazionali potrebbero considerare un ostacolo irragionevole la decisione di vietare la costruzione di centrali nucleari, o le norme che dovrebbero proibire la vendita di beni pubblici come l'acqua ai privati. Il volere dei cittadini potrebbe contare nulla di fronte alle richieste di una grande corporazione. Questo, parrebbe, sia una delle ragioni principali per mantenere l'assoluto riserbo sulle discussioni in corso e sugli accordi che le due parti si appresterebbero a siglare. Il TTIp sarebbe un meccanismo per espropriare i cittadini della loro sovranità.

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