LA SFIDA CATALANA DI PODEMOS
Una voce dalla base
 Paolo Basurto a colloquio con                  
Manuel Rodriguez è un economista di Barcellona che ritrova la sua voglia di fare politica attiva quando il movimento degli indignati scende nelle piazza e poco dopo nasce Podemos. E’ un militante di base della prima ora. Nei suoi vent’anni, quando ancora governava Franco e la sua polizia non faceva complimenti con nessuno, ha militato in un gruppo di estrema sinistra, la LCR (Lega Comunista Rivoluzionaria), discioltosi poi nel ’92. Oggi, professionista affermato, contribuisce attivamente a mantenere vivo il Circolo di Podemos del rione di Poblesec, dove l’ho conosciuto. La sua è una posizione genuina che ben rappresenta il momento difficile che vive la Catalogna e la sfida che tutti i partiti si trovano ad affrontare, ma che per Podemos può significare una svolta decisiva per definire meglio i suoi obbiettivi di rottura con una politica vecchia e verticista o per ripiegarsi negli schemi propri di un partito tradizionale e centralista.
- La situazione catalana è riuscita recentemente a captare l’attenzione di tutta l’Europa. Perché questo improvviso interesse? In che misura quanto sta accadendo in Catalogna viene interpretato correttamente all’estero?
Per capire il fenomeno catalano è indispensabile conoscere il suo contesto almeno nelle sue componenti principali. Non c’è bisogno di risalire a remote epoche storiche (come pure alcuni fanno a proposito della Guerra di successione e del famoso e infausto 1714) [* quando Barcellona fu bombardata dall’esercito del primo Re borbone da poco insediato- N.d.r.]. Prendiamo come punto di partenza la fine della dittatura con la morte di Franco. A quell’epoca il movimento indipendentista catalano aveva un seguito assai scarso e il Partito politico che oggi più sostiene l’indipendentismo, all’inizio dei governi democratici, ha sempre appoggiato il Governo centrale, di destra o di sinistra che fosse.
 Il prezzo di questo appoggio era spesso ottenere  vantaggi e ritocchi a favore di una maggiore autonomia amministrativa.L’ultima di queste negoziazioni avviene nel 2006, quando il Governo regionale ottiene che il precedente Statuto per la Catalogna, concordato subito dopo l’approvazione della nuova Costituzione Spagnola, nel ’78, venga sostituito da un nuovo Statuto più marcatamente autonomista, soprattutto in materia fiscale e più esplicito nel definire quello catalano un popolo e una nazione. Il Governo centrale, allora formato dal partito socialista, era apparentemente favorevole al nuovo Statuto della Catalogna che, nel frattempo, aveva già subito molteplici modifiche durante il processo di approvazione parlamentare. Fortemente contrario, invece, il tradizionale Partito di destra, il PP- Partito Popolare. Quando il Partito Popolare va a sua volta al potere chiede alla Corte Suprema di pronunciarsi su varie eccezioni di incostituzionalità, nelle quali, a suo dire, incorreva il nuovo Statuto. La Corte accoglie le tesi del PP e il Nuovo Statuto viene modificato nelle sue parti più sensibili. Lo Statuto si approva, così mutilato, nel 2012. Ma già prima, il movimento indipendentista aveva cominciato a prendere più forza e a scendere nelle strade, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone, con sorpresa delle stesse autorità regionali. Siamo in piena crisi economica. Il cosiddetto regime del ’78, quello cioè nato dal disfacimento del franchismo, accusa le sue debolezze in campo economico, sociale e territoriale. E’ in questa fase che il Movimento 15M – 15 Maggio, quello degli Indignados, per intendersi, (e al quale si ispirerà la nascita di Podemos) riuscirà a raccogliere il suo maggior consenso chiedendo un cambio profondo nella struttura politica. E’ il momento più significativo per capire come l’indipendentismo catalano, che appena sei anni prima non aveva nessuna prospettiva di affermarsi, prende vigore e viene immediatamente utilizzato dalle forze politiche regionali. Il Partito al Potere in Catalogna, colpito da scandali gravi di corruzione, decide di rifondarsi; cambia nome e sposa esplicitamente la causa indipendentista. Comincia una vera e propria guerra istituzionale nella quale le forze politiche catalane si trovano sempre più coinvolte. La secessione viene presentata come la vera soluzione di tutti i problemi della regione e riesce a sedurre l’insoddisfazione generalizzata che soprattutto la crisi economica aveva procurato. E’ così che quasi  metà della popolazione catalana finisce con il simpatizzare per l’indipendentismo mentre i Partiti al potere risvegliano con ogni mezzo forti sentimenti nazionalisti, accusando il Governo centrale di voler reprimere un diritto fondamentale come quello dell’autodeterminazione dei popoli. Questa rivendicazione prende ancora più forza dopo il tentativo negato dal Governo centrale di realizzare, per ben due volte, un referendum che consenta ai Catalani di esprimersi chiaramente a favore o contro la secessione. La prima volta, il Governo regionale cede formalmente trasformando il Referendum in una Giornata di Partecipazione Popolare. La seconda volta invece il Governo regionale, capeggiato da un nuovo Presidente, Puidgemont, molto più radicale del precedente, pretende di convocare un Referendum in piena regola chiedendo ai catalani di esprimersi esplicitamente a favore o contro una Dichiarazione di Indipendenza e la proclamazione di una Repubblica catalana. E’ a questo punto che la situazione precipita in un confronto irreparabile.  La Corte suprema dichiara incostituzionale il Referendum (l’art.2 della Costituzione afferma chiaramente che la Nazione spagnola è indissolubile, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli), Il Governo centrale, forte delle sue ragioni legali, lo blocca, avvisando che chi andasse a votare potrebbe essere considerato complice di delitti non minori come quello di sedizione. Il Governo regionale fa orecchio da mercante e prosegue nella realizzazione del referendum. Interviene la polizia nazionale (quella regionale rimane parzialmente inerte agli ordini di un Capo, successivamente rimosso dal suo incarico e accusato di insurrezione). Moltissimi (tuttavia meno della metà degli aventi diritto) vanno ugualmente a votare e la stragrande maggioranza è a favore dell’indipendenza. Dopo molte ambiguità, il Presidente Regionale si reca al Parlamento catalano e proclama l’indipendenza e la creazione della Repubblica catalana, nello stesso tempo chiede che tali atti vengano sospesi. Nessuno capisce che cosa davvero significhi questa sospensione ma nel frattempo il Governo centrale scioglie il Parlamento regionale e destituisce il Presidente. Interviene la Magistratura: il Pubblico Ministero accusa il Presidente e il suo governo di atti insurrezionali e ne chiede l’arresto, cosa che avviene ma non per quelli, compreso il Presidente, che preferiscono fuggire in Belgio alle cui Autorità chiedono asilo politico, finora non ancora concesso. Il caos che sconvolge la Catalogna si acquieta solo quando il Governo centrale indìce nuove elezioni per il 21 dicembre. Sorprendentemente tutti i partiti decidono di parteciparvi, anche quelli che, ritenendo dichiarata l’indipendenza e proclamata la Repubblica, coerentemente avrebbero dovuto ritenere illegittime tali elezioni. La fuga in Belgio è una mossa astuta che internazionalizza gli avvenimenti catalani. Ma mentre l’opinione pubblica nella maggioranza dei Paesi europei simpatizza istintivamente per gli indipendentisti, i Governi e le Istituzioni comunitarie si mostrano estremamente prudenti se non esplicitamente contrari. Un risveglio dei nazionalismi, regionali o no, fa sempre il gioco delle destre estreme e questo preoccupa non poco. Intanto è avvenuto qualcosa di nuovo e importante a livello mediatico. Già non si tratta più della possibile secessione catalana ma di una importante questione di diritti umani e rispetto dei principi democratici. L’art.2 della Costituzione fu voluta dai militari eredi del franchismo. Dica quel che dica la Magna Charta spagnola, i popoli hanno diritto all’autodeterminazione e una Democrazia non è tale se non rispetta questi principi. Questa nuova impostazione del problema consente un consenso vasto perché comprende anche coloro che direbbero no all’indipendentismo. E’ la posizione esplicita di PODEMOS e della stessa sindaca di Barcellona: sì al referendum ma no all’indipendenza. Questa è l’impostazione che più simpatie raccoglie anche fuori dell’Europa. E’ così che gli arrestati per ordine della magistratura possono essere considerati prigionieri politici e i transfughi in Belgio, dei perseguitati. Da questo punto di vista la posizione del Capo del Governo, Rajoy, malgrado l’appoggio del Partito socialista, può essere considerata molto precaria. In questo clima incandescente un nazionalismo spagnolo, emozionalmente patriotico e di chiara ispirazione franchista, trova spazio per riemergere e confondere ancor più le acque.
 -L’atteggiamento ribelle delle istituzioni catalane, che hanno deliberatamente violato la Costituzione, ha provocato in tutti i partiti una crisi politica profonda e trasversale. PODEMOS sta forse soffrendo più degli altri di questa crisi, e una vera frattura si è verificata in Catalogna. Qual’è la tua opinione su questa maggiore vulnerabilità di Podemos?
Podemos è un partito nuovo ancora in via di organizzazione. E’ un partito trasversale la cui debolezza organica è conseguenza di una forza potenziale molto temuta e attaccata ma ancora non completamente strutturata. Podemos non cerca di mobilitare le masse e basta come avveniva con il movimento degli indignati che qui indicano con una data, il 15M (il 15Maggio, quando migliaia di persone, dalle ideologie le più diverse, decisero di manifestare nelle strade al grido di Democracia real, Ya! Condannando il continuismo del bipartitismo molto esplicitamente:  PP e Psoe, misma mierda!). Podemos ha cercato subito di marcare una differenza e di evitare che la forza spontanea che agitava allora molte piazze nel mondo si esaurisse in un entusiasmo effimero ed anarchico, dandosi alcuni principi organizzativi sui quali progressivamente strutturarsi. Podemos è un partito populista ma non nel senso che molti potrebbero intendere, perché non è in nulla simile agli altri populismi europei. L’ispirazione teorica è nelle idee del filosofo Ernesto Lacau (forse poco conosciuto fuori di Spagna). Né sinistra né destra ma in alto e in basso, così si divide oggi la società e la voce di chi sta in basso va ascoltata e fatta valere. Naturalmente, come tutte le teorie la loro traduzione pratica può dare luogo a interpretazioni variabili. Oggi, in Podemos, esiste un dibattito abbastanza evidente tra due influenti personalità: Pablo Iglesias, l’attuale Segretario Generale e Iñigo Errejon, Segretario di Analisi strategica. Il primo, più eurocomunista, allo stile Berlinguer per intenderci; più movimentista e sensibile alla partecipazione della base, il secondo. Ma entrambi hanno coinciso sin dal primo momento sulla visione di una Spagna plurinazionale e sulla non discutibilità del Diritto all’autodeterminazione. Bisogna intendersi bene su questo Diritto. La maggior parte della Sinistra non riesce a capirlo. Autodeterminazione non è fare quello che uno vuole perché lo vuole. Autodeterminazione significa esprimere la propria volontà e essere capaci di farla accettare almeno alla maggioranza di quelli che sono implicati in questa volontà. Ecco perché Podemos non si schiera né a favore né contro la secessione catalana. Sostiene da sempre, invece la necessità di un Referendum vincolante.
 -Ma un Referendum vincolante sarebbe comunque illegale, anticostituzionale
Un referendum negoziato con il Parlamento di Madrid, solo potrebbe essere di natura consultiva, ma il Governo potrebbe compromettersi, vincolarsi, a rispettare i suoi risultati.
 -Ma perché allora non cambiare la Costituzione?
 Perché nell’attuale situazione non si raggiungerebbe mai l’altissimo quorum necessario al cambio. Un cambio che mai potrebbe limitarsi, una volta che vi si mette mano, alla specifica questione della realizzabilità di un Referendum sulla forma istituzionale delle regioni.  Qualcosa di molto simile è del resto già avvenuto nel caso dell’Andalusia, la cui autonomia è stata riconosciuta, nel 1978, proprio attraverso questo tipo di referendum.
 -Però una cosa è l’Autonomia e un’altra l’Indipendenza
D’accordo, ma il punto non è questo. Il punto è lasciare che la gente si esprima e poi saperla ascoltare. Possono sembrare sottigliezze o sfumature ma invece è politica molto seria anche se bisogna riconoscere che sia difficile a far capire e a ridurre in slogans seducenti.
 -Podemos è la unica forza política in Europa che si propone un cambio del sistema político sulla base di una maggiore partecipazione dei cittadini nei processi decisionali. Tuttavia, molti criticano un evidente progressivo abbandono di questa proposta che pure aveva risvegliato tante speranze. Perché si produce questo fenomeno?
Podemos nasce sulla base di un’intuizione di un gruppo di giovani professori che avevano capito che quanto stava accadendo nelle piazze e per le strade dove si manifestava un’indignazione consapevole delle gravissime colpe di una clase dirigente corrotta, incompetente e ormai incapace di vedere la realtà della società che avrebbero dovuto governare, stava aprendo un grande vuoto político  che avrebbe potuto essere riempito con l’intelligenza di nuove idee. L’intuizione era così buona che i risultati vanno subito molto al di là delle aspettative. Alle prime elezioni alle quali partecipa, quelle europee del 2014, Podemos, a soli tre mesi dalla sua nascita, conquista ben 5 posti all’europarlamento e ottiene l’8% del totale dei voti. La campagna per quelle elezioni rimarrà memorabile. Tutti partecipavano come potevano. Pochissimi i fondi disponibili e tutti raccolti in forma volontaria. Nessuna struttura né organizzazione definita, a parte quella dei Circoli che dovevano costituire la base portante delle decisioni al vertice. Un successo indiscutibile. Ma essere divenuto da zero la quarta forza della Spagna non consentiva di potere produrre un cambio reale. Bisognava contare di più e per questo bisognava organizzarsi di più. Questo fu il tema della prima grande Assemblea di Podemos, tenutasi nel Palazzo di Vistalegre in Madrid, nell’ottobre del 2014. In un clima che qualcuno chiamò addirittura apoteosico, si decise che Podemos si sarebbe dotato di una sua organizzazione la cui struttura era quella proposta da Pablo Iglesias. Una struttura centralizzata e centralista che doveva rappresentare una perfetta macchina elettorale. Perché, infatti, erano vicine le elezioni municipali, regionali e nazionali. Non tutti amavano questo tipo di organizzazione e il dissenso oggi è in crescita. Comunque, a tre anni di distanza gli iscritti di Podemos sono ben 430mila. I parlamentari sono 70 (la terza forza in Parlamento). I principali comuni sono nelle sue mani: Madrid, Barcellona, Zaragoza, La Coruña, Cadice…, molti sono i deputati regionali, e la Regione di Castiglia-La Mancia è governata da Podemos. Insomma, un successo fuori discussione. Tuttavia l’attuale organizzazione scontenta soprattutto quelli che, sin dall’inizio, hanno creduto con entusiasmo che, finalmente, si sarebbero aperte le porte della partecipazione cittadina. Sono quelli che hanno frequentato con assiduità e militanza i Circoli di base, che, invece, hanno perduto spazio e non hanno ancora trovato un modo efficace per far sentire la loro voce ai vertici del Movimento. Una crisi di crescita e di maturazione che si trova ora di fronte ad un alternativa cruciale: divenire un partito come tutti gli altri o riuscire a far funzionare nuovi meccanismi e modalità di decisione capaci di coinvolgere efficacemente la base.
 -Dunque i Circoli sono stati e sono ancora l’unico spazio in cui la base si riconosce e può esprimersi? Perché ora sembrano essere insufficienti, quali sono i loro limiti? Come si integrano con le frequentissime istanze per le quali gli iscritti di Podemos sono chiamati a votare?
I Circoli non sono nati per essere dei centri di indottrinamento come erano, per esempio, le cellule del Partito comunista. Dovevano essere, e in certa misura continuano ad esserlo, degli spazi dove i cittadini si riuniscono, indipendentemente dalle loro militanze. Molti iscritti che frequentano i Circoli sono militanti di altri partiti. L’idea era attrarre anche chi la política non l’aveva mai fatta o chi se ne era allontanato, disgustato. Bisognava insomma, superare gli schemi tradizionali e aprirsi alla gente per farla parlare, darle voce e ascoltarla, in piena libertà. Addirittura si pensava che ogni circolo dovesse organizzarsi per essere autonomo anche finanziariamente.  L’intento era far produrre idee in piena libertà e fare che queste idee arrivassero in qualche modo, dal basso verso l’alto, cioè verso i vertici decisionali del partito. Invece sta accadendo il contrario e le idee ormai vengono sempre più frequentemente dall’alto per dire quello che si deve o non si deve fare. La proposta di un’organizzazione centralista è stata sostanzialmente confermata, anche se dopo un dibattito molto acceso ai vertici del Partito, nella seconda grande Assemblea di Podemos, tenutasi anche questa volta nel Palazzo di Vistalegre, in Madrid, nel febbraio scorso. Questo sta emarginando sempre di più i Circoli e quindi la base. Personalmente credo che Podemos dovrebbe tornare alla sua vocazione iniziale che è quella di coinvolgere una base la più ampia possibile. Se continuasse l’attuale tendenza diventerebbe un partito come gli altri con una dirigenza di un migliaio di persone che decide e orienta e i cosiddetti militanti di buona volontà che si mobilitano quando ci sono le elezioni o manifestazioni di Piazza, per attaccare manifesti e distribuire propaganda. In Catalogna purtroppo abbiamo avuto un nuovo avviso di questa involuzione dirigista.  Per la prima volta i candidati alla guida regionale del Partito sono stati scelti non dalla base attraverso delle primarie ma, di fatto, dal vertice del Partito. Ma non voglio essere pessimista. Questo potrebbe non essere un fenomeno inevitabile. Sono molti quelli che vogliono recuperare l’obbiettivo della partecipazione e riproporlo come un obbiettivo essenziale. Realisticamente sarà necessario continuare a sperimentare nuove modalità. Le forme tradizionali, dove ci si riunisce in troppi, non funzionano per comunicare in modo sufficiente e riuscire a prendere decisioni ben fondate su dati sicuri e non manipolati. Questo non significa che non si riuscirà a trovare altre forme. L’importante è non abbandonare lo scopo principale solo per essere più efficaci nelle elezioni e nella conquista del potere. Come lo si conquista è ancora più importante del potere in sé.
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