IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO

PROSPETTIVE NEL LUNGO PERIODO

Parte VIII - B [Link -A]

di Massimo D’Angelo

  1. Il contributo demografico dell’immigrazione

Il consueto allarme alla notizia di nuovi arrivi di immigranti è collegato ad un pensiero molto diffuso: non c’è spazio per ospitarli, anche se la realtà fa pensare proprio il contrario, con un possibile vuoto demografico nei paesi d’immigrazione, che giustificherebbero semmai flussi migratori per garantire un’adeguata crescita della popolazione.  Infatti dovremmo valutare se l’immigrazione porti un beneficio al paese ospite, proprio come contributo a risolvere certi squilibri demografici nei paesi ad economia più avanzata. Ma vediamo questa questione più in dettaglio. Vi è una grande diversità nella dinamica demografica dei vari paesi, combinata con profondi squilibri economici e sociali. Il mondo attuale – con una popolazione totale stimata nel 2015 pari a 7,44 miliardi di persone,[i] di cui 4,5 miliardi vivono in Africa, 1,26 miliardi in Africa, 743 milioni in Europa, 646 milioni in America Latina e nei Caraibi, 361 milioni in Nord America, e solo 41 milioni in Oceania (di cui il 60% in Australia) – è diviso in regioni con elevati tassi di crescita demografica e paesi con tassi stagnanti o in declino, cui corrisponde una struttura per età dominata da giovani in età riproduttiva nei primi, mentre nei secondi, la quota di persone in età avanzata è crescente. È l’immigrazione un modo per ridurre queste diversità?

I tassi di fecondità delle regioni sviluppate mostrano chiari segni di riduzione, facendo presagire un invecchiamento della popolazione residente, insieme ad una più elevata aspettativa di vita.[ii]   Queste tendenze sono in forte accelerazione,[iii] perche la riduzione della base della piramide demografica per classi di età ha un effetto cumulativo,[iv] traducendosi in una crescente carenza di lavoratori nei diversi settori e difficoltà a finanziare alti livelli di assistenza pensionistica per la popolazione anziana in aumento.  A questo si aggiunga l’aumento degli anni di scolarizzazione che rallenta l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e l’estensione del numero di anni per i quali le persone in quiescenza saranno ricettori della pensione di anzianità.

Questa tendenza demografica non è vista con molta preoccupazione da coloro che si richiamano a impostazioni neo-malthusiane, che auspicano una sua estensione ad altre regioni geografiche, per la pressione della popolazione mondiale sulle risorse di questo pianeta. Ma se questa preoccupazione ha qualche valore sul piano globale, per la sostenibilità della vita sulla Terra, non è altrettanto valida se applicata a singoli paesi, specialmente a quelli a bassa dinamica demografica, perché può solo esasperare le tensioni nel mercato del lavoro delle regioni a economia avanzata, ampliandone squilibri economici e sociali.  Né possiamo risolvere la pressione demografica sulle risorse limitate del nostra pianeta abbassando la popolazione di paesi che sono già in calo demografico, mentre la popolazione di altri paesi continua a crescere in modo accelerato senza vedere i benefici dello sviluppo.

Il declino demografico nelle economie avanzate interagisce con mutamenti in singoli segmenti lavorativi e produttivi, legati a dinamiche tecnologiche e commerciali, generando “vuoti” occupazionali per la  carenza di quadri nazionali e una crescita di domanda d’immigrati anche per offrire servizi lavorativi richiesti in misura crescente da una popolazione tendenzialmente più anziana.

Transizione demografica, invecchiamento della popolazione e immigrazione

Questa dinamica demografica nelle regioni più sviluppate, specialmete in Europa, porterà alla stabilizzazione della crescita della loro popolazione in molti paesi, creando, in molti casi, vuoti in gruppi di età giovanile che si prestano ad essere riempiti dai flussi migratori. La stabilizzazzione si diffonderà anche nel resto del mondo, ma con grandi diversità regionali e con tempi molto diversi.[v] Per il momento si è realizzata solo in alcuni paesi avanzati, e non ha impedito l’aumento della popolazione globale del pianeta, in forte accelerazione negli ultimi anni, raddoppiando il suo volume dal 1971. [vi] Nei paesi in via di sviluppo, infatti, la pressione demografica è andata aumentando, specialmente nei paesi meno avanzati, con un tasso di crescita annuale superiore all’2,3%,[vii] alimentando flussi migratori verso l’estero. Ma questa crescita demografica non si è uniformemente distribuita. La transizione verso la stabilizzazione demografica si estenderà alla fine anche ai paesi in via di sviluppo, a seguito dei cambiamenti socio-economici e demografici associati allo sviluppo che, alla fine, investirà anche queste aree, ma mentre in Asia vedremo sintomi di questa stabilizzazione già nel corso di questo secolo, in Africa[viii] e in Oceania la stabilizzazione tarderà ad arrivare e comunque non inizierà prima della fine del XXI secolo.[ix] Le proiezioni al 2100 prevedono che la popolazione mondiale sarà rappresentata per l’87% da africani e da asiatici, visto l’elevato ritmo di crescita demografica dell’Africa e la percentuale molto alta di popolazione attualmente residente in Asia, mentre la quota europea è destinata a scendere, con l’Oceania e Nord America praticamente stabili, con leggero aumento per la prima ed un altrettanto leggero calo demografico per l’America settentrionale. È quindi dall’Asia e dall’Africa che ci aspettiamo grandi pressioni migratorie, nel primo caso per gli alti livelli della popolazione assoluta residente in quel continente, nel secondo caso per gli alti ritmi di crescita demografica dei paesi africani.[x] 

L’immigrazione controbilancia queste tendenze permettendo una redistribuzione parziale delle pressioni demografiche, portando flussi di immigranti, specialmente di età giovanile, in paesi a rapido invecchiamento, suggerendo che l’immigrazione possa mantenere stabile il livello della popolazione nei paesi con calo demografico, riuscendo a influenzare, specialmente nella realtà europea, la struttura della popolazione per età,[xi] mantenendo il tasso medio di fertilità non al di sotto di 2,2 bambini per ogni donna.[xii] I paesi che producono maggiori pressioni migratorie sono quelli poveri, con dinamiche demografiche fragili e deboli strutture politiche-istituzionali ed economiche.[xiii] A livello di singoli paesi,[xiv] tra i paesi più popolosi spiccano l’India e la Cina, che da soli rappresentano un terzo della popolazione mondiale e da cui provengono molti migranti (sia qualificati che a bassa qualificazione).[xv] Ma il loro peso demografico diminuirà nel lungo periodo, con l’India che sostituirà la Cina come paese più popolato, mentre emergeranno come fonte di emigranti altri paesi asiatici (Pakistan, Filippine, Indonesia e Bangladesh). In Africa, spiccano Nigeria ed Etiopia per il loro peso demografico, seguiti da Egitto, RDC, Tanzania, Uganda e Niger, per la loro crescente popolazione.[xvi] Nella stragrande maggioranza dei paesi il calo demografico sarà soltanto attutito dai nuovi arrivati dall’estero e dai loro figli, viste le difficoltà obiettive ad aumentare il volume di flussi migratori nel breve periodo.

In Italia, l’immigrazione ha visto un ruolo importante per l’arrivo di minori di età inferiore ai 10 anni (che accompagnano i rispettivi genitori) e di immigranti in età tra i 25 e i 44 anni (che dominano i flussi di lavoratori stranieri),[xvii] che hanno rappresentato un correttivo della piramide della popolazione italiana per età. L’eccesso del numero di decessi rispetto alle nascite in Italia è soltanto attutito dai flussi migratori.[xviii] Negli ultimi sedici anni, considerando anche il flusso migratorio in uscita dall’Italia che si è accelerato a partire dal 2014, il saldo naturale della cresita della popolazione italiana residente registra una riduzione di 1,9 milioni di persone, compensato parzialmente dall’immigrazione straniera che ha permesso alla popolazione totale di vedere soltanto una riduzione di 1,75 milioni di persone nel 2018 rispetto al livello registrato all’inizio del 2002.[xix]  

Vista questa dinamica demografica, i paesi con tendenze stagnanti o in calo della loro popolazione beneficiano dall’immigrazione, in quanto si trovano ad affrontare due sfide fondamentali:

(a)     i vuoti nel mercato del lavoro (legati alle trasformazioni strutturali dell’economia) dovuti alle carenze della popolazione attiva in alcuni comparti, in particolare di manovalanza generica;  e

(b)    l’invecchiamento della popolazione. 

I benefici che l’immigrazione genera attraverso il mercato del lavoro ed il contributo produttivo degli immigranti sono stati già esaminata nelle sezioni precedenti. Per i benefici attinenti la seconda sfida, quella dell’invecchiamento, notiamo che solo il 12% della popolazione delle economie avanzate aveva più di 65 anni nel 1950. Questa percentuale è passata al 19% nel 2000 e si stima che arriverà al 35% nel 2050.[xx] Questa sfida è particolarmente acuta nel caso dell’Italia. Nel 2002, il 18,6% della popolazione complessiva dell’Italia era rappresentata da persone anziane (di età di 65 anni e più). Se non ci fosse stata l’immigrazione, questa percentuale sarebbe arrivata al livello del 24% all’inizio del 2018.[xxi] La riduzione della percentuale della popolazione in età lavorativa rispetto alla popolazione totale e rispetto alla popolazione non attiva che si accompagna all’invecchiamento pone un problema di sostenibilità economica, visto che solo la popolazione attiva produce reddito corrente, mentre gli anziani assorbono risorse (per assistenza sanitaria, pensioni di anzianità, pensioni sociali) che probabilmente hanno contribuito a finanziare in passato con il loro apporto produttivo quando erano giovani, ma attualmente non finanziano con un apporto produttivo corrente.[xxii]  Gli immigranti, proprio per la loro età giovanile, contribuiscono a controbilanciare questa situazione, specialmente se sono immigranti regolari, grazie all’aumento del loro reddito tassabile e all’incremento del prelievo fiscale con imposte dirette e contributi pensionistici. Questa è una ragione non secondaria per aumentare la percentuale di immigranti regolari rispetto a quelli irregolari, in quanto sono i primi che maggiormente contribuiscono al versamento di imposte dirette sul reddito e sulle proprie proprietà, e al pagamento di contributi per la sicurezza sociale.[xxiii] Questo potrebbe suggerire di favorire l’immigrazione di personale qualificato, il cui contributo fiscale netto (imposte pagate meno spese per assistenza ricevuta) sarà sicuramente maggiore. Ma questo vale solo nel breve periodo, in quanto alla lunga tutti gli immigranti contribuiranno al prelievo fiscale più di quanto otterranno dalla spesa pubblica in forma di assistenza.[xxiv]

Il flusso di immigranti, tuttavia, non garantisce il raggiungimento del livello ottimale tra la popolazione attiva ed il reddito prodotto, anche perché non esiste un livello “ottimale” di crescita demografica necessaria per la stabilità dello sviluppo, né un livello “ottimale” di flussi migratori, essendo il rapporto tra crescita demografica, progresso tecnologico e mercato del lavoro molto più complesso. Indubbiamente l’immigrazione rappresenta motivo di sollievo per affrontare squilibri economici e finanziari di breve periodo, parzialmente riequilibrando vuoti demografici. Ma l’effetto stabilizzante sulla dinamica demografica non va esagerato, perché il volume dell’immigrazione potrebbe essere insufficiente per coprire quei “vuoti” demografici[xxv]  e, in secondo luogo, perché l’immigrazione potrebbe non essere la soluzione di quei problemi, specialmente se quest’ultima non viene socialmente o politicamente accetata (vedi Parte IX di questo saggio). In ogni caso, i flussi migratori dovrebbe essere dell’ordine di diverse centinaia di milioni di persone per compensare quegli squilibri demografici e mantenere costante il livello della popolazione totale e quella attiva dei paesi d’immigazione, il che contrasta con i dati correnti sui flussi migratori, ed è incompatibile con i tassi di crescita demografica prevalenti nel mondo, nonostante le spinte provenienti da molte regioni geografiche, l’intensificazione del fenomeno dei rifugiati provenienti da alcuni paesi, e nonostante le proteste allarmistiche degli oppositori dell’immigrazione sul volume di questi flussi. Inoltre, il contributo fiscale degli immigranti è imprevedibile e potrebbe essere inadeguato rispetto al fabbisogno finanziario per fornire le risorse necessarie a coprire gli esborsi per pensioni di anzianità e pensioni sociali.[xxvi] Affidarsi a questi contributi per risolvere questi squilibri finanziari di breve periodo potrebbe produrre risultati deludenti.  Altre misure di politica interna sono necessarie.[xxvii]

Concludendo, l’immigrazione produce un beneficio per il paese ospitante, attraverso il suo contributo per compensare questi squilibri demografici ed economici, specialmente se l’immigrazione è concentrata nelle fasce giovanili di età. Tuttavia, questo effetto non è permanente. Nel lungo periodo, anche gli immigranti cambieranno i loro comportamenti demografici, si invecchieranno e adotteranno modelli di riproduzione simili a quelli dei residenti. Il loro tasso di fertilità diminuirà, come dimostrato dal comportamento di immigranti di seconda e terza generazione.  Le loro famiglie si assomiglieranno sempre di più, in termini di composizione numerica, a quelle dei residenti, anche se contribuiranno a mantenere allargata la base della piramide per età della popolazione del paese per alcuni anni.[xxviii] Solo se potessimo ipotizzare la persitenza di continui flussi di immigranti giovani ad elevata qualificazione (il che non sta avvenendo), l’immigrazione potrebbe risolvere in modo definitivo i problemi finanziari legati alla lenta dinamica demografica.[xxix] Per il momento, il suo contributo è solo parziale.  

Infine, ci potrebbe essere la preoccupazione che l’emigrazione, portando in paesi a più basso ritmo di crescita demografico ingenti flussi di gente proveniente da paesi con caratteristiche demografiche opposte, possa alterare radicamente la dinamica demografica dei paesi d’origine, causando una riduzione drastica della loro pressione demografica, abbassandone il tasso di aumento della popolazione in misura preoccupante.  Questo rischio è reale soltanto nei piccoli paesi (per esempio, paesi rappresentati da piccole isole), nel caso in cui l’emigrazione, anche se di modesta dimensione assoluta, rappresenti una percentuale elevata della popolazione residente, causando uno svuotamento demografico del paese. È quello che registriamo anche a livello locale nei piccoli villaggi, ove l’emigrazione (anche interna alla stessa nazione) comporta la riduzione di forze vitali giovanili del paesino (sono rimasti solamente i vecchi!). Ma questa non è assolutamente l’esperienza dei paesi di media o grande dimensione demografica, in cui la percentuale degli emigranti rispetto alla popolazione residente è modesta, e compensata dalle nuove leve permesse dall’elevata crescita demografica.[xxx] Altro tema è l’effetto dell’emigrazione sul mercato del lavoro nel paese d’origine, specialmente se si tratta di emigrazione qualificata (la fuga di cervelli). Ma di questo parlerò nella prossima Sezione.

  1. La questione della fuga dei cervelli

Il beneficio derivante dall’apporto di immigranti qualificati è considerato un sottoprodotto del fenomeno noto come fuga dei cervelli,[xxxi] emigrazione di individui particolarmente qualificati, normalmente laureati o plurilaureati, verso paesi che offrono migliori opportunità professionali ed economiche. Tra questi flussi spicca il contributo di immigranti eccezionali ricercati in base alle loro elevate qualificazioni professionali, istruzione accademica di prim’ordine, avanzata specializzazione, significative esperienze lavorative, adeguate competenze linguistiche, ed età relativamente giovane.[xxxii] Sono dotati di titoli accademici del più alto livello nei più diversi settori delle conoscienze scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche, titoli spesso acquisiti presso gli stessi paesi in cui sono immigrati. Un certo numero di questi immigranti eccellenti promuovono nuove imprese in settori particolarmente innovativi.[xxxiii]

Il fenomeno della fuga dei cervelli è stato tradizionalmente esaminato dal punto di vista dei paesi d’origine, e quindi come costo economico e sociale per quei paesi a causa della perdita di persone con il miglior livello di qualificazione, anziché valutarne i benefici per i paesi d’immigrazione, nonostante che questi benefici siano enormi. Il miglioramento della qualità del capitale umano dei paesi riceventi che il fenomeno produce, con un aumento del reddito nazionale di gran lunga superiore a quanto pagato agli stessi immigranti in termini di salario o di altro guadagno, genera un impatto positivo enorme, anche per il contributo di elevatissimo livello tecnico ed intellettuale all’innovazione tecnologica, all’incremento della produttività dell’economia e al miglioramento della qualità del lavoro nelle imprese e nelle istituzioni che li assorbono, come ampiamente dimostrato nell’esperienza di paesi che ne hanno usufruito.  Questo tipo di immigrazione è concentrato nei paesi dell’OCSE, che attirano i due terzi di questi flussi, segnalando in particolare Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Francia, Australia e New Zealand. Tuttavia di essi, quattro paesi – Stati Uniti, Regno Unito,  Canada e Australia – da soli attraggono il 70% di questi immigranti.[xxxiv] Recentemente altri paesi si sono aggiunti, accogliendo schiere di persone ad altissima qualificazione, quali India, Filippine, Messico e Cina. Il Nord America sembra essere comunque la meta prevalente di questo tipo di emigrazione.[xxxv]

Gli immigranti di questo tipo sono il prodotto di un processo di internazionalizzazione dell’istruzione accademica,[xxxvi] che porta migliaia di laureati di tutto il mondo a proseguire i propri studi altrove, conseguendo dottorati di ricerca o master di specializzazione, conducendo studi superiori in centri di eccellenza, coinvolti in gruppi di ricerca multinazionali, ove non c’è più un paese d’origine ed un paese di destinazione, ma una realtà globale di metropoli internazionali, concentrate in pochi paesi, ove questi “cervelli” si concentrano, spostandosi facilmente da un centro all’altro, a volte in modo imprevedibile. Le metropoli destinatarie di questa emigrazione tradizionalmente includono New York, Londra, Tokyo, Los Angeles, Sydney, Parigi, Toronto, Amsterdam, ma il loro numero è in continuo aumento, includendo anche metropoli che non avremmo soppettato in questa categoria: Johannesburg, San Paolo, Singapore, Tel Aviv, Seul, sono solo alcuni esempi.[xxxvii]

Oltre agli immigranti eccellenti che sono al vertice della preferenze nei paesi d’accoglienza, ci sono  miriadi di professionisti, dottori, ingegneri, insegnanti, infermieri, programmatori informatici, docenti universitari, scienziati, tecnici specializzati, e altri lavoratori qualificati, molti dei quali provengono da paesi in via di sviluppo, che sono alla ricerca di posizioni meglio remunerate e altri benefici collaterali, in paesi diversi da quelli d’origine, generalmente nei paesi ad economia avanzata, il cui ambiente di lavoro sia più consono a carriere brillanti.  Anche se sono moltissimi,[xxxviii] questi emigranti rappresentano una percentuale minore degli emigranti.[xxxix] Sono il prodotto delle migliori università dei rispettivi paesi d’origine. Spesso non riescono ad essere assorbiti in patria in posizioni adeguate, ed emigrano per perseguire posizioni inaccessibili nel paese natio, di maggior prestigio. Le loro scelte migratorie sono spesso condizionate da preferenze linguistiche e culturali (inclusi precedenti legami coloniali).

A questi professionisti qualificati, aggiungiamo gli immigranti (a qualificazione media o medio-alta) interessati a promuovere nuove aziende, con contributo imprenditoriale e promozione di investimenti, anche se a volte di piccola entità.  Il numero di piccole aziende statunitensi (che rappresentano il 70% delle aziende del paese) create da immigranti è elevatissimo. Immigranti sono titolari a volte di più di un’azienda di questo tipo, contribuendo in modo significativo alla creazione di nuovi posti di lavoro.[xl] Analoga esperienza si constata in molti paesi europei, compresa l’Italia. 

Questo flusso di emigranti è anche designato come brain overflow, cioè eccedenza di cervelli, che non trovano adeguati sbocchi di lavoro in patria. Se quei professionisti non emigrassero probabilmente si troverebbero bloccati nel loro paese d’origine in posizioni insufficientemente remunerate, frustrati perché non riescono a mettere a frutto le loro capacità professionali. Generalmente si considerano sottoccupati.  Questa costrizione rappresenta un push factors dai paesi d’origine,e include aspettative di bassi redditi nel proprio paese, differenziali salariali rispetto ai guadagni potenziali in altri paesi, prospettive di carriera e migliore ambiente di lavoro nei paesi destinatari, nonché le condizioni di forte crescita e il potenziale economico di quei paesi. Tuttavia, quegli immigranti trovano ostacoli quando emigrano in quei paesi, quali la difficoltà a veder riconosciuti i titoli di studio acquisiti nei paesi d’origine, che rende difficile per molti professionisti esercitare la propria attività nel paese d’accoglienza, senza avere superato nuovi esami di stato, prove di omologazione e concorsi pubblici nel paese d’accoglienza, o aver conseguito l’iscrizione ad albi professionali o aver ulteriori lauree o specializzazioni. Questi ostacoli sottolineano una discriminazione, spesso sancita da legislazioni che tutelano i lavoratori nazionali, che possono anche riflettere ottiche corporative. Quanto più intensa sarà la domanda per questi immigranti, tanto più forte sarà la pressione per superare questi ostacoli istituzionali.

Per trarre beneficio dalla fuga dei cervelli, i paesi destinatari adottano misure di accoglienza che ne facilitano l’assimilazione e l’integrazione nel contesto nazionale, riservando loro trattamenti speciali, offrendo loro corsie preferenziali per la concessione di visti di entrata e permessi di lavoro e di soggiorno, come visto nella Parte VII di questo saggio,[xli] e offrendo incentivi che incoraggiano l’assunzione di professionisti stranieri più specializzati.[xlii] Una delle forme più frequenti per incentivare questa immigrazione è il finanziamento di borse di studio per studi avanzati, primo passo per accedere ad un’estensione dei permessi di soggiorno e di lavoro di più lungo periodo, anche se spesso molti ostacoli vengono posti a questa conversione. Ciò nonostante, un alto numero di studenti post-universitari o di professionisti reclutati con contratti a breve termine riescono a prolungare la propria presenza negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania ed in Francia, aprendo la porta all’immigrazione di lungo periodo.

 Alcuni paesi in via di sviluppo hanno incoraggiato questo tipo di emigrazione dai loro paesi, orientando la formazione superiore di alcuni quadri specializzati anche al di là di quanto suggerirebbe la capacità di assorbimento interno, con l’obiettivo prevalente di favorirne l’assorbimento nei paesi ad economia più avanzata.  È questo il caso delle Filippine, ove la formazione del personale medico e infermieristico mira a favorirne l’assorbimento negli Stati Uniti e nel Canada, generando un flusso di laurati e diplomati con qualifica di dottore e di infermiere in misura ben superiore alla capacità di assorbimento interno. Lo stesso vale nella formazione di tecnici specializzati in information technology (IT) e computer programming in India, che appare orientata a rispondere alla domanda di programmatori e analisti di sistemi informatici negli Stati Uniti, anche se per posizioni a tempo determinato. Analoga esperienza è quella dei laureati cinesi che, insieme a quelli indiani, rappresentano il nucleo centrale dei quadri assorbiti da centri avanzati di ricerca nei social media della Silicon Valley nel nord della California.   

Nonostante il beneficio inequivocabile di questi lavoratori stranieri per il paese ospite, non sono mancati i critici che ribadiscono la necessità di imporre misure di contenimento per proteggere gli interessi dei lavoratori nazionali, rendendone difficile il loro accesso. Per questo, vengono imposte restrizioni alla concessione di visti, limitandone la durata e rendendone difficile o impossibile l’estensione. Negli Stati Uniti, queste restrizioni si sono acuite dopo gli attacchi alle Torre Gemelli del 9/11, che hanno ridotto sostanzialmente la concessione di visti d’ingresso a personale qualificato proveniente dal Nord Africa, dal Medio Oriente e dal Sud Est Asiatico. Ci sono però paesi che offrono condizioni più flessibili per accogliere questi immigrati: Canada, Francia e Germania fanno concorrenza ai paesi che erano fino a poco tempo fa le mete preferite di questi emigranti (Stati Uniti e Regno Unito). La Gran Bretagna si è dimostrata molto competitiva rispetto agli Stati Uniti, viste le restrizioni imposte da quest’ultimo paese, anche se gli Stati Uniti continuano ad essere il paese che maggiormente ha beneficiato di questi apporti ad alto livello. Le dinamiche migratorie in Gran Bretagna potrebbero subire un’alterazione significativa a seguito della Brexit che potrebbe alterare le condizioni dell’immigrazione verso il Regno Unito.  In Italia, non sembra che ci sia una decisa politica a favore di questa immigrazione, più preoccupati a frenare la fuga dei cervelli italiani, anziché valorizzare l’apporto potenziale di immigranti qualificati per l’economia e per la società, anche se non mancano esempi illustri di contributi importanti di immigranti qualificati nella nostra vita civile.[xliii]

Le tendenze a favorire questo tipo d’immigrazione e le numerose costrizioni che ne condizionano le modalità sono in profondo contrasto tra di loro. Questa contraddizione è sorprendente se messa a confronto con gli interessi nazionali ed i benefici che il paese destinatario potrebbe ricavare da questa immigrazione, e i vantaggi che imprese e centri nazionali ad alto livello tecnologico potrebbero conseguire, sostenento il perseguimento di livelli elevati di eccellenza e di competitività.  Non ha alcun senso, dopo aver speso milioni di dollari o di sterline nella formazione di individui ai più alti livelli accademici, con fondi preziosi delle università, di centri di ricerca o risorse pubbliche, o averli impiegati in imprese al livello più avanzato della tenologia e della produttività, rispedirli indietro ad ogni costo, rinunciando ai benefici di elevatissimo valore che il paese ne potrebbe trarre, con la unica giustificazione di voler salvare il principio della protezione delle frontiere nazionali.

L’apporto produttivo e culturale di questi immigranti ad elevata qualificazione non deve andare a scapito della valorizzazione del contributo degli immigranti a qualificazione più modesta, specialmente nel lungo periodo.  Anch’essi, se permarranno nel paese di destinazione per un tempo sufficientemente prolungato, potranno generare un effetto analogo a quello della fuga dei cervelli, se potranno avvantaggiarsi di un progresso personale di qualificazione professionale. Questo varrà ancor più per le generazioni dei figli e dei nipoti che seguiranno, che con ogni probabilità potranno accedere ad un livello di formazione accademica e professionale paragonabile ai residenti.[xliv] Le generazioni successive tendono a mantenere il retaggio culturale del paese d’origine dei primi immigranti, ma hanno una elevata mobilità sociale, grazie al dinamismo ereditato dai loro genitori e nonni, combinato con formazione accademica superiore, raggiungendo così vette impensabili per chi inizialmente aveva intrapreso il viaggio migratorio.  La differenza dei benefici traibili dai due tipi di immigrazione quindi tende a scomparire nel lungo periodo.

L’effetto del “drenaggio dei cervelli” nei paesi d’origine

Il termine inglese per fuga dei cervelli è brain drain, drenaggio di cervelli, che meglio sottolinea la perdita di capitale umano prezioso che il paese d’origine subisce, dopo aver investito per anni nella formazione culturale e scolastica di individui qualificati, senza goderne del contributo produttivo alla fine del processo formativo.  Il fenomeno interessa anche paesi sviluppati come l’Italia che non riescono ad assorbire personale qualificato con carriere e prospettive professionali. [xlv] Mentre vi è un aumento considerevole, specialmente in questo millennio, della proporzione di immigranti ad elevato livello di qualificazione rispetto al passato, con beneficio per le economie più moderne, questo produce effetti negativi sui paesi d’origine degli immigranti. 

La fuga di cervelli è un costo netto per i paesi d’origine, sia in termini di produttività che di risorse finanziarie investite nella formazione scolastica ed accademica (incluso il costo eventuale di borse di studio per proseguire gli studi all’estero). Questo costo si può attenuare soltanto disincentivando questa emigrazione, offrendo cioè adeguate opportunità di lavoro, ben remunerate, prospettive di carriera, accesso a strutture produttive, di ricerca ed organizzative che permettano il pieno sfruttamento delle capacità tecniche ed intellettuali di quegli individui.  Altrimenti la fuga dei cervelli è inevitabile. 

Questo effetto negativo può essere solo di breve periodo se compensato nel medio periodo da un brain effect, cioè dall’incentivo generato dalla stessa fuga dei cervelli che potrebbe stimolare altre persone residenti nel paese d’origine ad aquisire un livello più elevato di istruzione e di capacità, sia per emulare coloro che sono emigrati, o semplicemente per acquisire uno stato professionale più elevato.  I due effetti sono di segno opposto ma non necessariamente si controbilanciano. Evidenze empiriche mostrano risultati molto ambigui a questo riguardo.[xlvi] 

L’incidenza della fuga dei cervelli nei vari paesi d’origine non è omogenea. Anche se globalmente non è molto elevata rispetto al volume totale di emigranti, essa può raggiungere percentuali preoccupanti in paesi di piccola dimensione demografica e lì ove quel flusso di emigranti è una proporzione elevata della forza lavoro con quelle qualifiche. Vi sono percentuali elevatissime (superiori al 40%) di emigranti ad alta qualificazione rispetto ai lavoratori nazionali con simile qualificazione in paesi quali Turchia, Algeria, Gambia, Senegal, Giamaica, Trinidad e Tobago, e Guiana.[xlvii] Spesso ciò corrisponde ad una bassa percentuale di persone con quelle qualifiche nella forza lavoro di quei paesi, a volte di gran lunga inferiori al 5%. Elevatissimo è il numero assoluto di laureati provenienti da paesi come Ghana, Kenya, Sierra Leone, ed altri paesi in via di sviluppo che lavorano in paesi ad economia avanzata. Le loro mete sono generalmente l’Europa, il Nord America, l’Australia, il Giappone. L’89% dei laureati del Suriname, e più dell’80% dei laureati in Haiti, Giamaica e Guiana vivono e lavorano in tali regioni. Queste percentuali sono altissime per chi proviene dai paesi africani, ma anche molti paesi asiatici, inclusi Filippine e India. Si stima che solo 50 dottori dei 600 formati in Zambia in un determinato periodo siano rimasti nel paese per esercitare la professione medica.[xlviii] Apparentemente ci sono più dottori originari del Malawi che lavorano nella città di Manchester, in Gran Bretagna, che nell’intero Malawi.[xlix] Lo stesso vale anche per Angola, Mozambico, Fiji, Liberia e Tanzania da cui sono emigrati più dottori di quelli che sono rimasti in patria.[l] Nove su dieci infermieri giamaicani e haitiani sono emigrati in paesi ad economia avanzata, producendo un effetto devastante per mancanza di personale medico ed infiermeristico, considerando che 37 paesi dell’Africa sub-sahariana su 47 non riescono ad raggiungere lo standard dell’OMS di almeno 20 dottori per ogni 100.000 abitanti.[li]  

È vero che questi flussi di cervelli producono ingenti rimesse a favore dei paesi d’origine, un contributo significativo di risorse finanziarie a beneficio di quelle economie (vedi di seguito la Sezione apposita), ma è dubbio che questo apporto finanziario riesca a compensare la riduzione di capitale umano e potenziale produttivo non più disponibili per l’economia, a meno che non si tratti di personale in esubero, che il paese d’origine non è, in ogni caso, in grado di assorbire produttivamente nelle sue attuali condizioni.  Quest’ultima eventualità è favorita quando le politiche dell’istruzione universitaria sono disgiunte da paralleli investimenti produttivi e istituzionali che espandano la domanda di quei quadri.  Produrre laureati non è sufficiente per promuovere sviluppo nei paesi in via di sviluppo, se non vengono prodotti anche quadri intermedi, e se non ci sono adeguati investimenti di capitale, iniziative organizzative, cambiamenti tecnologici e riforme istituzionali che assorbano quadri qualificati e creino le condizioni necessarie per sviluppare strutture, istituzioni ed infrastrutture pubbliche e private, incluso lo sviluppo dei servizi necessari, affinché quel capitale umano possa essere assorbito a beneficio del paese: altrimenti, si creano solo “disoccupati intellettuali”, inclini ad emigrare.  In tal caso, la fuga di cervelli potrebbe produrre un effetto non tanto negativo se solleva il paese dal problema di come sussidiare il mantenimento di quei quadri “qualificati” che rimangono disoccupati o sottoccupati nel paese. In tal caso, la priorità dovrebbe essere la correzione di politiche interne per disincentivare questa emigrazione, rinforzando il sistema economico e le strutture istituzionali.[lii] 

Il peso della fuga dei cervelli potrebbe essere solo transitorio, se l’emigrazione di quei quadri non è permanente, generando un flusso di ritorno dopo un certo numero di anni. In tal caso, potrebbe portare addirittura un beneficio al paese di origine, per l’ulteriore qualificazione professionale maturata da quei migranti nel corso della loro permanenza all’estero.[liii] Questo è un fenomeno di migrazione circolare, ove l’emigrazione non si limita ad un movimento da un paese ad un altro, ma è accompagnato da rimpatri o da trasferimenti in più paesi, accompagnati con ritorni definitivi o temporanei nei paesi d’origine iniziali, associati a possibili investimenti produttivi, distribuendo il beneficio dell’emigrazione su vasta scala geografica.

  1. Costi fiscali dell’immigrazione: l’assistenza agli immigranti

Abbiamo già trattato dei presunti costi dell’immigrazione in termini di perdita di posti di lavoro e riduzioni salariali dei lavoratori nazionali. Abbiamo visto che questi effetti sono irrilevanti o modesti, ed  è discutibile che i problemi che si potrebbero creare per gruppi sociali più vulnerabili della popolazione residente siano attribuibili all’immigrazione. Esistono però altri costi di natura non economica, che sono stati attribuiti all’immigrazione come un suo “costo sociale”, causato dall’alterazione degli equilibri sociologici prodotta dall’arrivo di immigranti, trattandosi di persone di radici, tradizioni e (diciamolo chiaramente) anche etnia molto diverse rispetto alla media nazionale, che sono stati considerati da alcuni come effetto negativo dell’immigrazione, addirittura come un trauma per la società nazionale, considerata come un’entità omogenea. I “valori fondamentali” nazionali, legati a tradizioni culturali consolidate nella storia, rischiederebbero di essere “minacciati”. Un simile “costo sociale” non è valutabile con criteri oggettivi, né economici, né finanziari, né con altre misure quantificabili, perché si fonda su valutazioni soggettive basate su pregiudizi politici e razziali, oggetto di intense controversie politiche.  Si potrebbe sostenere che questo “costo sociale” sia un’invenzione dei critici dell’immigrazione, che negano altrettanti “benefici sociali” di opposto segno, quali il “valore” del “cambiamento” e della “diversificazione culturale”. Non tratteremo di questo presunto “costo sociale” in questa Parte VIII, ma avremo occasione di analizzarlo più in dettaglio nella Parte IX di questo saggio. Qui ci limiteremo ad esaminarne alcuni aspetti, che sono quantificabili in termini monetari.

Questo costo potrebbe essere visto in parte riflesso nella presunta riduzione dell’accesso a servizi da parte dei residenti, servizi come l’accesso alla scuola, alla casa, alla sanità, al trasporto pubblico, e ad un ambiente urbano sano e non inquinato, attribuito alla concentrazione degli immigranti in certe realtà locali, in zone urbane o periferiche, ove vasti strati della popolazione residente si sente espulsa dagli immigranti in arrivo, che occupano aree pubbliche, abitazioni a basso livello di fitto e assorbono assistenza sociale in principio prevista per le classi più povere.  La presenza numerosa di immigranti è vista come una concorrenza sleale all’accesso a quei servizi, che producono benefici di natura prevalentemente sociale.  Tornando alla metafora dell’aula scolastica fatta in precedenza, con riferimento ai posti di lavoro, gli immigranti “ruberebbero lo spazio abitativo disponibile per i residenti, l’accesso privilegiato dei più bisognosi alla scuola pubblica, agli asili nido, alla casa popolare, all’assistenza medica, ai trasporti pubblici”, e con la loro concentrazione in certi quartieri o località, “causerebbero un deterioramento dell’ambiente urbano, un peggioramento del decoro cittadino, un aumento della sporcizia, un incremento della quantità di rifiuti urbani, una intensificazione della presenza di venditori abusivi e di senza tetto per le strade”.  Molti di questi “costi” sono esagerati dalle polemiche politiche, o distorti da pregiudizi che non tollerano la presenza di persone più povere nelle nostre città (la stessa intolleranza potrebbbe essere infatti applicata anche alle presenza di persone meno abbienti in quartieri a reddito pro capite più elevato), o sono semplicemente un sintomo di intolleranza per la diversità culturale (il rifiuto aprioristico del “diverso”, e lo straniero è sempre “diverso”, specialmente se ha caratteristiche etniche diverse dalla maggioranza della popolazione residente, se si veste diversamente o professa una religione diversa). Molti di questi aspetti verranno affrontati nella Parte IX di questo saggio, nell’analisi degli atteggiamenti psicologici nei confronti degli immigranti. Mi limiterò qui agli aspetti che si traducono in esborsi finanziari, considerati “costi fiscali”.

I costi fisicali dell’immigrazione consisterebbero nei maggiori esborsi di risorse erariali che vengono impegnate direttamente o indirettamente per fornire servizi infrastrutturali e sociali agli immigranti, dallo stato o enti pubblici locali per fornire assistenza sociale, sanitaria e scolastica agli immigranti al loro arrivo, organizzare attività di accoglienza e favorirne l’integrazione nella società (formazione linguistica, assistenza nella ricerca di lavoro e di soluzioni abitative, formazione professionale).  Non esiste un livello “naturale” di questi costi fiscali, quantificabile con una stima indisputabile e determinabile in modo univoco, in quanto essi varieranno in proporzione all’entità dei flussi migratori, dipenderanno dalll’approccio adottato per la politica di accoglienza, dal sistema fiscale del paese, dal suo sistema di assistenza medica, dal sistema di accesso alla scuola pubblica, dai meccanismi adottati per le contribuzioni ai sistemi pensionistici, dalle modalità di concessione delle varie forme di sicurezza sociale e, ovviamente, dalle politiche che intende riguardano la solidarietà sociale in generale, e quella a favore degli immigranti in particolare.  La stima di questi costi può variare da un livello minimo di spese indispensabili per far fronte a situazioni di emergenza (un “costo inevitabile”) fino a valori molto variabili della dimensione desiderata di questa assistenza.[liv]

Naturalmente questi esborsi dipendono anche dalle condizione di ciascun immigrante:

○    età dell’immigrante (immigranti giovani con figli in età scolastica necessitano di assistenza scolastica e  medica per l’infanzia; ma i più anziani necessitano di assistenza medica e, forse, pensionistica);

○    suo stato familiare, numero di dipendenti e  loro età;

○    sua condizione lavorativa (qualificazione professionale e capacità di procurarsi reddito con il proprio lavoro influenzano in misura diversa il ricorso all’assistenza pubblica e a sussidi governativi);

○    sua posizione rispetto al sistema pensionistico (possibili contribuzioni per accontamenti pensionistici, tempo atteso prima che l’immigrante possa aver diritto ad un trattamento pensionistico),

○    suoi contributi finanziari quando accede a varie forme di assistenza sociale;

○    suo contributo atteso al pagamento di imposte dirette ed indirette.

Questi “costi” possono anche includere “costi ambientali”. La concentrazione di immigranti può peggiorare le condizioni di abitabilità di certe zone urbane. Il “decoro” di ambienti pubblici può essere deturpato dall’addensamento incontrollato di immigranti irregolari, che sottraggano spazi destinati ad altra utilizzazione pubblica, quando creano “accampamenti spontanei”, in attesa di sistemazioni più adeguate e in assenza di misure per la loro accoglienza. Questi costi ambientali si aggiungono alle altre voci di costi fiscali. I costi sociali possono essere analizzati con tre diversi approcci:

(i)    Cash flow, cioè l’esborso corrente di risorse dell’erario, inclusi trasferimenti monetari. Il cash flow netto sottrae agli esborsi erariali i contributi degli immigranti (pagamento di imposte, tasse, bolli, tickets);

(ii)   Il valore attuale degli esborsi a favore degli immigranti e dei contributi fiscali netti effettuati dagli immigranti su di un periodo lungo quanto la vita dell’immigrante;

(iii)  Valutazione dell’impatto degli esborsi fiscali a favore degli immigranti nel contesto macroecnomico (effetti benèfici su reddito, produttività e sui vari segmenti del mercato del lavoro).

In termini di cash flow, gli immigranti vengono accusati di richiedere un volume di assistenza sociale che assorbe più risorse fiscali di quelle che correntemente gli stessi immigranti sono in grado di contribuire all’erario pagando imposte, tasse, bolli, tickets, o contributi allla sicurezza sociale.  L’argomentazione è: l’accoglienza costa più di quanto gli immigranti pagano, e l’onere di questa differenza è sulle spalle dei residenti.[lv] Dati empirici che emergono dai paesi dell’OCSE sembrano corroborare questa ipotesi,[lvi]   suggerendo che gli immigranti, in media, si avvalgono di assistenza pubblica con una intensità e frequenza leggermente superiore rispetto ai residenti, anche se questa differenza è contraddetta se il confronto è tra gruppi di residenti e di immigranti che abbiano lo stesso livello di reddito. Infatti, il ricorso degli immigranti regolari o in qualche modo temporaneamente regolarizzati all’assistenza pubblica, confrontati con residenti appartenenti alla stessa categoria di reddito, mostra che le classi sociali più povere di residenti ricorreranno più frequentemente all’assistenza pubblica degli immigranti che hanno un pari reddito (specialmente per assistenza sanitaria e scolastica, sussidi per la sussistenza e per la disoccupazione), perché gli immigranti non sono abituati a ricorrere all’assistenza pubblica per risolvere quei problemi e sono meno informati sull’assistenza disponibile. [lvii] Ma in paesi come gli Stati Uniti ed il Regno Unito, il peso fiscale dei due gruppi di lavoratori si equivale, con variazioni annuali notevoli legate alla congiuntura economica e a oscillazioni dei livelli di occupazione degli immigranti, e ciò avviene per l’elevata incidenza degli immigranti a più elevato livello di qualifica in quei paesi, il cui contributo fiscale è maggiore della media dei residenti. Invece, i costi fiscali degli immigranti irregolari sono ancora più bassi, per il loro basso accesso all’assistenza pubblica, decisamente inferiore alla media nazionale dei residenti, salvo l’assistenza d’emergenza, anche se lì ove gli immigranti percepiscono redditi più bassi, con un tasso di occupazione più ridotto rispetto agli equivalenti residenti, il loro contributo al prelievo fiscale è inferiore. 

La preoccupazione che i costi fiscali dell’immigrazione siano eccessivi ha portato molti paesi a ridurre l’accesso a specifiche forme di assistenza pubblica, peggiorando l’accoglienza offerta agli immigranti, specialmente a quelli irregolari, escludendoli dalle forme più elementari di protezione sociale.  Queste preoccupazioni sono più intense nei paesi che si confrontano con un pesante debito pubblico (come è il caso dell’Italia), anche sotto pressioni di certi settori dell’opinione pubblica. Tra i paesi che escludono gli immigranti irregolari dalla maggioranza di forme di assistenza sociale troviamo gli Stati Uniti, [lviii] ove la legislazione nazionale pone limiti severi all’accesso a molti servizi,[lix]e forse per questo motivo in quel paese il cash flow netto prodotto dall’immigrazione (esborsi fiscali meno contributi erariali degli immigranti) è negativo.[lx]  In Canada, gli immigranti che non abbiano lo stato di rifugiati non hanno accesso ai benefici per i disoccupati nazionali, al sostegno per l’accesso alla casa o ad altre forme di sicurezza sociale di cui godono i residenti, nonostante che il tasso di disoccupazione degli immigranti sia maggiore.  In molti paesi europei, [lxi] gli immigranti hanno minor accesso ai servizi sociali rispetto ai residenti, nonostante vigano forme di welfare più generose nei confronti di cittadini e dei residenti appartenenti a gruppi sociali protetti. La preoccupazione dell’eccessivo peso fiscale dell’immigrazione è fortemente condivisa in quei paesi, anche se, mentre gli immigranti possono avere un trattamento preferenziale per certe forme di assistenza sociale, sono in generale completamente esclusi da altre forme di assistenza (per esempio dalle pensioni sociali). Il differente uso dell’assistenza pubblica tra immigranti e poveri nazionali diviene abissale se consideriamo gli immigranti irregolari, i quali hanno la tendenza a non ricorrere all’assistenza pubblica, accontentandosi dell’assistenza ricevuta da fonti private di beneficenza e assistenza umanitaria, non sempre accessibile se quest’ultima usa fondi pubblici. Si rafforza il mutuo soccorso tra immigranti per sostenersi a vicenda, ripetendo paradigmi prevalenti nei paesi d’origine, ove l’accesso a servizi sociali è irrilevante o inadeguato.

L’incidenza di questi costi fiscali dipende anche dalla composizione per età degli immigranti. Se costoro hanno un’età media inferiore a quella dei residenti, i giovani immigranti non percepiscono pensioni di anzianità o pensioni sociali per invalidità, e hanno minor bisogno di assistenza medica rispetto a fasce di popolazione più anziana. Questo spiega, per lo meno in parte, come la stima del cash flow sia più basso nell’esperienza dei paesi dell’Europa meridionali, ove prevale l’immigrazione giovanile, rispetto all’esperienza dei paesi nordici o dell’Europa continentale, in cui l’età media dell’immigrato è più elevata.  Questo spiega anche la notevole differenza di questi costi fiscali facendo il confronto tra recenti immigranti e cittadini o residenti regolari in Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Belgio, mentre la differenza si riduce in modo significativo in Germania, Regno Unito, Spagna e Portogallo, ove il sistema di welfare, pur più generoso rispetto a gli Stati Uniti, è tuttavia meno liberale dei paesi nordici,[lxii] ove gli immigranti pesano sull’erario pubblico più dei residenti, anche se ciò dipende più che altro dall’età media più bassa dei membri delle famiglie di immigranti rispetto ai residenti (a bassa fertilità), e l’incidenza dell’assistenza ai minori.[lxiii] Ciò che queste preoccupazioni non dicono è che questi costi fiscali sono relativamente modesti, di breve durata, si concentrano in poche aree geografiche e concernono fasce limitate di immigranti. Inoltre, il mito che gli immigranti irregolari non pagano tasse è da sfatare.  Essi pagano imposte indirette ogni volta che effettuano un acquisto, quando pagano il fitto un’abitazione (che copre indirettamente le imposte sulle proprietà immobiliari.[lxiv] 

Un altro modo di esprimere la preoccupazione per questi costi fiscali dell’immigrazione è quella di valutare gli effetti dell’immigrazione sulla domanda di beni pubblici, che possono scontrarsi con un’offerta non necessariamente ripondente alla dimensione quantitiva del flusso migratorio e alla natura di servizi richiesti. Questa domanda può anche essere diversa, nella sua struttura, rispetto alla domanda degli stessi servizi da parte dei residenti. Spesso questa modificazione della struttura della domanda per questi servizi è determinata da flussi eccezionali di rifugiati. Altre volte è il riflesso di tendenze di più lungo periodo. Il calo di domanda per certi servizi da parte dei residenti (per esempio l’assistenza per la scuola primaria), legata all’invecchiamento della popolazione, può essere in contrasto con l’intensificazione di quella domanda da parte di immigranti di età più giovane, con un numero maggiore di figli in età scolare. L’immigrazione può alterare il volume di iscrizioni nella scuola materna e primaria, aumentando la domanda di assistenza sanitaria per l’infanzia, obbligando strutture pubbliche ad adattarsi ai nuovi orientamenti della domanda per quei servizi.  Nel caso in cui la domanda dei residenti per quei servizi restasse più o meno costante, l’arrivo degli immigranti potrebbe portare ad una esasperazione della domanda, con fenomeni di congestione che creano problemi sull’adeguatezza dell’offerta di quei servizi. La concentrazione fisica degli immigranti in poche aree geografiche può rendere il costo marginale di produzione di quei beni pubblici particolarmente elevato, problema attribuibile all’immigrazione. Vediamo questi problemi nell’aumento della congestione urbana, che potrebbe causare un aumento dei costi abitativi a buon mercato e la lievitazione di altri costi (trasporti, raccolta dei rifiuti urbani, pulizia delle strade), anche se non è facile attribuire questi costi all’immigrazione, anche perché i problemi connessi a quei servizi pubblici potrebbero prescindere dal fenomeno migratorio, ma dipendere da inefficienze ed inadeguatezze della macchina della pubblica amministrazione che ne è responsabile. Ciò non di meno, non escludiamo che, nel breve periodo, si creeranno difficoltà di breve periodo, e le istituzioni pubbliche responsabili di quei servizi potrebbero non riuscire ad adattarsi ad una crescente domanda locale indotta dall’immigrazione.  Questa modifica della domanda di servizi indotta dall’immigrazione potrebbe riguardare poche città o regioni ove gli immigranti si concentrano e può costituire un problema per alcune istituzioni locali, generando un maggiore aggravio fiscale nel breve periodo nel loro bilancio pubblico, richiedendo misure compensative per una più equa distribuzione del carico fiscale su di una base più ampia, ad esempio su scala nazionale. Questo è un problema particolarmente serio nei centri urbani di piccole dimensioni, che dispongono di un bilancio limitato, o in ristrette zone urbane che non riescono ad attirare sufficienti risorse fiscali. E questo potrebbe produrre inconvenienti che influenzeranno gli atteggiamenti dell’opinione pubblica, causando costi sociali che esamineremo nella Parte IX di questo saggio. 

Immigrazione ed i costi di produzione dei servizi pubblici

È opportuno aggiungere anche una nota al margine dei costi fiscali dell’immigrazione che riguarda l’influenza dell’immigrazione sul costo di produzione di alcuni servizi pubblici. I costi salariali di questi servizi potrebbero essere abbassati tenendo conto dei ridotti salari pagati ai lavoratori immigrati eventualmente impiegati per produrli, riducendo così il costo di produzione “per lavoratore” dei servizi, nella misura in cui le istituzioni nazionali usino questo personale immigrato e questi lavoratori siano a costo più basso rispetto al personale nativo. Al tempo stesso, la disponibilità di personale straniero potrebbe aprire nuove possibilità per migliorare la fornitura di taluni servizi, quali l’assistenza sanitaria, istruzione, protezione sociale e infrastrutture pubbliche, se la gestione di questi servizi può beneficiare dell’apporto di manodopera straniera, grazie alle qualifiche specifiche di alcuni immigranti particolarmente preparati in taluni settori (ad esempio, nell’assistenza all’infanzia e agli anziani, e nell’assistenza medico-sanitaria in generale). Quest’ultimo fenomeno si è manifestato in particolare nei paesi anglosassoni, che assorbono un elevanto numero di medici e di infermieri provenienti dal terzo mondo. In Italia l’esperienza delle badanti per l’assistenza alle persone anziane e di colf per assistenza domestica ha prodotto l’effetto collaterale di liberare lavoro femminile, che può essere utilizzato per la produzione di taluni servizi pubblici (per esempio, la disponibilità di insegnanti nella scuola primaria e secondaria, o l’aumentata disponibilità delle donne a lavorare nella prestazione di pubblici servizi, tutte conseguenze indirette dell’immigrazione).

Il secondo approccio sopra suggerito per analizzare il costo fiscale netto dell’immigrazione consiste nel considerare il cash flow netto di risorse prodotto dall’immigrazione in un arco di tempo molto più esteso, e non solo nel breve periodo (o nel momento presente), coprendo l’intera vita dell’immigrante, quindi stimando il valore attuale degli elementi di questo costo netto (e sue deduzioni) non sono nell’anno corrente ma anche negli anni a venire. Vista in questo arco temporale più lungo, l’assistenza ricevuta dall’immigrante deve tener conto anche dell’ingente flusso di entrate fiscali che l’erario otterrà dall’immigrante in base al reddito e alla ricchezza che l’immigrante sarà in grado di produrre in quell’arco temporale. Anche se l’assistenza pubblica non si limeterà al costo dell’accoglienza iniziale, ma includerà tutte le forme di assistenza offerta agli immigranti dopo la loro integrazione, compreso il trattamento pensionistico e l’assistenza normalmente offerta agli anziani (che spesso sono escluse nell’analisi di breve periodo, perché gli immigranti che arrivano sono in maggioranza in età giovanile), il peso dell’assistenza sociale agli immigranti sul bilancio pubblico diviene modesto rispetto al volume significativo di contributi fiscali che l’immigrante farà nel corso della sua vita, lungo un periodo che sicuramente potrebbe essere superiore ai 20 anni.[lxv] Il valore attuale degli esborsi fiscali futuri per assistere l’immigrante, al netto del valore attuale dei suoi pagamenti all’erario pubblico non può che essere negativo.[lxvi] Molti sono i fattori che determinano questo risultato netto,[lxvii] in dipendenza anche dalle condizioni del mercato del lavoro e dal sistema di welfare adottato in ogni paese.[lxviii] 

I valoro annuali di questo cash flow netto varierà nel corso della vita dell’immigrante. Fintanto che l’immigrante rimane in età lavorativa, ed è quindi parte della popolazione attiva, il suo contributo fiscale rispetto alle spese sociali a suo favore sarà più elevato di quanto avverrà dopo aver raggiunto un’età più anziana. Il valore attuale dei futuri contributi fiscali netti fatti dagli immigranti esalterà gli elevati contributi fiscali fatti dagli immigranti in età lavorativa, che per la loro età giovanile continueranno per un numero elevato di anni, rispetto alla media dei lavoratori nazionali, che mediamente sono più anziani e più prossimi al pensionamento.[lxix]

Il contributo dei Dreamers

Il contributo fiscale di milioni di immigranti irregolari che sono cresciuti sin da giovane età nei paesi d’immigrazione e si sono formati nelle loro scuole e università dimostra che il loro apporto è tutt’altro che marginale. Nostante le difficoltà legislative incontrate nei rispettivi paesi d’immigrazione, essi hanno partecipato attivamente allo sviluppo di quelle economie, avendo goduto di permessi temporanei per studiare e lavorare a pieno titolo nel paese ospite. È straordinario che ancora si abbiano dubbi sul loro contributo all’economia del paese d’immigrazione. Vediamo l’esempio del caso americano.

Si stima che la non ammissione negli Stati Uniti di circa 700.000 di questi immigrati entrati nel paese in età molto giovanile (spesso designati come “Dreamers”, cioè “Sognatori”) e che hanno usufruito dello stato provvisorio concesso loro dalla precedente amministrazione Obama, attraverso lo schema noto come “Deferred Action for Childhood Arrivals” (DACA) – schema che l’amministrazione Trump intende non rinnovare – porterebbe ad una riduzione immediata dell’1,4% del PIL americano, e del 2,6% nel lungo periodo, con una perdita di reddito di circa $4,7 trilioni su 10 anni e una riduzione significativa della forza lavoro in alcuni segmenti cruciali per l’economia. Questo stesso tipo di perdita potrebbe essere stimata se l’economia dovesse rinunciare ai milioni di immigranti irregolari, che rappresentano una percentuale elevata della forza lavoro in alcuni settori cruciali: la loro deportazione provocherebbe una perdita del 13% del PIL prodotto nello Stato della Carolina del Nord per le conseguenze negative che avrebbe sull’attività edile, una perdita del 12% nel PIL del Texas nel settore alberghiero e della ristorazione e del 21% del PIL della California nei comparti dell’agricoltura e delle foreste e nel settore peschiero.[lxx]

Nel 2013, il Senato americano approvò una riforma legislativa del sistema di immigrazione che, sulla base di stime fatte dal “Congressional Budget Office and Joint Committee on Taxation” avrebbe portato ad una diminuzione del disavanzo federale di circa $1 trilione nel corso dei successivi 20 anni, grazie ai contributi fiscali direttamente o indirettamente prodotti dai maggiori redditi degli immigranti, con un aumento del PIL del 5,4%. All’inizio del mese di giugno del 2019, una proposta legislativa della Camera dei Rappresentanti (H.R. 6) – chiamata “American Dream and Promise Act” – prevedeva l’estensione della cittadinanza ai c.d. Dreamers, e avrebbe portato benefici a circa 2,5 milioni di persone (5,6 milioni, includendo i membri dei nuclei familiari di cui i beneficiari fanno parte). Si stima che queste persone posseggano circa 215.000 abitazioni, ed effettuino pagamenti annuali sui loro mutui immobiliari per un valore complessivo di $2,5 milioni di versamenti. Il loro potenziale contributo fiscale annuale è stimato essere pari a $27 miliardi per imposte e tasse federali, statali e locali ($17.381 milioni in imposte federali e $9.690 milioni in imposte e tasse statali o locali).[lxxi]Peccato che l’amministrazione Trump non dia alcun segno di voler appoggiare queste misure legislative, per il momento affossate nel Senato americano,  a maggioranza repubblicana, che sembra restio ad approvare provvedimenti legislativi che non incontrino il favore della Casa Bianca.

In conclusione, perciò, il peso fiscale dell’assistenza a favore degli immigranti risulta essere globalmente relativamente basso e neutralizzato dal loro contributo alle entrate fiscali se valutato nel lungo periodo. Su base annuale, il contributo fiscale netto sarà probabilmente positivo per ogni anno, salvo possibili saldi negativi nella fase iniziale dopo l’arrivo, o in alcuni anni eccezionali, di brevissima durata e concentrati geograficamente in specifiche località.

Il terzo approccio ai costi fiscali dell’immigrazione si concentra sull’impatto degli esborsi erariali sui benefici economici che il paese può ottenere dall’immigrazione. Gli esborsi erariali, in tal caso, sono visti non come un costo corrente, ma come un “investimento” per massimizzare l’impatto economico dei flussi migratori in termini di contributo all’incremento della produttività, di accelerazione della crescita economica, di crescita del reddito nazionale e di maggiori investimenti di capitale. Questi benefici richiedono un’espansione dell’attività di accoglienza e di integrazione, che a loro volta richiedono l’impiego di risorse fiscali, e richiedono che l’opinione pubblica sia consapevole della necessità di valorizzare le potenzialità e le capacità produttive degli immigranti con queste attività.  Rientrano in questi esborsi le spese per l’istruzione, per la formazione linguistica e professionale, ma anche le spese per l’orientamento iniziale e l’assistenza agli immigranti nella difficile fase del loro arrivo. Queste attività fanno la differenza sull’effetto globale che l’immigrante produrrà in termini di reddito, e sui suoi contributi erariali nel tempo. Confinare queste voci di spesa nella categoria dei costi fiscali correnti ne ignora il valore come investimento sociale, e significa negare il contributo che gli immigranti offrono a società che presentano profondi squilibri economici e demografici, che l’immigrazione contribuisce ad attenuare.

  1. Le rimesse degli immigranti: un costo per il paese ospite?

Uno degli effetti più significativi del processi migratori è la generazione di un flusso ragguardevole di risorse finanziarie dai paesi d’immigrazione verso i paesi d’origine degli immigranti sotto forma di trasferimenti di risorse, noti come rimesse, effettuati dai migranti a favore delle famiglie lasciate indietro, o anche semplicemente a proprio nome, per garantirsi una prima accumulazione di risparmi nel paese di provenienza.  Sia gli immigranti irregolari che quelli regolari inviano rimesse, anche perché spesso appartengolo a classi sociali relativamente povere, e le loro famiglie fanno affidamento su questi aiuti.  Organizzazioni internazionali osservano questo fenomeno con molta attenzione, vista la dimensione che ha assunto. Secondo la Banca Mondiale, nel 2019 un flusso di ben $550 miliardi è stato rimesso ai paesi a basso e a medio reddito (low and medium income countries, o LMICs), un incremento di $21 miliardi rispetto al 2018.[lxxii] Nell’anno 2018, i maggiori destinatari furono l’India ($78,6 miliardi), la Cina ($67,4), il Messico ($35,7), le Filippine ($33,8), l’Egitto ($28,9), la Nigeria ($24,3), il Pakistan ($21), il Vietnam ($15,9), il Bangladesh ($15,5) e l’Ucraina ($14,4), ma anche paesi di più ridotte dimensioni, per i quali le rimesse rappresentano un’elevata percentuale del PIL. Tra questi ultimi, segnaliamo: Tonga (ove le rimesse rappresentano il 35,2% del PIL nel 2018), Kyrghistan (33,6 %), Tajikistan (31 %), Haiti (30,7%), Nepal (28%), El Salvador (21,1 %), Honduras (19,9%), Comore (19,1%), West Bank/Gaza (17,7%), e Samoa (16,1%).  I paesi d’immigrazione da cui quelle rimesse provengono includono gli Stati Uniti (la maggiore fonte di rimesse), per $68 miliardi nel 2017, seguiti da Emirati Arabi Uniti ($44,4 miliardi), Arabia Saudita ($36,1), Svizzera ($26,6), Germania ($22,1) e Federazione Russa ($20,6).[lxxiii] Molte rimesse provengono anche da paesi in via sviluppo ove gli immigranti si trovano in via provvisoria o definitiva, inviate ad altri paesi in via di sviluppo.[lxxiv]  Le rimesse rappresentano un contributo importante al reddito dei paesi d’origine degli immigranti (l’1,9% del PIL, ma arriva fino al 5,9% per i PMA).[lxxv]

Stime e previsioni di flussi di rimesse per regioni a reddito basso e medio

(miliardi di dollari USA)

Regione

2010

2015

2016

2017

2018s

2019p

2020p

Asia Orientale e Pacifico

96

128

128

134

143

149

156

Europa e Asia Centrale

38

43

43

53

59

 61

64

America Latina e Caraibi

55

67

 73

80

88

 91

95

Medio Oriente e Nord Africa

39

51

 51

57

62

 64

66

Asia Meridionale

82

118

110

117

131

137

142

Africa Sub-Sahariana

 32

  43

  38

     42

   46

   48

   51

Fonte: Banca Mondiale

Note:        s= stime   p= proiezione

Reddito riferito all’anno fiscale 2016

Le rimesse sono una voce negativa della bilancia dei pagamenti per il paese da cui provengono e una voce positiva per il paese che le riceve. Questo flusso di risorse può essere visto come il “prezzo” che i paesi d’immigrazione pagano per beneficiare dell’apporto produttivo degli immigranti, quindi come un costo per quelle società, in quanto detrazione di risorse finanziarie, a puro vantaggio dei paesi d’origine degli immigranti. Tuttavia, sono i redditi prodotti dagli immigranti e non quelli dei residenti che finanziano le rimesse, e quindi sono in realtà deduzioni finanziare da quei redditi, o se vogliamo una distribuzione di reddito del paese d’immigrazione a livello internazionale, finanziato non dai redditi dei residenti, ma dal reddito degli immigranti, pur essendo parte integrante del PIL nazionale. Le rimesse potrebbero essere paragonate ai dividendi distribuiti agli azionisti di una impresa, che non sono un elemento negativo per il calcolo del profitto aziendale, ma una distribuzione di quel profitto. Le rimesse degli emigranti sono una distribuzione di una parte del reddito prodotto dagli emigranti nel paese che li ospita, e non un elemento negativo di quel reddito. Per questo, non possiamo parlare delle rimesse come di un vero costo dell’immigrazione, come nel caso del costo dell’assistenza agli immigranti, anche è una voce negativa della bilancia dei pagamenti.

Le rimesse assomigliano anche ai flussi di aiuto allo sviluppo (Official Development Assistance, ODA), in quanto sono ambedue destinati ai paesi in via di sviluppo, e possono essere considerati contributi dei paesi invianti alla promozione dello sviluppo dei paesi d’origine degli immigranti. Ma la distribuzione geografica dell’ODA non ha alcuna correlazione con quella delle rimesse, che dipende dall’entità degli stock di immigranti e dal loro paese d’origine, mentre la prima riflette preferenze dei paesi “donatori”, le loro priorità politiche, e nulla garantisce che i due tipi di flussi siano correlati tra di loro.  I meccanismi che determinano il livello delle rimesse e dell’ODA sono completamente diversi: l’ODA è finanziato dalle entrate fiscali del paese “donatore”, mentre non c’è alcun prelievo fiscale per finanziare le rimesse, perché sono gli stessi immigranti che si “autotassano”.  Le rimesse sono un diverso modo di distribuire internazionalmente il PIL del paese d’immigrazione, basato esclusivamente sull’apporto volontario degli immigranti, mentre di sicuro l’ODA rappresenta un costo erariale per il bilancio dello stato.[lxxvi]

Nella storia delle grandi migrazioni di questi ultimi centocinquant’anni, flussi considerevoli di rimesse non hanno influenzato negativamente i paesi d’immigrazione, che hanno beneficiato dell’apporto produttivo dei lavoratori stranieri. La prospettiva di inviare rimesse nei paesi natii è un incentivo agli immigranti per intensificare il proprio contributo produttivo al paese ospite, ambendo a livelli sempre più elevati di reddito.  Per questo le rimesse sono anche considerate un tema sensibile. Gli stessi oppositori dell’immigrazione si guardano bene, normalmente, dal criticare le rimesse, né le considerano un onere per il paese d’immigrazione, ed evitano di ostacolarle o minimizzarle o di imporre particolari condizioni restrittive, perché sanno che altrimenti si aprirebbe il varco a ritorsioni di ogni tipo, per esempio sulle rimesse dei lavoratori provenienti dai paesi ad economia avanzata temporaneamente ubicati nei paesi in via di sviluppo, o sulla tassazione dei loro redditi (nonostante accordi sulla doppia tassazione), o sui trasferimenti di profitti delle imprese multinazionali dai paesi emergenti.[lxxvii] 

Rimesse e flussi di aiuto pubblico allo sviluppo

Le rimesse possono essere confrontate con i flussi di ODA provenienti dallo stesso paese d’immigrazione per comprenderne il valore per la promozione dello sviluppo dei paesi riceventi, anche se i due flussi non sono perfetti sostituti gli uni degli altri. Le autorità dei paesi d’immigrazione troveranno utile tener conto delle direzioni e dell’entità quantitativa delle rimesse dei loro immigranti nell’orientare i propri programmi di cooperazione, verificando possibili complementarietà, in un’ottica che tenga conto delle interazioni tra movimenti migratori e sviluppo nel paesi d’origine. Dobbiamo perciò porci alcune domande:

 (a)    Qual è il livello assoluto e la dimensione relativa del flusso di rimesse rispetto all’ODA?

(b)     In che misura le rimesse compensano, completano o sostituiscono i flussi dell’ODA?  

(c)     Quali sono i vantaggi delle rimesse rispetto all’ODA viste come strumento per aiutare i paesi in via di sviluppo? E quali sono i limiti delle rimesse rispetto all’ODA da quello stesso punto di vista?

La risposta alla prima domanda può sembrare una sorpresa a molti. Infatti il volume totale di rimesse generate dagli emigranti è di gran lunga superiore al flusso di aiuto pubblico allo sviluppo proveniente dai paesi dell’OCSE, ed ha un trend opposto rispetto a quest’ultimo.  Infatti, esse sono superiori al totale combinato del flusso di investimenti esteri diretti (FDI) e dei flussi di aiuto ricevuti dai paesi in via di sviluppo.  Nel 2018, secondo la Banca Mondiale, le rimesse verso i paesi a reddito basso e medio ammontavano a circa $529 miliardi (si stima che arriveranno a $559 miliardi per il 2019), con un incremento dell’9,6% rispetto al 2017 (in cui erano dell’ordine di $482 miliardi).  Il confronto con il flusso totale di ODA verso i paesi invia di sviluppo stupisce: secondo l’OCSE, l’ODA ammontava a $ 153 miliardi nel 2018, in diminuzione del 2,7% rispetto al 2017. Mentre le proiezioni delle rimesse fanno presagire una tendenza in crescita, i flussi dell’ODA sono in calo.

Ma i due flussi non sono perfetti sostituti l’uno dell’altro, al massimo si complementano, con una logica completamente diversa. Le rimesse possono in parte compensare le carenze dell’ODA in alcuni paesi, ma non necessariamente riescono in questo scopo, poiché non perseguono gli stessi obiettivi. I flussi dell’ODA hanno finalità identificate nei programmi di cooperazione, e le rimesse perseguono scopi decisi dagli emigranti. Le rimesse possono presentare dei vantaggi rispetto ai flussi d’aiuto, perché i fondi raggiungono direttamente i destinatari prescelti nei paesi in via di sviluppo, che possono essere anche persone in stato di bisogno. Questi ultimi avranno il controllo immediato sull’intera entità delle risorse finanziarie ricevute, salvo le decurtazioni per l’intermediazione finanziaria, evitando di dover pagare il prezzo elevato della gestione dei programmi di cooperazione allo sviluppo. Questi ultimi, infatti, assorbono preziose risorse per finanziare enormi strutture amministrative e burocratiche necessarie per far funzionare le agenzie di cooperazione. Questi costi gestionali, i c.d. costi di transazione, possono essere ingenti e riducono sostanzialmente il volume di risorse utilizzabili per le operazioni di sviluppo a beneficio dei destinatari finali dell’aiuto (i targets).[lxxviii] Questi destinatari finali non saranno mai certi di aver accesso ai benefici prodotti dagli interventi di cooperazione, anche se i targets sono esplicitamente specificati nei documenti di progetto e controlli sono richiesti affinché ciò si verifichi.  È tuttavia difficile comparare il valore dei beni e servizi che il paese in via di sviluppo riceve attraverso programmi di cooperazione con il maggiore potere di acquisto di cui dispongono gli individui che ricevono rimesse, che si traduce a sua volta in acquisti di beni e servizi. Non si tratta solo di confrontare valori monetari di beni e servizi, perché i benefici prodotti dai due tipi di flussi sono diversi sul piano qualitativo.

Le finalità e le utilizzazioni delle rimesse

Aggiungiamo un monito a proposito del rischio di esagerare la critica ai programmi di cooperazione a vantaggio delle rimesse. Questa critica può apparire a volte ingenerosa ed in parte viziata. Nonostante gli sprechi, i ritardi e le inadeguatezze, i programmi di cooperazione allo sviluppo perseguono obiettivi di carattere generale a beneficio del paese ricevente, la cui importanza non può essere negata. I benefici che generano non sempre possono essere espressi in termini di maggiore potere d’acquisto di specifici gruppi di individui (diversamente dalle rimesse), perché spesso producono economie esterne, beni comuni, i cui benefici sono goduti dalla popolazione nel suo insieme o da comunità sociali. La valutazione monetaria di queste externalities è un compito arduo.[lxxix] Come paragonabili questi benefici con quelli prodotti dalle rimesse? I termini del paragone non sono confrontabili.

Le rimesse sono in primo luogo un aiuto diretto alle famiglie dei migranti rimaste nel paese d’origine, per restituire i debiti contratti prima di partire, ripagare prestiti ricevuti per pagare il coyote o altro intermediario che ha organizzato il viaggio (nel caso di immigrazione irregolare), o per restituire anticipi ricevuti  per pagare il biglietto di aereo o altro mezzo di trasporto, per gli anticipi ricevuti per poter disporre di soldi durante il viaggio e nelle prime settimane dopo l’arrivo. Immediatamente dopo aver ripagato questi anticipi, le rimesse servono a sostenere finanziariamente i ricettori, come integrazione del loro reddito, per sostenerne le loro spese (alimentari o altri bisogni essenziali, spese scolastiche o sanitarie, costruire una casa o migliorare quella esistente, o semplicemente finanziare consumi “di lusso”). Alternativamente, sono una forma di risparmio che l’emigrante si assicura nel paese d’origine. 

L’effetto delle rimesse sul benessere dei riceventi è diretto.  A volte spicca l’immagine nei paesi in via di sviluppo delle nuove case finanziate con le rimesse, che si distinguono per qualità rispetto a quelle di altri residenti. Le rimesse alimentano investimenti immobiliari, che si traducono in case di vacanza, o in investimenti finanziari per trarre reddito, acquisto di quote in complessi abitativi o di appartamenti, acquisto di terreni, sia per uso agricolo che abitativo. Gli investimenti nel settore agricolo possono essere volti ad ampliare la capacità produttiva di aziende familiari, con l’aggiunta non solo di suolo agricolo ma anche con l’acquisto di macchinari, fertilizzanti, sementi, e altri input agricoli, per costruire pozzi o sistemi d’irrigazione, aumentare il capitale di funzionamento delle fattorie, al fine di potenziare la produzione o diversificare le culture. Ma le rimesse possono finanziare altri investimenti produttivi in qualsiasi settore o forma, compresi investimenti finanziari per partecipare ad imprese altrui.  

I benefici delle rimesse per il paese che le riceve includono il miglioramento della capacità di finanziare importazioni, aumentando l’accesso a valuta pregiata e la capacità di far fronte al servizio del debito estero, facilitando l’accesso del sistema bancario a prestiti internazionali a tassi convenienti. Tuttavia, le maggiori disponibilità finanziarie non garantiscono che quelle risorse saranno utilizzate per ottimizzare la promozione dello sviluppo, poiché sono mirate a massimizzare l’utilità del singolo individuo che le riceve, soddisfare le sue preferenze per il suo benessere, e non necessariamente per il benessere comune, con il rischio di trascurare opportunità proficue di sviluppo, che invece la programmazione di interventi di cooperazione persegue con sistematicità. La soddisfazione di bisogni di consumo immediato a scapito di investimenti produttivi potrebbe essere la conseguenza dell’enfasi sulle rimesse, anche se possono finanziare anche investimenti. Se le rimesse sostengono consumi essenziali, soddisfacendo bisogni di base, hanno il vantaggio della rapidità di esecuzione rispetto ai canali della cooperazione internazionale, più lenti e farraginosi.[lxxx] Tuttavia, le rimesse potrebbero trascurare altri obiettivi di sviluppo non meno importanti, limitando o ignorando investimenti infrastrutturali e sociali, e la creazione di economie esterne.[lxxxi]  Al tempo stesso, le rimesse potrebbero finanziare esclusivamente consumi di lusso di chi le riceve.  In tal caso, il loro beneficio sociale potrebbe essere nullo o irrilevante.

È stato sostenuto che un effetto collaterale negativo delle rimesse, prodotto dal ricorso prolungato nel tempo a questo tipo di sostegno, potrebbe essere la creazione di una “cultura di dipendenza” dalle rimesse, che può divenire un disincentivo per il destinatario diretto delle rimesse a contribuire produttivamente nella comunità locale, potendo contare sulla liquidità che le rimesse permettono, favorendo la creazione di rendite di posizione nelle mani dei ricettori.  A dire il vero, analoga critica potrebbe essere fatta all’attività di cooperazione allo sviluppo, che potrebbe creare una “cultura di dipendenza” dall’aiuto esterno, come spesso sostenuto nelle analisi critiche della cooperazione internazionale allo sviluppo. Ci possiamo anche chiedere per quanto tempo un emigrante continuerà a fare rimesse verso il suo paese di provenienza.  Generalmente sono gli immigranti di prima generazione che sono maggiormente impegnati a effettuare rimesse, sia per favorire le famiglie d’appartenenza (visti i forti legami che essi ancora hanno con le famiglie d’origine e con il paese dove sono nati e cresciuti)  che per accumulare risparmi personali in patria.  I legami col paese d’origine tendono ad affievolirsi col tempo. Lo stesso immigrante potrebbe non continuare a inviare rimesse per tutta la sua vita. A volte, però, anche immigranti di seconda generazione partecipano a questo processo, anche se in misura più modesta. In generale, immigranti di seconda e terza generazione sono meno interessati a inviare rimesse, anche se vecchi immigranti saranno sostituiti dai nuovi immigranti, cambiando però la struttura dei paesi d’origine ed quelli di destinazione delle rimesse.[lxxxii]

Effetti distributivi delle rimesse e “targeting” dei programmi di cooperazione a confronto

Le cose non sono tutte rose e fiori con le rimesse. Mentre esse beneficiano senz’altro chi le riceve, i loro effetti benefici non sono distribuiti in modo uniforme nella società del paese d’origine, ma si concentrano in alcune famiglie o individui, ignorando altri e creando o accentuando dislivelli di benessere. Sono distorzioni particolarmente accentuate se l’uso delle rimesse stravolge le condizioni di mercato alterando profondamente i prezzi locali, a danno di chi non ha ricevuto alcuna rimessa, costretto a fronteggiare prezzi più elevati per i beni di cui necessita. Altrettanto può dirsi delle conseguenze distorte derivanti da una distribuzione non uniforme delle rimesse tra regioni o paesi. 

Se le rimesse hanno il vantaggio (rispetto all’ODA) di aumentare direttamente la capacità di acquisto dei destinatari, è anche vero che l’identificazione di destinatari finali nei programmi di aiuto rappresenta un’operazione centrale della cooperazione internazionale allo sviluppo: questa designazione è designata nel gergo internazionale col termine “targeting”.  Il targeting rappresenta uno dei punti critici per verificare l’attendibilità degli interventi di cooperazione allo sviluppo: è dall’adeguatezza di questa determinazione dei destinatari finali e dall’efficacia con cui quei destinatari vengono raggiunti che dipende il successo delle operazioni di aiuto internazionale. La grande sfida della cooperazione internazionale allo sviluppo oggigiorno è assicurarsi che i targets siano al centro degli interventi di cooperazione, ricevendo effettivamente i benefici concepiti nei documenti di progetto. Spesso ci sono disposizioni in questi documenti per garantire questi risultati finali. Un programma di cooperazione è considerato un insuccesso se non riesce a raggiungere quei targets.  Quindi il targeting può essere il tallone d’Achille dei programmi di cooperazione. Tuttavia, se ben condotto, il targeting rappresenta  anche la posizione di forza dell’ODA rispetto alle rimesse, in quanto permette di designare targets in modo da riflettere priorità sociali condivise dalla collettività, mentre le rimesse possono beneficiare solo targets designati dalle preferenze degli emigranti e potrebbero ignorare gruppi sociali particolarmente meritevoli e cruciali per la promozione dello sviluppo.

La distribuzione delle rimesse non garantische che i loro destinatari siano quelli più bisognosi o coloro che maggiormente produrranno effetti di sviluppo di cui si avvantaggerà la comunità nazionale o locale.  Le rimesse non contengono alcun giudizio di priorità sociale o nozione di bene comune. Solo se le famiglie da cui provengono gli emigranti siano particolarmente bisognose, le rimesse potranno essere più efficaci rispetto ad aiuti allo sviluppo che intendano aiutare gli stessi soggetti. Allo stesso tempo, interventi di cooperazione potrebbero disperdere i benefici su una scala così amplia, che non sia possibile, da parte dei targets, di percepire alcun beneficio diretto (mentre questo non avviene con le rimesse).  Infine, se i destinatari delle rimesse sono meno meritevoli rispetto ad altri gruppi sociali, il risultato potrebbe essere una ulteriore distorsione nella distribuzione del reddito, specie se le maggiori liquidità finanziano consumo di lusso e ostentazione di opulenza inusuale.

I canali di trasmissione delle rimesse

Le statitistiche ufficiali sulle rimesse sono basate sui trasferimenti finanziari internazionali registrati dal sistema bancario e riflessi nella bilancia dei pagamenti. Queste stime sottovalutano tali flussi. Secondo alcuni, solamente la metà delle rimesse utilizzano i canali formali di instituzioni autorizzate a effettuare trasferimenti internazionali di valuta e di capitali finanziari. Il resto utilizza canali alternativi, perché i canali formali impongono commissioni a volte elevate, che si aggiungono a perdite per cambio di valuta locale e variazione dei tassi di cambio.[lxxxiii] Inoltre, gli immigranti intendono ovviare alle difficoltà che i destinatari finali potrebbero avere ad accedere ai fondi trasmessi, specialmente se non sono usi a utilizzare istituzioni finanziarie o bancarie.  Gli emigranti spesso usano agenzie specializzate in trasferimenti internazionali di fondi, come Western Union e Money Gram, più che banche.

I tassi d’interesse applicati per le commissioni sui trasferimenti variano a seconda del paese d’immigrazione ed quello destinatario.[lxxxiv] Nel corso degli ultimi tre decenni, vi è stata una tendenza al ribasso delle commissioni, in risposta ad un aumento del volume delle rimesse e ad una intensificazione della concorrenza tra agenzie di trasferimento di fondi. Le commissioni sono più alte se le rimesse sono effettuate tra paesi in via di sviluppo.[lxxxv] In alternativa alle istituzioni bancarie e agenzie di trasferimenti finanziari, gli emigranti hanno cercato di raggiungere le famiglie d’origine nella forma più diretta, magari portando i soldi personalmente in contanti, utilizzando amici o persone di fiducia, convertendo rimesse in beni specifici acquistati dall’emigrante e inviati direttamente ad un indirizzo nel paese d’origine. Il trasfermento in danaro contante da parte degli emigranti non è utilizzato soltanto dai più poveri (per esempio quelli che provengono dall’Africa sub-sahariana), ma interessa anche altri gruppi: si stima che circa il 10% delle rimesse destinate all’America Latina avvengano per via manuale, percentuale che arriva fino al 50% per le rimesse degli emigranti rumeni.[lxxxvi] Un canale molto rischioso è quello postale, che però è usato per il 7% delle rimesse degli emigranti latino-americani dagli Stati Uniti.

Esistono altre modalità per effettuare questi trasferimenti in forma reale anziché finanziaria, utilizzate da alcune comunità nazionali. Esse rispondono a consuetudini locali che sostituiscono l’uso di istituzioni finanziarie con un misto di baratti, acquisti a distanza, esborsi in contanti compensati a distanza, senza alcun passaggio di danaro tra frontiere, con complessi passaggi di autorizzazioni, ordini di pagamento, e trasferimenti che a volte comportano la conversione in varie valute.  Esempi sono il sistema usato dagli emigranti dal Pakistan e dal Bangladesh, chiamato “hawala” (che significa trasferire); il sistema chiamato “hundi” (che significa riscuotere) in uso tra gli emigranti dall’India; e i sistemi adottati da emigranti cinesi noti come il “fei ch’ien” (danaro che vola) e il “chits/chops” (biglietti/sigilli).

  1. Costo negativo dell’immigrazione: la riduzione dei “costi di esclusione”

Nella Parte II di questo saggio, abbiamo accennato all’elevato costo finanziario delle politiche di contenimento dell’immigrazione. Nella Sezione 10 abbiamo esaminato i costi fiscali dell’immigrazione, specialmente per le spese a sostegno delle attività di assistenza e di accoglienza. Queste ultime impallidiscono rispetto ai costi sostenuti per portare avanti misure difensive per limitare, contenere o evitare l’immigrazione.  Il mantenimento di controlli rigidi ai confine; il costo della polizia di frontiera e la difesa minuziosa dei confini fisici del territorio nazionale; la gestione dei centri di detenzione (alcuni chiamati eufemisticamente centri di accoglienza); il costo dei processi di espulsione e di complessi sistemi di espatrio forzato ed espatrio volontario;  il mantenimento di  sistemi di monitoraggio dei migranti irregolari (veriche periodiche, sistemi elettronici di libertà condizionata); interventi di repressione con arresti sistematici e retate; il sistema giudiziario per l’esame delle richieste di asilo o di ingresso per immigranti irregolari; sono tutte attività che richiedono ingenti risorse umane e finanziarie che vanno ben al di là dei costi fiscali per assistere rifugiati e immigranti accolti nel territorio nazionale. La politica migratoria, concentrata sulla ricerca delle risorse finanziarie per realizzare queste misure repressive, ha spesso ignorato che il vero costo dell’immigrazione è in realtà il costo delle operazioni per limitare o contenere l’immigrazione.

Nella Parte II, riportammo una stima approssimativa dell’IOM che valutò il costo complessivo di queste politiche per 25 paesi (al 2003) attorno a $25-30 miliardi all’anno (vedi nota 17 di quella Parte II).[lxxxvii] Tale costo è stato anche designato costo diretto di esclusione degli immigranti. Quelle misure non generano solo costi fiscali, ma anche enormi conseguenze non desiderate, che rappresentano veri costi sociali:

  • Pensiamo allo stimolo per lo sviluppo di attività spesso criminali di contrabbandieri di immigranti, spesso trasformati in veri e propri trafficanti di esseri umani.
  • Pensiamo al rialzo del costo della intermediazione di chi favorisce l’immigrazione clandestina, coinciso con l’aumento del rischio del viaggio e con l’adozione di veicoli o natanti sempre meno sicuri.
  • Pensiamo al numero di decessi lungo il confine o nei nostri mari o nei campi di detenzione nei paesi terzi, o di quanta gente è perita durante il difficile viaggio lungo percorsi lunghi e impervi.

Un’altra conseguenza di queste misure è che la proporzione del numero di immigranti irregolari rispetto a quelli regolari è cresciuta a dismisura, nonostante il tentativo di fermare i primi (ma nulla si fa per aumentare gli ingressi regolari).[lxxxviii] Questi costi diretti di esclusione sono esplosi in questi ultimi anni, grazie all’intensificazione delle misure repressive.[lxxxix]  Lì ove queste misure repressive hanno prodotto un rallentamento degli arrivi di manodopera non qualificata, si pone il problema che alla lunga a questi costi diretti di esclusione dovremmo aggiungere la riduzione di benefici che il mancato arrivo di immigranti comporta, specialmente nei paesi che dipendono dall’incremento di manodopera non specializzata per certi segmenti del mercato del lavoro, per carenza di quadri locali.  Nella misura in cui vi è un rapporto complementare tra il reclutamento degli immigranti e quello dei quadri nazionali, al costo diretto di esclusione dobbiamo aggiungere il mancato beneficio per i lavoratori nazionali che beneficiano di questa complementarietà e che non sono riusciti ad avvattaggiarsi dell’arrivo di quadri stranieri. A questo dobbiamo aggiungere il costo causato dalla riduzione del gettito fiscale che direttamente o indirettamente la mancata immigrazione degli individui espulsi o respinti avrebbero generato. Non parliamo poi del costo che l’espulsione in massa di immigrati comporterebbe per alcuni settori produttivi. Nei soli Stati Uniti, olltre al settore edile, agricolo, minerario e quello amplissimo dei servizi, ci sono molti comparti manifatturieri che dipendono in grande misura dalla manodopera immigrata, quali il packaging, il tessile, il metallurgico, l’automobilistico e altri mezzi di trasporto e relativi ricambi, attrezzature elettroniche, macchinari non elettrici, che ricevono un enorme contributo dai lavoratori stranieri, inclusi gli immigranti irregolari.[xc] Tutti questi mancati benefici cui il paese rinuncia a causa delle misure di repressione, rappresentano il costo d’opportunità di queste misure di esclusione, che si dovrebbero aggiungere ai costi fiscali. Esse potrebbero essere stimate in termini di riduzione del PIL per la perdita in termini di mancato rialzo dei salari dei lavoratori nazionali qualificati, mancata espansione delle produzione nazionale per la riduzione del lavoro immigrato, la perdita di produttività in settori quali l’agricoltura, la manifattura, l’edilizia ed in tutti i comparti che normalmente assorbono grandi quote di immigranti, sia regolari che irregolari, oltre al mancato gettito fiscale sopra ricordatol. Questi sono costi indiretti di esclusione, che includono anche il rischio di maggiore rigidità nel mercato del lavoro che il contenimento dell’immigrazione comporta, [xci] rendendo il passaggio di lavoratori nazionali verso impieghi a più elevata produttività e a maggiore remunerazione più lento e difficile, creando disincentivi a migliorare la produttività dei lavoratori nazionali nei settori più dinamici, che hanno bisogno dell’apporto complementare degli immigranti. 

I costi diretti di esclusione sono stati stimati in alcuni studi riguardanti gli Stati Uniti, [xcii]ove per decenni il governo federale ha messo in atto tali misure repressive lungo la frontiera messicana, che solo in parte sono riuscite nello scopo, ma hanno esasperato le difficoltà per l’ingresso di immigranti irregolari rispetto a quelli regolari. Conseguenza è stata l’allargamento del mercato sommerso degli irregolari, deprimendone i salari, e permettendo la creazione di industrie clandestine. Si è così messo in moto un circolo vizioso in cui la spesa pubblica concentrata sulle misure repressive ha stimolato la crescita del sommerso a bassi salari, che si accompagna a bassi livelli di consumi degli immigranti ed un modesto contributo al versamento di imposte (solo indirette), creando disincentivi ad un aumento di produttività in molti settori. L’alternativa è un “circolo virtuoso”, che sostituisca il respingimento di massa con un programma che preveda l’arrivo di immigranti regolarmente ammessi al mercato del lavoro, stimolandone l’assorbimento produttivo. Il reddito dei residenti e le remunerazioni degli immigranti regolari ne beneficerebbero, con espansione di consumi, investimenti, salari e profitti, ed un rafforzamento del potere d’acquisto della classe media.

Un altro aspetto dei costi di esclusione è l’inefficacia delle misure di respingimento, che implicano la relativa inutilità di sostenere questi costi se i loro risultati sono così ridotti.  Per quanto i governi impieghino ingenti risorse in queste attività di contenimento dell’immigrazione, le ragioni “autonome” che motivano gli emigranti e la forte domanda di lavoratori stranieri che le economie avanzate esprimono, rendono spesso futili gli sforzi per esasperare il respingimento di immigranti, anche se sono state escogitate molte misure per incentivare “rimpatri volontari”.[xciii]  I “rimpatri forzati” vengono spesso seguiti da nuovi tentativi degli stessi emigranti irregolari rimpatriati di ripetere l’ingresso clandestino. La storia di molti immigranti centro-americani e africani che sono stati ripetutamente espulsi rispettivamente dagli Stati Uniti o dall’Europa, è una storia di ripetizione continua dei tentativi di penetrare la frontiera.

Concludendo, perciò, uno dei benefici che una politica che favorisce l’immigrazione produce per il paese ospitante è la riduzione di questi costi di esclusione, che sono eccessivi, onerosi e, in grande misura, parzialmente inutili. Oltre al risparmo sui costi diretti di esclusione, l’immigrazione permette la riduzione sostanziale dei costi indiretti di esclusione, specialmente in termini di costi di opportunità di queste misure rigide di respingimento, che tolgono al processo migratorio la possibilità di essere un meccanismo flessibile che si espande o si contrae a seconda della disponibilità degli attori coinvolti, rifiutando i risparmi sostanziosi che l’immigrazione produrrebbe in termini di risorse fiscali, a beneficio della crescita del paese. Non è realistico supporre che le politiche di contenimento dell’immigrazione possano essere cancellate da un giorno all’altro, ma la riduzione dell’impegno delle forze politiche che  dedicano ingenti risorse finanziarie soltanto in quella direzione potrebbe permettere al paese ospitante di meglio trarre vantaggio dai flussi migratori, a beneficio dell’intera economia. È vero che l’accoglienza e l’integrazione hanno un costo fiscale, ma sarebbe bilanciato dai benefici ben maggiori che l’immigrazione produce.

  1. Prospettive di lungo periodo

Alcuni miti dominano la discussione pubblica sull’immigrazione:

(a)          mito che siamo di fronte ad un’invasione di massa di immigranti;

(b)          mito che gli immigranti produrranno un forte effetto negativo sul livello dei salari dei lavoratori nazionali e sottrarranno molti posti di lavoro alle maestranze native;

(c)          mito che gli immigranti generino un peso fiscale gravissimo a carico dei contribuenti dei paesi che li ospitano. 

Abbiamo visto nelle sezioni precedenti che in realtà i flussi migratori dal sud del mondo, pur quando siano intensi, sono una percentuale minore della popolazione dei paesi ad economia avanzata, ed in ogni caso non ci sono prove empiriche che l’immigrazione produca un’esplosione della disoccupazione nei paesi d’immigrazione o che generi un crollo del salario medio pagato ai lavoratori nazionali, anche se effetti modesti possono essere prodotti su segmenti specifici del mercato del lavoro nel breve periodo. Semmai gli immigranti convergono verso importanti comparti dell’economia, sia quelli in rapida economia che in quelli in crisi strutturale, contribuendo alla flessibilità del mercato del lavoro, specialmente in Europa. L’arrivo di lavoratori stranieri modifica la dinamica dell’offerta di lavoro in ogni paese che ospita immigranti, e ha contribuito fondamentalmente al rafforzamento e alla ristrutturazione dell’offerta di lavoro di quei paesi, divenendo un pilastro chiave della crescita.[xciv] Il contributo degli immigranti riguarda sia i comparti ove non sia richiesta alta qualificazione, che quelli ove giovani immigranti siano particolarmente qualificati. Pur non avendo la dimensione apocalittica che i suoi detrattori le attribuiscono, l’immigrazione contribuisce ad attenuare gli squilibri di quei paesi soggetti all’invecchiamento della popolazione e a contenere l’instabilità del livello della popolazione dovuto al calo demografico, cercando di alzare il tasso di fertilità al di sopra del livello di guardia di 2,2 bambini per donna, per evitare che i paesi d’immigrazione entrino in una crisi di profonda destabilizzazione demografica, che ha una profonda influenza negativa sulla evoluzione dell’offerta di lavoro. 

Questo saggio ha ribadito che gli immigranti stabiliscono un rapporto prevalente di complementarietà con i lavoratori nazionali, entrando in un rapporto stretto con il sistemo economico, al quale contribuiscono attraverso il loro lavoro, aumentando la produttività globale e la sua capacità imprenditoriale, tanto più integrati sono gli immigranti nel contesto nazionale. Questo processo d’integrazione, pur con le sue contraddizioni, rappresenta una realtà molto meno controversa di quanto le polemiche politiche sulla politica migratoria possano mostrare, preferendo invece sottolineare solo il rapporto concorrenziale tra immigranti e lavoratori nazionali. Abbiamo sottolineato il contributo diretto degli immigranti alla produzione nazionale di beni e servizi, generato attraverso l’incremento dell’offerta di lavoro ed il numero accresciuto di numero di ore lavorate nell’economia, l’aumento di “domanda aggregata nazionale” che i loro maggiori redditi producono attraverso una maggiore spesa che si moltiplica nel sistema e che genera reddito addizionale anche per altri lavoratori e maggiori profitti per le imprese. Conseguenza di questi effetti sono le maggiori entrate fiscali che ci si può aspettare dall’immigrazione, diversamente da quanto spesso ipotizzato, attraverso il pagamento di imposte sia dirette che indirette, specialmente se si considera l’arco temporale dell’intero periodo di permanenza dell’immigrato nel paese che lo ospita, che include anche la fase in cui l’immigrato è completamente integrato nel paese. Abbiamo anche sottolineato il ruolo stabilizzante dell’immigrazione rispetto alla volatilità del ciclo economico, che permette – in fasi di crescita – il perseguimento di obiettivi di sviluppo più ambiziosi grazie alla maggiore flessibilità acquisita dal mercato del lavoro che l’immigrazione permette. Ma anche in fasi recessive, l’immigrazione svolge una funzione ammortizzatrice che facilita l’assorbimento del colpo di crisi economiche. L’immigrazione potrebbe comportare nel breve periodo costi sociali in termini di riduzione dei salari e dei livelli occupazionali in alcuni comparti dell’economia, colpendo in modo particolare alcune aree specifiche e taluni segmenti lavorativi, ma i benefici di lungo periodo sono inequivocabili, compensando cali immediati nei livelli remunerativi e nel numero di posti di lavoro occupati con un aumento sostenuto di salari e dell’occupazione in altri segmenti, portando ad un impatto sostanzialmente neutrale o positivo nel lungo period, con accresciuta prosperità per l’economia nel suo insieme.

Confermiamo, perciò, aspettative positive sugli effetti benefici dell’immigrazione sui paesi ospitanti, Lo attesta anche la propensione degli immigrati a concentrarsi in aree (normalmente grandi centri metropolitani) a più elevato ritmo di crescita, ove riescono a produrre effetti cumulativi sul rialzo della produttività, pur in presenza di squilibri nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Tuttavia, non possiamo ignorare i costi di breve periodo causati dall’immigrazione, sopportati a livello locale da alcuni residenti, anche se questi “costi” sono molto controversi. La consapevolezza degli inconvenienti causati alle comunità locali dall’arrivo di immigranti richiede un approfondimento delle sfide crescenti nei settori della scuola, dell’edilizia popolare, dei trasporti, dell’assistenza sanitaria, della pulizia urbana e della condizione di assorbimento dei rifiuti urbani, settori che appartengono in generale alla produzione di servizi pubblici e sociali cruciali per tutta la società e per le classi meno abbienti dei residenti in particolare. Le critiche all’immigrazione basate sull’impatto negative di ingenti flussi migratori sull’accesso dei residenti a questi servizi sono profondamente contradditorie, in quanto attribuiscono all’immigrazione e alle politiche migratorie la responsabilità di problemi sociali che hanno invece origine altrove, e più esattamente negli squilibri profondi di quelle società e nell’inadeguatezza di politiche nazionali.

Il futuro richiede una revisione di queste politiche, anche per meglio ripartire il costo di misure assistenziali a favore degli immigranti su di un piano più vasto, sia a livello nazionale che regionale o internazionale, non lasciando solo alle comunita locali il compito di trovare le risorse per trovare soluzioni adeguate. Se i benefici dell’immigrazione si estendono all’economia nazionale nel suo insieme, anche i suoi costi dovrebbero essere coperti dal paese nel suo insieme, garantendo una collaborazione tra poteri centrali e poteri periferici dello stato, e un’armonizzazione delle politiche nazionali e quelle regionali, così che le politiche di accoglienza, la fornitura di alloggi, di scuole, politiche ambientali e di mantenimento della pubblica igiene, e servizi di assistenza per gli immigranti non siano a solo carico delle comunità locali. Lo stesso vale, specialmente per l’Unione Europea, per la ripartizione a livello internazionale (continentale) del peso fiscale e sociale causato dall’immigrazione nei paesi che ricevono un maggior numero di immigranti (i paesi rivieraschi del Mediterraneo), anche se non sono necessariamente i destinatari finali degli immigranti.

Allo stesso tempo, occorre migliorare la percezione che la comunità nazionale ha dei benefici e dei costi dell’immigrazione, riconoscendo i benefici dinamici che flussi positivi d’immigranti generano nel paese attraverso l’accresciuta produttività ed il loro potere stabilizzante, ed il crescente volume di servizi essenziali che il loro arrivo garantisce ai residenti. Occorre incoraggiare una diversa percezione dei costi dell’immigrazione, visualizzalizzandoli nella loro dimensione di lungo periodo, superando la dimensione di breve periodo focalizzata soltanto sugli inconvenienti, tenendo conto dell’impatto dell’immigrazione dopo l’avvenuta integrazione dei flussi migratori.  I costi di breve periodo potranno essere controbilanciati da misure compensative, che esalteranno il potenziale contributo produttivo degli immigranti, ma ciò avverrà solo se le comunità locali si impegneranno in attività di integrazione e di accoglienza, superando la visione secondo la quale gli immigranti sono soltanto rivali avversi. L’esperienza storica dimostra che l’immigrazione, quando è di lunga data, si è tradotta in generazioni successive di discendenti di lavoratori stranieri arrivati in ondate successive, che si sono integrati in vario modo e in tempi diversi nella società che li ha ospitati, con modalità che in parte hanno risentito del modo in cui la prima generazione si è confrontata con il paese d’immigrazione dopo l’arrivo, ma in gran parte hanno beneficiato del livello culturale e della qualificazione professionale acquisiti attraverso il processo di integrazione, che ne ha esaltato la produttività e la capacità creativa.

Questa integrazione comincia sin dal primo arrivo degli immigranti, ma il suo successo avviene nel tempo, grazie ai passi intrapresi successivamente, fino a raggiungere un rapporto più efficace tra gli immigranti ed il tessuto economico e sociale della nazione ospitante, risultato questo che non avviene senza difficoltà. Lo stesso inserimento nel mondo del lavoro può essere problematico. Alcuni segmenti lavorativi sono vicoli ciechi che non facilitano la mobilità sociale. Il passaggio da un segmento all’altro nel lungo periodo dipende da fattori che condizionano la dinamica degli immigranti e dei loro discendenti. L’esperienza di regioni che hanno assorbito enormi flussi migratori, come l’America del Nord e l’Australia, ma in una certa misura anche paesi europei come il Regno Unito, la Germania, la Francia e i paesi scandinavi,  mostra che gli immigranti raramente rimangono incastrati nelle ldoro posizioni iniziali. Nei paesi di più recente immigrazione, la storia sembra essere troppo recente per poter fare previsioni. L’immigrazione in paesi che vivono profondi problemi legati a recessione economica, come è il caso dell’Italia, incontra difficoltà che giustificano dubbi e scetticismi sull’efficacia di questa integrazione, ma richiedono una revisione delle politiche nazionali fin qui applicate, anche alla luce del contributo indiscutibile che gli immiganti offrono alla produzione di prodotti e servizi nel paese,  contrastando il declino demografico di società colpite dall’invecchiamento della popolazione, dal calo dell’offerta di lavoratori nazionali, specialmente a qualifica generica, in alcuni comparti specifici, e da squilibri crescenti tra popolazione attiva e lavoratori in quiescenza.

Il tema dei benefici che l’immigrazione reca ai paesi destinatari non può essere lasciato ai politici che si occupano di immigrazione. La loro percezione del fenomeno migratorio è stata dominata da schemi concettuali che riflettono preoccupazioni elettorali e rispecchiano pregiudizi sociali e paure collettive. Per questo essi danno poco risalto al benessere che gli immigranti producono nel paese che li ospita, alle necessità del mondo delle imprese e delle istituzioni che li assorbono, ai vantaggi che il mondo accademico e i media possono ricavare dal loro contributo. La retorica difensiva dei dibatti politici si focalizza sul rapporto tra immigrazione e sicurezza nazionale, che sostituisce completamente una narrazione basata sul contributo positivo degli immigranti.

L’immigrazione è fonte continua di dinamismo lavorativo ed impreditoriale, potendo contare sul contributo generoso di forze di lavoro giovanili volenterose e disponibili. In molti paesi ad alta immigrazione, sono gli immigranti o i loro immediati discendenti che hanno mostrato una predisposizione a promuovere start-up, siano esse piccoli negozi (come è constatato un po’ ovunque) o imprese ad alta tecnologia (come riscontrato particolarmente negli Stati Uniti).  L’immigrazione è un fatto congenito nel funzionamento della società mondiale, costituisce la base del suo tessuto fondamentale, fattore centrale nel sostenere processi di sviluppo economico, di accelerato progresso tecnologico, e di potenziamento delle strutture produttive. L’immigrazione non è un’anomalia, né un’aberrazione, ma è piuttosto una costante della storia dell’umanità, fonte di progresso e di sviluppo.[xcv] L’immigrazione ha interagito con tutti i maggiori processi storici globali: colonizzazione e   decolonizzazione, industrializzazione, urbanizzazione, terziarizzazione dell’economia, delocalizzazione di attività produttive su scala mondiale, formazione di stati e scongolgimenti degli stessi a causa di conflitti interni, guerre e rivoluzioni, calamità naturali e cambiamenti climatici.  Così come la liberalizzazione degli scambi di merci e di capitali ha prodotto benefici evidenti all’economia globale e ai paesi che partecipano al commercio internazionale, pur generando costi sociali che non possiamo ignorare,[xcvi] la libera circolazione internazionale di manodopera ha generato enormi benefici alle economie che se ne avvantaggiano, anche se causa una perdita di capitale umano nei paesi d’emigrazione. Allo stesso tempo, essa produce un aumento delle rimesse degli emigranti verso i paesi d’origine alimentate dai maggiori redditi degli emigrati, a beneficio dei paesi d’origine.  Il contributo dell’immigrazione sarà esaltato alla luce dei cambiamenti geo-economici e geo-politici in corso, con l’avvento di nuove regioni economiche che avranno un ruolo di punta negli anni a venire. Processi migratori potrebbero interessare anche paesi quali Cina e altri paesi asiatici, ed in prospettiva anche Brasile, Sud Africa o Messico, cambiando i paradigmi (direzione e intensità) dell’immigrazione internazionale e generando occasioni e prospettive vantaggiose di crescita.[xcvii]

Questo processo potrebbe trarre vantaggio da un’espansione, in particolare, dell’immigrazione regolare, che favorisce l’integrazione degli immigranti e permette il più pieno sfruttamento delle loro potenzialità. La buona notizia è che la maggioranza degli immigranti nei grandi paesi d’immigrazione sono entrati legalmente, anche se i media preferiscono parlare solo dei flussi di immigranti irregolari.[xcviii] D’altronde, la misura più efficace per far diminuire il numero di immigranti irregolari è aumentare le occasioni per essere ammessi come immigranti regolari. 

Assistiamo però ad una crescente contraddizione: da un lato, vi è un mondo economico, tecnologico e culturale sempre più globalizzato, aperto a intensi scambi di ogni natura, e, dall’altro, la persistenza di stati-nazioni che continua a mantenere impostazioni di politica economica, finanziaria, fiscale e sociale ancora definite su base isolazionista, come se vivessimo negli anni ’30, dimentichi che quel mondo di nazioni opposte e chiuse in parte non esiste più, anche perché fu quel mondo che portò a manfestazioni estreme di autocrazia prima della seconda guerra mondiale. Le difese contro l’immigrazione fanno parte di quella concezione nazionalistica, cercando di “proteggere” il “proprio” mercato del lavoro, cioè i lavoratori nazionali dalla concorrenza di lavoratori stranieri immigrati, così come il protezionismo protegge i prodotti “nazionali” da quelli “stranieri” (o le tecnologie “autartiche” di vecchia memoria da quelle “importate”), in sistemi economici chiusi in cui vigono rigide restrizioni ai trasferimenti di capitali internazionali, grazie a forti costrizioni alle transazioni finanziarie con l’estero. Ma la realtà economica del mondo è cambiata, e molte di quelle restrizioni non si applicano più né al mercato delle merci né a quello dei capitali. Simultaneamente anche i mercati del lavoro divengono sempre meno chiusi, grazie a modificazioni profonde nella domanda interna di lavoro (che non riesce ad essere sempre soddisfatta con l’offerta nazionale). A questo si aggiunga la crescita continua della mobilità geografica che porta un’offerta di lavoro qualificato nei paesi in via di sviluppo (ma anche in paesi come l’Italia) a cercare sbocco in paesi diversi da quelli ove si è inizialmente formata. A questa maggiore mobilità corrisponde una riduzione sostanziale dei costi di trasporto internazionale che rende l’emigrazione più accessibile a grandi masse di lavoratori, anche da paesi che in passato non generavano grandi flussi di migranti. Grazie a questi flussi, i paesi più sviluppati possono assorbire un’offerta accresciuta di lavoro sia qualificato che semi-qualificato, che andrà a coprire carenze o compensare riduzioni occupazionali in molti comparti. I paesi sviluppati non necessariamente ricorreranno immediatamente all’importazione di manodopera straniera per soddisfare queste necessità: probabilmente cercheranno d’apprima soluzioni “nazionali” come l’allungamento dell’età pensionabile, la creazione di incentivi per trattenere in alcuni settori forza lavoro preziosa, addirittura reclutando coloro che sono andati già in pensione. Lanceranno una serie di attività formative per favorire il riciclaggio di personale in esubero in alcuni sottosettori per assorbirlo in altri a più rapida crescita. Tuttavia questi espedienti raramente producono soluzioni durature e soddisfacenti e questi paesi saranno pertanto costretti ad allentare i nodi che hanno prodotto la chiusura dei cancelli per limitare l’immigrazione. Ricorreranno a programmi di immigrazione stagionale. Emetteranno visti temporanei di corta durata. Istituiranno “eccezioni” al divieto di immigrazione sotto forma di “visti a contratto” (vincolati alla durata del contratto di lavoro). Favoriranno il “pendolarismo” da frontiera, per popolazioni che vivono a poca distanza al di là del confine, facilitando l’ingresso lavorativo giornaliero o di breve durata limitato a gruppi di individui che provengono da quelle zone confinanti. Si tratta di soluzioni palliative che raramente riescono a risolvere carenze strutturali di grandi dimensioni, che richiedono riforme ben più radicali al sistema d’immigrazione. Ma i governi dei paesi d’immigrazione sono stati finora reticenti a lanciare tali riforme, preferendo soluzioni limitate.[xcix] 

Il momento forse è giunto per abbassare i toni delle polemiche politiche per mettere in primo piano i dati oggettivi dell’impatto dell’immigrazione sull’economia e sulla società, ed il suo ruolo fondamentale nel funzionamento del mercato del lavoro dei paesi ospitanti. Il saldo tra benefici e costi economici prodotti dall’immigrazione per il paese di destinazione è decisamente positivo, come sostiene gran parte della letteratura sull’argomento. Gli immigranti rappresentano una delle forze più vibranti per la promozione di sviluppo economico nel paese ove vengono ospitati, grazie al loro apporto di energie, capacità di iniziativa e inventiva, con un unico contributo alla sua ricchezza sia economica che culturale, nonostante che i critici dell’immigrazione insistano sulla nozione che l’immigrazione toglie posti di lavoro ai residenti e ne abbassa i salari. Ci troviamo quindi di fronte ad un dilemma tra riconoscere la realtà di questi benefici o restare paralizzati dalle ansie che si focalizzano solo sugli inconvenienti (i presunti “costi”) dell’immigrazione, che chiaramente non possono essere ignorati, ma sono marginali rispetto ai benefici. La conclusione che possiamo trarre da queste pagine è che nel lungo periodo l’immmigrazione non è che un fattore positivo per la prosperità del paese d’immigrazione sia in termini aggregati, che per il benessere individuale della popolazione nativa, anche se vi possono essere aspetti distributivi negativi per alcuni gruppi minori della società ospitante, che tuttavia richiedono misure che non riguardano tanto l’immigrazione quanto una diversa politica sociale verso quei gruppi sociali attaverso adeguate misure fiscali e trasferimenti di risorse. Colpevolizzare l’immigrazione per questi problemi sociali non fa che esasperare quei problemi, invece di risolverli. Può perciò meravigliare che, nonostante l’abbondanza di evidenza empirica sui benefici economici che l’immigrazione produce nel paese d’accoglienza, le polemiche e le critiche contro l’immigrazione abbiano uno spazio così ampio nei paesi dell’area OCSE, il cui futuro in parte dipende anche dall’uso proficuo di quei benefici. Questa contraddizione si è tradotta nella riduzione del numero di immigranti regolari accettati in molti paesi ad economia avanzata, che nega prospettive di progresso che un diverso approccio sull’immigrazione può generare. Per il momento i governi dei paesi d’immigrazione preferiscono adottare misure di contenimento, moltiplicando ostacoli e restrizioni all’ammissione di nuovi immigranti, scoraggiando l’immigrazione in ogni modo e addirittura incentivando il ritorno degli immigranti nei loro paesi d’origine. 

Sintomo di questa contraddizione è il modo in cui i paesi dell’area OCSE hanno affrontato i temi dell’immigrazione alla luce della crisi economica del 2008. Anziché cogliere i segnali positivi che l’immigrazione può generare per il rilancio dell’economia,  i governi hanno preferito restringere l’accesso alle loro frontiere, con toni allarmistici sulla complessità e sulle difficoltà del fenomeno migratorio, affrontando il tema prevalentemente come un problema di sicurezza nazionale, esasperando l’ansia collettiva, nonostante che l’esperienza di libera circolazione della manodopera in regioni come l’area Schengen in Europa o l’Africa occidentale abbia dato prova dei benefici che una maggiore mobilità della manodopera può generare a livello regionale. Gli alti tassi di disoccupazione prevalenti in alcuni paesi d’immigrazione come la Grecia o l’Italia possono aver contribuito ad accentuare questo atteggiamento, ignorando sostanzialmente gli enormi benefici economici dell’immigrazione ed esaltandone i costi. Nel frattempo, la realtà internazionale ha assistito, in anni recenti, ad aumenti improvvisi di flussi di rifugiati, che hanno subìto un’impennata con la diaspora dalla Siria, anche se – fatta eccezione del fenomeno dei rifugiati siriani – il flusso di migranti si è mantenuto relativamente costante.  Tuttavia, l’intensificazione del numero di rifugiati ed il continuo arrivo di altri migranti che hanno lasciato il proprio paese non per mera ricerca di miglioramento economico, ma per profondo stato di necessità, hanno mantenuto elevata la tensione nei paesi d’immigrazione, giustificando atteggiamento ostili all’immigrazione, che hanno completamente trascurato i suoi benefici.  Siamo quindi di fronte ad una separazione profonda tra percezione diffusa di cosa l’immigrazione sia (percezione spesso negativa) ed i benefici che essa può generare ai paesi che la ricevono. Ma di questo parleremo nella Parte IX di questo saggio.

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N O T E

[i] Vedi ad esempio M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit. pag. 26-27.

[ii] Questo avverrà insieme ad un aumento strabiliante della popolazione al di sopra dei 65 anni rispetto a quella sotto i 15 anni, un aumento rapido della popolazione al di sopra degli 80 anni, e una riduzione della dimensione numerica delle famiglie, che comporta lo svuotamento degli asili e delle scuole elementari, cambiamento della composizione scolastica degli asili e delle scuole primarie (con un aumento della quota di bambini figli di immigranti), riduzione della popolazione attiva ed invecchiamento della popolazione attiva (più lavoratori tra i 50 e i 60 anni rispetto a quelli tra i 20 e i 30 anni).

[iii] Assistiamo ad un calo considerevole del peso demografico di molti paesi europei, in particolare della Germania, dell’Italia, della Francia e del Regno Unito, che nel 1950, invece, erano, insieme alla Russia, tra le 12 nazioni più popolose del mondo. Attualmente solo la Russia è rimasta nel gruppo di nazioni più popolose.  Brasile, Stati Uniti e Messico mantengono posizioni preminenti nella popolazione mondiale. La contrazione della popolazione in Europa è acuta in Italia, Grecia e Portogallo. L’Italia, al decimo posto nel 1950, è attualmente scesa alla ventitreesima posizione.

[iv] Un forte abbassamento del tasso di fertilià è stato registrato nel corso della seconda metà del XX secolo in tutte le regioni economicamente avanzate, con l’Unione Europea, che è passata dal 2,4% nel 1950-55 all’1,4% nel 1995-2000, gli Stati Uniti (dal 3,5% al 2% nello stesso periodo), il Giappone (dal 2,8% all’1,4%).  Tra i paesi europei, quelle percentuali hanno le seguenti evoluzioni: in Francia, dal 2,7% all’1.7%, in Germania, dal 2,2% all’1,3%, in Italia dal 2,3% all’1,2%. Proiezioni demografiche per i prossimi anni fanno prevedere una riduzione sostanziale della popolazione di alcuni dei paesi occidentali: l’Italia potrebbe vedere la sua popolazione, che era di 57 milioni nel 2000 scendere fino a 41 milioni nel 2050, il Giappone da 127 milione a 105 milioni in quegli stessi anni. In altri paesi sviluppati, la riduzione potrebbe essere meno accelerata, ma comunque significativa.  Vedi P. Stalker (2008), “The no-nonsese guide to International Migration”, cit. pag. 89.

[v] In alcune regioni in via di sviluppo, la fertilità è ancora alta ma mostra segnali che fanno presagire un suo declino. Combinata con un’aspettativa di vita in aumento (ma inferiore a quella delle economie avanzate), questa tendenza porta al risultato finale di tassi di aumento della popolazione.

[vi] Anche se la popolazione globale continuerà a crescere ancora per alcuni anni, e raggiungerà il livello di 8,55 miliardi nel 2030, ci sono segni premonitori che fanno prevedere una sua stabilizzazione al livello di 11,2 miliardi di persone nell’anno 2100, ma per ora solo l’Europa ha visto un  calo demografico (si prevede una riduzione di 89 milioni per la fine del secolo nella sola Europa), e solo una leggera flessione è apparsa nel Nord America, mentre la popolazione asiatica continuerà a crescere fino al 2025, per poi cominciare leggermente a diminuire con una tendenza a contrarsi sempre più accentuata. Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 28.

[vii] L’elevato tasso di fecondità dei paesi in via di sviluppo è conseguente alla rivoluzione sanitaria di questi ultimi settant’anni, nonostante la mortalità infantile e la mortalità materna siano ancora alte, e fanno sì che le famiglie siano mediamente più numerose di quelle nei paesi ad economia avanzata. Questo fatto, combinato con la riduzione del tasso medio di mortalità, genera un alto tasso di accrescimento della popolazione, che si traduce in pressioni per l’emigrazione, specialmente in concomitanza con altri fattori politici, sociali, ambientali ed economici, esaminati in dettaglio nella Parte VI di questo saggio. Questa dinamica demografica interessa in particolare la regione africana, che nel 1950 rappresentava solamente il 9% della popolazione mondiale, ma che nel 2017 è cresciuta fino ad essere il 16,6% della popolazione del pianeta, con proiezioni fino al 25,5% per il 2050 e addirittura al 39,1% nel 2100.

[viii] L’Africa rappresenta la regione con i tassi di crescita demografica più sostenuti, anche se l’Asia continua ad essere la regione più popolata. Si prevede che la popolazione africana, con gli attuali ritimi di crescita, si raddoppierà ogni 25 anni.  Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 38.

[ix] Nella misura in cui i processi di sviluppo si estenderanno anche ai paesi africani, c’è da attendersi un cambiamento di stile di vita, che comporterà una riduzione graduale del tasso di natalità, che alla lunga ridurrà la base della piramide demografica per età anche in quei paesi, facilitando l’arrivo della transizione alla stabilizzazione demografica anche in quella regione. Si stima infatti che l’elevato tasso di fecondità prevalente attualmente in Africa (di 4,72 bambini per donna) si potrà gradualmente abbassare nel corso di questo secolo in quella regione, arrivando al livello di 2,1 bambini per donna nel 2100, a livelli perciò paragonabili a quelli prevalenti attualmente in molti paesi ad economia avanzata, con alcuni paesi africani con valori ancora più bassi. Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 36.

[x] Quei flussi migratori si riverseranno specialmente verso l’Europa, ma anche in parte verso altre regioni d’immigrazione (Nord America e Australia). Un calo demografico è previsto anche per l’America Latina. Il che implica che le spite migratorie provenienti da quella regione hanno poco a che vedere con le pressioni demografiche, ma sono causate piuttosto da altri fattori economici e sociali, se non politici.

[xi] I flussi migratori determinano un aumento significativo della percentuale della popolazione non nata nel territorio nei paesi d’immigrazione, nonché una trasformazione della composizione etnica e culturale di quelle società. 

[xii] Questo livello è considerato la soglia minima del tasso di fertilità per garantire la stabilizzazione demografica.

[xiii] Sono paesi affetti da corruzione dilagante, con sistemi economici molto instabili, una crescita incoerente, mercati volatili, e frequenti crisi politiche. Spesso rientrano nella categoria descritta nella Parte VII di paesi dominati da un elevato grado di fragilità. Si tratta di paesi ove il tasso di fecondità è spesso molto elevato Ricordiamo che nei paesi più poveri questo tasso di fecondità è attualmente pari a 4 bambini per donna, anche se mostra una tendenza ad una rapida riduzione, e le previsioni per il 2050 sono che scenderà a 2,87 bambini per donna, e ancora più basso per la fine del secolo (2,09 bambini per donna). Questa riduzione del tasso di fecondità conferma la tendenza universale in tutti i paesi del mondo a convergerere verso la stabilizzazione demografica, anche se questa stabilizzazione sarà raggiunta in tempi molto diversi.  Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 25.

[xiv] Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 29-33.

[xv] L’immigrazione non produrrà un aumento del tasso di crescita demografica della popolazione del pianeta. L’elevato ritmo di crescita della popolazione riguarda solo i paesi da cui provengono gli emigranti.  Vi è un vuoto demografico in Europa occidentale, e ci sono cenni di una transizione demografica anche nel Nord America, cui corrisponde una pressione demografica enorme dall’Asia e dall’Africa, con una crescita incredibilmente elevata in quest’ultima regione.

[xvi] I paesi africani con un tasso di crescita demografica superiore al 3% includono l’Angola, il Burundi, il Ciad, il Gabon, il Gambia, la Guinea equatoriale, il Niger, la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan, la Tanzania, l’Uganda, e la Zambia.

[xvii] Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 29-33

[xviii] Vedi R. Münz, T. Straubhaar, F. Vadean, N. Vadean (2006), “The Costs and Benefits of European Immigration”, cit. pag. 32.

[xix] F.R. Pizzuti (a cura di), “Rapporto sullo Stato Sociale 2019 – Welfare Pubblico e Welfare Occupazionale”, cit. Sezione 3.5.1, “Immigrazione e presenza straniera: effetti demografici e dinamiche occupazionali”, pag. 307.

[xx] Stime della Divisione della Popolazione delle Nazioni Unite citate in P. Stalker (2008), “The no-nonsese guide to International Migration”, cit. pag. 90.

[xxi] L’immigrazione non ha potuto neutralizzare il processo d’invecchiamento nel nostro paese, ma ne ha attenuato il ritmo, tanto che nel 2018, e solamente grazie all’arrivo di immigranti, in stragrande maggioranza concentrati nelle fasce di età più gionanili, gli anziani hanno raggiunto il 22,6% (cioè 1,4% più basso di quanto sarebbe occorso senza immigrazione). Vedi F.R. Pizzuti (a cura di), “Rapporto sullo Stato Sociale 2019 – Welfare Pubblico e Welfare Occupazionale”, cit. Sezione 3.5.1, “Immigrazione e presenza straniera: effetti demografici e dinamiche occupazionali”, pag. 308. L’impatto dell’immigrazione sull’invecchiamento della popolazione non è uniforme sul territorio italiano: è stato leggermente più accentuato nelle regioni settentrionali e centrali, mentre nelle regioni meridionali è stato più che annullato dalla intensa emigrazione di giovani dal sud d’Italia in altre regioni o all’estero, che ha provocato un’accelerazione dell’invecchiamento della popolazione di quelle regioni. V. F.R. Pizzuti (a cura di), “Rapporto sullo Stato Sociale 2019 …,” cit., pag. 310.

[xxii] Questo problema, comune tutti i paesi con invecchiamento della popolazione, ha suggerito proposte per alzare l’età del pensionamento, ma questo rimedio ha dei limiti, e trova opposizione da chi intende favorire un ricambio generazionale nel mercato del lavoro, creando nuovi spazi per i giovani lavoratori, che contribuiranno per molti anni ancora – con i loro redditi, il loro gettito fiscale ed i loro contributi a fondi pensionistici o di sicurezza sociale – a sostenere le spese sociali a favore degli anziani, attenuando squilibri di cash flow di breve periodo.

[xxiii] Naturalmente, questo aumentato gettito fiscale è in parte controbilanciato dall’aumentato peso fiscale per l’assistenza sociale fornita a questi immigranti (vedi la Sezione 10 su questo tema).

[xxiv] Vedi Sezione 10 su questo punto.

[xxv] Vedi T.J. Hatton e J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit. pag. 373-378.

[xxvi] Alcuni studiosi hanno sottolineato che, nonostante l’immigrazione sia stata un contributo importante alla crescita demografica europea, essa non è riuscita a controbilanciare l’impatto negativo dell’invecchiamento di quei paesi su quelle economie, comprese le implicazioni di politica fiscale (in particolare il peso dei pagamenti delle pensioni sul bilancio pubblico). Vedi R. Münz, T. Straubhaar, F. Vadean, N. Vadean (2006), “The Costs and Benefits of European Immigration”, cit. pag. 31.

[xxvii] Ad esempio l’allungamento dell’età pensionabile, riforme del sistema pensionistico, intensificazione dell’uso di personale a tempo parziale, anche di persone che sono entrate in quiescenza.

[xxviii] Tuttavia, gli immigranti “giovani” potrebbero essere seguiti dai loro familiari “più anziani” attraverso i ricongiungimenti familiari. Sperare che ci siano sempre flussi “giovanili” di immigranti in arrivo dall’estero per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione residente ignora il fatto che non tutti gli immigranti sono giovani. Né è pensabile che, utilizzando schemi di immigrazione temporanea, gli immigranti possano essere “rispediti” nei rispettivi paesi di provenienza quando hanno raggiunto un’età più matura, al fine di garantire che solo immigranti “in età produttiva” rimangano nel paese, evitando di “pesare” sugli oneri nazionali dovuti a generazioni più “mature”.

[xxix] Vedi T.J. Hatton e J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit. pag. 378.

[xxx] Allo stesso modo, pensare che l’emigrazione sia un mezzo per risolvere i problemi della disoccupazione nei paesi d’origine ignora il fatto che nei paesi in via di sviluppo assistiamo attualmente a pronunciati fenomeni di sottoccupazione, più che a elevati tassi di disoccupazione, e questa sottoccupazione è determinata da fattori strutturali, su cui l’emigrazione può fare ben poco. Con ogni probabilità molti emigranti non si trovano nella tipica condizione dei disoccupati deil paesi ad economia più avanzata, per cui l’emigrazione non è un modo per ridurre la disoccupazione (già bassa in quei paesi), ma semmai verrà messa a confronto con la condizione di sottoccupati in cui molti potenziali emigranti versano, condividendo posizioni lavorative a bassa produttività, che spesso generano livelli di reddito insufficienti a coprire i bisogni essenziali dell’individuo e del suo nucleo familiare. Sono questi gli individui che cercano un’alternativa altrove: non sono i disoccupati, ma coloro che non sono soddisfatti del tipo di occupazione che viene loro offerto nel paese di cui sono originari.

[xxxi] Vedi Parte VI, Sezione dal titolo “La nozione di ‘migrazione economica’ ”.

[xxxii] Rientrano in questa categoria i flussi di programmatori informatici indiani, cinesi o sud-coreani che frequentemente vediamo reclutati nella Sylicon Valley negli Stati Uniti o da grandi imprese come GE.

[xxxiii] Negli Stati Uniti, nonostante che gli immigranti rappresentino soltanto il 13,7% della popolazione globale, essi rappresentano il 30% dei titolari di nuove imprese lanciate nel 2017, e sono il motore principale per la promozione di start up. Il numero di start up lanciate da immigranti rappresentano quasi il doppio di quelle promosse da statunitensi. Rientrano tra queste ‘start up’ molte imprese trainanti dei settori ad alta tecnologia, comprese aziende come Amazon, Apple, Google e Yahoo, fondate da immigranti o da figli di immigranti. ‘New America Economy’ stima che il 44% delle aziende incluse nella lista per il 2018 delle più importanti 500 aziende selezionate dalla rivista ‘Fortune’ sono state promosse da immigranti o da figli di immigranti, per un reddito complessivo (per il 2017) pari a $5,5 mila trilioni. Vedi T. Jawetz, “Building a More Dynamic Economy: The Benefits of Immigration”, testimonianza del 26 giungno 2019 di fronte alla Commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti sui benefici dell’immigrazione.

[xxxiv] Questi immigranti sono concentrati in pochi centri urbani o aree ad elevata dinamica economica e tecnologica.

[xxxv] Anche quando l’economia del paese ospitane ha subìto fasi di rallentamento, i comparti che hanno assorbito questi immigranti di alto livello ne hanno beneficiato, grazie al loro elevato contributo alla produttività del paese.

[xxxvi] Ibdem, pag. 93.

[xxxvii] A queste élite intellettuali, dobbiamo aggiungere i quadri manageriali delle grandi imprese multinazionali, che si muovono con analoga flessibilità degli investimenti delle loro imprese, a volte all’interno della stessa azienda, altre volte trasferendosi da un’impresa all’altra. La loro elevata mobilità riflette il fatto che hanno scelto carriere internazionali, per cui il loro stato di immigrazione è contingente al loro ingaggio con imprese multinazionali, che possono facilitarne il trasferimento e l’adattamento alle condizioni di vita e di lavoro nei vari paesi ove si trasferiscono, anche perché quelle condizioni tendono ad essere molto simili, beneficiando generalmente di notevoli vantaggi e di premi iniziali d’ingaggio e di trasferimento, che permettono condizioni agiate di vita. La gran parte di questi quadri proviene da paesi ad economia avanzata.  Per le loro caratteristiche, questa categoria non sarà qui considerata come tipico gruppo di immigranti ad alta qualificazione.

[xxxviii] La presenza di questi professionisti si è diffusa ben al di là delle metropoli americane che sono spesso considerate punti di entrata per gli immigranti, quali New York, San Francisco, Chicago o Miami. Essi ora si trovano dispersi su di un numero crescente di città, ovunque emergano nuove occasioni di sviluppo, comprese città dinamiche come Atlanta, Charlotte, Nashville e Phoenix, nonché nelle zone suburbane delle grandi metropoli.

[xxxix] Ibdem, pag. 90-91.

[xl] Negli Stati Uniti, sono immigranti i titolari di più del 60% delle pompe di benzina, il 58% dei proprietari di negozi di lavaggio a secco, il 53% dei piccoli commercianti alimentari, il 45% dei negozi di manicure, ed il 38% dei ristoranti.

[xli] Vedi la Sezione su Diritto ad immigrare e diritto a limitare l’immigrazione

[xlii] Questi incentivi possono essere concessi da imprese, università, centri di ricerca e istituzioni varie, anche attraverso l’uso di agenzie di reclutamento internazionale, facilitato anche dal ricorso all’Internet per diffondere annunci per posti vacanti. Rientra in questo gruppo di trattamenti preferenziali la concessione negli Stati Uniti di visti come il visto H 1 B, riservato a lavoratori specializzati temporaneamente ingaggiati con contratti di lavoro a durata limitata con un datore di lavoro specifico) o il visto F 1 per studenti universitari. Ambedue questi visti sono considerati non-immigrant visas, cioè non danno diritto alla residenza permanente (c.d. carta verde) e alla flessibilità che ne deriverebbe, ma sono legati allo specifico contratto di lavoro o corso di studi accademici per cui vengono emessi. Anche gli eventuali consorti che accompagnano i titolari di questi visti possono ottenere dei visti paralleli, ma in generale questi visti di entrata escludono la possibilità di esercitare qualsiasi lavoro remunerato negli Stati Uniti. Si creano molte restrizioni che impediscono la conversione di visti temporanei in permessi di soggiorno di lungo periodo. Si obbligano coloro che hanno completato studi post-universitari o corsi di specializzazione, anche ad alto livello, a tornare nel paese d’origine.  Dietro queste restrizioni c’è la costante preoccupazione che i lavoratori stranieri (ed i familiari che li accompagnano) usino questi visti come espedienti per divenire immigranti regolari permanenti, possibilità che queste restrizioni intendono scongiurare.

[xliii] La politica migratoria italiana si è preoccupata maggiormente di garantire la difesa della sicurezza nazionale più che sviluppare strumenti per una valorizzazione di apporti qualificati degli immigranti. Questo spiega anche la tedenza di molti immigranti in Italia a voler riemigrare verso altre economie avanzate, ove le prospettive aperte per una valorizzazione delle loro potenzialità sono più brillanti. In ogni caso, in Italia prevalgono gli immigranti a qualificazione medio-bassa, utili per mantenere bassi i costi di produzione in taluni comparti o per facilitare l’accesso a servizi sociali quali l’assistenza agli anziani e agli invalidi. Combinato con le insufficienze delle politiche migratorie in materia di accoglienza e di integrazione, con ridotta enfasi alla formazione professionale e alla valorizzazione delle potenzialità produttive degli immigranti, questo approccio non ha che perpetuato una visione miope nei confronti dell’immigrazione, vista piucché altro in termini negativi, come un peso per la società italiana.

[xliv] Questa è la storia degli immigranti italiani negli Stati Uniti della fine del XIX secolo e dell’inizio del ‘900, molti dei quali erano arrivati sul territorio americano con un basso livello culturale (molti erano analfabeti e parlavano soltanto dialetto). I loro discendenti sono saliti alle sfere più alte della società statunitense, con qualificazioni professionali elevate.  È la storia di tutte le generazioni di immigranti poveri che si sono succeduti nella repubblica americana, e che hanno offerto nel lungo periodo un apporto intellettuale, tecnico e professionale di elevatissimo livello, siano essi discendenti di immigranti messicani o cinesi o irlandesi di poverissima estrazione economica.

[xlv] Vedi B. Hanlon & T.J. Vicino (2014), “Global Migration – the basics”, cit. pag. 91.

[xlvi] T.J. Hatton e J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit., pag. 331.

[xlvii] T.J. Hatton e J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit., pag. 328.

[xlviii] Vedi K. Koser (2007), “International Migration – A Very Short Introduction”, cit. pag. 52.

[xlix] Il Malawi riesce a coprire soltanto il 28% delle posizioni vacanti per personale medico nel paese, pur avendo così tanti dottori in giro per il mondo.

[l] Vedi B. Hanlon & T.J. Vicino (2014), “Global Migration – the basics”, cit. pag. 94-95.

[li] Ibidem, pag. 95.

[lii] Vedi T.J. Hatton e J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit. pag. 332.

[liii]  Un esempio è quanto avvenuto con l’esodo massiccio di laureati da Taiwan che si acuì a partire dagli anni 1970 e 1980, seguito dal loro ritorno alla fine degli anni ’80 e negli anni ‘90, attratti dallo sviluppo di attività industriali in settori ad alta tecnologia, che offrivano opportunità interessanti a coloro che erano emigrati in precedenza nella Silicon Valley californiana. Il governo di Taiwan incoraggiò questo rimpatrio con incentivi e promuovendo investimenti appositi.  Analogo fenomeno di ritorno è stato riscontrato nella Cina continentale ed in India. Vedi B. Hanlon & T.J. Vicino (2014), “Global Migration – the basics”, cit., pag. 95-96.

[liv] Anche se viste solo come “costo inevitabile” dell’immigrazione, per poter far fronte alle spese indispensabili per l’assistenza di emergenza per le esigenze umanitarie, il livello di quelle spese non è fisso, né determinabile in modo univoco oggettivamente quantificabile, in quanto può variare a seconda dei giudizi espressi dalle autorità incaricate della politica d’immigrazione su ciò che va incluso o escluso come elementi di spesa necessaria per provvedere alle necessità minime di sussistenza dell’immigrante.  Le autorità possono arrivare a stime molto diverse. Questa quantificazione si complica ulteriormente per il fatto che non è soltanto l’erario centrale dello stato (o dell’erario federale in uno stato federale come gli Stati Uniti o la Germania), che si prende cura degli impegni assistenziali, ma anche enti locali (singoli stati in uno stato federale, regioni, comuni, province) effettuano esborsi per queste forme di assistanza, a seconda della struttura istituzionale del paese, spesso a complemento o interazione con l’azione di organizzazioni non governative e della società civile.

[lv] Il risentimento è ancora più acuto quando inseriamo una dimensione politica, anche alla luce delle controversie sulla solidarietà sociale e sullo stato di benessere, e sulla identificazione di coloro che avrebbero diritto a questa forma di assistenza, contrapponendo i residenti con gli immigranti. Le posizioni sovraniste hanno sollevato argomentazioni che sostengono che i residenti non sono disposti a sobbarcarsi il carico di questo cash flow, specialmente se chi se ne avvantaggia sono immigranti appartenenti a gruppi etnici diversi, mentre sarebbero disposti ad accettare questo tipo di trasferimenti sociali se rivolti a stranieri più “omogenei” con i membri della società nazionale. Queste argomentazioni, fondamentalmente razziste e discriminatorie, verranno ulteriormente esplorate nella Parte IX per la loro incidenza sulle decisioni politiche. Tuttavia, si tratta di posizioni che travisano completamente il funzionamento del sistema di assistenza sociale, sostituendo approcci solidaristici con una contrapposizione etno-nazionalistica, che ben poco ha a che vedere con il costo fiscale dell’immigrazione.

C’è anche da sottolineare che queste polemiche spesso allineano le posizioni di chi si lamenta dell’eccessivo costo fiscale dell’immigrazione con quelle di coloro denigrano il valore delle politiche di benessere sociale in generale, opponendosi a politiche che facciano appello alla solidarietà sociale e richiedano interventi per una maggiore redistribuzione del reddito verso le classi meno abbienti.

[lvi] Vedi ad esempio T.J. Hatton e J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit. pag. 308.

[lvii] In Canada, i trasferimenti per la sicurezza sociale a beneficio degli immigranti sono decisamente inferiori a quelli percepiti dai residenti che si trovino nella stessa condizione economica. Gli immigranti (esclusi i rifugiati) non ricevono sussidi per la disoccupazione, pensioni sociali, sussidi per l’acquisto o l’affico di una casa, anche se il loro tasso di disoccupazione è più elevato di quello dei residenti. In paesi come Regno Unito, Germania, Spagna, Portogallo e Grecia, gli immigranti fanno meno ricorso ai servizi sociali che non i cittadini residenti, diversamente da quelli che sono emigrati nei paesi scandinavi e in Olanda.

[lviii] Negli Stati Uniti, l’assistenza medica sotto la forma di Medicaid è riservata alle fasce più povere della popolazione, ma gli immigranti irregolari ne sono esclusi. Medicaid è accessibile solamente a donne immigrate irregolarmente se sono in stato di gravidanza, se hanno nel frattempo richiesto asilo, anche se ancora non lo abbiano ottenuto, ma la copertura è limitata al periodo della gravidanza. In tal caso, l’assistenza non è tanto alla madre che attende un bambino, quanto una protezione sanitaria al futuro cittadino americano. Infatti, la copertura di Medicaid alla madre verrà interrotta due mesi dopo il parto, ma verrà estesa al neonato fino al compimento del primo anno di età, rinnovabile senza limite a priori se il neonato non disporrà di altra copertura assicurativa, e questo diritto gli è concesso solo in quanto il bambino è un cittadino statunitense. L’esclusione degli immigranti da alcuni servizi pubblici negli Stati Uniti ha due importanti eccezioni: la prima riguarda l’accesso alla scuola pubblica gratuita, e la seconda riguarda l’assistenza sanitaria di pronto soccorso. Con sentenza della Corte Suprema statunitense del 1982, autorità statali o municipali non possono rifiutare l’iscrizione alla scuola primaria e secondaria ai minori in età scolastica, anche se immigranti irregolari, cancellando disposizioni adottate in precedenza che ponevano limiti legati allo stato migratorio del minore, in quanto questo contrasterebbe con il quattordicesimo emendamento della Consistuzione americana. Lo stesso principio si applica al diritto di chiunque a ricevere assistenza medica di emergenza negli ospedali e nelle strutture di pronto soccorso, anche se nella realtà gli immigranti irregolari tendono a far minor uso dei servizi di assistenza medica rispetto ai residenti. Vedi D.M. West, “Brain Gain – Rethinking US Immigration Policy”, cit., Chapter One “The Costs and Benefits of Immigration”.

[lix] Solamente il 4.6 percento della popolazione americana ricorre a Medicaid, rispetto al 6.6 percento degli immigranti regolari (quelli irregolari sono esclusi). Ma questa differenza diviene di segno opposto se mettiamo a confronto residenti e immigranti con lo stesso reddito familiare.

[lx] Una complicazione dell’analisi dei costi fiscali dell’immigrazione è la definizione dell’universo dei beneficiari dell’assistenza pubblica. Negli Stati Uniti, i figli di immigranti nati nel paese d’immigrazione sono cittadini americani a tutti gli effetti e non è facile distinguere le spese per l’assistenza scolastica gratuita in relazione alla nazionalità dei genitori. In altri paesi ove lo ‘ius soli’ non si applica, questa distinzione può apparire più chiara.  Altra differenza è la distinzione tra immigranti regolari o con qualche permesso di soggiorno e immigranti irregolari. Sempre negli Stati Uniti, gli immigranti irregolari sono esclusi dall’accesso a qualsiasi forma di assistenza sociale riservata ai residenti regolari, anche se non è escluso che possano aver accesso alla scuola d’obbligo che è gratuita per chiunque, e richiede solo una prova “fisica” di residenza (e non di “residenza legittima”).  Per l’Italia, il rilascio di una tessera sanitaria è condizionato ad uno stato regolarizzato di residenza in un comune.  Le polemiche sull’entità degli stanziamenti pubblici a favore dei centri di accoglienza sono state al centro del dibattito sul costo per l’assistenza sociale offerta agli immigranti irregolari durante il primo governo Conte, che portò all’adozione dei due decreti di sicurezza e altre decisioni ispirate dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, che mirarono a limitare o eliminare alcuni voci importanti di assistenza agli immigranti, tagliando ad esempio i contributi per la formazione linguistica e riducendo sostanzialmente i contributi agli enti che forniscono assistenza agli immigranti, con la scusa di non voler sostenere lo sfruttamento affaristico dell’aiuto agli immigranti che alcune ONG causerebbero approfittando del “business” dell’immigrazione.

[lxi] Ad esempio in Germania, Regno Unito, Portogallo, Spagna e Grecia.

[lxii] Ibidem, pag. 309.

[lxiii] Saranno famiglie di immigranti, più numerose e con figli in più giovane età, che avranno maggiormente bisogno di assistenza sanitaria per l’infanzia, asili nido e assistenza scolastica per l’istruzione primaria, rispetto a popolazioni residenti che hanno subìto l’influenza di processi di invecchiamento.

[lxiv] Negli Stati Uniti si stima che una quota significativa di immigranti irregolari paga anche le imposte dirette sul reddito, sia federali che statali, e versano contributi alla Social Security e gli accontamenti per Medicare (assicurazione medica disponibile a tutti i cittadini che hanno raggiunto i 65 anni di età), anche se non godranno dei benefici della pensione sociale d’anzianità e dell’assistenza sanitaria riservata alle persone anziane, non essendo in regola con il loro stato di residenza.  Vedi D.M. West, “Brain Gain – Rethinking US Immigration Policy”, cit., Chapter One “The Costs and Benefits of Immigration”.

[lxv] Vedi P. Stalker (2008), “The no-nonsese guide to International Migration”, cit. pag. 85-87.

[lxvi] Le analisi per paese offrono una grande varietà di risultati. Mediamente, il contributo annuale degli immigranti alle entrate fiscali negli Stati Uniti ed in Europa è stimato pari a circa l’1% del PIL annuale, ma questa stima potrebbe sottovalutare l’effetto economico dell’immigrazione. In Francia, è stato stimato che una riduzione del 50% dell’immigrazione porterebbe ad un aumento dell’aggravio fiscale sul PIL del 2,2%. Vedi I. Goldin, A. Pitt, B. Nabarro, K. Boyle, (2018) “MIGRATION AND THE ECONOMY –Economic Realties, Social Impacts & Political Choices”, cit., pag. 96.

[lxvii] È interessante notare che nei vari paesi dell’OCSE, le famiglie “miste”, cioè con la presenza di genitori immigranti e di figli considerati nativi, mostrano un contributo fiscale ancora maggiore, come effetto collatorale dell’integrazione nel tessuto sociale nazionale che stimola l’apporto erariale del nucleo familiare, nonostante l’accesso ampliato ai servizi sociali che l’integrazione comporta.

[lxviii] Nei paesi scandinavi, ad esempio, la presenza di immigranti di età più avanzata rispetto ad altri paesi d’immigrazione, la presenza di molti immigranti inattivi nel mercato del lavoro, e un’assistenza sociale molto intensa legata al sistema di stato di benessere (welfare state) prevalente in quei paesi, fanno sì che l’aggravio fiscale dell’immigrazione è maggiore, mentre risultati opposti sono riscontrati in paesi come la Spagna e l’Italia, ove gli immigranti sembrano contribuire al fisco in misura netta maggiore ai cittadini. Vedi I. Goldin, A. Pitt, B. Nabarro, K. Boyle, (2018) “MIGRATION AND THE ECONOMY –Economic Realties, Social Impacts & Political Choices”, cit., pag. 96.

[lxix] Un immigrante che arrivi nel paese di destinazione ad una età inferiore a 40 anni avrà una probabilità elevata di apportare un contributo positivo all’erario nel corso della sua vita, al netto dei servizi pubblici e della sicurezza sociale di cui potrà beneficiare fino alla sua morte. Ciò dipende, in grande misura, dal successo dell’avvenuta integrazione nel paese di destinazione e dal livello d’istruzione dell’immigrante, con notevole varianti a seconda del paese preso in considerazione. A questo si aggiunga la frequenza notevole con cui molti immigranti ritornano nel paese d’origine in età avanzata, che riduce il peso fiscale delle spese sociali che pesano maggiormente nella fase di età più avanzata.

Alcuni studi condotti negli Stati Uniti sono arrivati alla conclusione che immigranti che abbiano completato per lo meno la scuola secondaria generano un contributo netto al Tesoro statunitense più elevato dell’immigrante che ha un livello d’istruzione di tipo universitario. Uno studio condotto in Germania ha stimato che un immigrante che arrivi in quel paese all’età di 30 anni potrebbe contribuire al fisco tedesco, al netto dei servizi pubblici da lui assorbiti, per lo meno $150.000 durante il corso della sua vita. Un esame comparato condotto per l’Australia sul valore attuale dei contributi fiscali netti di lavoratori nazionali (di 33 anni di età), visti nell’intero percorso della loro vita, ha stimato un contributo pari a €66.000 per ogni lavoratore, mentre la stessa stima fatta sugli immigranti ha portato ad un contributo fiscale leggermente inferiore, pari a €54.000 per immigrante.

 Vedi I. Goldin, A. Pitt, B. Nabarro, K. Boyle, (2018) “MIGRATION AND THE ECONOMY –Economic Realties, Social Impacts & Political Choices”, cit., pag. 107.

[lxx] Vedi T. Jawetz, “Building a More Dynamic Economy: The Benefits of Immigration”, testimonianza del 26 giugno 2019 alla Commissione di Bilancio della Camera dei Rappresentati degli Stati Uniti sul tema dei benefici dell’immigrazione, cit.

[lxxi] Vedi Niole Prchal Svajlenka, “The American Dream and Promise Act of 2019”, May 28, 2019, Center for American Progress in https://cdn.americanprogress.org/content/uploads/2019/05/24053738/United-States.pdf

[lxxii] Vedi KONMAD - Global Knowledge Partnership on Migration and Development, “Migration and Remittances: Recent Development and Outlook”, World Bank Group, April 2019. 

[lxxiii] Stima della Banca Mondiale basata su dati della bilancia dei pagamenti originati dal FMI.

[lxxiv] A queste rimesse si aggiungono le rimesse provenienti dai paesi in via di sviluppo verso i paesi ad economia avanzata, evidentemente trasmesse da immigranti provenienti da questi ultimi paesi, che sono numericamente in minoranza rispetto a quelli provenienti dai paesi in via di sviluppo.

[lxxv] Vedi M. Zupi (2018), “Le cause delle migrazioni internazionali”, cit., pag. 23.

[lxxvi] Il fatto che le rimesse siano un esborso di valuta del paese d’immigrazione, e quindi una voce negativa della bilancia dei pagamenti, è in parte compensato dal possibile effetto positivo dell’emigrazione sull’esportazione di merci e servizi prodotti nei paesi ospiti verso i paesi d’origine degli immigranti, in quanto questi ultimi tendono a stimolare gli acquisti nei loro paesi d’origine di produzioni dei paesi ove essi si sono recati (questo è sicuramente vero per coloro che emigrano in Europa e negli Stati Uniti). L’effetto dell’immigrazione sulla bilancia commerciale, infatti, anche se modesto, sembra favorire i paesi d’immigrazione (evidenze empiriche sono state riscontrate nella Gran Bretagna e in Spagna). Vedi R. Münz, T. Straubhaar, F. Vadean, N. Vadean (2006), “The Costs and Benefits of European Immigration”, cit., pag. 42-43. D’altronde, anche l’aiuto allo sviluppo può avere questo effetto “commerciale”, specialmente quando si manifesta come “aiuto legato”, cioè quando l’utilizzo dei fondi stanziati per i programmi di cooperazione sia legato all’acquisto di materiali o servizi forniti dai paesi che hanno offerto fondi per la cooperazione.

[lxxvii] Il tema del rimpatrio dei profitti di imprese multinazionali è stato sempre oggetto di grandi controversie internazionali con i paesi che ricevono investimenti da queste imprese, e spesso è affrontato nel contesto di accese negoziazioni, in cui le imprese tendono a garantirsi la massima flessibilità per il trasferimento dei propri profitti in altra sede, mentre i governi dei paesi che ricevono gli investimenti normalmente insistono sulla necessità che le imprese multinazionali reinvestano una parte consistente dei profitti scaturiti da questi investiment nel paese che  ha prodotto quei profitti.

[lxxviii] Per meglio chiarire, l’aiuto pubblico allo sviluppo si traduce, in termini operativi, nella forninura di beni o servizi e nella promozione di attività a beneficio di comunità o individui nel paese in via di sviluppo, il cui costo diretto è spesso l’unico metro finanziario per misurare il beneficio a favore dei destinatari designati (i targets). Ma le risorse disponibili per finanziare questi acquisti e queste attività sono la differenza tra il volume lordo dell’aiuto e i costi di gestione delle agenzie di cooperazione allo sviluppo (i c.d. costi di transazione). Quanto maggiori i costi di transazione (ovvero costi di gestione), quanto minore saranno le risorse con cui finanziare attività di cooperazione.  Le agenzie di cooperazione addebitano percentuali variabili dal 7% al 13% per coprire i costi generali della loro gestione (che coprono i costi di funzionamento delle strutture centrali e periferiche di quelle istituizioni).

Ma il resto dei fondi disponibili dopo aver dedotto questa percentuale non necessariamente si trasforma tutto in sostegno ai destinatari finali, in quanto spesso elevati sono i costi diretti per la gestione dei programmi di cooperazione: stipendi per personale di progetto, spese di viaggio, spese per il monitoraggio e la valutazione delle attività promosse dai progetti, spese per mezzi di trasporto e computer a disposizione del personale di progetto, e via di seguito.  Anche se queste spese rientrassero nel calcolo del valore degli acquisti e delle attività a beneficio dei destinatari finali, è chiaro che la valutazione dei benefici che vanno direttamente nelle mani dei destinatari finali degli interventi di sviluppo potrebbe essere ancora travisata ed alterata dall’entità di questi elementi di costo, che ben poco hanno a vedere con il beneficio finale per i destinatari, divenendo questa valutazione completamente arbitraria. Questi elementi di costo, infatti, potrebbero essere (e spesso sono) fortemente gonfiati, a vantaggio di chi gestisce gli interventi di sviluppo e a scapito dei benefici per i destinatari finali.  Una frase cinica spesso udita nei paesi di sviluppo che ricevono ingenti quantità di aiuto allo sviluppo è la seguente: “le agenzie di cooperazione sono le migliori agenzie di viaggio e i più attivi fornitori di veicoli e di computer per i paesi in via di sviluppo”: misurare i benefici che i paesi in via di sviluppo ricevono dall’ODA in termini di viaggi promossi, o di automobili o computer acquistati non sembra il miglior modo per misurare l’impatto dell’aiuto sullo sviluppo su quei paesi.

[lxxix]  Ad esempio, la costruzione di migliori scuole, o la creazione di un migliore sistema di irrigazione, l’avvio di processi di riforma del funzionamento dello stato o il varo di innovazioni per un miglioramento della sanità pubblica, non necessariamente si traducono in un aumento immediato di flussi finanziari nelle mani di singoli individui, o saranno d’interesse per tutti gli individui di un paese, ma non per questo sono meno prioritari e i benefici generati da questi programmi sono meno rilevanti.

[lxxx] Pensiamo ad esempio ai bisogni alimentari, a cure mediche urgenti, al pagamento di tasse d’iscrizione scolastica che impediscono l’accesso alla scuola a famiglie che non si possono permettere queste spese.

[lxxxi] Vi sono studi che hanno dimostrato, tuttavia, che le rimesse in alcuni paesi come Lesotho e Somaliland hanno permesso di migliorare l’accesso delle comunità a servizi sanitari ed educativi, o hanno prodotto un effetto positivo significativo sul miglioramento delle condizioni di crescita dell’infanzia nelle famiglie che le ricevono.

[lxxxii] Le rimesse degli emigranti italiani rappresentavano per lo meno fino agli anni 1950 un’importante voce positiva alla bilancia italiana dei pagamenti, che riusciva a controbilanciare una bilancia commerciale in quegli anni cronicamente in deficit. Quei flussi sono andati man mano decrescendo, anche perché ai vecchi emigranti che risiedevano nel Nord e nel Sud America o nell’Europa centrale o settentrionale sono seguite seconde e terze generazioni di persone di origine italiana, non più interessate o disposte a continuare a inviare rimesse verso l’Italia con la stessa intensità.  Naturalmente, nuove ondate di emigranti italiani sono seguite in questi ultimi decenni, ma il loro comportamento per quanto riguarda le rimesse verso l’Italia non necessariamente riproduce gli stessi paradigmi dei loro connazionali di 70-100 anni fa, anche perché si tratta di un diverso tipo di emigrazione, meno interessata a sostenere il livello di vita della famiglia che è rimasta indietro.

[lxxxiii] Normalmente una sola conversione in altra valuta è necessaria, ma a volte i trasferimenti sono più complessi, e richiedono conversioni in valute diverse per ogni passaggio.

[lxxxiv] Nel 2004, per la trasmissione di rimesse dagli Stati Uniti, le agenzie di trasferimenti internazionali di fondi applicavano i seguenti tassi: 8,1% per l’India, 8,2% per le Filippine, 8,4% per la Bolivia e la Repubblica Dominicana, 9,2% per il Messico, 10,5% per il Venezuela, il 13,8% l’Egitto. Normalmente le commissioni sono più alte per i trasferimenti in Africa.

[lxxxv] Nel caso in cui le rimesse non possano essere realizzate direttamente dal paese d’immigrazione al paese d’origine, è necessario ricorrere ad un paese intermediario, con l’aggiunta di commissioni e di altri costi, dovuti alle conversioni in diverse valute.

[lxxxvi] Vedi OECD, (2006) “International Migration Outlook” , Part III, “INTERNATIONAL MIGRANT REMITTANCES AND THEIR ROLE IN DEVELOPMENT”, SOPEMI 2006 EDITION – ISBN 92-64-03627-X – © OECD 2006, pag. 149.

[lxxxvii] Vedi P. Martin (2003), Bordering on Control: Combatting Irregular Immigration in North America and Europe, Ginevra, Svizzera, IOM, citato nella Parte II di questo saggio.

[lxxxviii] Quando si menzionano le riduzioni degli sbarchi sulle nostre spiagge o degli attraversamento irregolari alla frontiera meridionale degli Stati Uniti, non teniamo conto che il numero di migranti “parcheggiati” nei paesi terzi (in Libia, Marocco, Turchia o Messico) esplode, sotto la pressione delle misure di respingimento.

[lxxxix] Alcuni dati fiscali relativi agli Stati Uniti offrono un panorama sconvolgente dell’elevato livello di questi costi diretti di esclusione. Tra il 1992 ed il 2009, il costo della polizia di frontiera (US Border Patrol) è cresciuto da $326,2 milioni a $2,7 miliardi l’anno. Il costo per arrestare un immigrante clandestino è cresciuto in misura incredibile addirittura del 1.041 per cento in quel periodo.  Nel corso degli ultimi tre decenni, il numero di agenti di frontiera è esploso, ed il bilancio del Department of Homeland Security (DHS) dal 2003 ha visto crescere a dismisura la quota devoluta alla Protezione delle Dogane e dei Confini (Customs and Border Protection, CBP) e dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), agenzia che si occupa delle misure repressive contro l’immigrazione irregolare (non ai confini, ma all’interno del territorio americano). Queste misure repressive sono state intensificate dall’attuale ammistrazione del presidente Trump, che ha soltanto esasperato questa situazione, moltiplicando la spesa pubblica in quella direzione, mobilitando addirittura le forze armate (la National Guard) per compiti di frontiera, intensificando in modo allarmante le spese per la costruzione del famoso “muro” di confine con il Messico. Per la costruzione del famoso “muro” si è aperta una disputa senza fine con la Camera dei Rappresentanti, cui il presidente Trump ha cercato di ovviare distogliendo risorse dal bilancio federale previste per la difesa. Voci di bilancio previste nel DHS per le emergenze legate ai disastri naturali (ben frequenti negli Stati Uniti vista la ricorrenza di uragani e trombe d’aria, nonché di incendi specialmente nell’ovest del paese) e per la sicurezza nazionale (come le misure per la lotta contro il terrorismo internazionale e ai traffici criminali), sono state deviate per espandere le misure di arresto di immigranti irregolari nel paese. Risorse sostanziose sono state devolute al rafforzamento dei centri di detenzione e all’aumento del numero di giudici per i tribunali speciali per l’immigrazione, vista la crescita a dismisura dei processi non risolti per richieste di asilo nel territorio statunitense negli ultimi due anni. Nel frattempo la popolazione immigrante trattenuta nei centri di detensione in attesta il giudizio è esplosa, raggiungendo livelli insostenibili di affollamento, contraddicendo il declamato successo delle politiche di contenimento dell’immigrazione (che hanno subìto un effetto shock notevole nel corso del 2018 e 2019 con l’attuazione di arresti indistriminati, rifiuto di considerare molte domande di asilo e separazione frequente degli immigranti adulti detenuti dai minorenni che li accompagnavano).

[xc] Vedi R. Hijonosa-Ojeda, “The Costs and Benefits of Immigration Enforcement”, cit., pag. 18.

[xci] I costi indiretti di esclusione includono anche l’inserimento di elementi di rigidità per l’entrata e l’uscita dei flussi migratori dal paese. Gli immigranti irregolari non avrebbero alcun incentivo a tornare nel proprio paese, perché avrebbero scarse probabilità di poter rientrare nuovamente nel paese d’immigrazione, riducendo la possibilità di realizzare processi di immigrazione circolare, con ritorni frequenti nel paese d’origine. Questa situazione è completamente opposta a quella che si verrebbe a creare se fossimo in una situazione di libera circolazione della manodopera. L’esperienza dei paesi dell’Europa meridionale dimostra, infatti, che il rientro volontario degli immigranti italiani, spagnoli e greci dal nord e centro Europa di alcuni anni fa fu favorito dal fatto che il loro rientro volontario non venne percepito come una decisione assolutamente irreversibille. L’espatrio prospettato agli immigranti dai paesi del sud del mondo è presentato, invece, come una decisione irreversibile e definitiva, anche se si hanno esempi di rimpatri volontari, per esempio verso il Marocco sia dalla Spagna che dall’Italia. 

[xcii] Vedi ad esempio R. Hijonosa-Ojeda, “The Costs and Benefits of Immigration Enforcement”, cit.

[xciii] Esiste anche un processo di “rimpatrio volontario” promosso da molti governi di paesi d’immigrazione che cerca di sfruttare situazioni di “esasperazione” e di “disperazione” di alcuni immigranti irregolari, che manifestano di aver raggiunto un livello di saturazione per le sofferenze subite nei campi di detenzione nei paesi terzi, e che possono accettare la proposta di simili rientri, magari agevolata dalla mediazione di alcune organizzazioni volontarie o agenzie internazionali come l’UNHCR, che svolgono un ruolo di facilitatori.

[xciv] Vedi De Haas e M.J.Miller, “The Age of Migration – International Population Movements in the Modern World”, cit., pag. 319.

[xcv] Vedi De Haas e M.J.Miller, “The Age of Migration – International Population Movements in the Modern World”, cit., pag. 317.

[xcvi] Non occorre essere dei sostenitori di impostazioni liberistiche per riconoscere il beneficio che la liberalizzazione dei commerci ha prodotto sull’economia mondiale, rispetto ad impostazioni fortemente protezionistiche, che hanno tradizionalmente depresso non solo gli scambi ma anche i livelli produttivi delle economie “protette”.  Anche i più tenaci sostenitori di misure correttive dei processi di liberalizzazione degli scambi non possono evitare di riconoscere i benefici sociali che il libero commercio può produrre, specialmente nelle economie più avanzate, intensificando attività produttive e migliorando il livello del reddito di tutti coloro che ne sono coinvolti (dei distinguo sarebbero necessari per i paesi in via di sviluppo, vista la fragilità delle loro economie). Esistono, tuttavia, dei costi sociali dovuti a settori penalizzati dalla libera circolazione, con settori che scompaiono, e aumento di disoccupazione in settori obsoleti, che giustificano misure correttive e di compensazione, per allievare i disagi di coloro che non beneficiano dei vantaggi prodotti dal libero commercio.

[xcvii] Vedi De Haas e M.J.Miller, “The Age of Migration – International Population Movements in the Modern World”, cit., pag. 320.

[xcviii] Negli Stati Unitii gli immigranti regolari rappresentano circa i due terzi del volume totale di immigranti, mentre il volume totale di immigranti in posizione irregolare si è più o meno stabilizzato attorno al livello di 11 milioni di persone.  D. Griswold (2018), “The Benefits of Immigration: Addressing Key Myths”, Policy Brief, Mecatosur Center, George Mason University, May 2018.

[xcix] In alcuni paesi (per esempio nel Regno Unito) limitazioni all’accesso di immigrazione a coloro che si propongono come piccoli imprenditori commerciali sono state inserite recentemente, nonostante la grande diffusioni di punti di vendita nelle mani di immigranti che animano il commercio al dettaglio. Infatti, sono proprio loro che sono riusciti salvare intieri settori del commercio al minute in molti paesi, nonostante fosse venuta meno l’offerta dell’imprenditoria nazionale in quelle attività a seguito di passaggi generazionali.

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