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Educazione alla Partecipazione

di Andreina Russo

{jcomments on}Partecipare”: la parola magica attorno alla quale ruota interamente questo sito, curato da persone ideologicamente diverse tra loro, ma  che hanno in comune il fatto di essere “visionarie”, non nel  comune senso negativo, ma nel senso di essere “capaci di visioni”, di riuscire ad intravedere, pur tra le foschie della distanza, la realizzazione di prospettive future che al momento paiono ai più utopiche. La natura umana infatti sembra attraverso i millenni rimanere sempre la stessa, con la sua avidità, l’ansia del successo attraverso la sopraffazione sugli altri, l’individualismo più bieco. Eppure, nonostante questa base genetica, gli uomini hanno camminato nel tempo e sono cresciuti, hanno accumulato esperienze e dolori, hanno  provato, sulla propria pelle, le conseguenze negative della ferocia  e della lotta reciproca, e pian piano, a passetti traballanti di bambino, sono cambiati, hanno mitigato i loro istinti, hanno imparato la difficile arte del vivere insieme sulla base di compromessi condivisi, hanno rinunciato alla realizzazione totale ed esclusiva del proprio io per raggiungere, faticosamente, tra mille contraddizioni, seguendo una strada che li ha visti spesso retrocedere fino alla barbarie dell’inizio e poi riprendere lentamente il percorso iniziato, la fase in cui oggi si trovano.

 

Allora parlar di utopia è stupido, perché in questo cammino pur denso di errori e regressioni si sono realizzate modifiche tali  nella società e nei rapporti  tra i suoi membri che gli uomini non dico di mille  anni fa, ma anche quelli di cento fa avrebbero considerato sogni irrealizzabili. Quando sento la gente parlar male dei sindacati (i figli moderni della antiche società di mutuo soccorso), ripenso alle storie di una zia che mi raccontava le sue estati in Sicilia, trascorse nella casa accogliente di amici, proprietari terrieri. Lei ragazza cittadina rimaneva sempre colpita, all’ora di pranzo, quando i lavoranti delle terre si disponevano nel cortile in una lunga fila davanti alla porta della cucina, sulla cui soglia stava la padrona di casa, munita di un’oliera di quelle metalliche col beccuccio sottile. Ogni contadino aveva con sé una fetta di pane su cui aveva soffregato un pomodoro o una cipolla,e quando arrivava il suo turno la padrona  vi versava sopra un filo d’olio con un movimento rapido ed elegante del polso. Quello era il pranzo. Quella era, forse, una padrona generosa per l’epoca, gli anni ’30 del ‘900.

Quindi chi entra in questo sito deve dimenticare la parola utopia, e parlare solo di prospettive future, di passi da fare insieme verso una meta che si raggiungerà. Certo, non sappiamo quando, non sappiamo se questo avverrà nel tempo angusto della nostra vita individuale o più in là, quando a goderne saranno altri. Ma noi non siamo singoli atomi vaganti nello spazio, siamo particelle della meravigliosa galassia che abbiamo chiamato “umanità” e ognuno di noi, nella sua misura infinitesimale, ha la possibilità di farla crescere e migliorare, al di là della brevità della propria  vita. D’altra parte viviamo in una parte di mondo dove oggi un’esistenza accettabile è assicurata alla grande maggioranza di noi, grazie a tutti coloro che hanno partecipato all’immane sforzo collettivo del passato, ed ora non sono qui a goderne i frutti.

Ma perché lo sforzo porti a dei risultati occorre che sempre più numerosi siano i soggetti che vi partecipano, ed in alcune epoche, in momenti particolarmente critici, questo è già avvenuto. Oggi abbiamo Internet che fa girare voci e programmi e proclami in tempo reale, ma anche prima, quando questo mezzo che ha rivoluzionato il mondo non esisteva, in certe situazioni sembrava che maturasse il momento in cui tutte le forze si coagulavano, i divisi si riunivano, gli indecisi entravano in azione, gli indifferenti capivano l’importanza del loro intervento, per raggiungere, a volte miracolosamente, un fine condiviso. In piccolo, è quello che è successo recentemente con i referendum. Le motivazioni della straordinaria partecipazione sono state molte e variegate, ma l’effetto è stato così dirompente da stupire gli stessi organizzatori.

Ma sono momenti particolari. Da sempre, per ragioni e in proporzioni  che cambiano di volta in volta, di paese in paese, la maggior parte della gente non partecipa alla vita politica, non solo nel senso che non ne fa la propria occupazione principale, ma anche in quello, molto meno impegnativo eppure straordinariamente importante per la vita della comunità, di diventare consapevole di come il proprio paese viene amministrato, gestito, protetto, promosso anche nel quadro internazionale.

Accade anche nelle famiglie: in alcune, la gestione economica, ma non solo, viene condivisa almeno dai genitori, a volte anche dai figli quando diventano grandi, e tutti sono consapevoli delle entrate, delle uscite, del patrimonio esistente, delle scelte e delle priorità di spesa, che si fissano, sulla base delle diverse esigenze, per i singoli membri e per il gruppo. In altre, la gestione viene affidata esclusivamente ad un membro (tradizionalmente il capofamiglia, ma spesso anche la madre) cui si riconoscono esplicitamente o tacitamente doti di affidabilità, saggezza, equilibrio, oculatezza  superiori agli altri membri, i quali quindi delegano a lui o a lei la funzione di gestire la vita di tutti. In molti casi è in realtà il potere economico di un membro del gruppo, a volte per niente dotato delle virtù suesposte, a conferirgli in automatico il diritto a decidere per tutti. La famiglia comunque  è generalmente un gruppo umano basato (o almeno dovrebbe esserlo) su legami affettivi, che portano implicitamente con sé  la fiducia reciproca e la volontà collettiva di raggiungere la felicità (il benessere, la piena realizzazione) di ogni individuo e del gruppo. Altra cosa, ovviamente, è il gruppo sociale più ampio, nel quale si ritrovano a vivere insieme individui uniti  da una vicinanza territoriale, da una certa affinità culturale, da una vaga solidarietà che trova i suoi limiti nei forti interessi individuali. Quanto più questo gruppo sarà piccolo, tanto più la sua dinamica si avvicinerà al nucleo di base, cioè la famiglia, ma via via che il gruppo si ingrandisce le dinamiche si complicheranno fino a rendere più astratte e difficilmente condivisibili le mete comuni. In fondo siamo creature miopi: sappiamo vedere molto bene il fine vicino e raggiungibile, ma pochi di noi riescono a guardare l’orizzonte e avere ben presenti gli obiettivi più lontani e generali, che travalicano i piccoli interessi individuali. Non riusciamo a vederli perché tra noi e loro si frappongono mille ostacoli ed avversità, colline e montagne da superare che ce li nascondono alla vista e ci fanno dubitare che essi siano veramente laggiù, ad aspettare chi ha la capacità di “visione”. Avviene quindi, nella maggioranza di noi, che ne siamo consapevoli o meno, un fenomeno di straniamento, emergono  la sfiducia in noi stessi, la pigrizia mentale, che ci convincono di non poter in realtà far nulla per cambiare il mondo, di essere pedine manovrate dall’alto senza possibilità di reagire, di essere in mano a poteri forti, inesorabili, talmente sovrastanti al livello medio della gente comune da apparire invincibili. Il fenomeno si è acuito in maniera straordinaria da quando il benessere ha toccato la quasi totalità della popolazione, facendo nascere altri miti e altre mete, spingendo le persone a convincersi che per ogni individuo, attraverso il denaro, la felicità è raggiungibile facilmente e piacevolmente, qualunque sia il regime politico in cui viva, al di là della considerazione per i più deboli, al di là di ogni preoccupazione che riguardi la comunità nel suo complesso. Sembra riaffiorare, oggi, l’homo homini lupus[1] degli antichi, una  visione individualistica spesso allegramente, innocentemente feroce: l’importante è che stia bene io, che me ne importa degli altri? Dopo  due secoli come l’ ‘800 e il ‘900 che hanno visto, caduti gli anciens régimes, il dilagare della politica a tutti i livelli, oggi viviamo la stanchezza della politica, stentiamo a riconoscerci cittadini arbitri, a pieno diritto, delle scelte di una polis, ci scopriamo di nuovo sudditi di un monarca infinitamente più potente dei re di una volta, ci sentiamo impotenti. Ed ecco la fuga verso l’individualismo, la ricerca della nostra piccola felicità individuale, irresponsabile, dai ristretti orizzonti.

Eppure ognuno di noi sa benissimo quanto pesanti siano, sulla nostra vita quotidiana, sulla nostra salute, sul nostro lavoro, sui nostri affetti e di conseguenza sul nostro futuro,  le conseguenze di ciò che chi ci governa a livello locale, nazionale e internazionale ha deciso per noi. Chi decide come devono essere le nostre scuole, i nostri ospedali, le nostre strade, la nostra aria, il nostro mare, le nostre guerre, le nostre fonti di energia,  il nostro cibo, decide di ogni minuto della nostra esistenza.

Quanto più è alto in una società il livello della consapevolezza politica dei cittadini, tanto più essi saranno in grado di controllare e quindi determinare le scelte fondamentali dei propri governi. Una cittadinanza pigra, indifferente, individualista e cinica permetterà a  uomini di governo di uguale stampo di generare un paese inefficiente, inquinato, in cui la qualità della vita si abbasserà sempre di più.

Ma come accrescere in una popolazione il numero di coloro che partecipano, che si informano, che considerano il voto non l’unico atto della loro partecipazione politica, ma il punto di arrivo di un lungo cammino di apprendimento, di responsabilizzazione, di informazione? Come far sì che il sistema democratico funzioni veramente, evitando al massimo scelte inconsapevoli, ingenue, facilmente influenzabili?

Fin dall’antichità [la parola democrazia] era stata associata all’idea del governo della massa che ignora i suoi limiti, senza valore, egoista, estremista, incontenibile,arrogante, faziosa e instabile, perciò facile preda dei demagoghi. Era sì un modello, ma prevalentemente un modello negativo, una disgrazia da scongiurare. Platone, che vedeva nella democrazia la diffusione di quella libertà sfrenata  e arbitraria che nell’oligarchia è appannaggio di pochi, fece scuola per secoli. La democrazia è il regime in cui il popolo ama essere adulato, piuttosto che educato: “un tal governo – scrive Platone –non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo.”[2]

Gli “studi”: ciò che distingue l’uomo comune dal saggio, in una visione elitaristica che portò il grande filosofo a concepire l’idea dello stato perfetto in quanto governato dai saggi. Una follia? Un’utopia? Avevamo cancellato la parola dal nostro sito. Va bene, anche qui non ne abbiamo bisogno. Nel mondo di duemilacinquecento  anni dopo, possiamo pensare che questo non sia un sogno, ma una meta. Nei paesi più avanzati e civili, già la possiamo vedere in parte raggiunta. Il paese perfetto è quello in cui ogni cittadino è un saggio, cioè ha acquisito la consapevolezza dei propri diritti ma anche dei propri doveri, la conoscenza dei mezzi per raggiungere la felicità comune, la capacità di controllo su coloro che delega a governare, la forza intellettuale di resistere ai richiami allettanti di chi ha interesse ad addormentarlo, a tenerlo buono.

 

Cittadini quindi non si nasce, ma si diventa, e l’argomento di questa tavola rotonda verte proprio sui modi e gli strumenti per diventarlo e per insegnare ad altri a diventarlo. Un compito non facile, che mette spavento ad affrontarlo soprattutto per coloro, come i genitori, gli educatori, i docenti di ogni ordine e grado, che non devono solo realizzarlo per sé ma per trasmetterlo ai giovani.

Che cosa dunque occorre fare per diventare “saggi”?

 

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