ITALY n°2 -da Andreina Russo

Il lago giaceva liscio e piano e sarebbe parso immobile, se non fosse stato per il numero imprecisato di bagnanti e palmipedi che si contendevano,  in modo non sempre pacifico, i primi sei  metri d’acqua a partire dalla riva. Tutti, paperi e umani, tentavano di sfuggire al caldo agostano, benché, tecnicamente, fosse ancora luglio, anzi l’ultimo giorno di luglio. E il lago era quello Albano e non di Albano, come dicevan tutti: il lago di Alba, cioè di Alba Longa che, metro più metro meno, ora giace anch’essa, ma sotto l’abitato di Castel Gandolfo. Albano con il lago non c’entra niente, non vi si affaccia, sul crinale del cratere spuntano come funghi, accanto alla villa papale, solo le case del popolo castellano  e le ville dei cardinali e di altri personaggi illustri, ansiosi di villeggiare accanto ai papi-re fino al 1870 e poi dei papi semplici fino ad oggi. Fino ad oggi per modo di dire. Da quando c’è Francesco il palazzo è vuoto, i giardini deserti, i quasi 9000 cittadini di Castel Gandolfo affranti, per ragioni più economiche che sentimentali. L’indotto turistico della presenza estiva del pontefice nella ridente cittadina sul crinale del cratere tra lago e mare si è ridotto drasticamente a causa delle fissazioni pauperistiche di questo papa simpaticissimo e rigoroso, che ha già annunciato la prossima trasformazione della sede estiva vaticana in museo accessibile a tutti. E va bene il museo, anche se attirerà al massimo turisti stranieri in cerca di “chicche” inedite, ma qui gli italiani venivano per salutare il papa nell’atmosfera quasi familiare del piccolo cortile interno dello storico edificio, ed anche per vedere da vicino le guardie svizzere, ammirarne i colori delle uniformi e sì, poter raccontare, da testimoni oculari, che davvero hanno la faccia da svizzeri, anzi da svizzeri tedeschi.

 Basta, tutto questo per dire che oggi, ultima domenica di luglio, me ne sono andata a fare il bagno nelle chiare fresche dolci acque del lago Albano, uscendo di casa alle otto per precedere la marea umana fermamente intenzionata a fare lo stesso. Il lago, in verità, dista in linea d’aria …chilometri dal mare, amore unico e indiscusso del popolo italico, e mi sono sempre chiesta che cosa spinga tanta gente a scegliere le infide acque dolci, tradizionalmente temute per veri o immaginari vortici che risucchiano verso il fondo, piante subacquee dotate di tentacoli, fondo viscido o petroso, acqua torbida e altre caratteristiche tramandate oscuramente di padre in figlio o meglio ancora da pallide madri a figli distratti e, come ognun sa, irresponsabili.  

Io, per me, parto da Rocca di Papa, che il lago Albano lo guarda dall’alto con un certo distacco, dal Belvedere della Madonna del Tufo e da tutte le case del paese che guardano a Ovest. Due buchi azzurro cupo  chiusi dai bordi boscosi dei crateri e più lontano la linea dritta della costa e la striscia splendente del mare. “Vedi gli occhiali del papa?” diceva l’altro giorno un vecchietto indicando i due laghi al nipotino. Una definizione che in mezzo secolo di frequentazione dei Castelli Romani non avevo mai sentito, chissà se  frutto della tradizione o della fantasia di un nonno creativo.  

Insomma approdo all’antica riva, resa più ampia e meno erbosa dalla siccità che quest’anno non accenna a mollare. E sulla riva affiorano più numerosi i resti di mura antiche, che testimoniano quanto i popoli latini amassero questo lago e i boschi che lo circondano, che videro i fatali amori di rea Silvia e  del focoso Marte. E fatali amori, ancorché – si spera  - non forieri della nascita di una città  imperiale, si intrecceranno sicuramente tra queste ordinate file di lettini arancioni, su cui si spalmano dolcemente corpi ambosessi, dai tosti e giovani ai morbidi o cascanti, ma tutti già doverosamente bronzati. Chiasso gioioso di voci umane, nessun rombo di motore né puzza di carburante; su queste acque sono vietate le barche a motore, e sulla superficie liscia e specchiante filano in perfetto silenzio tutti i generi di natanti affusolati e spinti a remi, canoe, kajak, sandolini, tavole ecc. Si rema in tutte le posizioni, in piedi, in ginocchio, seduti, semisdraiati, il viso beato, gli occhi tesi alla meta. E’ un modo civile, sportivo e poetico al tempo stesso di andare per onde, e, naturalmente, antichissimo; tra il tronco spinto da un ramo e le resine epossidiche di ultima generazione c’è un solo un attimo, del tempo dell’universo. 

C’è un abisso invece tra la calma trasparente che avvolge i rematori a venti metri dalla riva e l’affollarsi chiassoso sulla spiaggetta, sembra quasi che i rematori e i bagnanti appartengano a specie antropologiche differenti, inconciliabili. Invece siamo sempre noi, nella varietà infinita di atteggiamenti, sentimenti e pulsioni che ci è propria: “Homo sum, scrisse Terenzio Afro, humani nihil a me alienum puto”. Il saggio riconosce in se stesso questa poliedricità,  la possibilità di toccare gli estremi del bene e del male, dell’intelligenza e della stupidità, della bellezza e dell’orrido, e non  cade nella tentazione di individuare in alcuni il bene e in altri il male, come predica il rozzo manicheismo che oggi urla nei microfoni e tappezza di manifesti le nostre strade. 

Vado a prendere possesso del mio lettino, e mi trovo a un metro da un gruppo numeroso, forse familiare, uomini e donne di età diversa, dai trenta ai cinquant’anni. Saranno i compagni involontari della mia mezza giornata al lago, grandi conversatori afflitti da horror silentii, costantemente impegnati in una discussione che, senza fermarsi mai, toccherà tutti i temi dello scibile umano, papere comprese.  

Il primo tema esplode all’improvviso con gli strilli di uno di loro che esce dall’acqua. Mi volto, come tutti gli altri nel raggio di 50 metri, a vedere che succede: “Eh no, Eh! Eh no! Io so’ abituato al Messico! Mica è possibile così! Uno ci si ammazza!” E uno degli amici, accanto a lui: “ Vuoi ‘na mano? ‘Sti sassi so’ scivolosi sul serio! Uno rischia de fasse male peddavéro!” “Ma sai in Messico che sabbia fina, bianca bianca… e un’acqua limpida che te la potevi bere, si nun era salata! M’avevano detto vai al lago, è ‘na meraviglia! Sì! Co’ sta fanga grigia che te puoi rompe ‘na gamba! E l’acqua lattiginosa! Che schifo!” E l’altro: “E dicevano che ci potevamo prende un drink sulla spiaggia! Sì, a ‘sto baretto!” “Nun sai in Messico che meraviglia, certi bar sulla sabbia, anzi, nell’acqua, sotto tendoni bianchi…” Si abbattono affranti sui lettini e il confronto Lago Albano-Messico va avanti per mezz’ora. Non so se ridere o piangere, cerco di concentrarmi sulla lettura del giornale che ho davanti ma le loro voci mi distraggono, mi fanno venir voglia di interloquire, almeno una cosa garbata del tipo “Ma che state a dì?” Mi trattengo a forza, preferisco masochisticamente continuare a leggere dei problemi dell’ATAC di Roma, degli autobus che cascano a pezzi, della Raggi che “ci sta lavorando”… Ci sono quasi riuscita quando un nuovo elevarsi del tono delle voci, questa volta femminili, mi avverte che, come ogni mattina verso le 11, un flottiglia di papere variegate sta sbarcando con determinazione a terra e si intrufola tra i lettini in prima fila. “Guarda mamma, le papere!” “Che carine, ma attenta che non ti becchino!” “Perché quella è bianca e quella è grigia e verde?” “Ma che vogliono qui? Mai viste papere così sfacciate”. Io conosco di questa riva l’aspetto nei giorni feriali, nel fuori stagione.  Io so che questa riva appartiene a loro, ai palmipedi; è qui che, quando gli umani non arrivano in massa, alle 11 di mattina vengono a fare colazione becchettando tranquillamente tra l’erba e l’acqua bassa. Ma forse è questo che stanno affermando a gran voce con i loro “qua qua qua”, cercando di superare i decibel delle voci umane. Mentre tutti si divertono a guardare e fotografare, ecco un nuovo suono aggiungersi armonicamente agli altri: un cane corre eccitato sulla riva inseguendo il passeggio sparpagliato delle anatre e abbaiando furiosamente. “Ci mancava anche lui..” mi dico, tornando al mio giornale. Ma nuove esclamazioni, di diverso tono, mi fanno alzare gli occhi: “Guardalo, vedi vedi che ha puntato le papere! E’ di sicuro un cane da caccia!” In effetti vedo il cane di profilo sul bagnasciuga, immobile come una statua, occhi fissi alle anatre nell’acqua, la zampa anteriore destra sollevata e ripiegata all’indietro. “Le sta puntando! Adesso le prende le prende!” “Ma senti ‘sti cretini, ma che prende! Il cane le punta per dar modo al cacciatore di sparare quando si alzano in volo!” Sono quelli del gruppo: “Solo che qui non c’è nessun cacciatore…” “La prossima volta me porto il fucile” fa quello del Messico. “Ahò non scherziamo! Io so’ animalista!” sbotta il più anziano. “Ma dai, stavo a scherza’ ” rincula quello. In quel momento il cane con un gran balzo si avventa in acqua, mentre le anatre scattano tutte insieme in un gran semicerchio di scie bianche, ali che sbattono e alto starnazzare. La zampa del cane arriva a dieci cm dalla coda della più lenta. Tutti gli umani strillano: “Ahò! Per un pelo nun  l’ha acchiappata! E’ proprio un cane da caccia, altroché!” Le anatre sono ormai lontane e si dirigono verso destra, le voci ritornano normali, ognuno riprende quello che stava facendo prima. Compreso il cane. Il quale, raggiunto nel frattempo dalla padrona, che indossa un distinto copricostume nero, continua a fare su e giù lungo la riva, controllando di sottecchi il tragitto delle papere. Passano dieci minuti e di nuovo gli strilli: “Eccolo, eccolo! Ce rifà!” Una ventina di metri alla nostra destra la scena si ripete, identica, ma questa volta un tizio, dal lettino su cui è sdraiato, chiama a gran voce la padrona del cane. “Signora, signoraa! Ma glielo vo’ mette il guinzaglio a ‘sta bestia? Ma ce la fa lei a anna’ a salva’ la papera se quello l’azzanna? Ma che maniera è?”. Le parole dell’uomo scatenano l’intera spiaggia, complice forse il calore dei corpi e dei cervelli dardeggiati dal sole implacabile. “Ci ha raggione! Fermate quel cane!” “ ‘Ste povere papere so’ nell’ambiente loro!” “Ma guarda sì che stupidata! Ma quando mai i cani da caccia se magnano le prede!” “Ma lassatelo stà!” Su tutto il pandemonio s’ alza il grido della signora in nero: “Ma non lo vede che è vecchio? Ma lo sa che sta pe’ mori’?” Attimo di silenzio poi il pandemonio riprende più forte: “Ma che morì, quello zompetta tutto contento…” borbotta il mio vicino, che non si vuole esporre. “Disgraziato! Ma nun ci avrebbe neppure la forza d’acchiappalla la papera…” “Sì sì , levaje il guinzaglio e poi vedemo se ci ha la forza!” “Ma chi si crede di essere! Ma che ne capisce lei di cani!  Ignorante!” “Ci ha ragione lui. Porti via ‘sto cane! Ignorante sarà lei!” “La signora è libera di tennello qui! Mo’ comanda quello?” 

Insomma, ancora una volta ci siamo divisi in Guelfi e Ghibellini, il Partito del Cane e il Partito delle Papere. Non c’è speranza, non se ne esce. Non tanto dalla dialettica delle idee contrapposte, che è cosa sana, cuore pulsante di ogni   paese democratico, quanto dall’animosità, dai toni beceri, dall’ immediata trasformazione di chi non la pensa come noi in un nemico acerrimo, lui e tutta la sua famiglia, i suoi amici, la sua discendenza. Una persona, un intero clan da offendere, possibilmente ferire, ridicolizzare e sperabilmente sopprimere, anzi   polverizzare a botte di aggressività,  quando va bene solo verbale. 

Mi tuffo in acqua superando brillantemente gli enormi pericoli del fondo scivoloso, mi allontano quel tanto che mi permette di arrivare dove non si tocca e dove il vocìo della spiaggia arriva indistinto, come il canto delle cicale sugli alberi. Qui l’acqua è limpida e la terra e i sassi del fondo appaiono nitidi e verdazzurri. Accanto a me sulla superficie liscia e specchiante scivolano silenziose le canoe e le libellule spiegano al sole le loro ali rosa-viola. 

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