OLTRE IL CHECK-POINT, L'IMMAGINAZIONE VOLA

di Gisella Evangelisti

Se Giuseppe e Maria, rifugiati in fuga dalla strage di bimbi proclamata dal re Erode nel secolo 1, fossero sbalzati col loro asinello nella Betlemme del secolo xxI,  scoprirebbero che l'unico giorno per non essere schiacciati in una calca disumana nel check point n.300, fra Gerusalemme e Betlemme, sarebbe il sabato, quando ci sono quasi  solo turisti. “Scusa  Maria., non c'era  questo dettaglio in Google Map”, le direbbe dispiaciuto Giuseppe. “Pazienza”,  risponderá debolmente Maria, che sente giá arrivare  le doglie del parto. “Ma adesso come facciamo”?

     Amos Oz

Sono le  3 e mezzo di mattina e la fila dei lavoratori palestinesi che devono passare il check point per andare a lavorare a Gerusalemme é giá lunga, e diventa un fiume vertiginoso per due ore.

“Ci trattano come animali”, si sente che protesta una voce.  “Siamo noi che costruiamo le loro case, e guarda come ci  trattano. Se un giorno decidessimo di scioperare tutti, allora forse si renderebbero conto di quanto gli serviamo,  questi ebrei arroganti”. Qualcuno degli ebrei arroganti, dalla cabina del check point,  ribatte che se la smettessero di tirar fuori un coltello quando uno meno se l'aspetta per infilzare un soldato ebreo, sí, anche quelli dotati delle armi piú  sofisticate,  ma un coltello é un coltello, non ci sarebbe stato bisogno dicostruire il Muro, vero? Giá, la “guerra dei coltelli”  fu quella che scoppió nel 2015 quando Uri Ariel e altri politici di destra provocarono l'ira dei musulmani percorrendo la Spianata delle Moschee, luogo sacro all'Islam, auspicando la ricostruzione del Tempio ebraico dove oggi sorge la Moschea di Al-Aqsa. Quella guerra di coltelli finí  come  le altre guerre, dichiarate o no, fra palestinesi e israeliani, con una gran differenza fra le forze  in campo: vi furono uccisi 50 israeliani, 7 stranieri, e 300 palestinesi..

E poi, ecco che nel 2002 cominció la costruzione di un Muro, per salvaguardare Israele dagli attacchi suicidi e dai razzi  palestinesi. Un Muro che finora si snoda per 730  km, penetrando  nel territorio palestinese della Cisgiordania, oltre la Linea Verde, dove gli israeliani sradicheranno ancora una volta ulivi e limoni, si impadroniranno dei pozzi d'acqua e delle terre piú  fertili, costruiranno le loro colonie, dove gli pare e piace. E sono giá  600.000 gli ebrei, se si considerano anche quelli di  Gerusalemme Est, che vivono  nei territori arabi occupati della Cisgiordania, una regione ormai diventata  una “prigione a cielo aperto”, come la definisce il sacerdote  palestinese Rahed Abusahlia, direttore della Caritas di Gerusalemme.  Certo, la costruzione del Muro ha fatto diminuire gli attacchi suicidi dei palestinesi, ma la pace non é mai arrivata, e sulle rovine di Gaza (bombardata nel 2014 dagli israeliani  provocando 2000 vittime), non é volata nessuna colomba.   E adesso il pompiere- piromane Trump viene ad agitare le acque giá torbide della regione riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele,  con annessione implicita della zona Est, sede  dei quartieri arabi. Gli stati arabi hanno reagito inmediatamente proclamando Gerusalemme Est capitale della Palestina. Un ennesimo caso di azione e reazione, che si succede  quando  le due comunitá palestinese ed ebrea, si ostinano a non accettare  l'esistenza gli uni degli altri, anche se le Nazioni Unite giá nel '47 avevano promosso la divisione della Palestina in due futuri stati.  Ma le tensioni erano molto forti. Gli ebrei che erano tornati  nella Palestina biblica  negli anni '30, di fronte ai pogrom europei, avevano usato anche metodi terroristici  per  scacciare i palestinesi dalle loro terre; nel '47 ci fu  la grande espulsione di piú di 700.000 palestinesi, poi la creazione dello stato d'Israele  il 15 maggio del '48, seguito il giorno dopo dalla dichiarazione di guerra al nuovo stato da parte di 5 nazioni arabe, e via proseguendo fino ai nostri giorni, con varie altre guerre nella zona. Un  accordo di pace tra Rabin e Arafat nel '93,  fu fatto fallire dai radicali delle due parti, cosí come un altro tentativo di accordo nel 2000. E adesso, cosa succederá?   

Per questo ci fa bene, in questo Natale agitato dalle urla di nazionalisti e fondamentalisti di varia origine e colore, dall'America all'Europa al Medio Oriente,  ascoltare  voci  fuori dal  branco, come  quella  dello scrittore Amos Oz, intellettuale ebreo candidato da anni al Nobel per la letteratura, la cui storia familiare si inquadra in quella di  Israele.   Suo padre, Yeuda Klausner, era uno studente all'universitá di Vilnius, in Lituania, quando fu quasi massacrato di  botte da una squadraccia  di antisemiti, prima ancora dell'avvento dei nazisti, ma questo paradossalmente gli salvó  la vita perché decise di tornare in Palestina.  Amos nacque a Gerusalemme nel '39, nove anni prima dello stato di Israele.  Quando aveva 13 anni, sua madre si suicidó, e due anni dopo il ragazzo quindicenne entró nel Kibbuz, deciso a contribuire alla costruzione del giovane stato ebraico.  Successivamente partecipó  alla guerra del '67 e a quella del '73 dello Yom Kippur, contro gli arabi.  Ma poi qualcosa scattó in lui e capí che non si poteva vivere in uno stato di guerra mentale o fisica permanente, e  nell'82 fu tra i fondatori del movimento “Shalom Ajshav”, “Pace Adesso”. Dobbiamo trovare a ogni costo una soluzione pacifica per i due popoli, sostiene. Ma dalle due parti si deve abbandonare la propensione al fanatismo, il credersi le  uniche vittime della storia. Recentemente Amos Oz lo ha ripetuto in mille modi in   “Contro il fanatismo”, e “Cari fanatici”.

“Porto ancora l'ambivalenza dei miei genitori in me per quanto riguarda l'Europa: anelito e rabbia, fascino e frustrazione”, confessa  Amos Oz in “Contro il fanatismo”. L'Europa é  un continente di cui gli ebrei si sono sentiti parte  ma che li ha respinti come capri espiatori di tante crisi, fino ad arrivare all'Olocausto, il peggiore genocidio della storia.

“In tutto il mio lavoro letterario si troveranno questi europei sradicati che lottano per creare una piccola enclave europea, con librerie e sale da concerto, nel calore e nella polvere del deserto, a Gerusalemme o nei kibbutz. Personaggi che vogliono riformare il mondo e non sanno come legarsi le scarpe. Idealisti che dibattono e discutono all'infinito. Rifugiati e superstiti che si sforzano di costruire una patria nonostante tutte le avversità....” Appunto, uno dei personaggi piú vivi nei romanzi di  Oz  é  il protagonista di “Fima”, un intellettuale geniale quanto inconcludente,  dalla casa sporchissima, che ai suoi cinquant'anni fa un lavoro insignificante e sul piano sentimentale si contenta di  qualche flirt  con le mogli dei suoi amici, e trova tutte le scuse per andare a trovare la  ex moglie, anche se ha un nuovo compagno, perché non non riesce a separarsi da lei ma neanche ad amarla come lei vorrebbe.

“Tornando a parlare di Israele”, continua Oz, “il nostro stato  è in fondo un campo profughi. Anche la  Palestina è un campo profughi. Il conflitto israelo-palestinese è un tragico scontro tra due ex vittime dell'Europa. Gli arabi erano vittime dell'imperialismo europeo, del colonialismo, dell'oppressione e dell'umiliazione. Gli ebrei erano vittime della persecuzione europea, della discriminazione, dei pogrom e, alla fine, di un massacro di dimensioni mai viste. È una tragedia che queste due ex vittime dell'Europa tendano a vedere, ognuna nell'altra, l'immagine della loro oppressione passata.

“Il conflitto israelo-palestinese è un tragico scontro tra due diritti. Gli ebrei israeliani non hanno nessun altro posto dove andare, e neanche  gli Arabi palestinesi hanno un altro luogo dove andare. Essi non possono unirsi a una grande famiglia felice perché  né sono felici, né sono una famiglia: sono due famiglie sfortunate. Credo fermamente in un compromesso storico tra Israele e Palestina, una soluzione a due Stati. Non una luna di miele, ma un divorzio equo, che metterà Israele accanto alla Palestina, con Gerusalemme Ovest come la capitale di Israele e Gerusalemme Est come la capitale della Palestina. Qualcosa di simile al divorzio civile che c'é stato fra Cechi e Slovacchi”.

Come combattere contro il fanatismo? Con l'immaginazione.

Amos Oz riceve con frequenza  minacce di morte come “traditore” della causa ebraica, eppure non ci pensa proprio a fuggire dalla sua casa di Tel Aviv, anzi, si chiede come combattere contro il fanatismo,  da cui non sono esenti le religioni o le ideologie politiche, quando tendono a voler convertire a ogni costo, o distruggere i rivali. Anche i fondamentalisti islamici, in fondo, secondo Oz, coi loro attentati pretendono rieducare e riportare la  moralitá in questa Europa che considerano materialista e pagana.

Forse occorre iniettare immaginazione nelle menti dei fanatici, per provare a decostruire le loro certezze a binario unico, suggerisce lo scrittore.  Sammy Michael, uno scrittore amico di Amos Oz, fece un esperimento al riguardo. Una volta prese un taxi a Gerusalemme, e  parlando come al solito di politica col conducente, lo ascoltó affermare che “bisogna una buona volta far fuori tutti gli arabi, che ci rompono le scatole tutti i giorni”. Invece di scandalizzarsi (purtroppo sono discorsi molto diffusi)  provó a seguire nel ragionamento il suo interlocutore. Fingendo di essere d'accordo con lui, gli chiese con voce pacata come pensava che si potesse realizzare quell'eliminazione totale. Doveva pensarci la polizia? L'esercito? O chi credeva fosse piú adatto?

Il tassista ci pensó un po', e poi  rispose: “Dovremmo dividerci questo compito fra noi cittadini, magari scegliamo 4 o 5 da far fuori per ognuno di noi,  in questo modo possiamo farcela”. “Certo”, assentí Sammy Michael, “non dovrebbe essere difficile. Per esempio a lei, organizzandoci per settori, potrebbe essere assegnato un condominio della zona Est, lei va lí, suona il campanello, esce una signora, “Lei é araba?”, le  chiederebbe. Se risponde sí,  qualche sparo, e via. Cosi fino al quarto piano.  Giá, e poi, quando sta per uscire dal condominio, sente da una finestra aperta del quarto piano che piange un neonato. Lei che fa? Ritorna su per far fuori il neonato?" Il tassista tace un attimo. E poi sbotta : "Ma lei é un uomo davvero crudele!" 

Sí, ci vuole piú immaginazione e anche humor, per tagliare l'aria pesante del fondamentalismi, che non sanno ridere, ma solo proporre drammi e violenza a catena. Ci prova al cinema una giovane regista iraniana, Sou Abadi, che vive a Parigi, con il film “Due sotto il burka”, ambientato fra gli esiliati iraniani della capitale. E´la storia di una ragazza che ama un giovane compatriota  ma si vede ostacolata dal fratello radicalizzato, per cui il fidanzato si finge una donna e si copre  col burka per riuscire a visitare  la sua bella. Ma i suoi occhi e la sua dolce interpretazione del Corano affascinano il burbero fratello scatenando scene tipiche delle piú classiche commedie, con travestimenti, scambi di personaggi, inseguimenti eccetera. Piú drammatico e profondo  il film “L'insulto” del  regista libanese,  Ziad Doueiri, che ha fatto sensazione nel recente  festival di Venezia,  Il film  fa luce sui meccanismi per cui certe offese all'orgoglio in un conflitto limitato possono portare, come una valanga che si moltiplica strada facendo, a  conflagrazione incontrollabili.  In questo caso, un banale diverbio  fra due persone vittime  di violenza politica nel loro passato  (un cristiano libanese e un palestinese) si amplia e approfondisce,  coinvolgendo  gruppi di fiancheggiatori e rivali sempre piú grandi, acquisendo connotazioni politiche,  fino ad arrivare alle massime autoritá dello stato. Ma come puó dilatarsi all'infinito, cosí il conflitto puó sgonfiarsi quando un raggio di umanitá (l'umanitá che tutti condividiamo) riesce a penetrare nella nebbia  dell'accecamento ideologico; quando qualcuno smette di ricordare le offese passate e si focalizza invece su  un futuro vivibile per se stessi, e anche per gli altri.

Vogliamo volare con l'immaginazione, come ci suggerisce Amos Oz,  e continuare lo spunto iniziale della coppia dei  due rifugiati in fuga da stragi  nel loro paese, che restano imbottigliati nell'attuale  check point di Betlemme? Cosa potrebbe succedere? A me, vengono queste immagini.  

Maria geme cercando qualcosa a cui aggrapparsi nelle doglie. “Ehi, mia moglie sta per partorire!!!”,  grida Giuseppe che la sostiene insieme a un lavoratore, “Per favore fate spazio!!!”. Partorire...spazio...partorire...spazio...il messaggio passa lungo la fila degli uomini in attesa, fino ad arrivare alle  orecchie di Sara, una soldatessa di guardia nel check point. Oh no,ancora una volta? Pensa Sara, che deve rinunciare a qualche minuto di pausa concessale nella lunga notte del suo turno: Questa volta non finirá cosí!!!, schizza come una molla e corre a  ritroso sgomitando fra gli uomini, incurante della sua sicurezza, per raggiungere quella donna, di qualunque nazionalitá sia, di qualunque religione sia, perché é un essere umano che deve dare vita a un altro essere umano, ed é un momento cosí importante, in qualsiasi luogo della terra, accidenti!!!

Nonostante siano passati quasi 18 anni, é ancora presente in lei  il ricordo di  un episodio successo in un check point, quando stava per  attraversarlo una donna palestinese sul punto di partorire due gemelli.  ma le impedirono di passare lo sbarramento, e dovette alla luce per terra i suoi piccoli. Il primo bimbo morí, nessuno volle aiutarla,  fu fermata di nuovo e morí anche l'altro gemello.  Poi si seppe che si era sottoposta a cure per la fertilitá per 9 anni. Sara era una recluta  giovanissima, in quel momento, non poté neanche protestare, ma  si vergognó  profondamente  della sua divisa. Possibile che dopo aver sofferto tutte le ingiustizie, il suo nobile popolo si rendesse responsabile di atti disumani? Fu in quegli anni, intorno al 2001, che dopo  quella tragedia un gruppo di donne israeliane  dettero vita al movimento  “Machsom Watch” (“controllo dei Check point”), andando volontariamente a visitare i soldati  per garantire un trattamento umano a chi era obbligato a fare la coda.

Immaginiamo quindi che una Sara, decisa come una leonessa, si faccia  largo a spintoni per dare una mano a Maria. La calca dei lavoratori si blocca, si apre un cerchio di silenzio fra le facce stanche. E finalmente si sente  un vagito. La gloria, o  il miracolo di una nascita, zittisce tutti, accomuna tutti. Come chiameranno questo bambino? Forse, ancora una volta Gesú. Un futuro leader o profeta, chissá, un predicatore di utopie e illusioni (Pace in terra agli uomini di buona volontá), un uomo che come altri lungo la storia, come Martin Luther King o Gandhi, precorrerá i tempi e indicherá  un futuro di armonia e giustizia a un'umanitá che in gran parte é ancora quella delle caverne e delle asce di pietra, anche se sa andare su Marte. Un uomo che forse  per questo verrá ucciso, ancora una volta. Ecco,  penseranno in  molti, tanto parlare e fare miracoli, per nulla.  Ma qualche altro  forse vedrá  che quando i semi di saggezza che voleranno  con le sue parole  riusciranno ad attecchire in mezzo alle rocce,  anche il deserto piú arido si riempirá  di mille fiori.

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