UN FUTURO PER LE DONNE AFGHANE

di Massimo D’Angelo

Due funzionarie misteriose

Vestite di nero e silenziose, assomigliavano alle nostre suorine di qualche decennio or sono. Le due funzionarie governative erano venute al mio seminario a Kabul per sentire quello che le istituzioni pubbliche e i rappresentanti della comunità internazionale avevano da dire sulle direzioni strategiche della cooperazione internazionale nel settore agricolo.  Durante la mattinata, una direttrice generale del Ministero dell’energia e dell’acqua aveva ribadito ripetuti attacchi ai rappresentanti del Ministero dell’agricultura per i consueti contrasti istituzionali tra i due enti, spesso rivali nella spartizione della torta, cioè nell’accesso alle scarse risorse nazionali disponibili per lo sviluppo. Ma le due funzionarie silenziose erano rimaste in disparte, non accennando a nessuna espressione di consenso o di sostegno. Solo alla mia presentazione con il PowerPoint, quando feci riferimento alla strategia nazionale per il Gender Mainstreaming (vedi il mio ultimo intervento La condizione della donna – Afghanistan: la sfida dei processi di cambiamento del 24 giugno 2012), i volti delle due funzionarie si illuminarono ed espressero un interesse più vivo, sorridendomi, confermandomi così silenziosamente, con un lievo cenno con il capo, il loro assenso a quanto stavo affermando.  Così, alla fine del seminario, mi avvicinai per sapere chi fossero.  Vincendo la loro riservatezza si presentarono con le formalità d’uso, evitando di darmi la mano, com’è tradizione da queste parti. Mi dissero che erano rappresentanti del Ministero per gli affari femminili.  Non mi aspettavo la loro presenza, perché non avevo ricevuto conferma della loro partecipazione.  Dopo pochi scambi di convenevoli, chiesi loro di poterle visitare presso i loro Uffici.

 

Le incontrai dopo un paio di giorni. Una delle due funzionarie  mi rinnovò l’apprezzamento per aver fatto riferimento, nel mio seminario, alla politica di Gender Mainstreaming portata avanti dal loro Ministero, politica che rappresenta il centro delle loro preoccupazioni e che purtroppo deve affrontare le difficoltà più diverse nella sua applicazione. La conversazione continua tranquilla  parlando delle politiche e delle misure di sviluppo della condizione femminile che il governo porta avanti con l’appoggio della comunità internazionale, delle ONG e della società civile afghana.

Dopo i primi dieci minuti, cerco di andare più al sodo, osando fare una domanda più diretta: quali sono le radici degli ostacoli che si oppongono ad una partecipazione efficace della donna ai processi decisionali in Afghanistan?

Le novità e i limiti del Programma di Solidarietà Nazionale

Per la risposta, la prendono alla larga.  Cominciano menzionando in primo luogo il Programma di Solidarietà Nazionale (NSP), considerato come il programma più simbolico del Ministero per lo sviluppo e per la ricostruzione rurale (MRRD). L’NSP, che ha beneficiato del sostegno della Banca Mondiale, parte dalla semplice constatazione che circa il 76% della popolazione vive in ambiente rurale e ha concentrato i suoi sforzi nella creazione di Community Development Councils (CDC) – ovvero Consigli per lo Sviluppo Comunitario –per favorire il coinvolgimento delle comunità rurali nella gestione degli affari comuni, compreso lo sviluppo delle infrastrutture. È un tentativo di favorire il decentramento delle politiche di sviluppo, spesso percepite come imposizioni dall’alto.

Così come in tanti paesi in via di sviluppo, anche in Afghanistan ci sono strutture tradizionali, chiamate qui “shura”, che radunano le comunità rurali attorno a capi riconosciuti come autorità morali, dominate dalle solite gerarchie (uomini), in prevalenza gli ‘anziani’ della comunità. Le shura, diversamente dai CDC, escludono tradizionalmente la partecipazione femminile.  Il CDC dovrebbe sostituirle con una struttura aperta alle donne, con criteri operativi democratici e moderni, e con compiti più consoni alla promozione dello sviluppo locale.

Da quando è stato varato l’NSP, 361 distretti in tutto il territorio nazionale hanno visto creare un CDC al loro interno, per lo meno sulla carta. Ai CDC è stata affidata la gestione di migliaia di progetti di sviluppo locale.  Tuttavia, ammettono esplicitamente le due funzionarie afghane, non bisogna farsi troppo impressionare dalle statistiche ufficiali.  Il funzionmento concreto del CDC è lungi dall’essere quello che ci si attendeva. In particolare, il CDC non è stato una porta aperta alla partecipazione femminile nei processi di sviluppo come ci si aspettava.   La struttura tradizionale delle “shura” ha spesso preso il sopravvento sui CDC, cambiando nome ma mantenendo in sostanza lo stesso tipo di rapporti gerarchici e discriminatori.  Il maggiore successo dei CDC infatti non è nella partecipazione femminile ma nel decentramento amministrativo dei processi di erogazione della spesa pubblica. I CDC hanno favorito l’accesso delle comunità locali a risorse finanziarie messe a disposizione dalle autorità centrali o dai donatori. Ma la democraticità del loro funzionamento e la partecipazione femminile sono spesso molto limitate.

Cos’è successo nei CDC? Cos’è che non ha funzionato? chiedo con una certa insistenza. Mi spiegano che raramente una donna oserebbe prendere la parola in consessi come i CDC,  e se pure questo avvenisse, facilmente la donna verrebbe ridicolizzata perché non sufficientemente competente sul piano tecnico, o perché i suoi interventi spesso rivelano un’impreparazione delle donne sui temi in discussione. Obiettivamente, aggiungono, il mancato accesso delle donne a qualsiasi forma d’istruzione, che ha dominato gli ambienti rurali da sempre, rafforza questa discriminazione, perché effettivamente spesso le donne in Afghanistan sono meno preparate.

L’introduzione delle “shura” femminili

Per questo motivo, divergendo dalla nozione originale di “gender mainstreaming”, il loro Ministero, insieme al Ministero dello sviluppo e della ricostruzione rurale, ha favorito la promozione di “shura” femminili, che operano in modo parallelo ai CDC o alle “shura” (maschili) tradizionali.  Le “shura” femminili hanno prodotto risultati alquanto soddisfacenti, ove sono state promosse, grazie al clima meno intimidatorio in cui le riunioni si svolgono. Le partecipanti si sentono più libere di parlare, senza rischiar di essere azzittite per incompetenza dagli uomini presenti negli altri consessi. Così riescono anche a formulare proposte ragionevoli in modo costruttivo, per poi presentarle, attraverso loro delegate, ai CDC formali per discussione e per approvazione.  Naturalmente, aggiungono le due funzionarie, non sono mancate difficoltà.

In molti casi, le “shura” maschili o i CDC, o alcuni loro leader, specialmente i più anziani, hanno cercato di boicottare le “shura” femminili ed il loro funzionamento, rallentandone la costituzione o vanificandone il ruolo. Oppure hanno cercato di ostacolare l’ascolto delle loro portavoci che ne trasmettono le decisioni ai CDC. Impedire la circolazione di informazioni è spesso il modo subdolo utilizzato per mettere in difficoltà le donne e per dimostrare l’inutilità delle “shura” femminili, svuotando così di contenuto le stesse ragioni della loro esistenza, appunto dimostrando che il loro contributo è privo di valore aggiunto.  In alcuni casi, l’interferenza maschile è arrivata fino ad influenzare le nomine delle leader delle “shura” femminili, evitando che donne con maggiori capacità decisionali possano assumere posizioni di responsabilità. Basta ostacolare la partecipazione delle donne alle riunioni, richiamandole alle loro incombenze domestiche.  Dopo tutto, in alcuni ambienti rurali la regola talebana che costringe la donna in casa è ancora rigidamente applicata.  Padri e mariti, abituati ad ostacolare l’accesso delle donne all’istruzione o a qualsiasi contatto pubblico, hanno gioco facile nell’esercitare varie forme di coercizione sulle donne, condizionandone il comportamento.

Chiedo a questo punto alle mie interlocutrici: allora che avete fatto per evitare questi inconvenienti?

L’approccio della comunità internazionale: la ricerca del dialogo

Riconoscono che la sfida è dura, ma ribadiscono che lo scontro frontale non paga, anzi favorisce chi è contrario a qualsiasi cambiamento. Molto hanno appreso dalla cooperazione internazionale, che attraverso i suoi operatori, ONG o agenzie internazionali, ha sempre difeso i diritti fondamentali della donna.  L’ esperienza e la capacità professionale di tante strutture della cooperazione hanno permesso di scoprire nuove strade, anche se più difficili, per promuovere la condizione femminile. Certo, aggiungono, spesso bisogna agire d’astuzia o con immaginazione, aggirando l’ostacolo, evitando di contrapporsi frontalmente a coloro che detengono il potere, ma cercando occasioni per aprire un dialogo costruttivo con chi non ci conosce. A volte basta presentare le novità come modi per sostenere i valori tradizionali della famiglia e per favorire il benessere comune della comunità.  Spesso i risultati di questi tentativi sono deludenti, ma altre volte ci sono sorprese interessanti ed aperture che cambiano le relazioni anche nello stesso ambito familiare.  Ma questo richiede un lavoro paziente di tessitura di rapporti di fiducia, prima di tutto nei confronti delle donne direttamente interessate, e poi con il capo famiglia dei nuclei familiari di cui fanno parte.

Esiste una questione religiosa oppure no?

Spesso noi osservatori stranieri cerchiamo scorciatoie per spiegarci la complessità di queste situazioni condizionanti, attribuendole per esempio alle convinzioni religiose  prevalenti nel paese, specialmente se sono diverse dalle nostre. Non conosco bene l’Islam e i suoi fondamenti da poter fare un’analisi completa del tema, ma sinceramente non riesco ad accettare queste spiegazioni basate su fattori “religiosi”, come convincenti. Le mie interlocutrici al Ministero afghano sono due mussulmane osservanti, e non per questo meno aperte e sensibili ai problemi della condizione femminile.  Ho troppi amici e colleghi di profonda fede islamica, anche in Afghanistan, che non si riconoscono nelle discriminazioni che ostacolano il ruolo della donna nella loro società.. Alcuni trovano proprio nella loro fede religiosa l’ispirazione per lavorare a favore dello sviluppo della situazione femminile.  Ne deduco che l’uso di ragioni “religiose” per spiegare l’azione di coloro che perpetuano l’inferiorità del genere femminile  sia parzialmente infondato e nasconda l’abuso della religione fatto da molti  leaders di comunità locali, al solo scopo di difendere i propri privilegi dietro la facile spiegazione delle diversità culturali.  Né l’impostanzione che spesso si sente (“si fa così perché in Afghanistan si è sempre fatto così, e non vogliamo andare contro le nostre tradizioni culturali”) è più convincente, in quanto ignora gli sforzi di tanti afghani, uomini e donne, che lottano per cambiare questa situazione e migliorare il rispetto dei diritti delle donne.

Gli interventi di cooperazione a favore della condizione femminile

Esco comunque da questa riunione alquanto perplesso, se non incredulo, pensando alle difficoltà che si oppongono ad una maggiore  partecipazione femminile nella società  afghana.  Chiedo aiuto a miei colleghi che si occupano di progetti di sviluppo che abbiano una componente “genere” importante. Giustificano questi interventi effettivamente l’ottimismo alquanto naif che mi hanno mostrato le due funzionarie governative? Mi incontro diverse volte con la mia collega tedesca Sylvia, che ha trascorso diversi anni in questo paese.  Ne parlo anche con Nina, un’altra collega del Bhutan, che è specializzata in programmi nutrizionali diretti al settore femminile.

Ambedue mi portano tanti esempi di progetti da loro promossi, tutti rivolti alla condizione femminile nel contesto familiare.  Creando nuove responsabilità in mano alle donne, che pur continuano ad operare nell’ambito domestico, e aggiungendo funzioni nuove come attività produttive, ad esempio l’allevamento di pollame o di ovini nei cortili di casa o piccoli orti per prodotti ortofrutticoli, è stato possibile offrire occasioni impreviste a queste donne per aprirsi ad un mondo di rapporti, anche al di fuori della loro famiglia.  Ciò ha permesso a volte di coinvolgere le donne in piccole operazioni di vendita dei loro modesti prodotti, superando il divieto assoluto di lavorare fuori casa, generando reddito che ha inciso sulla insicurezza alimentare delle loro famiglie. Apparentemente, in alcuni casi, questa è stata l’argomentazione vincente per convincere i mariti o i padri ad accettare il nuovo ruolo economico delle loro mogli o figlie.

Le mie colleghe mi confermano che questi interventi debbono essere sempre accompagnati con un’intensa attività di sensibilizzazione e di formazione. L’aiuto di colleghe afghane, che lavorano all’interno di ONG locali, è sempre stato determinante per stabilire un rapporto di fiducia con le donne dei villaggi e dei quartieri urbani, ma anche con i maschi della famiglia. Spesso è stato richiesto molto tempo per superare la diffidenza dei mariti o dei padri, che vedono con sospetto la presenza di operatrici esterne. Solo dimostrando che i cambiamenti prodotti dai nuovi progetti non sono una minaccia alla solidità della famiglia ma un contributo positivo ad un maggiore benessere materiale, si è riuscito a volte a convincere i maschi a non opporsi ad una maggiore partecipazione delle donne a queste attività.

Una goccia nell’oceano o un onda di cambiamento?

Ascolto con interesse la descrizione di questi successi, pur modesti, che mostrano per lo meno che qualcosa sta cambiando. Ma allo stesso tempo mi chiedo se questi casi non siano soltanto gocce all’interno di un mare di difficoltà. Che impatto globale possono avere questi interventi sulla condizione femminile della donna? La mia deformazione professionale, che cerca sempre un’incidenza macroeconomica negli interventi di cooperazione, mi rende spontaneamente sospettoso. Hai ragione, ammettono le mie interlocutrici.  Le difficoltà sono enormi e i successi sono ancora limitati.  Eppure, aggiungono, le cose stanno cambiando. L’insistenza della cooperazione internazionale sulle tematiche dei diritti delle donne, la presenza di tanti operatori (particolarmente operatrici) sia in ONG internazionali ma ancor più in ONG nazionali, hanno creato un’aspettativa politica nuova nel paese.  Difendere la condizione femminile non è più uno scandalo ma un diritto riconosciuto e appoggiato dalle autorità pubbliche. Centri informativi e formativi che costantemente sono vicino alle situazioni concrete delle donne, proteggendole da violenze domestiche, promuovendo le capacità professionali delle donne, migliorandone l’istruzione, si stanno moltiplicando a vista d’occhio, e di questo gli Afghani sono tutti consapevoli, anche se i tentativi di repressione sono ancora numerosi, e spesso molto efficaci. Anzi, l’opposizione talebana sta intensificando queste forme di repressione, proprio perché sente che rischia di perdere il controllo delle grandi masse di fronte a questa onda di cambiamento.

Le donne, però, non sono più sole.  Sentono che c’è sempre più sostegno al loro ruolo nella società.  Basta andare per strada e incontrare le centinaia di studentesse che allegre vanno a scuola per cambiare la loro esistenza. È chiaro che la tenaglia secolare che ha represso la condizione femminile in questo paese, pur se ancora molto forte, sta allentando la presa, anche se lentamente.

Questo è vero, riconosco. Leggo i comunicati stampa, i notiziari disponibili sulla rete, e la quantità di fenomeni nuovi che rilevo nelle analisi e negli studi disponibili sul paese. Tutti sembrano incoraggiare una certa dose di ottimismo, ma con cautela.  Infatti non mi nascondo che gli ostacoli siano ancora enormi, non ultimo l’inefficienza degli interventi di cooperazione internazionale.

I limiti della cooperazione internazionale: priorità contrastanti

Dietro tante dichiarazioni retoriche, piene di buone intenzioni, contenute nei documenti degli organismi internazionali a favore della condizione della donna in Afghanistan si nascondono sprechi assurdi di risorse per iniziative che hanno scarsa incidenza sui problemi fin qui ricordati.  Corruzione, incompetenza, ritardi, disorganizzazione, carenza di coordinamento, sono all’ordine del giorno, per non parlare di manipolazioni di clan locali, a fini di puro vantaggio politico.  Nonostante gli obiettivi ambiziosi di molte strategie e di tanti programmi di cooperazione allo sviluppo, spesso i risultati che si perseguono sono rimpiazzati da indicatori irrilevanti dei cambiamenti in atto. Si è fatto uno studio. Si è organizzato un seminario.  Si è creata una commissione. I classici “deliverables” dei progetti di cooperazione tecnica.  Ci vuol ben altro per incidere sulla condizione femminile.

E poi c’è il confronto con priorità diverse: e non è detto che nell’ambito della cooperazione internazionale siano tutti d’accordo a dare attenzione primaria al miglioramento della condizione femminile come obiettivo assoluto dello sviluppo in Afghanistan.  In un paese la cui crescita economica è dominata dall’aiuto esterno, ove l’aiuto pubblico allo sviluppo (ODA, secondo la sigla internazionale) rappresenta quasi la metà del PIL, e l’elevato livello dei  consumi privati di questi ultimi anni è gonfiato dalle spese indotte dallo sforzo internazionale per il settore della sicurezza (in qualche modo collegato all’intervento militare), le priorità assolute per lo sviluppo, che includono il miglioramento della condizione femminile, sono molte, anzi troppe, e tutte pressanti. Includono il superamento della dipendenza esterna dagli approvvigionamenti alimentari, che a sua volta è collegata alla bassa produttività interna dell’agricultura e alle carenze del settore infrastrutturale, e alle conseguenze di decenni di guerra che hanno portato a distruzioni diffuse e a una depressione cronica del settore produttivo, in concomitanza con calamità naturali spesso di enormi dimensioni (siccità, alluvioni, desertificazione, erosione del suolo, terremoti) e alla persistente insicurezza dovuta al terrorismo e all’insurrezione interna d’ispirazione talebana.  In questo quadro complesso, non tutti gli operatori per lo sviluppo concordano nel dedicare al miglioramento della condizione femminile un posto primario tra le priorità nazionali.  Ne consegue che alle affermazioni retoriche di sostegno da parte della comunità internazionale e della politica nazionale non sempre corrispondano impegni efficaci (cioè sostenuti da adeguate risorse umane e finanziarie).

La sfida per la cooperazione internazionale

La cooperazione internazionale può essere accusata di molte cose, tuttavia le va riconosciuto l’impegno a promuovere i diritti umani, nonostante i tanti pesanti condizionamenti imposti dalla politica, dai finanziamenti e dalle barriere culturali.  Senza lo sforzo internazionale e, se vogliamo, senza la retorica della politica dell’attuale governo, debbo riconoscere che la condizione della donna in Afghanistan sarebbe, oggi come oggi, peggiore (basta pensare agli incubi del periodo talebano).

Certo, i tempi desiderabili per verificare un impatto della cooperazione internazionale dovrebbero essere ben più lunghi della breve durata degli interventi di assistenza esterna, spesso limitati a due o tre anni, anche se spesso rinnovati ma sempre in un’ottica di breve periodo. Dimentichiamo sempre che certi cambiamenti che hanno mutato fondamentalmente la condizione della donna nei paesi occidentali hanno richiesto periodi lunghissimi.  Il diritto di voto alle donne negli Stati Uniti non era scritto nella Costituzione introdotta nel  1789 ma venne riconosciuto solo con la Presidenza di Woodrow Wilson nel 1919, dopo che lo stesso Wilson ne aveva ostacolato per anni l’approvazione. In Italia, questo riconoscimento lo ritroviamo solo con l’avvento della repubblica.  Fu grazie a Eleanora Roosevelt, nel 1948,   che il suffragio elettorale esteso alle donne divenne parte integrante della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani adottata dalle Nazioni Unite. Non dobbiamo perciò meravigliarci che paesi che sono stati esclusi da meccanismi democratici fino a pochi anni fa, ancora mantengano comportamenti che riflettono abitudini culturali che non erano estranee anche ai nostri antenati.

I programmi di cooperazione internazionale dovranno inoltre abbracciare una maggiore flessibilità per adattarsi a realtà locali complesse, che non possono essere affrontate con schemi rigidi e con interventi affrettati.  La trasformazione culturale della società rurale è un processo che avverrà solo dal suo interno. Parte dall’accesso delle bambine e delle giovani donne ad un maggiore livello di istruzione, così da permettere alle lavoratrici di leggere manuali d’istruzione tecnica, di fare di conto, di poter legger materiale informativo vario, ed in prospettiva, di partecipare a tutti i processi decisionali ove una cultura di base è condizione essenziale.  Richiede il ruolo indispensabile della donna che si assumerà la responsibilità di lottare dall’interno della famiglia per promuovere il proprio ruolo.  Le maggiori speranze stanno nelle capacità delle stesse donne afghane a cogliere l’occasione di questo massiccio sforzo internazionale per ribadire i propri diritti e per progredire nella loro partecipazione attiva alla vita sociale.

Ricordo i visi sorridenti e determinati di tante Rashida, Roya, Rumina, Fauzia, Sima, Shukria e Soraya incontrate nelle mie visite di lavoro, che hanno condiviso con me le loro istanze per un futuro diverso. Saranno loro a trasformare le incertezze del presente in speranze concrete per il futuro. Il contributo della cooperazione internazionale forse è solo una goccia nell’oceano. Ma saranno le tante donne afghane, che sempre più numerose si iscrivono a scuola e all’università, frequentano corsi di aggiornamenti, lavorano nei campi e negli uffici, a colmare quest’oceano con tante gocce, contribuendo giorno dopo giorno a porre le basi per un riconoscimento dei propri diritti, con dignità e grazie ai loro sacrifici. Sono loro che meritano il nostro massimo rispetto, anche quando sembrano rassegnate. Spesso nel loro silenzio  si nasconde anche la costatazione che senza l’intervento armato esterno,  quelle donne sarebbero ancora sotto il regime talebano, senza speranza alcuna per un miglioramento. Questo e’ un dilemma che non ha facile soluzione. Credo che tutti siano d’accordo sul ritiro delle truppe esterne dall’Afghanistan, ma ho l’impressione che nessuno abbia chiesto al cuore delle donne afghane che cosa ne pensino, e se non temino un ritorno al passato. Di certo i maschi, non osano parlarne, e le donne continuano a stare in silenzio ma anche in trepidazione.

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