TRA GRECIA E CINA : L’ IMMOBILISMO E IL DINAMISMO.

(I)

di Andreina Russo

Ho trascorso il mese di agosto tra  Grecia e  Cina, due Paesi che simbolicamente rappresentano oggi gli estremi opposti della contingenza economica. Due viaggi quasi consecutivi. Due settimane  da vivere nella mia da sempre amata Grecia, due settimane per conoscere, appena appena, il gigante asiatico. Ne ho riportato impressioni fortissime, che mi piace  condividere con gli amici di Partecipagire.

CRETA

Della Grecia ho toccato solo l’estrema periferia meridionale, l’isola di Creta, nave ancorata di traverso in mezzo al Mediterraneo, barriera, o meglio ponte, tra il Medio oriente, l’Africa e l’Europa. Un mondo arcaico,

dominato a Sud da grandi catene di monti culla di miti primordiali, una vera spina dorsale dell’isola, da cui valloni boscosi e profondi scendono verso il mare e si alternano a grandi pianori in quota, coltivati a frutteti. Pianure costiere a Nord, cittadine vivaci dominate dai forti veneziani, un gran numero di attrezzature turistiche, alberghi e taverne sul mare, spiagge deliziosamente libere (che è una delle tante cose che mi fanno amare la Grecia), ma al contempo attrezzate, dove un ombrellone e due lettini costano un terzo che in Italia.  E poi le aree archeologiche, dove i resti delle “cento città” di Omero  testimoniano la potenza e la grazia di una civiltà, quella minoica, che ha generato la cultura greca e, di millennio in millennio, la nostra. Insomma un’isola generosa, che offre il suo patrimonio alla maniera dei suoi abitanti, proverbialmente fieri e arditi, abituati  a difendersi con epico coraggio da tutti i loro invasori:  Micenei e Romani, Veneziani e Turchi, giù giù fino all’occupazione italiana e a quella tedesca, più devastante, iniziata nel ’41.

I Cretesi, anche quelli che vivono in pianura e in città, mantengono una loro rudezza di montanari, l’espressione accigliata, i gesti parchi e essenziali, e in questo mi ricordano i liguri: gente cresciuta davanti a un mare che porta vita e insieme mortale pericolo, ma sa di avere alle spalle monti impervi, rifugi di resistenza e sopravvivenza.

Abbiamo percorso Creta da Nord a Sud, da Est a Ovest, e abbiamo quasi ovunque incontrato un turismo fiacco, alberghi mai pieni, trattorie sul mare semivuote, in posti di una bellezza commovente, su spiagge deserte come in inverno, davanti a un mare che eguaglia spesso in colori e trasparenza quello della Sardegna. Molti  paesi ignorati, a parte dei grumi inspiegabili di turisti accalcati in luoghi senza nessuna  attrattiva particolare, molti esercizi commerciali chiusi, musei aperti in orari ristretti per le solite difficoltà di pagare il personale, ovunque i segni di un’economia in crisi, di una popolazione avvilita. Nei piccoli centri, soprattutto dell’interno, pochissimi giovani, e i vecchi  identici ai loro padri  di cinquant’anni fa: donne in nero sedute sulle soglie delle case, sole  o con qualche vicina, intente al cucito o a sbucciare fave, uomini riuniti al Kafeneion in rumorose riunioni, presente spesso anche il pope dalla tunica stinta e polverosa, nelle quali  si pratica la sublime (e gratuita)  arte della dialettica in cui  i greci e gli italiani del Sud, loro fratelli, eccellono da millenni. Qui domina il parlare, altrove il fare…

HUI E LA CINA

Un salto di ottomila chilometri mi porta a Pechino, dove una giovane amica  conosciuta in Pakistan, Hui, mi ha invitato mille volte. Hui ha sposato un geologo italiano dell’ENI e dal 2000 gira il mondo seguendo il marito e il suo lavoro. Ha rinunciato, per lui, alla sua posizione  di quadro in un’ azienda giapponese, una della prime penetrate in Cina dopo l’apertura ai capitali stranieri, e ad uno stipendio, allora,  di 2500 $ al mese. La sua mamma ha sopportato con orientale stoicismo l’idea di un matrimonio con un uomo venuto da un altro pianeta, e ha continuato fino alla fine della sua vita ad inviarle per posta ritagli di giornali perché Hui non dimenticasse la sua lingua e la sua cultura. Quando ci conosciamo, nel 2002, Hui ha 32 anni, io ne ho cinque in meno della sua mamma: lei si affeziona a me ed io a lei, perché scopriamo di essere sorprendentemente simili: curiose del mondo, riflessive ma amanti della vita, passionali anche nei nostri sdegni contro le stesse cose: la disonestà, la mancanza di rigore, la sciatteria mentale. Ma per me Hui è stata soprattutto la porta della Cina: in questa ragazza vivace ed allegra, che ama vestirsi alla moda, che vuole divertirsi  e godersi la vita in tutti i suoi aspetti, ho riconosciuto lo spessore profondissimo di una civiltà antica, ho visto una saggezza maturata nei secoli e nel dolore, ho capito i processi mentali di due generazioni di cinesi: quella di sua madre, che ha subìto le peggiori conseguenze del maoismo e della rivoluzione culturale, e la sua, dei giovani cresciuti quando il “drago”, morto Mao, iniziava l’ennesima metamorfosi della sua storia millenaria e si trasformava nella Cina capitalista di oggi. Hui ama raccontare, ama descrivere il suo paese, ci tiene a difenderlo dagli innumerevoli stereotipi attraverso i quali noi lo conosciamo, e anche nella prima parte di questo viaggio mi ha fatto da “mediatore culturale” permettendomi di scavalcare la più invalicabile delle muraglie, che non è quella di oltre 8000 km che segnava  il confine col mondo dei “barbari”, ma quella, immane,  della lingua.

LA GENTE E LA COMUNICAZIONE IMPOSSIBILE

Mi avevano detto “Preparati: i cinesi, soprattutto a Pechino, sono scostanti, spesso sgarbati, ti spingono per  strada.” Quella che abbiamo incontrato è una popolazione allegra, socievole, desiderosa di divertirsi e di godersi la vita (quindi Hui non è, come credevo, un’eccezione!), immersa oggi in un’euforia collettiva da boom economico che contrasta con la depressione collettiva dei popoli europei. Nessuno sgarbo, nessuna spinta: si cammina, si mangia, si viaggia costantemente immersi in una fiumana gigantesca di gente, quasi tutti giovani, moltissime famiglie, a volte con tre generazioni presenti, nonni genitori bambini, allegri, vocianti, danzanti e cantanti nel week end, a gruppi spontanei,  nei parchi immensi e curatissimi. Tutti armati di aggeggi elettronici di ogni tipo e di macchine fotografiche raffinate, passano il tempo a fotografarsi a vicenda e - sorpresa! - in più occasioni  ci chiedono di farsi fotografare insieme a noi, cosa che mi capitava sempre quando vivevo in Pakistan, e che attribuivo al fatto che lì veramente noi occidentali eravamo poche centinaia di persone e spiccavamo come papaveri nel grano. Ma in questo viaggio attraverso diverse regioni della Cina la sensazione più frequente è   quella di essere trasparenti, veniamo ignorati per il semplice fatto che la comunicazione è impossibile, perché la conoscenza delle lingue straniere, a cominciare dallo stesso inglese, è ancora rara e incerta. Supplivano i sorrisi, anche quelli non frequenti, e la premura di essere cortesi facendoci, ad esempio, passare avanti ai locali nelle interminabili file all’ingresso delle aree monumentali. Tutte le persone comunque con cui abbiamo avuto contatti per il loro tipo di lavoro, dal personale degli alberghi, alle guide, gli autisti, il personale dei treni, aerei, battelli fluviali, ristoranti, musei, i commessi dei negozi, sono state, tranne qualche rara eccezione, e nonostante l’esiguità delle possibilità comunicative, gentili, puntuali  ed efficienti. L’impressione generale è quella di una popolazione ancora educata, in famiglia e a scuola, secondo principi tradizionali, come accade quasi ovunque in Asia, anzitutto sulla base di un rispetto reciproco che tra l’altro tiene conto (in senso direttamente, non inversamente proporzionale!) dell’età. E’ bello vedere spesso per le strade nonne e bisnonne portate affettuosamente per mano da nipoti (femmine) e figlie, anche se il fatto di non aver mai visto  uomini fare altrettanto mi fa pensare che anche qui la cura degli anziani sia delegata alle donne.

IL SISTEMA SCOLASTICO

Mi hanno naturalmente parlato del sistema scolastico: a fronte di una scuola primaria e secondaria molto severe e selettive su base assolutamente meritocratica, l’Università appare quasi “facile”, anche perché vi accedono solamente i più dotati, i quali, sopravvissuti alla durissima selezione avvenuta negli anni scolastici, sono davvero ad alto livello. Ma per questi il corso di studi non finisce con la laurea, essendo ormai comune un percorso post-laurea attraverso specializzazioni, master e formazione nelle aziende. Questo fatto comincia a provocare l’innalzamento dell’età media dei giovani che si sposano, come è accaduto da noi molto prima.

LA POLITICA DEMOGRAFICA: CONSEGUENZE E CURIOSITÀ

E a proposito di matrimoni, da poco, come si sa, il governo ha abrogato la legge del “figlio unico” in vigore dal 1979 (ad eccezione delle minoranze etniche e di alcune zone rurali), legge che,  se da una parte ha evitato la nascita di 400 milioni di bambini, dall’altra ha causato effetti secondari molto gravi, come gli aborti forzati, l’eliminazione, prima o dopo la nascita, delle femmine, e quindi l’attuale notevole squilibrio tra il numero di maschi e femmine dai 32 anni in giù, che sta a sua volta provocando una diffusa  sindrome depressiva tra i milioni di uomini che non possono crearsi una famiglia. Hui ride mentre mi racconta che questi “bambini unici” sono viziatissimi e coccolatissimi, dei veri “piccoli mostri” a suo dire ( ma lei è una che, assieme a suo fratello, ha deciso di non voler figli “perché in Cina siamo già troppi”).  Il loro iter scolastico, a somiglianza dei loro “colleghi” nordamericani, viene accuratamente programmato ancora prima che nascano, le scuole migliori prenotate con anni di anticipo, gli studi seguiti minuto per minuto da un’intera famiglia allargata  che ruota intorno alla loro esistenza. E in effetti, osservando a passeggio i gruppi familiari, ci colpisce la sproporzione tra il numero degli adulti, a volte quattro nonni e due genitori, che si affannano a nutrire intrattenere fotografare filmare un unico ragazzino  indiavolato e allegrissimo.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA

Colpiti dall’apparente benessere di tutti i cinesi che incontriamo, cerco ovunque il rovescio della medaglia: abbandonando le strade principali e/o turistiche, ( pulitissime non solo perché gli spazzini, a piedi, sono in servizio giorno e notte, ma soprattutto perché le migliaia di persone in giro non sporcano), mi ficco in tutti i vicoli, cerco le tracce della povertà, della sporcizia, dell’abbandono. Viaggiando in macchina, in treno, in auto, in battello, a piedi (ho percorso circa 4200 all’interno del paese), osservo le campagne, i contadini, i loro mezzi di trasporto, i loro vestiti, le case. A quello che ho potuto vedere la condizione economica varia dall’estrema ricchezza ad una vita modesta ma dignitosa, non ho scoperto tuguri, miseria, gente sporca o lacera, e questo, ripeto, non solo nelle zone turistiche dove il regime ha interesse a creare le sue “vetrine” per gli occhi stranieri. Non ho visto, insomma, quello che per moltissimi paesi asiatici, a cominciare dall’altro gigante, l’India, è la normalità: il contrasto sconvolgente tra situazioni di privilegio e abiezione umana. Si può “truccare” un intero paese? Mi sembra difficile. Sono consapevole, d’altra parte, che il mio viaggio, nonostante la sua ampiezza, ha toccato solo la punta di un iceberg gigantesco, ha solo scalfito la superficie di una realtà estremamente complessa e variegata.

IL BENESSERE NELLE CITTA': SHOPPING, TRAFFICO, INQUINAMENTO

Sembra comunque che il benessere generato dal capitalismo sia disceso capillarmente, come una linfa vitale, a migliorare, seppure in proporzioni diverse, le condizioni di  gran parte della popolazione, che affolla i negozi, appare fornita di tutti gli aggeggi elettronici più avanzati, fa a gara  a comprare auto per lo più di lusso nonostante i limiti imposti dal governo per combattere traffico e inquinamento (la storia della lotteria, apparsa sui nostri giornali, è vera: i governi delle città più grandi mettono in palio ogni mese 20.000 targhe  da sorteggiare per poter immatricolare auto nuove )  e quando non può permettersi un’auto ricorre volentieri agli incentivi che il governo dà a chi compra motorini e biciclette elettriche, che hanno soppiantato ormai in toto le biciclette di un tempo. Le città quindi straripano di macchine, ma essendo queste tutte di recente fabbricazione ed essendo i motocicli elettrici, l’inquinamento non è neppure lontanamente paragonabile a quello che ho registrato in tante metropoli asiatiche, da Bangkok a Karachi a Delhi. Anche il traffico è generalmente più ordinato che nelle caotiche città del Sudest asiatico, ma in quelle  di provincia, che loro definiscono piccole perché non superano i cinque milioni di abitanti, le regole non vengono rispettate come a Pechino e qualche tassista frettoloso mi ha fatto prendere seri spaventi! In realtà il pericolo maggiore è costituito dalle migliaia di motorini elettrici che sfrecciano silenziosissimi, rischiando di travolgere in particolare i turisti occidentali abituati ad essere messi in allarme dal rumore!

C’è da dire che quando al mio ritorno ho cominciato a raccontare le mie impressioni ad amici che hanno visitato la Cina prima del 2008 (l’anno delle Olimpiadi) ci siamo tutti presto resi conto che la realtà che io stavo descrivendo era completamente diversa da quella che loro avevano osservato nei loro viaggi.  Anzitutto Pechino, che  loro hanno visto come io immaginavo di vederla prima di partire: una città imponente, oppressa dai palazzi e dai fasti  del potere, grigia e inquinatissima, afflitta da un traffico caotico reso più lento da sciami di biciclette, in cui il progresso economico si evinceva dall’aumentare dei grattacieli massicci dai volumi sovietici e dalle decorazioni pacchianamente asiaticheggianti, una città in cui il commercio si svolgeva moltissimo per strada tra bancarelle e carrettini  da cui esalavano fumi e aromi dei piatti tradizionali. Oggi i quartieri di questa città immensa si distinguono per lo stile dei loro edifici preminenti: dai palazzi imperiali grandiosi e coloratissimi alle ormai rare zone dei vicoli storici affiancati da hutong ( le case tradizionali a cortile), e poi i quartieri moderni in cui le forme dei grattacieli si evolvono rapidamente da gli anni ’80 in poi fino a raggiungere, oggi, l’eleganza e la funzionalità dei loro gemelli in tutto il pianeta, progettati dagli stessi studi internazionali di architettura. Così il quartiere delle ambasciate e degli affari a Pechino, affollato di torri ardite e sobrie, è percorso da gradevoli e ampi viali alberati su cui si affacciano negozi raffinati (non solo di marche straniere), ristoranti sofisticati e caffè frequentati da un pubblico per lo più locale che si mescola disinvoltamente con gli avventori stranieri. La periferia invece, che si attraversa per ore prima di lasciare la città in macchina o in treno, offre la vista su teorie infinite di caseggiati popolari di 10-15 piani, del tutto simili a quelli costruiti nelle nostre città dagli anni ‘60 in poi. Dalle finestre di  quelli più vecchi spuntano, frequentissimi, i parallelepipedi avana dell’aria condizionata. Girare per questa megalopoli di 11 milioni di abitanti mi ha fatto capire che quello che per noi è il boom economico cinese, che ci è sembrato esplodere  all’improvviso negli ultimi 15 anni, in realtà è iniziato alla fine degli anni ’70,  quando Deng Xiao Ping ha preso il potere alla morte di Mao, imprimendo alla Cina un cambio di rotta di portata storica, ma  poi ha avuto uno sviluppo lento e graduale, che la stampa, ma soprattutto l’opinione pubblica occidentale ha ignorato o trascurato per anni e ha “scoperto” solo quando la sua dimensione è emersa in tutta la sua evidenza, travolgendoci come una valanga.{jcomments on}


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