a cura di Andreina Russo

libri

NOTE A MARGINE DI UNA SCONFITTA

di Nadeem Aslam

ed. Feltrinelli , 2013 (disponibile anche in e.book)

Quando ho visto questo volume, per caso, in libreria, non ho potuto fare a meno di prenderlo in mano: una copertina inquietante, la foto di un bambino dagli occhi tristi che fissano il lettore con uno sguardo di rimprovero. Come se dicesse: non ti illudere, c’entri anche tu. Poi il retro copertina: “ Un romanzo impetuoso ambientato in Pakistan e in Afghanistan nei mesi immediatamente successivi all’11 Settembre…”  Mi avvio alla cassa, il libro è mio.

Perché io ero là, l’11 settembre 2001, ero arrivata a Karachi nel gennaio, e ad agosto avevamo fatto un viaggio nel Nord, fino alla valle di Swat, ai confini dell’Afghanistan.

E’ stato nella mia casa di Karachi che è suonato il telefono e ho sentito la voce strozzata di mio figlio che da Roma mi diceva hanno attaccato gli Stati Uniti, un aereo ha colpito una delle torri gemelle di NY, è la guerra! Il tempo di accendere il televisore  e vedo  in diretta l’arrivo del secondo aereo che attraversa la seconda torre, la ferita mortale, il caos. New York invasa da gigantesche nuvole di detriti, con la gente in fuga bianca di polvere e di spavento, sembra Pompei sotto la furia del  Vesuvio. Non posso non leggere questo libro, penso, anche se mi fa male ricordare, anche se  so che quel conflitto è ancora là fuori, ma soprattutto dentro tutti noi, ogni giorno, come un malessere cronico, una cosa che opacizza la nostra vita anche quando non ci pensiamo.

 

L’autore è un pakistano   quasi cinquantenne, figlio di un poeta e produttore cinematografico, che dall’età di 14 anni vive in Inghilterra. Quando leggo questi dati biografici mi dico: allora tu non c’eri, non ci sei mai stato se non da piccolo, come puoi descrivere da dentro una realtà così raccontata in tutto il mondo eppure così chiusa e segreta, così ostica alle nostre menti occidentali? Ma non facevo i conti con la tipicità che pure ho conosciuto così bene del mondo islamico, la fitta rete di notizie, informazioni, racconti  che funziona anche attraverso internet ma  la batte  in termini di rapidità, di efficienza, di capillarità, di segretezza, attraverso i contatti infiniti dei gruppi familiari, dei migranti che tornano e vanno, degli uomini d’affari , dei religiosi che girano il mondo, dei figli che studiano nelle più prestigiose università inglesi e americane ma tornano a casa per Eid  o per la stagione dei matrimoni. Il mondo islamico è un’immensa comunità saldamente tenuta insieme non solo dalla fulmineità delle comunicazioni  tecnologiche comuni al nostro mondo, ma da un gigantesco sistema circolatorio di informazione privata veicolata attraverso sistemi tradizionali come nei tempi antichi.

E infatti la lettura è un tuffo  nella vita quotidiana di una famiglia pakistana qualsiasi: il  saggio patriarca Rohan ha fondato una scuola ispirata ai detti del profeta e improntata alla tolleranza, tanto da venir frequentata da ragazzi di ogni credo religioso. Suo figlio  Jeo, al terzo anno di medicina, coinvolto dalla tragedia della guerra in Afghanistan, decide come tanti suoi coetanei di “andare a dare una mano”, e prende contatti con le associazioni che reclutano giovani per la guerra. A lui si associa Mikal,  un orfano cresciuto nella sua famiglia, cui lo legano sentimenti profondi di amicizia. I due fuggono in segreto, per evitare l’opposizione di Rohan e l’angoscia degli altri familiari; con un viaggio rocambolesco attraverso  aspre montagne si ritrovano nell’occhio del ciclone, praticamente sequestrati da gruppi di talebani che li tengono con molti altri in una fortezza nel deserto e li guardano a vista con un misto di diffidenza e di ferocia. Jeo è presto vittima della guerra, mentre Mikal continua la sua  esperienza, che ben presto si trasforma in  un incubo che sembra non avere fine: catturato da un “signore della guerra”, nel cui accampamento subirà ogni genere di violenza, viene da questo venduto per 5000 dollari agli americani, che lo sottopongono ad un trattamento molto simile a quelli usuali nel carcere di  Guantanamo. Il ragazzo riesce miracolosamente a non cedere, a non inventarsi , come fanno in molti, “una confessione” qualsiasi pur di farla finita, e viene rilasciato. Ma nel momento in cui riacquista la libertà, per un errore uccide due soldati americani, ed anche il suo ritorno a casa si trasforma in una tragica odissea, in una fuga da animale braccato che coinvolge il lettore fino allo spasimo.

In un’epoca in cui il conflitto tra il mondo islamico (o meglio tra le sue frange estremiste) e quello occidentale ha creato una dicotomia apparentemente insuperabile, per cui in ognuna delle due parti cresce la convinzione di essere “i buoni”, costretti ad affrontare avversari “cattivi”, senza distinguo e senza sfumature, questo libro costituisce un’eccezione straordinaria, seppure amara e scomoda. L’ho letto fino in fondo con molta tensione, aspettandomi di veder spuntare prima o poi lo schieramento dell’autore, l’esaltazione dei buoni e la demonizzazione dei cattivi, e non vi ho trovato nulla di questo: perfino le torture psico/tecnologiche inflitte dagli americani ai prigionieri appaiono quasi “gentili” a fronte della violenza brutale perpetrata dagli afghani ai danni dei  loro fratelli di fede. Non esistono “buoni”, in questo libro, se non ristretti al quadro dell’intimità familiare: il saggio Rohan, le donne in eterna, inquieta attesa, i bambini.

Il mondo degli uomini è, trasversalmente, dominato dal male, assetato di potere a tutti i costi, accecato dalla frenesia del sangue che si placa con i kalashnikov  o con gli stupri  sistematici di ragazzini ingenui  che hanno creduto di poter con il loro aiuto ribaltare la storia, riequilibrare l’enorme squilibrio delle forze in campo, creare davvero il mondo ideale sognato dal Profeta.

Lo sguardo amaro di Nadeem Aslam è lucido e vede solo il reale, non crea teoremi. Le radici di questo scrittore affondano in profondità nel terreno fertile delle tradizioni, dei racconti, della poesia della sua gente, ma l’aver vissuto fin da ragazzo nell’”altro mondo” gli ha conferito un’ampiezza di visuale inusitata. E forse, ci piace immaginare, nelle sue vene scorre il sangue del saggio, tollerante  Rohan.

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