SULLA ELIMINAZIONE TOTALE DEI PARTITI POLITICI

di Paolo Basurto

L'eliminazione dei partiti sarebbe un bene quasi puro [S.Weil]. Nel frattempo possiamo solo sperare che le prossime consultazioni elettorali adottino un sistema di voto che non pregiudichi sistematicamente il candidato che si sente responsabile di fronte ai suoi elettori a vantaggio di quelli che solo devono render conto ai dirigenti del proprio partito. (A.Bréton).

La nascita di Podemos in Spagna è stata subito coronata da successo. Lo ha alimentato la speranza, finora frustrata, di avere finalmente un'alternativa all'ingannevole simulacro di democrazia che l'attuale sistema partitico e rappresentativo aveva messo in scena. In Italia è successo lo stesso fenomeno con il Movimento 5 Stelle, che apparve sullo scenario politico ostentando un rifiuto più volte proclamato ad essere un partito. Gli Indignati hanno avuto vita breve, ma in tutto il mondo hanno marciato contro la casta arroccata nei loro inespugnabili fortini, chiamati 'partiti'. Sembra che i partiti incarnino quello che di peggio vi sia nel sistema democratico rappresentativo. La struttura gerarchica piramidale attraverso la quale si snoda il controllo del potere e si delimitano gli spazi nei quali utilizzare al riparo da qualsisasi vigilanza della base (cioè del cittadino) la delega che il voto filtrato e organizzato dai partiti, assicura agli eletti. Eppure i partiti sono riconosciuti dalla Costituzione e senza di essi la politica sfocia rapidamente nella demagogia individualista di qualche personalità carismatica e suggestiva che rende ancora più problematica e sospetta la dinamica democratica basata sulla rappresentanza popolare.

 L'eliminazione dei partiti sarebbe un bene quasi puro, afferma Simone Weil (*) in una sua Nota scritta negli anni quaranta, poco prima di morire e pubblicata postuma nel 1950. Nel commentare il testo della Weil, André Breton lo definisce una requisitoria inappellabile contro il delitto di tradimento ideologico e spirituale perpetrato dai partiti, a danno della genuina ricerca di verità e giustizia che dovrebbe animare sempre il fare politica. Non c'è destra né sinistra nella condanna della Weil; c'è piuttosto la stringente analisi di una corruzione inevitabile che affligge sempre il comportamento politico che abdica l'uso della propria coscienza in favore della cieca appartenenza ad un gruppo, una fazione, una setta, un partito, per l'appunto.

Diceva Charles Péguy nella sua critica al socialismo dei suoi tempi, che non si può sposare né un'ideologia né un partito come se si salisse su un treno senza fermate. La democrazia non può trasformarsi in un feticcio che imponendo la legge della maggioranza pospone la ricerca del bene comune a una dinamica del potere il cui unico beneficio è la riduzione della conflittualità sociale (quando ci riesce).
Il punto di forza dell'analisi della Weil è indiscutibile, anche se troppo teorico. Bene e Giustizia hanno una sola versione. Non sono divisibili in partiti. Se tutti ragionassimo in modo rigoroso e se davvero tutti volessimo perseguire il Bene e la Giustizia, presto o tardi il consenso sarebbe assicurato e il progetto da realizzare sarebbe condiviso. La ragione non divide perché funziona allo stesso modo in tutti gli uomini, ciò che divide sono le passioni che generano ingiustizia e menzogna. L'adesione pregiudiziale e non razionale ad un comportamento politico si alimenta di passione, di emotività che preclude ogni strada di comprensione reciproca e definisce a priori i confini della diversità inconciliabile. E' insomma una strada senza uscita che rinuncia alla ricerca della verità. I partiti sono la rappresentazione istituzionalizzata della prevalenza delle passioni sulla ragione, nella vita politica. La democrazia è un sistema migliore degli altri solo se aiuta il consenso attraverso l'espressione di un'analisi non pregiudiziale. Questo del resto era il senso che lo stesso Rousseau dava alla Democrazia: uno strumento di comprensione verso il bene comune. Quando cessa di avere questa funzione la Democrazia apre le porte alla degenerazione e alla corruzione del sistema i cui sbocchi possono anche essere tragici, come effettivamente sono stati nella storia recente di molti Paesi europei. La stessa Rivoluzione francese testimonia la gravità di questi rischi e secondo la Weil i partiti nascono generati dal Terrore; prima di allora, prima che i Giacobini si organizzassero in fazione, la Rivoluzione non conosceva Partiti. Il vero spirito dei Principi rivoluzionari dell'89 non si basa sul criterio che qualcosa sia giusto perché è il Popolo che lo vuole. Ma perché, in assenza di passioni collettive che la perturbino la volontà popolare ha più possibilità di individuare ciò che sia giusto e ciò che non lo sia. Certo, l'assenza di passioni collettive non è una condizione che si ottenga facilmente, soprattutto se consideriamo il ruolo manipolatore e sempre più suggestionante della pubblicità. La passione politica faziosa è la vera forza di qualsiasi campagna elettorale; da solo, questo fenomeno mette in luce quanta verità ci sia nelle riflessioni della Weil e quanta poca credibilità possa darsi alla genuinità dei procedimenti politici così come li sperimentiamo attraverso le nostre democrazie.  Se la legittimazione del potere è il consenso popolare e questo è suscettibile di essere ottenuto attraverso informazioni adeguate  allora è sufficiente controllare chi genera queste informazioni per alterare il gioco democratico. E' sufficiente conoscere il ruolo determinante e logicamente ingiustificato che hanno oggi la TV e i giornali e, in misura sempre crescente, il web, per capire che non è né la verita né la razionalità a guidare i processi decisionali di una moderna democrazia rappresentativa, mentre è la capacità di manipolazione che svolge l'azione più efficace. Questa capacità si organizza soprattutto attraverso i partiti.
Ma è possibile una Democrazia parlamentare senza partiti?  Adriano Olivetti (*) volle porsi questa domanda fondamentale in un saggio rieditato da Comunità nel 2012 con un commento molto interessante di Stefano Rodotà.  Tra le tante citazioni di Olivetti, quella che forse è più significativa e che ancora merita di essere ricordata appartiene a Gioberti: "Ciò che impedisce la giustizia e la morale sociale sono i partiti politici. Ecco il verme che rode la società, che confonde le previsoni dei filosofi, che rende vane le più belle teorie. In qual modo la civile associazione si difenderà dal pericolo dei partiti? Ecco uno dei più difficili problemi per l'uomo di Stato, per la filosofia politica." Né Gioberti né Olivetti hanno soluzioni valide da proporre e ancora oggi, più che mai oggi, la questione si pone con urgenza drammatica. La caduta del Muro di Berlino e la fine dell'utopia comunista hanno segnato il trionfo dell'identità democrazia=capitalismo. La globalizzazione ha preteso di estendere in forma planetaria questo trionfo. Ma qualcosa non sta funzionando in questo processo. La fragilità dei sistemi democratici come li conosciamo, ha permesso alla corruzione e alla criminalità organizzata di infiltrarsi e dilagare nelle stesse strutture istituzionali e nei gangli vitali del sistema economico mondiale: le banche. Il potere finanziario è incontrollabile ed è piuttosto lui che, grazie alla mediazione dei partiti, controlla i governi e le relative politiche economiche e sociali, inducendone l'involuzione fino al fallimento, quando questo gli conviene. Di fatto l'idea di comunità e di contratto sociale, sfuggono ogni giorno di più all'esperienza quotidiana rafforzando il sentimento d'inutilità della partecipazione alla vita politica. Una situazione fortemente complicata dai nodi sempre più stretti dell'interdipendenza mondiale anch'essa priva di ogni sistema affidabile di regolamentazione e completamente alla mercè delle dinamiche rapinatrici dei poteri finanziari che, loro sì, hanno già trovato le forme per organizzarsi a livello transnazionale.
Quando scrive il suo saggio, la petite peure, come sottilmente Mounier chiamava l'incombenza di una guerra atomica letale per la razza umana, faceva scrivere ad Olivetti che le alternative possibili sono solo due: o la civiltà si compie o la civiltà perisce. La minaccia di un'apocalisse atomica non è scomparsa ma la fine della guerra fredda ce l'ha fatta facilmente dimenticare. Nel frattempo, quando sarebbe stato legittimo e logico attendersi un'era di vacche grasse e di benessere meglio distribuito nel mondo, la distanza tra ricchi e poveri è rapidamente aumentata a favore sempre dei primi. I focolai di guerra si sono moltiplicati e molte sono le civiltà che periscono in guerre civili di crudeltà inaudita, senza che la comunità internazionale sia in grado di promuovere iniziative coerenti ed efficaci. E' davvero triste, si sfoga Olivetti riflettendo sulla situazione del suo tempo che somiglia anche troppo a quello di oggi, che la scienza politica, la coscienza politica e di conseguenza l'ordinamento dello Stato procedano nel mondo con un'evoluzione così incredibilmente lenta, che ancor oggi, se si volesse costruire uno Stato ideale si potrebbe fare uso quasi esclusivamente della prima grammatica della politica, quella di Aristotele.
Davvero tutto questo è colpa dei partiti? Nei suoi commenti al saggio di Olivetti, Rodotà è molto preoccupato che qualcuno possa confondere la critica ai partiti e alla loro funzione istituzionale con il disgusto per la politica così di moda oggi. La demagogia cerca sempre facili capri espiatori e fa breccia con gli slogan manipolatori che inducono il popolo a reagire secondo le passioni collettive che tanto temeva Rousseau e delle quali così bene parla la Weil. Preoccupazione di tutto rispetto ma che non toglie il problema che è reale: la democrazia rappresentativa ha fallito il suo compito a livello nazionale e non è assolutamente in grado di misurarsi con la complessità crescente della convivenza mondiale. I partiti avrebbero dovuto essere la mediazione principale tra la volontà popolare e le istituzioni nazionali e sovranazionali. Non solo hanno tradito il loro compito ma hanno svolto la funzione opposta ostacolando in modo evidente la partecipazione ai processi decisionali collettivi.
Marco Borsotti, nel suo interessante articolo sull'assenteismo, mette in luce quanto questo  crescente fenomeno denunci una volta di più l'insufficienza dei nostri sistemi democratici. Ma forse va detto, al di là di ogni possibile retorica, che l'assenteismo è rimasta l'unica forma civile di dissenso per creare un'opinione, una sensibilità in grado di accogliere nuovi esperimenti di organizzazione politica, dove la responsabilità delle decisioni sia avvertita come collettiva e non come faziosa.

_____________________________

*Nota: "Nota sobre la supresiòn general de los partidos polìticos", di Simon Weil, ed. Josè J. de Olañeta, Palma 2014;

"Democrazia senza partiti", di Adriano Olivetti, ed. Comunità, Roma/Ivrea 2013.

DESIGN BY WEB-KOMP