a cura di P.B.

RACCONTAVA SUONI, VISIONI, PAROLE NON DETTE

 

di Ida Verrei

ed. Fabio Croce, 2015

       L'ultimo libro di Ida Verrei ha un nome in codice: Arrassusia.       Il protagonista bambino, napoletano doc, non l'aveva mai sentita prima questa parola e quasi teme che sia una cattiveria oppure un demonio che si chiama così. Il suo maestro, padre Luigi, lo rincuora e subito gliene spiega il significato: "Nossignore, guagliò, nossignore. Ma quale demone, nisciuno diavulillo! Arrassusia è 'na parola napulitana bella assaje, vuol dire "lontano sia", "non sia mai" o anche "caso mai". E ha origine antiche. Vedi, Manù, i dialetti sono la storia dei popoli, il loro passato, non bisogna mai dimenticarli. E il nostro, in particolare, ha dentro tutto il bene e tutto il male della terra partenopea. [...]Impara bene la lingua italiana, sissignore, guagliò, ma pienza e suonna c'o napulitano, pensa e sogna in napoletano".

Anch'io sono napoletano doc, ma una spiegazione così appassionata non l'avevo mai sentita. Anzi questa parola mi era sempre rimasta misteriosa e le avevo sempre dato significati distorti e approssimativi. Mi è mancato un padre Luigi. Mi sono domandato perché Ida Verrei abbia scelto proprio questa parola come titolo del suo libro. La risposta è venuta quando ho finito di leggerlo e mi hanno chiesto: allora di che tratta? Spontaneamente ho cominciato a parlare di Manù. La sua storia: da bambino semiorfano a scrittore e letterato; il suo grande amore; le sue illusioni e le sue delusioni; i suoi successi e i decisivi colpi di fortuna. Insomma una storia. La storia di una vita che non si svolge sotto il segno di grandi avventure né di episodi fortemente drammatici. Non è un romanzo di azione, quello di Ida Verrei.
Il protagonista non è un eroe né una vittima. Vittorio Emanuele, detto Manù, non è nemmeno bello. Corto e secco sin da bambino è ben cosciente che anche se ha gli occhi azzurri e i capelli biondi, certamente non colpisce per la sua avvenenza. Però Manù è buono. E' una persona buona. Non guarda il mondo con aggressività e anche se non mancano le cattive esperienze neppure il mondo è troppo cattivo con lui. La sua infanzia e prima adolescenza si svolgono in un orfanotrofio. Niente alla Dickens. Un collegio religioso dove la figura dominante e' padre Luì. Un frate saggio e amabile, figura paterna per eccellenza, che svolgerà il suo ruolo costruttivo fino alla fine. Poi c'è Angelica, l'educatrice, e soprattutto c'è Santino con una sorellina adorabile, Maria Neve, detta Maruzzella, il suo grande amore da subito che gli offre le caramelle succhiate; le migliori del mondo. Il suo vero padre Manù non lo conosce e non lo conoscerà mai ma le buone figure paterne non gli mancheranno, nemmeno quando lascerà l'Orfanatrofio e dovrà separarsi da padre Luigi. Un vecchio e meraviglioso giardiniere, don Gaetano, presto sostituito dal libraio, Raffaele Caputo, saranno le sue guide fornendogli appoggio morale e pratica saggezza. I buoni incontri sono comunque numerosi e la storia di Manù si evolve sempre piana e positiva; senza scosse insuperabili fino alla conclusione del romanzo. Un romanzo all'apparenza tranquillo e tuttavia denso di riflessioni profonde. Ma non è tutto. Alla fine ci si rende conto che c'è dell'altro; che la storia di Manù si racconta su uno sfondo che forse non è tanto sfondo e che a volte la fa quasi da vero protagonista. Un contesto che diviene speciale perché l'autrice così lo vive e così lo vuole. Dire che si tratta di Napoli è troppo facile. Parlare di napoletanità sarebbe banale. E' piuttosto un'atmosfera che si nutre, con abbondanza e con gusto, di un vissuto napoletano, dei riferimenti culturali e antropologici, che offre una città tanto particolare come Napoli. La descrizione del Camposanto delle Fontanelle ne è un esempio davvero intrigante. Ma anche quella di palazzo Ruotolo (palazzo Donn'Anna?), di Posillipo, delle sfogliatelle di Pintauro, di strade e vicoli, con la loro vita ordinaria ma sempre un poco straordinaria. Non sono note di colore, ma esperienze emotive che svelano l'ispirazione autobiografica che nei precedenti libri appariva evidente e che in questa ultima opera si svela discretamente ma immancabilmente.

Altrettanto sottile è la struttura della lingua usata. Certo si tratta di un buon italiano infarcito (forse troppo e non sempre utilmente) con frasi e modismi napoletani. Ma mentre si legge si avverte con una crescente e gradevole sorpresa che c'è nelle parole una cadenza, una metrica, una musica, che è propria della lingua napoletana e che chi la conosce non stenta a identificare. Al punto che mi sentirei di sostenere che, in realtà, il libro è scritto in napoletano.

Lo stile di Ida Verrei è pienamente coerente allo sviluppo narrativo. Piano e godibile con aperture frequenti verso una prosa che cerca esplicitamente la poesia che scorre nelle sue vene. Vite sudate sospese su pagine bianche, Ida Verrei, come Manù, oltre a narrare storie è anche capace di raccontare suoni, visioni, parole non dette. Quando il suo libro viene pubblicato, Manù lo annusa e lo accarezza; è una creatura: vive. Ida Verrei deve aver fatto lo stesso ma ancora prima che il libro fosse pubblicato. Forse quando lo ha concepito e poi lo ha scritto.

Il mio augurio è che l'autrice prosegua per questa strada e trovi sempre più forme per consentire alla sua poesia di emergere e manifestarsi pienamente come è già avvenuto in alcuni suoi brevi racconti.

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