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a cura di Andreina Russo
IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
di Fernando Pessoa
Voi l’avrete certo già letto ma io no, e mio figlio Federico mi ha giustamente rimproverato. Perché Il libro dell’inquietudine di Pessoa è un capolavoro. Mi è capitato sotto gli occhi all’improvviso, da Feltrinelli: mi hanno attirato quel cappello pieno di mare e la parola inquietitudine, che è la mia più assidua compagna di vita. L’ho letto in modo frammentato nel corso di questa lunga estate, così come il testo, fatto di frammenti aguzzi, richiedeva. Pessoa è un mostro sacro della letteratura europea e fargli una recensione dopo circa ottant’anni che ha scritto il libro sarebbe ridicolo. Però so che non tutti conoscono quest’opera e ad alcuni che l’hanno letta sembra addirittura indigesta, perciò ho pensato che condividere i miei sentimenti avrebbe potuto interessare qualcuno.
Sin dalle prime pagine ho vissuto un fenomeno profondo d’identificazione, un vero colpo di fulmine: in Bernardo Soares mi sono ritrovata, ho provato la gioia profonda di non essere sola, di incontrare qualcuno (e che qualcuno!), che ha creato un personaggio di cui io sono una fotocopia imperfetta. Ci sono pagine e pagine che avrei potuto scrivere io, almeno nei contenuti, se non nella forma letteraria che trovo straordinaria per capacità espressiva.
Sintesi fulminea di concetti complessi e profondi, resi con parole scabre, espulse come proiettili da una mente chiusa su se stessa a causa di una solitudine disumana, autovoluta ed eterovoluta. Una capacità sublime di analizzarsi con lucidità spietata, senza compromessi, senza infingimenti, senza illusioni.
Bernardo Soares, un grigio impiegato di concetto, fratello ideale di Demetrio Pianelli e di Akakij Akakievi, il protagonista del gogoliano Cappotto, diventa un gigante nel chiuso della sua casa modesta, affacciata sui tetti di Lisbona, quando la sua mente, non atta all’azione e agli affetti, vaga nelle profondità dell’io in un viaggio ulissiaco, raggiungendo luoghi inesplorati e abissi inimmaginabili di conoscenza del sé.
Il protagonista è un altro dei grandi "inetti a vivere" della letteratura del '900, Andrea Sperelli , Mattia Pascal, Alfonso Nitti, Emilio Brentani, Zeno Cosini, il fanciullino pascoliano, tanto per citare solo la letteratura italiana, ma che costellano tutte le letterature europee fra fine '800 e il nuovo secolo, e aumentano esponenzialmente nella realtà da quando siamo stati liberati (che bello!) da tutte le illusioni e le sovrastrutture mentali di ordine religioso idealistico politico sociale e ci siamo finalmente svegliati in questa macchina tritaanime che è la società di oggi, in cui solo i successi materiali valgono e i vincenti sono i belli i ricchi i giovani i potenti. Chi non è vincente è – senza mezze misure – un perdente.
In questa guerra sanguinaria, che dura quanto la vita di ogni uomo o donna, individui dotati più di determinazione che di scrupoli lottano ed emergono, mentre milioni di altri si chiudono a riccio e sopravvivono solo fisicamente, alimentandosi amaramente della consapevolezza più o meno lucida, ma ben presente, della propria incapacità, della propria mediocrità, della propria bruttezza, della propria vecchiaia, senza che nessun "salvatore" intervenga, né dalle istituzioni, né dalla famiglia, né da nessun altro.
La mentalità dominante oggi non conosce la pietà (che pure esisteva nelle ferrigne società del passato), anzi la disconosce, la disprezza, la fugge. Ognuno per sé e Dio per tutti, la comunità non può occuparsi delle frange deboli. Chi è perdente lo è per sua colpa.
L'altro giorno ho sentito in radio che in Italia ci sono 8 milioni di persone sole e mi è sembrato un numero orrendamente grande, anche ipotizzando che di questi 8 milioni ci sia un allegro 30 % di single maschi e femmine che si danno alla pazza gioia.
Un libro “indigesto”, questo dell’inquietitudine: perfino il protagonista, Bernardo Soares, in una delle ultime pagine esprime la noia che la rilettura delle sue riflessioni suscita in lui, la noia del suo immobilismo, della sua non vita. Cioè prova quello che prova il lettore: angoscia, più che noia, perché il suo stato ci coinvolge tanto da soffocarci, annaspiamo nell'aria chiusa della sua stanza, la tentazione è quella di scappare, di respirare altrove, all'aria aperta, sotto un cielo sconfinato e non incastrato nel rettangolo di una finestra.
Io, come dicevo sopra, l’ho letto a pezzi piccolissimi, come si gusta un dolce magnifico ma pesantissimo. Un libro da comodino, quello che quando vai a letto apri, riprendi la pagina iniziata, ne gusti qualche riga, la leggi e la rileggi, poi però lo chiudi e ne apri un altro, più gradevole, meno scabro, che scorre via come un fiume e ti porta altrove, ti rilassa la mente, ti accompagna dolcemente nel sonno.
Ma Pessoa offre a noi, popolo degli inquieti, rompiballe per definizione, molto croce e poco delizia di chi ci sta intorno, il piacere ineffabile di sentirci nel giusto, di aver colto, noi soli, l’essenza amara della verità, il buio fitto dell’esistenza, mentre gli altri ci sembrano danzare inconsapevoli e folli sulle onde effimere della vita.
Così Bernardo Soares saluta l’arrivo dell’autunno del 1932: “Vedo che la giornata, limpida e immobile, ha un cielo positivo, di un azzurro meno chiaro dell’azzurro profondo. Vedo che il sole, leggermente meno dorato di prima, infiamma di riflessi umidi i muri e le finestre. Mi rendo conto che, nonostante non ci sia vento, o brezza che lo ricordi o lo neghi, nella città indefinita dorme tuttavia una frescura sveglia. Mi rendo conto di tutto ciò, senza pensare o volere, e non ho sonno se non come ricordo, e non ho nostalgia se non come inquietitudine”.
Un uomo solo alla finestra, incapace di gettarsi nel groviglio umano delle strade, cui dà sollievo e dolcezza lo spettacolo mutante del cielo e del fiume, dei tetti e delle case lontane. Un Leopardi del ‘900, un’ altissima poesia, il buio di un’anima nella luce tersa di Lisbona.