I 70 anni dell' ONU
                                                      
ONU PERCHE' ?

di Massimo D’Angelo                                                                                                                 

Una conversazione al ristorante
Non ne so molto delle Nazioni Unite, ma sinceramente non credo che servano a un granché. Per me il mondo può funzionare altrettanto bene anche senza di loro.” Con questa frase, il mio commensale, un anziano signore di origine italiana che mi guardava serio e alquanto perplesso dall’altro lato del tavolo ove stavamo seduti, avviò una breve conversazione, anche se un po’ bruscamente. Ci eravamo appena scambiati i convenevoli preliminari con cui mi ero presentato. Pochi minuti prima ero stato accolto con simpatia da un gruppo di italo-americani che si incontra regolarmente due volte al mese, cenando in un ristorante qualsiasi di ispirazione italiana nella città di Charlotte, nella Carolina del Nord, dove ormai abito dal 2006. Una tavolata allegra di circa una trentina di persone. La persona che mi aveva invitato, mi aveva appena presentato come un romano, ormai negli Stati Uniti da circa trent’anni, già funzionario delle Nazioni Unite, e questo aveva destato la curiosità dei presenti, tutti di origine italiana, se non altro perché si trattava di una professione inusuale da queste parti. Quasi nessuno era capace di esprimersi in italiano, essendo per lo più di seconda o di terza generazione di immigrati.
L’osservazione che si era fatto scappare quell’anziano signore sarà stata un po’ strana, ma se non altro era spontanea, anche se aveva destato qualche imbarazzo tra i vicini di tavola: l’etichetta americana richiede molta prudenza quando si parla di argomenti vagamente politici, specialmente con estranei. Molti probabilmente pensavano che il loro amico, pur essendo stato sincero, aveva infranto le regole della cortesia, osando toccare direttamente un tasto sensibile, temendo forse di avermi offeso. Ma era chiaro che quell’anziano signore aveva semplicemente detto quello che la maggioranza dei presenti probabilmente stava già pensando.
Colto di sorpresa, cercai di rispondere con una battuta, anche perché, nell’ambiente in cui mi trovavo, era forse il caso di evitare un dibattito di politica internazionale. Semplicemente dissi: beh, se non altro, le Nazioni Unite sono servite ad evitare che in questi ultimi settant’anni scoppiasse una terza guerra mondiale. Mi resi conto che la mia risposta non aveva convinto proprio nessuno. Vidi espressioni perplesse. Altri fecero finta di niente. Probabilmente stavano pensando che il fattore chiave che ha prevenuto finora un conflitto mondiale sia stata la superiorità militare americana o l’equilibrio tra potenze nucleari. Ma nessuno osò commentare e il discorso cadde.
Fu chi stava seduto alla mia destra che invece trovò un modo per riaprirlo. Molto più sorridente del primo, alternando battute scherzose e osservazioni amene, affrontò lo stesso argomento in modo più astuto. Anziché rivolgermi domande dirette di sapore politico, mi chiese informazioni sul mio lavoro e su cosa esattamente avessi fatto alle Nazioni Unite, se ero un diplomatico o cos’altro. Accennai genericamente alle funzioni che avevo svolto al Segretariato delle Nazioni Unite nel settore dello sviluppo prima di andare in pensione, e aggiunsi qualche parola su ciò che avevo fatto negli ultimi anni, da consulente, collaborando sempre con le Nazioni Unite o con le sue agenzie, occupandomi più che altro di valutazione su ciò che funziona e ciò che non funziona. Una spiegazione semplificata, senza dettagli, pensando così di adeguarmi meglio al tono allegro della conversazione.
Fu a quel punto che il mio vicino colse l’occasione della mia spiegazione per farmi una domanda più pungente. “Mi puoi fare un esempio di un risultato concreto che sei riuscito a raggiungere con l’attività che tu hai fatto nelle Nazioni Unite? Qualcosa che tu hai potuto toccare con mano? Un esempio di “successo” delle Nazioni Unite? ” Ecco qui, ci risiamo. Dietro il sorriso di chi mi aveva appena fatto la domanda, apparentemente ingenua, sentii l’ispirazione di fondo, che aveva la stessa matrice incredula dell’anziano signore che aveva fatto l’osservazione iniziale sulle Nazioni Unite.
Questo mio secondo interlocutore stava semplicemente sfidandomi a dimostrare, con una risposta concreta, senza tanti fronzoli da intellettuale, l’utilità delle Nazioni Unite, di cui il primo interlocutore aveva dubitato. In altre parole, mi diceva: se le Nazioni Unite sono utili, portami qualche esempio palpabile, e vediamo se sei credibile.
A questo punto, compresi che la scappatoia di parlare del rischio di una terza guerra mondiale non mi sarebbe servita a molto. Dovevo trovare esempi più concreti, che non richiedessero nessuno sforzo di interpretazione. Evidenze così plateali che non avrei più dato spazio ad equivoci.
Così dissi: “Vengo da una esperienza di programmazione della FAO in Afghanistan, e mentre tutti noi pensiamo che l’unico problema di quel paese sia il terrorismo, c’è ancora gente che lavora e mangia, e che ha una vita quotidiana. Ma purtroppo c’è un problema alimentare, per carenza di produzione di grano, ed il cibo di base della popolazione è il pane. Ebbene, grazie alla FAO e all’introduzione di una serie di centri pilota per il miglioramento della qualità delle sementi di cereali, la FAO è riuscita a migliorare la resa dei terreni coltivati a grano in un numero significativo di aziende agricole, aumentando la produzione di frumento nonostante le difficoltà causate dalla siccità e dalla carenza della rete di irrigazione, senza parlare dei problemi legati all’insicurezza nelle campagne, ai conflitti armati e al terrorismo.”
“Un altro esempio”, aggiunsi, “l’ho visto l’anno scorso nelle Filippine, ove sono andato in missione per valutare l’efficacia degli aiuti umanitari. Lì la FAO è riuscita ad aiutare contadini colpiti da un tifone colossale, che ne aveva distrutto completamente il raccolto di riso. La FAO riuscì a fornire le sementi necessarie in tempo per riattivare la produzione per i prossimi due raccolti, permettendo loro di rimettersi in piedi per poter continuare la propria attività agricola.” Gli esempi erano limitati, me ne resi conto, ma non lasciavano spazio a discussioni, così cambiammo argomento e cominciammo a mangiare. Questa volta me l’ero cavata.
Informazione e disinformazione, pregiudizi o ignoranza
Ho pensato spesso a quella conversazione. Quante volte mi è capitato di avere conversazioni analoghe, incontrandomi con gente che delle Nazioni Unite ne sa ben poco o assolutamente nulla, ma che ha già convinzioni ben precise su ciò che l’ONU sia o quale sia la sua utilità. La maggioranza non ha alcuna idea di cosa sia l’ONU, non se è mai occupata, non ci ha mai pensato, e tutto sommato non se ne preoccupa piú di tanto. Al massimo ricorda un’immagine vista al telegiornale delle ore 20, con qualcuno che parla da un pulpito circondato da granito verde o una bandiera blu che sventola su di un grattacielo chiamato (guarda un po’, non in inglese) Palazzo di Vetro.
In Italia è piú frequente trovare gente interessata all’Unione Europea che all’ONU, se non altro perché l’Europa è più presente nella nostra vita quotidiana. Usiamo l’Euro come moneta. E poi viaggiamo spesso nei paesi europei senza uso del passaporto, Shaengen permettendo, e solo i più anziani ricordano lunghe file alla dogana per andare oltralpe. E l’Unione Europea non è un’idea astratta. Continuamente la stampa ci parla di quanto le decisioni di Bruxelles influenzino la nostra politica economica e sociale. Di certo questo non avviene con l’ONU.
Altri, però, hanno già qualche idea sulle Nazioni Unite, veri e propri pregiudizi (non necessariamente negativi). Le opinioni variano: alcuni intuiscono che l’ONU abbia un qualche ruolo positivo per preservare la pace internazionale (gli elmetti blu come simbolo di pace). Altri invece pensano che l’ONU sia solo un insieme di cerimoniali diplomatici attorno alle riunioni che si svolgono al Palazzo di Vetro.
Tra i più critici, ci sono quelli che pensano che l’ONU non sia altro che un carrozzone burocratico inefficiente, dispendioso, incompetente, impotente, ove figli di papà o raccomandati vari riescono ad imbucarsi per lucrare stidendi favolosi, godendo di benefici incredibili (il jet set umanitario dell’articolo di Giulio Meotti su Il Foglio citato da Paolo Basurto qui in Partecipagire). Altri infine pensano che l’ONU sia un’organizzazione piena di contraddizioni, ove statarelli dominati da dittatori di turno riescono a piegare le decisioni internazionali ai propri propositi, svuotando l’istituzione di qualsiasi significato.
Per lo più si tratta di opinioni ispirate da qualche fatto concreto che ci è stato raccontato, o abbiamo letto sulla stampa o su Facebook, tanti “sentito dire” e notizie non vagliate, informazioni parziali, incomplete o distorte, ma sufficienti per dare forma alle convinzioni personali. Molte distorsioni sono basate su posizioni politiche preconcette che dubitano del valore di qualsiasi approccio multilaterale. Spesso questi pregiudizi sono estrapolazioni di fatti concreti specifici generalizzati per divenire regola generale, contrabbandati come unica verità. E di fronte a certi preconcetti a volte c’è poco da fare.
Purtroppo, questa disinformazione è spesso più efficace nel formare le opinioni della gente comune che un’informazione più accurata e bilanciata, anche perché questa non è sempre facilmente accessibile e sicuramente è più noiosa. Per questo, ho voluto rispondere alla sollecitazione di Partecipagire tentando una risposta ad una semplice domanda: a cosa servono le Nazioni Unite?
L’opinione pubblica ha bisogno di risposte semplici al riguardo, anche perché è ormai abituata al linguaggio telegrafico della rete, ed è scarsamente tollerante nei confronti di risposte troppo tecniche che appaiono un modo per coprire la verità. Non ho la rispotsa magica in mano, ma non mi sottraggo alla sfida. Spero solo di non annoiare il lettore.
E se le Nazioni Unite non esistessero più?
Ricordo che, nei primi anni di questo secolo, fui invitato a presentare il ruolo delle Nazioni Unite ad un circolo americano nello Stato del Connecticut. Eravamo immediatamente dopo l’attentato alle Torri Gemelle, e la guerra in Iraq e in Afghanistan era in pieno svolgimento. Gli Stati Uniti avevano messo in frigorifero l’approccio multilaterale in politica estera. All’ONU parlavamo tutti di crisi del ‘multilateralismo’, visto che l’unica superpotenza rimasta dopo la fine della guerra fredda preferiva l’approccio unilaterale, anche se camuffato con la “coalition of the willing”, divenuta il surrogato dello strumento multilaterale, che offriva una parvenza di collegialità. L’ONU sembrava solo una “finestra” per comunicare azioni già decise a Washington.
Presentare il ruolo delle Nazioni Unite in quel momento così poco favorevole al multilateralismo non era tanto semplice, anche se il pubblico che avevo davanti mi era parso attento e disponibile. Pensai di cominciare dal ruolo degli Stati Uniti nella fondazione delle Nazioni Unite, nel 1944, tanto per indorare la pillola, ma la storia non mi avrebbe aiutato più di tanto. Per cui, subito dopo cambiai direzione, e cercai di invertire la domanda: e cosa succederebbe se oggi le Nazioni Unite non esistessero più?
Senza dubbio l’attenzione dei presenti aumentò dopo l’inversione della mia domanda. Il mio problema era quindi quello di riuscire a trovare una risposta plausibile ed efficace. Osai formularne una: il mondo ha così tanto bisogno di qualcosa che si assomigli alle Nazioni Unite che se non ci fossero più, dovrebbe inventarle di nuovo.
Perché? Esploriamo la questione. Il mondo di oggi è talmento legato a vincoli globali che non può più permettersi di essere governato da un diffuso anarchismo fondato su filosofie isolazioniste, anche se il terrorismo e i conflitti locali tendono ad avallare reazioni frazionate, stimolando interventi militari repressivi che non godano dell’ombrello multilaterale. Tuttavia valutando la questione in termini complessivi, possiamo dire che il mondo ha fame di “multilateralismo”, non ne può fare proprio a meno.
In che senso? Se seguiamo il comportamento dei governi nei paesi più diversi nel corso degli ultimi decenni, si ha la netta sensazione che il mondo nella sua globalità esprima continuamente un bisogno di un meccanismo multilaterale che rappresenti la comunità internazionale. Parlo qui di un meccanismo affidabile e non aleatorio, stabile e ben strutturato, cui i diversi Stati possano ricorrere per incontrare gli altri Stati, per dialogare, per discutere, per confrontarsi, anche per esprimere posizioni divergenti, per condizionarsi reciprocamente, per negoziare, e per promuovere iniziative comuni. Un luogo per individuare, per concordare e poi lanciare strategie e programmi condivisi, siano essi di breve periodo o lungimiranti, orientati verso obiettivi di lungo periodo. Questo bisogno è sentito anche se gli Stati sono in disaccordo tra di loro, anzi tanto più è sentito quanto più sono in disaccordo.
Si tratta a mio avviso di un tentativo continuo di cercare un terreno neutrale ove nessuno Stato sia in condizione di minacciare l’altro nella sua capacità di esprimere le proprie posizioni politiche. Un foro ove uno Stato piccolo e indifeso possa avere la stessa dignità di una superpotenza senza timore di essere immediatamente sopraffatto. E questo luogo è solo l’ONU. Non ce n’è un altro con queste caratteristiche.
Esistono naturalmente altri fori internazionali che gli stati possono utilizzare per interagire tra di loro, per promuovere iniziative politiche internazionali, per stabilire alleanze, e per perseguire obiettivi comuni. Ma se escludiamo casi particolari come organismi specializzati quali la Croce Rossa Internazionale, nessuno di questi altri consessi offre le garanzie di tutela a tutti i paesi del mondo su uno spettro così ampio di interessi politici, economici e sociali come nel caso delle Nazioni Unite. Queste garanzie sono sancite dai principii costitutivi dell’ONU e delle sue istituzioni, così come sono espressi nei loro programmi, che riflettono a loro volta la volontà collettiva della comunità internazionale.
Gli altri fori internazionali sono per lo più influenzati dal potere relativo di qualche Stato o di un loro gruppo, ed il principio di uguaglianza tra Stati non è necessariamente garantito. Nelle istituzioni di Bretton Woods (Banca Mondiale, FMI e IFC), ad esempio, il potere è proporzionale alle contribuzioni finanziarie dei singoli Stati. Gruppi come il G8 ed il G20, spesso rilevanti per il loro ruolo in iniziative di portata internazionale, non hanno nulla di neutrale al loro interno: sono club di un gruppo ristretto di paesi al cui interno prevale il potere relativo dei singoli stati che vi partecipano e non hanno nulla di universale, anche quando promuovono iniziative d’interesse globale. La loro esistenza deve essere continuamente rinnovata da nuove espressioni di volontà politica dei paesi membri. C’era prima il G4, e poi il G5, e poi il G7, ed infine il G8, ed ora sembra che siamo ritornati al G7. Gli altri stati sono estranei, e solo occasionalmente vengono invitati come ospiti. Le loro decisioni non godono di una legittimazione globale rispetto al mondo intero, perché, tutto sommato, sono solo decisioni di parte.
L’OCSE, che è un’organismo più stabile dei vari G8 o G20, ha limiti analoghi, aggregando paesi che definiamo economie sviluppate. Anche quando esprime attenzione ai problemi delle aree meno sviluppate del globo, come con il suo Comitato per l’Assistenza allo Sviluppo (il famoso DAC), si tratta sempre di un “club” di paesi ricchi. Non parliamo poi dell’Unione Europea, che di certo non è un’entità globale ma è solo un’espressione regionale che, in quanto tale, non può riflettere decisioni di valore universale neanche in via teorica.
Alla ricerca di una “legittimazione universale”
Cerchiamo di capire quali siano i vantaggi che i vari stati troverebbero nell’esistenza di questo foro mondiale con caratteristiche di universalità e di neutralità come le Nazioni Unite.
In quei giorni di crisi del multilateralismo in cui parlavo a quel circolo americano, l’amministrazione Bush stava disperatamente cercando di ricucire lo strappo compiuto nel 2003 con le Nazioni Unite, riaprendo un dialogo che aveva tradito in precedenza con l’intervento militare in Iraq. Un tentativo ipocrita, si sarebbe potuto sostenere, ma restava il fatto che c’erano segnali chiari di un desiderio da parte del Dipartimento di Stato americano di riaprire un tavolo di discussione e possibilmene una piattaforma di collaborazione sulla questione irachena nell’ambito delle Nazioni Unite. Quell’esempio mi suggeriva che anche in una situazione in cui sembra esserci il trionfo dell’unilateralismo e la crisi più totale del multilateralismo, il governo di Washington era consapevole dei rischi di un protratto isolamento della politica estera americana e quindi della necessità di riaprire un tavolo di discussion con la comunità internazionale, necessità che poteva trovare risposte concrete solo nell’ambito delle Nazioni Unite. Non c’era altro ambiente ove il governo americano avrebbe potuto sperare di riaprire questo dialogo. Di certo non nell’ambito della Coalition of the willing, una parvenza di risposta collegiale che aveva cercato di offrire un surrogato assolutamente inadeguato alla carenza di una posizione unanime al Consiglio di Sicurezza. In altre parole, pur nel momento del massimo trionfo dell’unilateralismo, la superpotenza cercava ancora la via multilaterale. Era ancora alla ricerca di legittimazione universale per le sue azioni.
Questo è un esempio estremo, ma riflette il punto centrale della mia argomentazione: l’interesse nazionale a sostenere le Nazioni Unite trova la sua fonte principale nel desiderio di acquisire una “legittimazione” universale alle proprie ambizioni nazionali.
Se un paese vuole veder riconosciuta una sua domanda per garantire, ad esempio, la libertà di stampa, la protezione delle minoranze indigene, i diritti della donna, la tutela dell’ambiente, un trattamento umano per i rifugiati, anche al di là dei propri confini nazionali, l’unica possibilità è quella di cercare legittimazione attraverso la condivisione di alcuni posizioni, attraverso un libero consenso da parte della collettività di tutti gli altri stati nel loro insieme. Posizioni unilaterali vegono così legittimate a livello globale perché passano attraverso il filtro neutrale di un vaglio internazionale ove le differenze di potere tra paesi diversi si annullano, perché un paese vale quanto l’altro. Questo avviene nelle Nazioni Unite, perché la loro copertura internazionale è totale (universalità) e la neutralità è garantita dalla regola generale ‘un paese, un voto’.
Il potere di convocazione a livello mondiale
Questa legittimazione universale si associa anche ad un’altra caratteristica delle Nazioni Unite: la loro capacità unica di “convocare” qualsiasi potenza mondiale per avviare un dialogo e un confronto politico che coinvolga tutti i paesi del mondo, qualunque sia la natura della problematica. Questo è quello che in inglese è definito “convening power”. Naturalmente, nessun governo è obbligato a rispondere positivamente a questi inviti. Ma resta il fatto che le Nazioni Unite hanno una capacità unica di convincimento nel convocare gli stati che sono membri dell’Organizzazione, proprio perché l’ONU è un terreno neutro, ove nessun paese si sente indivualmente minacciato, e perché per partecipare attivamente alla vita della comunità internazionale è conveniente per tutti i paesi rispondere positivamente a questi inviti.
Ovviamente questa capacità di convocazione non appartiene solo alle Nazioni Unite. Qualsiasi capo di stato influente la condivide in qualche misura. La differenza sta nel fatto che l’ONU è strutturato come un’organizzazione che raggiunge in modo sistematico tutti i paesi del mondo, offrendo una garanzia di neutralità a tutti i paesi convocati. Nessuno altro è in grado di offire una garanzia del genere a tutti gli stati del mondo.
Un esempio concreto
La natura e il valore delle Nazioni Unite possono essere meglio comprese anche con qualche esempio concreto. Il segmento ad alto livello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è un appuntamento regolare nella vita delle Nazioni Unite, che si ripete ogni anno nella terza settimana del mese di settembre, quando l’Assemblea Generale dell’ONU si riunisce a New York, dopo aver inziato la sua sessione ordinaria. È un’occasione unica di vedere la partecipazione massiccia di capi di stato e di governo da tutte le parti del mondo che si riuniscono per parlare dei temi più diversi. Quest’anno era la volta dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, in previsione della conferenza che si terrà a Parigi, con speciale attenzione ai cambiamenti climatici e alle loro conseguenze sul nostro pianeta.
Quel che succede in quella settimana a New York va al di là di quanto discusso nella sala dell’Assemblea Generale, ove si succedono discorsi ufficiali, spesso solo di un quarto d’ora, secondo una liturgia abbastanza scontata. Quella è un’occasione unica per permettere alla diplomazia di operare al massimo delle sue potenzialità, nei segreti corridoi della sede delle Nazioni Unite, cercando di negoziare e di trovare soluzioni anche su ciò che può sembrare insolubile.
È in quella sede multilaterale neutrale che paesi che non hanno alcun contatto diplomatico (ad esempio la Corea del Nord o la Siria di Bashar al-Assad rispetto a molti paesi occidentali), anche paesi che si confrontano con conflitti armati più o meno dichiarati, hanno occasione di incontrarsi sotto il tetto dell’ONU. Questi contatti sono vere e proprie aperture di credito potenziali verso un dialogo costruttivo, che potrà materializzarsi solo in futuro. Si tratta di un’offerta di dialogo che resta disponibile per tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, che la possono accettare in qualsiasi momento per avviare negoziati nella speranza di garantire una coesistenza pacifica e all’ombra di un rispetto reciproco, se e quando si creino le condizioni politiche per quel dialogo.
Spesso i vertici ad alto livello non approdano ad alcun risultato immediato. A volte i progressi di questi contatti politici sono lenti e si vedono solo a distanza di tempo, mentre i contrasti perdurano a lungo. Ma la porta del dialogo è sempre lì, disponibile, pronta ad essere aperta e attraversata senza preavviso, semplicemente perché esistono le Nazioni Unite.
Nel corso degli ultimi settant’anni, l’ONU ha collaudato meccanismi, canali di comunicazione, procedure e modalità familiari a tutte le diplomazie mondiali che le usano per dialogare sui problemi più cruciali e scottanti, anche se molte riunioni passano inosservate all’opinione pubblica o si svolgono dietro le quinte. I risultati possono essere modesti e graduali, o appaiono solo agli addetti ai lavori. Ma la progressione significativa non sfugge all’osservatore attento.
Il prezzo della neutralità
Certamente questo dialogo non avviene senza pagare un prezzo molto elevato. Significa accettare la partecipazione diplomatica di regimi che non hanno legittimazione democratica nei loro rispettivi paesi. Significa dare voce a dittatori di turno, a coloro che hanno commesso atrocità terribili nei confronti delle proprie popolazioni. Ma l’alternativa sarebbe l’esclusione sistematica di tutti quegli stati che qualche altro stato bandisce, rinunciando all’ “universalità” propria delle Nazioni Unite.
C’è la possibilità di condizionare il comportamento di stati che non accettano le regole di buona convivenza internazionale con l’adozione di sanzioni morali o economiche. Il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale hanno usato lo strumento delle “sanzioni” in diverse occasioni, anche se il loro uso è controverso sia per il suo significato che per la sua efficacia. Tuttavia, le sanzioni si possono prestare a manipolazioni da parte di maggioranze estemporanee che si riescono a raggiungere negli organismi ove vengono adottate.
In mancanza di sanzioni, resta il fatto che l’universalità e la neutralità delle Nazioni Unite debbano pagare il prezzo della presenza “scomoda” di alcuni stati membri che non sempre ottemperano ai principii e ai valori delle Nazioni Unite. C’è chi sostiene che questa è anche la conseguenza della regola che ogni stato vale un voto, che si applica quasi ovunque nelle Nazioni Unite ad eccezione delle decisioni di bilancio (ove l’influenza degli stati che detengono i cordoni della borsa è rilevante) o del Consiglio di Sicurezza (ove i cinque paesi membri permanenti godono del diritto di veto).
Decisioni unanimi o a maggioranza?
Non c’è dubbio che decisioni prese all’unanimità nell’ambito dell’ONU offrano una garanzia più ampia di legittimazione universale a quelle decisioni. Ma l’applicazione della semplice regola “un paese, un voto” pone la questione di quale valore abbiano decisioni o risoluzioni adottate a maggioranza. Hanno la stessa autorevolezza di quelle prese all’unanimità? Formalmente, le Nazioni Unite applicano gli stessi meccanismi di votazione assembleare che si usano nei parlamenti nazionali. Nel caso in cui non sia possibile raggiungere l’unanimità in riunioni assembleari, si segue la consueta regola “un paese, un voto”. Ma il valore sostanziale di decisioni non unanimi nelle Nazioni Unite non ha lo stesso significato delle maggioranze politiche nei parlamenti nazionali.
In questi ultimi, il confronto politico cerca di raggiungere, a volte con coalizioni, maggioranze stabili che vengono considerate risultato ottimale, nella misura in cui gli eletti siano espressione della volontà degli elettori, perché permettono il varo di leggi e il sostegno a governi come espressione di principii democratici. Mentre l’unanimità delle votazioni nei parlamenti è episodica, rara, e non necessariamente perseguita come obiettivo politico in quei consessi nazionali, nelle Nazioni Unite l’unanimità è simbolo di coesione della comunità internazionale. Per questo a volte si percepisce una certa contraddizione tra la ricerca continua di una “legittimazione universale” (che richiederebbe una pressocché unanime posizione della comunità dei paesi membri) e l’autorevolezza di decisioni prese a maggioranza. Quest’ultimo risultato può apparire contrario al concetto di solidarietà internazionale, in quanto accetta che un gruppo di paesi possa imporre la propria volontà ad altri paesi, anche se in minoranza, il che sembra contrario al principio wilsoniano dell’autodeterminazione su cui le Nazioni Unite sono fondate.
Tuttavia, ci sono casi, come le “sanzioni” (morali o economiche) adottate nei confronti di un paese considerato in posizione di infrazione rispetto ai principii di fondo delle Nazioni Unite, in cui l’unico voto contrario può essere quello del paese oggetto della “sanzione” stessa: in tal caso, il voto, anche se formalmente a maggioranza, è analogo a quello unanime, e la legittimazione universale è pressocché garantita. Quando però alcuni paesi impongono sanzioni che non sono condivise da tutti gli altri, la decisione è raggiunta a maggioranza, e si apre il caso di una spaccatura internazionale. In tal caso, il valore legittimo della sanzione è politicamente indebolito dalla carenza di unanimità nel condannare lo stato accusato di infrazione. Qui il discorso diviene politico, e null’altro si può dire senza entrare nei casi specifici.
Ma a parte questi casi menzionati in cui le maggioranze sono espressioni di voto “contro” uno stato singolo (cioè il caso delle sanzioni), decisioni a maggioranza sono molto più complesse e di valore diverso. Per chi lavora alle Nazioni Unite aiutando gli Stati membri a raggiungere convergenze decisionali nelle varie assemblee o nei consigli inter-governativi, la sfida non è raggiungere una maggioranza qualsiasi nei voti espressi dagli Stati membri, ma piuttosto raggiungere l’unanimità o la quasi unanimità, per poter sostenere che la comunità internazionale è riuscita ad esprimersi con una posizione comune su problemi globali.
Ricordo con piacere il raggiungimento dell’unanimità in tante risoluzioni di cui mi sono personalmente occupato in materia di coordinamento ed efficacia delle operazioni di sviluppo delle Nazioni Unite. Si trattava di lunghe risoluzioni, ove l’unanimità era stata raggiunta dopo mesi di lavoro, e complesse negoziazioni che riguardavano una materia molto articolata e meccanismi intricati. Il fatto di aver approvato all’unanimità quei testi offriva autorevolezza a quelle risoluzioni, che potevano così essere utilizzate per dar forza politica alla loro implementazione, universalmente accettate come linee guida, dei veri e propri manuali indirizzati a tutti gli Stati membri che ne riconoscevano l’autorità. C’è da dire però che esiste una tradizione non scritta che vuole che la comunità internazionale fa normalmente qualsiasi sforzo per evitare decisioni a maggioranza in materia di cooperazione internazionale allo sviluppo. Ripeto, “qualsiasi sforzo”. Questo significava lunghissime sessioni di lavoro, anche notturne, per smussare le divergenze, pur di trovare una posizione di accordo. Si tratta di un esercizio unico di auto-controllo da parte dei singoli paesi, che pur nella difesa estrema dei loro rispettivi punti di vista, lottano strenuamente nella ricerca di un “compromesso” accettabile che possa essere attribuito alla comunità internazionale. Tuttavia non mancano eccezioni, quando una risoluzione di quel tipo non è riuscita ad esprimere l’unanimità assoluta. In tal caso, le divergenze sono puramente politiche.
Non tutte le materie, però, riescono a godere di questa unanimità decisionale. In tal caso spaccature decisionali sono frequenti ed indicano solo che c’è ancora molto lavoro da fare per favorire convergenze su posizioni comuni.
Nel Consiglio di Sicurezza, poi, il discorso è ancora più complesso, anche perché la regola democratica di ‘un paese, un voto’ è attutita dal diritto di veto dei suoi membri permanenti. Nel Consiglio di Sicurezza, un valore particolare è attribuito al voto unanime dei membri permanenti (anche con qualche astensione di alcuni di loro), pur se si associa ad una maggioranza semplice nel Consiglio. Decisioni di tal tipo sono considerate politicamente molto autorevoli, perché hanno superato la difficoltà maggiore di quel Consiglio, che è quella di raggiungere l’unanimità tra i membri permanenti. Ma se un membro permanente esprime il suo diritto di veto, anche se tutti gli altri membri del Consiglio sono d’accordo, entriamo in una fase di impasse, che blocca l’operatività della decisione. In tal caso la legittimazione internazionale viene meno. Questa fu l’impasse che bloccò il lavoro del Consiglio di Sicurezza per decenni durante la guerra fredda, ma rischia di nuovo in questi ultimi anni di costituire un ostacolo di fondo all’operatività delle Nazioni Unite in materie particolarmente rilevanti come le missioni di pace e la risoluzione dei conflitti armati.
Le maggioranze decisionali nelle Nazioni Unite sono influenzate da tanti fattori. Alleanze strane si sono create storicamente per motivi vari e nelle forme più diverse. Tra queste decisioni, ci sono tante votazioni necessarie per determinare la composizione di organi istituzionali, di comitati e di commissioni, o la designazione della loro presidenza, quando vengono affidate al voto assembleare. Possono apparire decisioni di importanza minore, ma il loro risultato può produrre l’affidamento di posizioni di vertice a rappresentanti di stati che negano i valori fundamentali che gli stessi organi dovrebbero difendere. Questa è la contraddizione dell’uso dello strumento democratico del voto assembleare, che può portare a situazioni imbarazzanti in materie delicate come i diritti umani, lo stato di diritto, o la protezione dell’ambiente.
I critici delle Nazioni Unite spesso adducono questi episodi come prove lampanti che il meccanismo delle Nazioni Unite non funziona. Spesso si tratta di fenomeni che rivelano l’abuso di regolamenti interni o sono conseguenze di abitudini istituzionali (ad esempio, l’uso di raggruppamenti regionali, che permettono designazioni secondo ritualità consuetudinarie) favorendo alleanze di comodo e a volte vantaggi personali.
Mentre occorre creare consapevolezza nella comunità internazionale sul prezzo che si paga facendo questi errori madornali, non riesco a comprendere come fatti singoli di questa portata limitata possano essere addotti come prova inconfutabile che inficia il valore di fondo della stessa esistenza di un’organizzazione complessa come il sistema delle Nazioni Unite, specialmente quando l’appoggio a questo sistema è condizione per assicurare una convivenza pacifica al nostro pianeta e per promuovere progresso sociale agli esclusi dal processo di sviluppo.
Obiettivi delle Nazioni Unite
Mi sono dilungato sulla legittimazione universale e sulla neutralità come aspetti fondamentali del valore delle Nazioni Unite, nel tentativo di dare una risposta alla nostra domanda di fondo, ma occorre anche ammettere che questi concetti non riescono a sintetizzare, neanche in minima misura la vera natura e le ambizioni delle Nazioni Unite, anche se ci hanno permesso di esaminare alcuni aspetti concreti del loro funzionamento.
Quando i fondatori delle Nazioni Unite si riunirono nel 1944 a San Francisco per approvare la Carta che ne rappresenta il documento costitutivo, il mondo era ancora sconvolto da un conflitto senza precenti nella storia e loro vollero dare una risposta adeguata alle sfide della guerra, al di là di qualsiasi sistema fragile di alleanze politiche. Così intuirono la necessità di fare un salto di qualità nell’organizzazione della comunità internazionale, perseguendo obiettivi più ambiziosi come la protezione dei diritti umani e della dignità della persona umana, l’uguaglianza fra tutti gli uomini e le donne, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il miglioramento sociale ed economico di tutti i popoli, nonché l’uguaglianza fra tutte le nazioni piccole e grandi.
Così concepirono questa complessa organizzazione, con apposite istituzioni, fondata sul riconoscimento della validità assoluta del diritto internazionale, che persegue come obiettivo fondamentale il mantenimento della pace internazionale, nella ricerca costante dell’uso di metodi pacifici per risolvere le dispute tra paesi, mentre tenta di fondare la convivenza pacifica su principii fondamentali di giustizia e di equità.
È importante ricordare tutto ciò perché questo spiega il perseguimento di rapporti di fratellanza e di collaborazione tra le nazioni della terra, sulla base del principio di base dell’uguaglianza e dell’auto-determinazione dei popoli, la promozione del progresso sociale e del miglioramento delle condizioni della vita umana, in un clima di libertà e di tolleranza reciproca, che sono gli obiettivi fondamentali dell’Organizzazione.
In particolare, le Nazioni Unite sono state create sin dall’inizio per stabilire rapporti efficaci di cooperazione internazionale, per risolvere problemi sociali, economici, culturali ed umanitari del mondo intero, nel rispetto dei diritti umani e dei principi di fondo di libertà. Questi obiettivi sono poi specificati in modo incisivo e in termini più precisi, negli atti costitutivi delle singole organizzazioni delle Nazioni Unite, e in tanti documenti strategici, dichiarazioni ufficiali, piattaforme e programmi di lungo periodo. Includono il raggiugimento del pieno impiego ed il miglioramento delle condizioni nel settore della sanità, dell’istruzione, della cultura e dell’ambiente. All’inizio di questo secolo tutti questi obiettivi furono rivisitati e sintetizzati negli Obiettivi per lo Sviluppo del Millennio (MDGs, nella sigla inglese), che avevano stabilito traguardi molto precisi da raggiungere entro il 2015. A settembre di quest’anno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha rivisto i risultati raggiunti finora con la strategia del nuovo millennio e ha rinnovato la sfida ai grandi temi dello sviluppo e della convivenza internazionale, concordando un’Agenda proiettata fino all’anno 2030, e sostituendo i vecchi MDGs, con otto Sustainable Development Goals (SDGs), ovvero Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile che rappresentano la nuova piattaforma per tutti i paesi delle Nazioni Unite per gli anni a venire, nonché la base operativa delle attività di cooperazione allo sviluppo del sistema delle Nazioni Unite.
Il “Sistema delle Nazioni Unite”
Quello che chiamiamo oggi “Sistema delle Nazioni Unite” è l’insieme di questa complessa organizzazione che si è andata formando e adattando nel tempo, nel perseguimento degli obiettivi ambiziosi sopra citati. Il Sistema comprende, fra l’altro, istituzioni come il Segretariato delle Nazioni Unite e i suoi dipartimenti; l’Assemblea Generale, e i suoi comitati e commissioni, compreso il Consiglio per i Diritti Umani, la varietà di Fondi e Programmi delle Nazioni Unite, e i suoi centri di ricerca e di formazione; il Consiglio Economico e Sociale (noto come ECOSOC), e le sue commissioni funzionali, nonché le Commisioni Regionali, e le tante agenzie specializzate. Alcune delle organizzazioni del Sistema delle Nazioni Unite furono create anche prima dell’ONU, essendo state ereditate dalla Società delle Nazioni Unite che fu fondata dopo la prima guerra mondiale. Altre agenzie sono ancora più antiche (per esempio l’Unione Postale Internazionale). Rinuncio ad elencarle tutte o a descriverle, per il loro numero elevato e per la loro complessità.
È però giusto sottolineare che questo sistema delle Nazioni Unite è tutto meno che un sistema. È il risultato di decisioni intergovernative prese in momenti diversi della storia, spesso per rispondere ai bisogni più diversi, e con complessi problemi di coordinamento. Spesso i governi hanno preferito creare organismi nuovi per affrontare problemi nuovi, anziché riformare istituzioni esistenti. Questo spiega la natura frammentaria delle sue istituzioni, che non sembrano rispondere ad un disegno manageriale coerente. Purtroppo è più difficile riformare strutture esistenti che crearne di nuove. Questo è un circolo vizioso che in parte spiega i grandi problemi di efficienza gestionale e di coerenza che sono frequenti nelle Nazioni Unite.
La sfida del coordinamento e del miglioramento della efficienza nel funzionamento di questo complesso sistema a volte è oggetto facile di derisione da parte dell’osservatore superficiale, ma costituisce la preoccupazione costante di esperti di organizzazione internazionale, di chi lavora all’interno di quelle istituzioni e dei paesi membri delle Nazioni Unite. Ci sono molti meccanismi e riforme che sono stati adottati nel corso degli ultimi decenni per migliorare l’impatto dell’azione delle Nazioni Unite nel rispondere ai problemi immani che intende affrontare. Schemi di coordinamento, linee guida, standard di gestione e di valutazione, criteri operativi, sono numerosi e le istituzioni delle Nazioni Unite lavorano alacremente per rafforzare le sinergie tra le componenti eterogenee di questa complessa struttura. Esistono dei meccanismi istituzionali di coordinamento, come il CEB (Il Comitato dei Chief Executives delle Nazioni Unite per il Coordinamento), che collega i vertici di tutte le agenzie e le organizzazioni del sistema. IL CEB è articolato in tre comitati che riguardano aspetti di programmazione (HLCP), amministrativi (HLCM) e di sviluppo (UNDG). Il loro ruolo è stato incisivo in questi ultimi quindici anni per i risultati soprendenti che sono riusciti a raggiungere in termini di coordinamento e di migloramento della collaborazione all’interno del Sistema.
L’impegno delle Nazioni Unite sul fronte degli aiuti umanitari è notevole, e vede in prima linea istituzioni come OCHA, in posizione di coordinamento, il CERF (il Fondo Centrale per la Risposta di Emergenza, che è il meccanismo centrale per finanziare qualsiasi intervento umanitario), e agenzie specializzate che sono particolarmente attive nelle emergenze umanitarie, come l’UNHCR (l’agenzia per i rifugiati), l’UNDP (programma per lo sviluppo), l’UNICEF (con programmi per l’infanzia), il PMA (Programma Mondiale dell’Alimentazione), e agenzie tecniche come l’OMS per la sanità e la FAO per l’agricoltura e per la sicurezza alimentare.
A partire dall’inizio degli anni 90 si sono intensificati i programmi delle Nazioni Unite nel settore del Peacekeeping, ove attualmente le Nazioni Unite mantengono 16 programmi operativi in quattro diversi continenti, con interventi complessi che tendono a mantenere condizioni di sicurezza e di pace in paesi che soffrono di conflitti in corso o appena conclusi, con lo scopo molteplice di facilitare processi di stabilizzazione politica, protezione della popolazione civile, disarmo e reintegrazione di ex combattenti in attività civili, assistenza all’organizzazione di elezioni nazionali e in generale assistenza al restauro dello stato di diritto e della protezione dei diritti umani.
L’efficacia delle Nazion Unite
Hanno sempre successo le Nazioni Unite con il loro programmi? Senz’altro no. Chi sostenesse il contrario sarebbe uno sciocco. I problemi che intendono affrontare sono di tali dimensioni che pretendere che le istituzioni delle Nazioni Unite abbiano la soluzione magica ogni volta che affrontano queste sfide enormi per l’umanità, sperando di avere sempre il risultato giusto ed immediato è da ingenui. Queste carenze tuttavia non giustificano giudizi grossolani che condannano queste istituzioni come carrozzoni inutili ed inefficienti. Infatti bisogna chiedersi se queste istituzioni delle Nazioni Unite, nonostante le loro limitazioni ed inefficienze, contribuiscano in qualche misura alla soluzione dei problemi, e la risposta è senz’altro positiva, anche se non trionfale.
L’esame della performance del Sistema delle Nazioni Unite, nelle sue attività di cooperazione allo sviluppo, che ha costituito tanta parte del mio lavoro per più di due decenni, mi ha portato a vedere insuccessi e successi parziali. Ma quello che più tengo a sottolineare per il lettore che non ha esperienza diretta con le attività delle Nazioni Unite, è che ciò che prevale è uno sforzo continuo di tutte le organizzazioni, delle loro strutture, ed in particolare del loro personale di funzionari, per rispondere constantemente alle sfide generate dagli squilibri strutturali, dalle difficoltà e da eventi imprevisti, con un rilancio continuo di iniziative e proposte di soluzioni a nuovi e vecchi problemi.
Sul piano politico generale, le strutture del Segretariato delle Nazioni Unite e le sedi delle grandi agenzie riescono ad attirare costantemente l’attenzione dei governi sui problemi scottanti del pianeta. E direi proprio che non mollano. La loro persistenza è encomiabile. Analisi, documentazioni, rapporti vengono prodotti in continuazione per facilitare il compito dei diplomatici, assistendo gli addetti alle negoziazioni. Certo la parola ultima, in quelle tematiche, è ai governi, e non ai funzionari delle Nazioni Unite, che svolgono soltanto il compito di facilitatori del lavoro dei governi. Spesso al pubblico sfugge questa distinzione: pensano alle inefficienze delle Nazioni Unite, quando sono le ignavie, le indecisioni e i contrasti dei governi che spesso sono causa di inefficienze e contraddizioni.
Le Nazioni Unite sono spesso accusate di sprecare fondi nel pubblicare centinaia di inutili rapporti. Il problema non è nuovo, ed è stato oggetto di costante revisione. I rapporti scritti sottoposti all’attenzione degli organismi inter-governativi debbono rispettare certi parametri ed essere sintetici (non più di 8500 parole per il Segretariato delle Nazioni Unite, non più di 5000 alla FAO). Ma questi sono palliativi. Gli stessi governi che criticano il numero eccessivo di rapporti scritti sono la fonte continua di richieste di nuovi rapporti per analizzare nuovi problemi. In ogni caso, esiste oggigiorno uno scrutinio molto più severo sulla necessità assoluta di un rapporto, prima di essere preparato e pubblicato.
Sul piano operativo, particolarmente nei programmi di sviluppo nei paesi emergenti e più poveri, la sfida è continua. Programmi si succedono, vengono valutati e modificati. Gli insuccessi inevitabili offrono lezioni per aggiustare il tiro. In ogni agenzia delle Nazioni Unite, il personale è costantemente obbligato a misurare la propria efficacia, rivedendo i risultati conseguiti, spesso valutando la propria performance con indicatori vari, lavorando con immaginazione per affrontare l’imponderabile, per adattarsi alle circostanze più difficili, con creatività e tempestività.
Nel corso degli ultimi venti anni, i mezzi finanziari messi a disposizione per appoggiare i programmi di sviluppo sono risultati spesso insufficienti. Il reclutamento del personale è risultato sempre più difficile a causa della insufficienza dei fondi per i programmi ordinari o per il bilancio regolare delle singole istituzioni. I paesi finanziatori hanno mostrato reticenza ad offrire finanziamenti a lungo termine, ma hanno favorito aiuti di emergenza, che sono però più volatili, rendendo il compito di chi gestisce programmi di assistenza sempre più difficile. Spesso i fondi arrivano troppo tardi rispetto alle necessità, o hanno durate così brevi che non permettono di varare programmi con prospettive ampie di sviluppo.
L’efficienza dei lavoratori delle Nazioni Unite
E i funzionari delle Nazioni Unite e delle sue agenzie che lavorano nei paesi in via di sviluppo fanno i salti mortali. Si inventano espedienti per dare senso alle contraddizioni delle burocrazie dei governi dei paesi donanti. Lavorano senza risparmiarsi, non c’è orario che tenga (a proposito, non si pagano straordinari alle Nazioni Unite), le giornate lavorative si allungano, in molti casi i giorni festivi si annullano, la famiglia è costretta a tollerare l’assenza di un padre o di una madre assorbiti dal lavoro.
Analoghi problemi riguardano anche il lavoro svolto nelle sedi. Il blocco del reclutamento, ormai cronico, accompagnato a tagli di posizioni lavorative introdotti per rispondere a riduzioni di bilancio decise dai governi, ha spesso obbligato il personale del Segretariato delle Nazioni Unite a sovraccaricarsi di lavoro: quanto veniva fatto da due funzionari spesso è oggi affidato ad uno, e magari l’anno successivo, a quell’incarico se ne aggiunge un altro, per rispondere alle richieste pressanti che i paesi membri esprimono nell’Assemblea Generale o all’ECOSOCi.
Tuttavia, l’impressione che si coglie osservando il personale nelle Nazioni Unite in azione, nonostante il notevole volume di lavoro, non è preoccupante. Si trova ancora tanto entusiasmo e dedizione tra i lavoratori dell’ONU. C’è ancora motivazione ideale. C’è l’orgoglio di appartenere ad un’organizzazione che lavora per cause importanti, nonostante le inefficienze organizzative e la carenza dei mezzi messi a disposizione. La determinazione dei funzionari è incredibile, concentrano tutti i loro sforzi sui problemi da affrontare, spesso dimenticando i disagi subiti. Mentre i governi discutono in questi giorni su come ridurre le remunerazioni dei lavoratori delle Nazioni Unite, e contenerne il costo pensionistico, o ridurre i contributi alle spese di istruzione dei loro figli, il personale del sistema delle Nazioni Unite è più impegnato sul fronte del lavoro, migliorando il modo di concepire il proprio lavoro, per essere più efficace.
Nella mente del funzionario impegnato sul fronte del lavoro, c’è un carosello di preoccupazioni tutte tese a rendere la propria attività più significativa. Ne menziono solo alcune: ciò che conta è non dimenticare la dimensione di genere, l’attenzione ai diritti umani, tener conto delle implicazioni ambientali, ampliare gli effetti sullo sviluppo delle capacità nazionali, moltiplicare le occasioni per coinvolgere la società civile.
Il lavoro è esigente e richiede continui aggiornamenti. Non ci si può fermare. Bisogna seguire il dibattito internazionale. Occorre leggere tanto. Occorre studiare ciò che suggeriscono gli studiosi del mondo accademico e della ricerca.
E poi non si possono ignorare le critiche obiettive a ciò che non funziona nel nostro lavoro. Le critiche possono venire dai governi, da osservatori esterni, da valutazioni interne o esterne. Spesso queste critiche sono ricche di insegnamenti utili. Queste critiche sono come un ordine del giorno per il nostro lavoro di domani. E la corsa continua.
Ecco cosa passa nella mente del funzionario medio delle Nazioni Unite. Ben lungi dall’immagine dell’imboscato descritto da certe caricature del lavoratore delle Nazioni Unite.
I loro salari sono stabiliti da commissioni internazionali, confrontandoli con parametri precisi, a partire dagli stidendi degli impiegati pubblici del governo federale americano per i funzionari che lavorano nella sede di New York. Sono più bassi di quelli della Banca Mondiale o dei funzioari della Unione Europea. La descrizione di alcuni articoli di giornale che parlano di stipendi favolosi è spesso basata su informazioni infondate, o prendono ad esempio soltanto posizioni apicali. E generalmente ignorano che il salario lordo è ben diverso dal salario netto ricevuto dal funzionario, normalmente decurtato di circa un terzo per quello che si chiama Staff Assessment, una specie di tassazione interna delle Nazioni Unite che viene conteggiata nel bilancio dell’ONU come contributo degli stati membri all’Organizzazione stessa, e ironicamente non come contributo del personale stesso al bilancio dell’ONU. Sta di fatto che raramente un funzionario di livello medio con famiglia e figli riesca a permettersi di vivere a Manhattan se lavora a New York, ma riesce ad avere un livello di vita decorosa rispetto ad analoghe posizioni americane se decide di fare il pendolare dalla periferia. Le pensioni sono di gran lunga inferiori rispetto allo stipendio guadagnato, sono calcolate col metodo contributivo, e se, come spesso succede, si entra nel sistema a metà della propria vita lavorativa, raramente si riesce a raggiungere il massimo della pensione, che richiede almeno 25 anni di contributi accumulati.
Coloro che lavorano nei paesi con urgenze umanitarie sono quelli che probabilmente pagano il prezzo più elevato per il loro contributo lavorativo. Corrono i maggiori rischi, mentre il loro guadagno salariale è pressocché lo stesso. Spesso rischiano la vita e vivono con restrizioni continue dovute alle misure di sicurezza. I loro disagi si moltiplicano se operano in sedi ove non possono essere raggiunti dalle proprie famiglie, costretti perciò a mantenere doppia abitazione, mentre il lavoro non permette distrazioni, ed il logorio dei nervi è costante.
Ci sono gli imbucati? I raccomandati? Gli scansafatica? Certamente, come ovunque. Purtroppo non posso parlarne più di tanto, perché non ne ho conosciuti molti nella mia lunga attività alle Nazioni Unite. Ho l’impressione che ci sia troppo da lavorare alle Nazioni Unite per interessare coloro che sognano posizioni da jet internazionale. Gli imbucati spesso appaiono come meteore, catapultati dall’esterno e con altrettanta velocità in uscita verso posizioni meno esigenti sul piano del lavoro, e forse meglio remunerate rispetto alle aspettative, disponibili fuori dal sistema delle Nazioni Unite. Le persone inefficienti esistono ovunque, ma generalmetne trovano il modo per mollare le Nazioni Unite quanto prima, perché “lavorare pesa”, e all’ONU non si scherza.
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