Storie vere ed ambigue
CHURIN
La metamorfosi
di Andreina Russo
La luna brillava nel bosco fitto di eucaliptus, le foglie oscillavano come sottili lamelle di luce. Le tre donne camminavano piano nel chiarore lattiginoso, il profumo intenso degli alberi penetrava nelle narici e le stordiva. Ognuna di loro si era concessa un viaggio, un salto breve fuori della vita di sempre, una compagnia non scontata, persone dai percorsi lontani, che in questi due giorni strappati al normale, incrociavano per poco le loro vite. Il viaggio: sul grande, vecchio fuoristrada pieno di ammaccature e di fango, avevano percorso verso Nord la Panamericana, nome grandioso di un'arteria
continentale che qui nel sud delle Americhe poco si attaglia ad una strada a due corsie, tutta buche e dossi. In certi tratti la sabbia del deserto ne cancella il tracciato e allora, quando in lontananza appare il puntino crescente di un veicolo, sorgono dalle superfici desolate dei campi all’intorno gruppi volonterosi di indios, donne, bambini, a volte anche uomini, che spalano solerti i mucchi dorati che si allungano sinuosi sull'asfalto. Poi si fanno avanti chiedendo sorridenti agli occupanti della vettura un contributo per il duro lavoro, fatto in fretta sotto il sole o nell'umidità pungente della neblina. Il conducente di solito, se non è un abitudinario fruitore di quella rotta, preso da pietà per quella misera condizione umana germogliata sorprendentemente in mezzo a quelle distese senza vita, sborsa qualche spicciolo. Mentre riparte, lo sguardo obliquo degli indios ne segue il cammino finché è di nuovo un puntino all'orizzonte. Allora, solerti come prima, si affrettano a ricoprire l’asfalto con le stesse palate energiche con cui l'avevano scoperto, in attesa del cliente successivo.
Lasciato il deserto Carlos aveva puntato dritto verso oriente, dove le montagne apparivano grigie e altissime nella lontananza. Nadia le aveva guardate inquieta: "È proprio sicuro che non ci sarà pericolo lassù?" gli aveva chiesto. Carlos l'aveva sbirciata con lo stesso sguardo che aveva avuto la mattina, quando Luigi gliel'aveva presentata: "No se preocupe señora, non ci sono terroristi nella mia valle: sono su nelle valli alte e più a Nord. Mentre Nadia tornava, più tranquilla a contemplare il paesaggio, A., seduta dietro, cercava di tenere a freno l'entusiasmo dei figli acceso da quell'inusitata avventura. Andavano nella sierra con una sola macchina, e non c'era nemmeno papà! Marco e Lorenzo erano abituati da quando erano arrivati in quel paese alle gite in carovana: almeno tre auto a darsi manforte in caso di guasti sulle quelle strade dissestate o a proteggersi da qualche brigante di quelli all'antica. Il trucco più comune per bloccare le loro vittime era nascondere un grosso masso in sacchi di plastica simili a quelli dei rifiuti e lasciarlo in mezzo alla carreggiata dopo una curva; chi guidava vedeva il sacco all'improvviso e frenava bruscamente per evitarlo o, immaginandone un contenuto innocuo, lo investiva in pieno. (E lì era pronto l'uomo dal viso di cuoio spuntato dal nulla, che con voce bassa e ferma dettava la tariffa per proseguire). Poi c'erano i terroristi, ma a quelli nessuno di coloro che osavano avventurarsi fuori città voleva pensare. Altro che tre macchine ci sarebbero volute. E dunque questa volta che cosa succedeva? Come mai la mamma si era lasciata convincere da Luigi a fare quest'uscita fuori dalle regole ora che papà era lontano ? “O forse proprio per questo?" si domandava A., presa dal rimorso di aver coinvolto i figli in questa specie di fuga. Ma poi che fuga? Con Luigi che aveva dieci anni meno di lei, con Carlos che ne aveva venti di più e con queste due praticamente estranee, conosciute per nient'altro che quattro chiacchiere in qualche party?
Il fuoristrada sobbalzava violentemente, i ragazzini ridevano sballottati sui sedili e la loro allegria finì per contagiare anche le donne. Carlos guardò di nuovo Nadia seduta accanto a lui e buttando là come per caso le chiese "Anche su esposo è lontano per affari?" Nadia si girò verso di lui e sorrise. Si addolcì l’espressione del suo viso, bello di una bellezza classica, severa, di statua romana: la fronte alta, il naso dritto, la bocca arcuata e carnosa. Su tutto spiccavano gli occhi grandi, allungati, di un colore incredibilmente viola. "Yo no tengo esposo " gli disse pacatamente. Carlos non staccò lo sguardo dalla strada che diventava sempre più stretta e tortuosa. Dopo qualche momento, come parlando fra sé e sé, mormorò piano: "Los italianos no tienen ojos". Nadia pensò che era la cosa più bella che le avessero detto da anni e la sua solitudine si accese di un tepore dimenticato. La macchina arrancava per la salita erta, le montagne brulle e grigie verso il mare cominciavano a popolarsi di una rada vegetazione di xerofile. Sui versanti affacciati verso l'interno che si scoprivano d'improvviso, dopo una curva, la vegetazione era invece già verde: alberelli radi, cespugli, perfino praticelli sulle terrazze incaiche abbandonate da tempo. Cominciavano ad apparire qua e là piccole figure di contadini avvolti nei mantelli, chi in cammino con gli attrezzi da lavoro sulle spalle, chi seduto sul ciglio della strada come in attesa.
Luigi taceva. Era l'unico del gruppo che da quando avevano lasciato le allucinanti periferie della città non aveva più aperto bocca. Le donne lo guardavano con tenerezza, non solo perché la sua bellezza di giovane intellettuale idealista, il viso asciutto, gli occhialetti alla Gramsci, suscitava in loro quello speciale istinto femminile che è a metà tra la madre e l'amante, ma anche perché sapevano esattamente che cosa stesse provando in quel momento. Anche loro prima di lui avevano varcato quella soglia. Luigi era l'ultimo arrivato, trasferito un mese prima da quell'altro mondo al di là dell'oceano. I primi giorni erano stati convulsi, si era dovuto presentare in Istituto e poi in ambasciata aveva dovuto affrontare, cercando di mostrare il suo aspetto migliore, gli sguardi indagatori dei superiori, e più tardi, invitato a cena nei giardini di ville sontuose, quelli un po' meno discreti delle loro mogli. Aveva avuto subito successo: era solo il suo secondo incarico all'estero ma aveva già acquistato l'aplomb necessario, l'atteggiamento lievemente sdegnoso, l'italiano perfetto, il sapiente dosaggio di completi fumo di Londra e pantaloni dalla piega impeccabile, cinture e mocassini di cuoio, polo Lacoste. E si sentiva un traditore. Quando pensava al suo passato, le riunioni fiume nello scantinato di San Lorenzo, le notti in sacco a pelo in facoltà, le discussioni infinite, i lunghi ta-ze-bao scritti per terra incurante del dolore lancinante alle ginocchia, l'odio feroce contro tutto ciò che sapesse anche lontanamente di borghese, di grasso sazio appagato, banale, egoista e stupido...” Eccomici in mezzo, sono come loro”, si diceva. La sua laurea in filosofia lo aveva portato prima nelle aule di licei bollenti dove ragazzi poco più giovani di lui gli erano apparsi già tanto lontani nel sentirli ripetere a pappagallo slogans che la sua generazione aveva costruito e sofferto sulla propria pelle. Si era illuso che quello fosse il suo ruolo vero, il nuovo insegnante, la figura rivoluzionaria in una scuola stantia, capace di far cadere le barriere secolari tra studenti e docenti. Niente autorità, niente punizioni, niente votacci, niente prediche, solo dialogo, dialogo socratico con i suoi allievi per andare insieme in cerca della verità. E constatare con dolore che gli studenti avevano subito fatto propri della rivoluzione (tante notti insonni, le botte al commissariato di polizia, la frattura così lacerante col passato, mamma almeno tu devi capire) solo gli aspetti comodi, quelli più gradevoli e gratificanti: la dissacrazione, la trasgressione, l’abbattimento delle regole, lo sberleffo all'autorità. E ora (così presto!), autorità era anche lui. Lo sberleffo ora era diretto a lui, misto al messaggio silenzioso che gli arrivava da ogni banco da ogni viso adolescente che lo squadrava ostentando la sfida: ma che vuoi tu, non sei dei nostri, tu sei dall'altra parte, noi facciamo la rivoluzione tu non ci puoi condizionare tu vuoi impadronirti dei nostri cervelli e guidarli chissà dove, noi vogliamo camminare da soli non ci servono guide non ci fidiamo di nessuno. E così se ne era andato, aveva fatto domanda agli Esteri per un posto di addetto negli Istituti di cultura ed ora era qui col suo bagaglio di amarezze come tutti gli altri. Ma in questo momento Luigi vive solo il presente, tutto è lontano, varca la soglia del luogo, sta bevendo l'aria, la pelle toccata dal vento freddo delle montagne che cala lungo le valli. Il sole al tramonto illumina i pendii come un riflettore la scena, i contorni delle cose diventano nitidi le linee si disegnano nette i colori scoppiano puri davanti ai suoi occhi. E’ il mondo andino che si apre per lui, è il pianeta altro, quello dei grandi silenzi e delle solitudini astrali, che rovescia la prospettiva della tua visuale e ti fa apparire quello che conoscevi prima, il mondo degli uomini, piccolo e insignificante. Ci sono lo sa altri luoghi della terra, il Tibet, la Patagonia, gli altopiani mongolici, capaci di svelare dimensioni nuove, ma questa è la sua prima volta, questa è la terra rivelatrice.
Luigi taceva. Era l'unico del gruppo che da quando avevano lasciato le allucinanti periferie della città non aveva più aperto bocca. Le donne lo guardavano con tenerezza, non solo perché la sua bellezza di giovane intellettuale idealista, il viso asciutto, gli occhialetti alla Gramsci, suscitava in loro quello speciale istinto femminile che è a metà tra la madre e l'amante, ma anche perché sapevano esattamente che cosa stesse provando in quel momento. Anche loro prima di lui avevano varcato quella soglia. Luigi era l'ultimo arrivato, trasferito un mese prima da quell'altro mondo al di là dell'oceano. I primi giorni erano stati convulsi, si era dovuto presentare in Istituto e poi in ambasciata aveva dovuto affrontare, cercando di mostrare il suo aspetto migliore, gli sguardi indagatori dei superiori, e più tardi, invitato a cena nei giardini di ville sontuose, quelli un po' meno discreti delle loro mogli. Aveva avuto subito successo: era solo il suo secondo incarico all'estero ma aveva già acquistato l'aplomb necessario, l'atteggiamento lievemente sdegnoso, l'italiano perfetto, il sapiente dosaggio di completi fumo di Londra e pantaloni dalla piega impeccabile, cinture e mocassini di cuoio, polo Lacoste. E si sentiva un traditore. Quando pensava al suo passato, le riunioni fiume nello scantinato di San Lorenzo, le notti in sacco a pelo in facoltà, le discussioni infinite, i lunghi ta-ze-bao scritti per terra incurante del dolore lancinante alle ginocchia, l'odio feroce contro tutto ciò che sapesse anche lontanamente di borghese, di grasso sazio appagato, banale, egoista e stupido...” Eccomici in mezzo, sono come loro”, si diceva. La sua laurea in filosofia lo aveva portato prima nelle aule di licei bollenti dove ragazzi poco più giovani di lui gli erano apparsi già tanto lontani nel sentirli ripetere a pappagallo slogans che la sua generazione aveva costruito e sofferto sulla propria pelle. Si era illuso che quello fosse il suo ruolo vero, il nuovo insegnante, la figura rivoluzionaria in una scuola stantia, capace di far cadere le barriere secolari tra studenti e docenti. Niente autorità, niente punizioni, niente votacci, niente prediche, solo dialogo, dialogo socratico con i suoi allievi per andare insieme in cerca della verità. E constatare con dolore che gli studenti avevano subito fatto propri della rivoluzione (tante notti insonni, le botte al commissariato di polizia, la frattura così lacerante col passato, mamma almeno tu devi capire) solo gli aspetti comodi, quelli più gradevoli e gratificanti: la dissacrazione, la trasgressione, l’abbattimento delle regole, lo sberleffo all'autorità. E ora (così presto!), autorità era anche lui. Lo sberleffo ora era diretto a lui, misto al messaggio silenzioso che gli arrivava da ogni banco da ogni viso adolescente che lo squadrava ostentando la sfida: ma che vuoi tu, non sei dei nostri, tu sei dall'altra parte, noi facciamo la rivoluzione tu non ci puoi condizionare tu vuoi impadronirti dei nostri cervelli e guidarli chissà dove, noi vogliamo camminare da soli non ci servono guide non ci fidiamo di nessuno. E così se ne era andato, aveva fatto domanda agli Esteri per un posto di addetto negli Istituti di cultura ed ora era qui col suo bagaglio di amarezze come tutti gli altri. Ma in questo momento Luigi vive solo il presente, tutto è lontano, varca la soglia del luogo, sta bevendo l'aria, la pelle toccata dal vento freddo delle montagne che cala lungo le valli. Il sole al tramonto illumina i pendii come un riflettore la scena, i contorni delle cose diventano nitidi le linee si disegnano nette i colori scoppiano puri davanti ai suoi occhi. E’ il mondo andino che si apre per lui, è il pianeta altro, quello dei grandi silenzi e delle solitudini astrali, che rovescia la prospettiva della tua visuale e ti fa apparire quello che conoscevi prima, il mondo degli uomini, piccolo e insignificante. Ci sono lo sa altri luoghi della terra, il Tibet, la Patagonia, gli altopiani mongolici, capaci di svelare dimensioni nuove, ma questa è la sua prima volta, questa è la terra rivelatrice.
Le donne lo avevano provato prima di lui, ed anche a loro era toccato rimanere mute in estatica stupita contemplazione, per questo lo guardavano intenerite come si guarda un bambino che accenna i primi passi.
Ida , la più giovane, taceva, sul viso di bambina aleggiava un sorriso vago, gli occhi celesti tondi, un po' acquosi, guardavano qualcosa molto lontano da lì. Strana creatura pensava A. osservandola piena di contraddizioni e di fobie. Aveva vinto un concorso per architetti all'UNESCO e stava lì per partecipare ad un progetto di restauro delle fatiscenti città coloniali. Lavoro ambizioso ed affascinante, che si scontrava duramente con lo squallore della realtà locale, il caos amministrativo e l'avidità delle autorità locali, che sarebbero state ben più felici di ricevere finanziamenti da gestire in proprio piuttosto che questi giovani tecnici internazionali pieni di albagia e animati dall'idea che le cose si potessero davvero cambiare. E dunque era arrivata un giorno, tutta sola nel grande aeroporto della capitale con una valigia e il suo viso di bambina. Il funzionario dell'ambasciata che era lì per riceverla si disse “Questa è del tipo Alice nel paese delle meraviglie, tempo un mese che fa i bagagli e se ne torna dalla mamma". E invece Ida aveva sfoderato un caratterino energico: aveva chiesto aiuto per cercarsi una casa, era stata adottata, come succedeva a tutti i "nuovi", dalle signore residenti che le avevano fornito generosamente indirizzi di parrucchieri, di sarte, di agenzie di collocamento per il personale domestico, di quei pochi negozi di alimentari di cui gli stranieri si fidavano, insomma il know-how per sopravvivere in una grande città del terzo mondo. Lei aveva imparato presto, si era affittata un appartamento piccolo ma prestigioso a due passi dalla residenza dell'ambasciatore e aveva cominciato a fare vita di società, entrando nel mondo ristretto degli stranieri accreditati e in quello più minuscolo della comunità italiana. Non aveva riscosso grandi simpatie. C'era un che di falso e di atteggiato in lei che cominciò con l'urtare anzitutto le altre donne, le cui antenne finissime avevano captato segnali di pericolo. Ida bamboleggiava: pur essendo una ragazzona alta una metro e ottanta, quando usciva di casa si faceva accompagnare sempre dalla domestica, una donnina che come quasi tutte quelle della sua razza non superava il metro e mezzo, fin dentro i negozi o alla soglia delle case dove veniva invitata, suscitando commenti ironici o, nei più buoni, uno sguardo di commiserazione. Ci si chiedeva perché, da brava ragazza di provincia, non avesse fatto la sua domanda per insegnare disegno nelle scuole, invece di finire quaggiù, un postaccio pieno di molti pericoli reali e di molti di più inventati dalla paura della gente. La cosa che mandava in bestia A. che, affettuosa e socievole di natura era presto entrata in amicizia con tutti quelli che aveva conosciuto, dai diplomatici, ai tecnici, agli esperti ONU, alle loro mogli, ai loro bambini, senza attuare le sue scelte in base al prestigio o alle cariche, ma aprendo la sua casa a tutti, era che Ida non perdeva occasione, ogni volta che la incontrava, di raccontarle che il giorno prima era stata al cinema con l'addetto culturale, il giorno dopo sarebbe andata a cena con il consigliere militare. "Con chi?" rispondeva Aurora fingendosi distratta, “Ah! Con Roberto e Paolo? Fai bene, sono due ragazzi in gamba.” Ma non riusciva a smontarla. Reggere l'ubriacatura di una missione all'estero già era difficile per gente smaliziata o dotata di grossi anticorpi culturali, ma per una come Ida era veramente troppo. Aurora distolse lo sguardo da lei. Era stanca, ormai da cinque ore il fuoristrada aveva lasciato l'infinito rettilineo della panamericana e si inerpicava sempre più a fatica sulla strada in cui l'asfalto sempre più spesso lasciava il posto a un ripiano diseguale. Attraversarono un pueblo: le misere case di fango disseccato mostravano come unico lusso tetti di lamiera ondulata che da lontano riflettevano la luce del sole. Era quello il primo traguardo del contadino se mai arrivava a guadagnare qualcosa di più dello stretto necessario per campare la giornata: un tetto di lamiera, quando veniva il temblor, o peggio ancora, il terremoto, non ti cadeva in testa col peso letale di un tetto di tegole. Quando gli spagnoli avevano importato la tecnica costruttiva di casa loro e l’avevano applicata sui pendii delle Ande, non sapevano ancora quanto frequentemente quelle montagne iraconde tendessero a scrollarsi di dosso i loro incauti abitanti. I nativi invece, prima dell’arrivo dei mostri dell’altro mondo, mezzo uomini mezzo cavalli, avevano imparato davvero, con la pena di secoli, come si costruiva lassù, sui pendii della roccia inquieta.
Frotte di galline fuggivano terrorizzate all’arrivo della grossa automobile, vecchine dalle gambe rinsecchite che spuntavano dalle larghe gonne variopinte si giravano incuriosite senza rallentare il passo, con la gerla piena di erba profumata che le caprette aspettavano pazienti nel recinto di casa. Il gruppo si fermò sulla piazza principale. In nessun pueblo del Perù manca un grande spazio quadrato o rettangolare, della cui antica funzione rimane solo l’enfatico nome di plaza de armas, ombreggiato spesso da maestosi platani secolari. Anche lì, nonostante la piccolezza dell’abitato, esso si allargava tra gli edifici più antichi, case mezzo diroccate, con i balconi di legno che le facevano assomigliare a baite alpine, la cattedrale con i suoi campaniletti gemelli e l’improbabile color rosa confetto bordato di bianco. Eppure tutti questi elementi eterogenei componevano un insieme di grazia armoniosa, immersi com’erano nell’atmosfera limpida della sera, percorsa da stridi di rondini. I viaggiatori entrarono in un bar della piazza, dove ai pochi tavolini sgangherati rari indios sedevano immobili, senza espressione sul viso, forse avvolti in un sogno lontano generato dall’alcool, dalla coca o semplicemente dalla loro mente visionaria. Sul bancone, poggiati su una carta oleata, alfajores appena sfornati, ricoperti di zucchero a velo risvegliarono con il loro profumo la fame nei due ragazzi. A. li frenò senza nemmeno dar loro il tempo di cominciare un capriccio. Troppo fresca era ancora l’esperienza del tifo dell’estate prima, che per poco non si portava via il più piccolo. Lei a casa a disinfettare tutto con l’amuchina, il cui odore costituiva ormai il fondo comune a tutto quello che mangiavano, e i due incoscienti a bere a scuola l’acqua del rubinetto, nonostante le mille raccomandazioni. Che poi mica era sicuro che se lo fossero preso così il tifo; d’estate nugoli di mosche banchettavano prima di loro sulle pietanze appena tolte dai fornelli, sui pantagruelici buffet dei ricevimenti, nelle cucine dei ristoranti. “Solo bibite sigillate, altrimenti dovrete aspettare l’arrivo. In macchina vi siete divorati i biscotti nelle prime due ore di viaggio, adesso che volete?”. Marco e Lorenzo si rassegnarono subito, conoscevano il tono definitivo della mamma. Dopo aver placato la sete e riassestato lo stomaco messo a dura prova da ore di scuotimento, se ne andarono a curiosare per i vicoli del villaggio, pavimentati di terra battuta solcata da rigagnoli, le cui acque torbide e puzzolenti dichiaravano apertamente la loro provenienza. Pochi i passanti, qualche vecchio dallo sguardo intorpidito, gruppi di bambini di età diverse, i più grandi con in braccio i più piccoli, tutti con le guance paffute sporche di terra, gli occhi vispi e curiosi che seguivano attenti le mosse dei forestieri.
-Andiamo, si fa tardi! Carlos richiamò le donne che si erano incantate davanti alla bottega del cappellaio: sulla parete di fondo erano appese decine dei cappelli bianchi col nastro nero destinati a coprire la testa delle donne della sierra. La loro severa foggia maschile in contrasto con la femminilità dei vestiti sgargianti dai corpetti ricamati, conferiva a queste donne un aspetto disomogeneo, che spiazzava i turisti occidentali.
-Aspettate! Me ne voglio comprare uno!- Ida aveva giá in mano un cappello e si apprestava a cominciare la contrattazione con l’omino della bottega, felice di avere addirittura clienti straniere (ne passavano cosi’ poche), quando, voltandosi, si accorse che le altre si erano incamminate verso l’auto sulla piazza.
-Apettate!- sembrava una bambina capricciosa: poso’ sul bancone il cappello e segui’ correndo Nadia ed A., mentre sul viso dell’artigiano si dipingeva la delusione.
Il viaggio riprese: man mano che si saliva di quota, la valle si restringeva e diveniva piu’ ripida: sui fianchi cominciavano ad apparire gli eucaliptus, ormai quasi gli unici alberi della sierra, importati dagli spagnoli, che hanno succhiato a questa terra arida anche le ultime gocce d’acqua. Ma la fame di legno era troppa, allora come ora, e le politiche ambientali non sfioravano questo paese, allora come ora. A. e Nadia notarono che le sponde del torrente che scendeva a valle schiumeggiando erano colorate di un bel rosso mattone, come se vi scorresse non acqua ma un te’ forte, e ne chiesero la ragione a Carlos. –Sono acque minerali, fu la risposta, qui cominciano le sorgenti termali che fiancheggiano il torrente e vi scaricano le loro acque calde, vedrete quando saremo su.
-Non possiamo fermarci un attimo? chiese Ida con la sua vocetta petulante.
- No, fra poco fara’ scuro, e’ meglio affrettarci.
- Non avevi detto che questa e’ una zona sicura? chiese A., che aveva scambiato un’occhiata preoccupata con Nadia.
- Ma certo! non vi avrei portate fin qui! io conosco uno per uno tutti i contadini della valle, di molti di loro sono compadre, ho fatto dai padrino ai loro figli, non c’e’ pericolo.
La risposta ambigua tranquillizzo’ le donne solo in parte: si chiedevano quale nesso sottinteso ci fosse tra il battesimo dei bambini della valle e la presenza dei terroristi. La piu’ tesa era A., che sentiva su di se’ la responsabilita’ di aver trascinato i figli in quell’avventura. Finalmente arrivarono: Carlos fermo’ l’auto nello spiazzo davanti ad una grande casa dalla pianta ad elle, simile a quelle viste nel villaggio: due piani intonacati a calce, un lungo balcone di legno intagliato che circondava tutto il primo piano, il tetto di tegole rosse. All’intorno solo vegetazione, il silenzio rotto dalle loro voci e dallo scrosciare del torrente nascosto tra gli alberi.
- E’ bellissimo! esclamavano i passeggeri scendendo con sollievo dalla macchina, le membra indolenzite, le teste frastornate dallo scuotimento, dal rumore e dall’altitudine. Avevano un gran voglia di camminare, di stirarsi, di stendere le gambe. Si lasciarono condurre dal padrone di casa nelle camere: pochi mobili vecchi, odore di umido e di legno, le pareti imbiancate a calce come l’esterno. I bambini erano elettrizzati: - Dai mamma sbrigati, andiamo da Carlos che ci ha fatto il te’! A. si sarebbe volentieri stesa sul letto, ma non poteva negar loro un po’ di sfogo, dopo tante ore di viaggio. Andiamo, disse. Uscirono di nuovo nello spiazzo: il sole era calato oltre le cime delle montagne, le ombre salivano rapidamente sul lato opposto. Ebbe un brivido: fra poco sarebbe stato buio. Nel soggiorno un caminetto incorniciato di pietra ospitava un bel fuoco, sul tavolo Carlos aveva gia’ disposto le tazze, la teiera, i dolci che aveva portato dalla citta’. Luigi e le donne si lasciarono cadere nelle vecchie poltrone foderate di cuoio scuro, i bambini attaccarono affamati i dolci. Carlos li osservava sorridente: estos extranjeros! Poche ore di strada e guarda come si riducono. - Poi tutti a fare il bagno! esclamo’. –Il bagno? a quest’ora? a quest’altezza? fra poco fara’ un freddo del diavolo! esclamarono tutti in coro. Ma che freddo!- rise Carlos- C’e’ la piscina nel bosco, l’acqua viene direttamente dalla sorgente, e’ a 38 gradi.
- Non abbiamo i costumi - obiettarono le donne.
- Ma che costumi! nel bosco non c’e’ nessuno, vorra’ dire che daremo la precedenza alle signore e quando voi tornerete andremo noi , esta’ bien?
- e Nadia erano tentate, ma ancora incerte se cedere alla stanchezza o alla curiosita’, quando Ida esclamo’ con la solita voce piagnucolosa:-Ma io ho paura!
Questo fece decidere immediatamente le altre due:- Dai, andiamo in camera, prendiamo gli asciugamani!
Mentre uscivano dalla stanza si sentirono dietro, come si erano aspettate, la vocina implorante: -Aspettatemi, vengo anch’io!
Si trovarono di nuovo nello spiazzo ghiaioso: il buio era calato, il cielo nero era fitto fitto di stelle.
- Mi sa che siamo un po’ matte, mormoro’ Nadia – ci possiamo fidare di Carlos?
- Io penso di si’- disse Aurora, inciampando in qualcosa mentre si inoltravano nel bosco; rabbrividiva, ma non era solo il fresco della sera. Si sentiva addosso, come le altre, una strana eccitazione, la sensazione del pericolo la faceva essere tesa ma le dava anche un piacere sottile, inaspettato. All’improvviso il bosco si inargento’, i tronchi divennero visibili, le figure che avanzavano fosforescenti.
- Che succede? si chiese Nadia, ed alzo’ gli occhi al cielo: attraverso le chiome degli alberi scorsero la luna, una grande, sfacciata luna piena, che era sorta da dietro la muraglia scura dei monti.
- Dio mio! esclamo’ Aurora guardandosi intorno: il bosco era diventato un luogo magico, iridescente, che palpitava mosso dalla brezza in infiniti riflessi di luce. Ida taceva incantata, per una volta la sua ansia dormiva, immersa in quella luce surreale.
Arrivarono alla piscina, quasi sulle rive del torrente, una vasca quadrata di cemento in una radura erbosa.
- Io mi vergogno a spogliarmi davanti a voi, non sono mica abituata!- cinguetto’ Ida. In effetti tutte e tre erano imbarazzate, perche’ avevano contato sul buio che le nascondesse alla vista delle altre.
- Oh be’ – taglio’ corto Nadia - non saremo arrivate qui per nulla! – e comincio’ a spogliarsi in fretta.
- Che freddo! strillava Ida sfilandosi i jeans aderenti, forse per dimostrarsi disinvolta davanti alle due meno giovani.
E si calarono con cautela nell’acqua, che le accolse in un abbraccio tiepido, quasi tenero. Ebbero la sensazione di ritornare nel ventre materno, di fluttuare nel liquido primordiale come creature non ancora nate. La dolcezza le sopraffece: rimasero a galleggiare in silenzio, muovendo appena gambe e braccia, dapprima guardando solo il cielo color latte in mezzo ai rami, stordite dal profumo penetrante degli eucalipti che le avvolgeva. Immersero la testa , il viso: i capelli fluttuavano come alghe nere in un lago notturno. Poi si guardarono: i loro corpi bianchi splendevano sulla superficie dell’acqua, le spalle lucide, i seni galleggianti come sfere lucenti.
- Driadi ed amadriadi...- penso’ A., rievocando i nomi mitici delle ninfe dei boschi – Non e’ vero, e’ un’ allucinazione, che ci ha messo nel te’ quel matto di Carlos?
La risata di Nadia ruppe il silenzio fatato: - Magari lo avessi sempre cosi’ bello dritto, il seno! Era un modo per esorcizzare la tensione, il ribollire dei sensi che Nadia sentiva prepotentemente lievitare in se’, come la marea che sale. Era abituata a rintuzzare questi assalti, ma questa volta era davvero difficile, c’era qualcosa di stregato in quella notte, in quel luogo. Tutte e tre avevano pensato agli uomini in attesa nella casa: era ora di uscire, di indossare di nuovo gli abiti consueti, di ritornare le donne composte e misurate che erano solo un’ora prima.
L’effetto fu quello cercato: alla battuta di Nadia avevano cominciato a ridere, a sollevare con le mani spruzzi scintillanti a giocare come bambine complici di una piccola, innocente avventura. Poi erano uscite dall’acqua, avevano scambiato battute leggere mentre si strofinavano i corpi bagnati e a fatica rimettevano i pantaloni che non scivolavano sulle gambe.
Saltellando intirizzite si avviarono verso la casa, e a meta’ cammino incontrarono Luigi, da solo.
- Dove sono gli altri? chiese Aurora subito memore dei bambini.
- Marco e Lorenzo si sono addormentati vicino al fuoco, e Carlos e’ rimasto con loro. Io vado a fare un tuffo, com’era il bagno?
- Lo sentirai..- gli rispose ambigua Nadia, senza voltarsi.
Fecero ancora pochi passi, poi, senza parlare, tutte e tre rallentarono, si fermarono, si volsero indietro. Quella era una notte magica, non c’era bisogno di parlare per capirsi. Lontano tra gli alberi la luna rischiarava una figura che si piegava, si drizzava, per un attimo apparve loro nitida, le forme lineari, perfette, i muscoli lunghi e levigati: un guizzo, e scomparve nell’acqua. Come vorrei essere acqua, come vorrei essere luna.
Si scambiarono un rapido sorriso, si volsero, raggiunsero la casa. Scomparvero nell’ombra del porticato.