CAUCASO E STORIA
Medioevo e Petrolio - II parte (link alla I parte)
di Marco Borsotti
Chi dice che studiare la storia sia da topi di biblioteca?
Chi ha letto la prima parte del racconto dei miei anni in Georgia, dovrebbe ricordare il fatto che subito dopo l'unilaterale proclamazione d'indipendenza georgiana, due province autonome contestarono questa decisione appellandosi a Mosca, ossia all'autorità centrale dell'allora Unione Sovietica, per affermare il loro rifiuto della secessione e asserire la loro decisione di restare parte integrante dell'URSS. Nel testo, poi, scrissi di una di queste l'Ossetia del Sud, ma lasciai il lettore all'oscuro delle vicende dell'altra. Adesso, mi appresto a colmare il vuoto per narrare alcune degli eventi che vidi in quegli anni viaggiando in Abkhazia, questo é infatti il nome della seconda regione.
Già nel precedente racconto mi riferivo a queste zone appellandole province, cosa che mi renderebbe oggi come ieri molto malvisto in quei luoghi autoproclamatosi Stati indipendenti e che allora godevano dello statuto di Repubbliche autonome all'interno della Repubblica Socialista della Georgia che a sua volta era parte dell'Unione Sovietica. Il loro Statuto offriva una condizione di autonomia dal centro, per capirci, una situazione simile a quelle delle regioni a statuto speciale italiane. La ragione formale per questa denominazione era riconoscere autonomia a realtà etniche diverse, mentre nella realtà si trattava di inserire spine nel fianco delle repubbliche sovietiche perché dovessero sempre dover contare sul potere centrale dell'Unione per mantenere stabilità all'interno dei confini che gli erano stati assegnati. Stalin e con lui varie generazioni di “compagni” del Comitato Politico dell'Unione Sovietica, un organo ristretto di soli dodici membri, conoscevano bene la storia antica romana ed il concetto del “dividere per comandare” che per vari secoli aveva tenuto insieme un impero di dimensioni ragguardevoli, non tanto come i 21 milioni di chilometri quadrati dell'URSS, ma certamente comparabile dal momento che quando raggiunse la massima espansione con Traiano imperatore, l'impero, pur se di poco superiore ad un quarto di quella dimensione, misurava pur sempre più di 6,5 milioni di chilometri quadrati. Essi non fecero altro che replicare quel modo di fare spostando a volte di migliaia di chilometri intere popolazioni per incastrarle in realtà etnicamente differenti come nel caso delle popolazioni tartare.
In vero, neppure la Repubblica georgiana era etnicamente uniforme vivendo al suo interno popolazioni tra loro differenti non solo etnicamente, ma anche per religione o lingua, come gli abitanti azeri o quelli della Migrelia o di Svaneti. Ricordo quanto scritto in precedenza che i georgiani propriamente detti rappresentavano circa il 60% del totale, una buona maggioranza, ma di certo insufficiente per voler imporre in esclusiva la propria lingua o i propri costumi al restante 40%.
Ci si chiederà che cosa c' entri la Storia con quanto scritto finora. Ebbene c' entra perché un cittadino dell'Abkhazia di nome Vladislav Ardzimba era uno storico di prestigio, membro dell'Accademia delle Scienze, ma anche un politico di visioni nazionaliste. Lui aveva studiato la storia più o meno remota della sua regione dimostrando che in vari periodi del passato l'Abkhazia aveva goduto d'indipendenza, giungendo persino a dominare una larga porzione del resto della Georgia. Lo dicevano i documenti, soprattutto trattati politici e commerciali intrattenuti da quel regno medioevale anche con la Repubblica di Genova che aveva stretto accordi per assicurarsi porti sicuri in cui far approdare le sue navi nel Mar Nero e quindi accedere anch'essa ai lucrativi commerci della via della seta in competizione con le altre repubbliche marinare e soprattutto con Venezia. Ardzimba, persona politicamente molto influente in Sukhumi e soprattutto tra le popolazioni d'etnia Abkhaz, ebbe buon gioco, certamente barando un poco, nel convincere molti che il momento fosse giunto per tornare agli splendori del regno di Bagrat che datava l'anno del Signore 1008.
 
Qualcuno voleva riscrivere la Storia degli ultimi secoli
Mi sono permesso d'insinuare che si fosse fatto largo utilizzo di forzature per sostenere queste tesi, visto che argomentare che circa mille anni prima un principe medioevale aveva riunito sotto la sua corona vasti territori non può oggi riconoscere legittimità a chi volesse reclamare la passata esistenza di quel regno per giustificare la richiesta odierna di riconoscere quelle terre come un nuovo Stato che ne fosse il legittimo erede. A pensarci bene, prima del 1948 il movimento sionista aveva sostenuto con successo una tesi simile. Ma quando lo aveva fatto le condizioni erano diverse. Il mondo usciva dall'orrore della Seconda Guerra Mondiale e quasi tutti provavano rimorso e vergogna per quanto era stato permesso fare agli ebrei dai nazisti. La caduta dell'Unione Sovietica senza aver sparato neppure una fucilata non era di certo un evento tale da giustificare simili ambizioni. Anzi, il mondo guardò con preoccupazione a quegli eventi temendo il caos che si sarebbe potuto creare accettando un simile precedente, quindi approvando senza ripensamenti la soluzione che voleva il disfacimento dell'Unione nelle quindici repubbliche che la formavano inizialmente senza alcuna alterazione dei loro confini come erano stati definiti in precedenza. Il principio era in linea con quello utilizzato per gestire la decolonizzazione dove si era accordato accettare come inalterabili i confini adottati dando priorità al principio della difesa dell'integrità territoriale su quello della autodeterminazione dei popoli. Devo confessare che, pur comprendendone le motivazioni, questa prassi dettata dalla consuetudine più che dai principi non mi ha mai convinto del tutto dal momento che volutamente ignora come le frontiere di molte Nazioni non siano altro che il risultato di decisioni unilaterali prese spesso senza neppure consultare le popolazioni direttamente coinvolte. La storia ci insegna che i confini sono contestati quasi ovunque per le tante incongruenze che li caratterizzano e che queste dispute sono state e continuano ad essere tra le cause principali di guerra tra Stati limitrofi ancora ai nostri tempi. Ricordo bene aver fatto queste riflessioni sulle rive mozambicane del lago Niassa, guardando verso dove si trovava pur se troppo lontana per scorgerla la sponda del Malawi, un altro paese. Peccato che le popolazioni delle due sponde parlassero lingue uguali sconosciute sia a Maputo che a Lilongwe e fossero etnicamente omogenee tra loro. Ovviamente questi dubbi mi si sono ulteriormente ingranditi dopo le vicende del Kossovo anche se dotte disquisizioni giuridiche, arrampicandosi sugli specchi, sostengano che in questo caso l'eccezione alla regola del rispetto dell'integrità territoriale sia giustificata.
Tornando a bomba alla mia narrazione principale, Ardzimba, fumatore accanito solito accendersi la sigaretta con il mozzicone di quella che stava terminando, le volte che lo incontrai tornava sempre sull'argomento della illegittimità delle pretese della Georgia sostenendo che nella storia i regni delle zone orientali di quel paese non avevano mai dominato la costa del mar Nero, mentre era invece vero il contrario quando il regno degli abkhazi si era espanso sin ad inglobale tutto il territorio occidentale. Fatti veri, ma anche vecchi di secoli che non tenevano conto del fatto che successivamente tutta l'area era stata assorbita dall'Impero Ottomano e successivamente da quello dello Zar per poi finire, dopo una breve parentesi tra il 1918 ed il 1921, per essere parte dell'URSS. Non mi permisi mai d'obiettare alle sue teorie, non era nel mio mandato discutere di legittimità territoriale o il riconoscimento di realtà di fatto come la Repubblica che lui dirigeva. Discutevo con lui delle popolazioni che erano state forzate ad abbandonare le loro case perché membri di un gruppo etnico sbagliato, del loro diritto al ritorno in condizioni di sicurezza, della crisi umanitaria che molti anche abkhazi vivevano, delle possibili iniziative economiche che avrebbero rivitalizzato l'attività di quei territori se soltanto si fosse permesso il libero movimento delle persone e delle merci attraverso i confini meridionali della sua repubblica di fatto. Per lo storico, le questioni di principio venivano prima delle mie considerazioni pratiche. Non me lo disse mai in modo così aperto, ma non mancò mai di farmelo capire indirettamente. D'altronde, lui rappresentava i vincitori della guerra che per oltre due anni aveva funestato quelle terre ed io francamente non avevo molti buoni argomenti per convincerlo a rinunciare a quanto avevano ottenuto sul campo di battaglia.
Alcune vicende associate con la guerra in Abkhazia
Anche Zviad Gamzakhurdia, il primo Presidente della Georgia indipendente era dedito a studi umanistici. Lui era filologo e  critico letterario, oltre che dissidente sin dagli anni settanta ed acceso nazionalista. Fu lui, ardente sostenitore della cultura georgiana, ad essere eletto nel 1990 Presidente del Consiglio della Repubblica socialista ancora parte dell'URSS. Fu lui nel marzo 1991 ad indire il referendum popolare che portò alla proclamazione dell'indipendenza diventando così il primo Presidente del nuovo Stato. Ma fu anche lui a non apprezzare le mire indipendentiste di altri ed a decidere che queste questioni meglio si risolvevano con l'uso dei cannoni. Dopo la misera avventura contro Tskhinvali, mandò le truppe georgiane anche a Sukhumi. Questa volta però, almeno inizialmente le cose andarono meglio per i georgiani. Al rispetto dobbiamo anche dire che circa metà della popolazione dell'Abkhazia era georgiana e quindi accolse come liberatori i georgiani che arrivarono preceduti dal tuonare dei cannoni. La costa dell'Abkhazia sino a quei giorni era stata infatti come la riviera ligure per gli anziani che possano permetterselo del nord-ovest dell'Italia, un posto dove trascorrere in pace gli anni della pensione. I sovietici che avevano un ottimo sistema di rilevamento statistico lo hanno documentato nei vari censimenti suddividendo la popolazione per gruppo etnico. Su di una popolazione di circa mezzo milione di persone, gli abkhazi rappresentavano il 18% alla pari con i russi e gli armeni mentre gli abitanti di origine georgiana erano circa il 45%. Oggi con solo duecentomila abitanti, gli abkhazi sono gli unici ad essere rimasti più o meno gli stessi, ma il loro peso proporzionale é salito al 44% del totale dei residenti.
Come narravo inizialmente, le truppe georgiane ebbero gioco facile ad arrivare a ed occupare Sukhumi. Ascoltando racconti di persone che si trovavano in quei posti e non erano georgiane, le truppe non adottarono un atteggiamento conforme alle convenzioni internazionali sul comportamento di militari con civili e con prigionieri di guerra. Ci furono razzie, violenze, esecuzioni sommarie ed anche esempi di brutalità e dissacrazione dei caduti. Questo, si sa, succede spesso in guerra e soprattutto nelle guerre civili dove l'odio del nemico é sempre maggiore. Questi fatti non resero facili le cose quando a fianco delle milizie abkhaze vennero in aiuti i volontari del Caucaso, gruppi di combattenti di varie origini etniche che, vogliono le male lingue, ispirati ed armati da Mosca, ribaltarono la situazione bellica mettendo in rotta le truppe georgiane che nel frattempo erano passate dal controllo di Gamzakhurdia a quelle di Shevardnadze messo al potere dopo un colpo di Stato avvenuto a Tbilisi nel 1992. Questa volta le cose diventarono difficili per i molti georgiani che vivevano soprattutto a Sukhumi e nella regione di Gali. Informati di violenze occorse nelle prime città riconquistate ai georgiani, i civili non attesero di conoscere la loro sorte e si mossero con ogni mezzo per cercare rifugio nel territorio georgiano propriamente detto. Purtroppo, da allora sono rimasti intrappolati come sfollati senza grandi prospettive di poter tornare un giorno nei luoghi da cui erano fuggiti incalzati dalle milizie dei volontari del Caucaso.
Ovviamente, negli anni che trascorsi in Georgia, capivo che proporre il rientro dei georgiani fosse alquanto irrealistico, ma esistevano dei ma e su di loro tentai di mettere in piedi una strategia in collaborazione con l'inviato speciale del Segretario Generale, l'amico Liviu Botha, diplomatico rumeno che, prestando servizio al Segretariato Generale di New York come funzionario internazionale, era sorto alle cronache mondiali quando nei primi anni ottanta l'allora padre padrone della Romania, Nicolae Ceausescu lo aveva surrettiziamente trattenuto in patria nella pretesa di poterlo rimpiazzare con altra persona di suo maggior gradimento. Liviu che era andato in ferie a Bucarest aveva ovviamente presentato le sue dimissioni dall'organizzazione, che altro avrebbe potuto fare, ma l'ufficio del personale non le aveva accettate richiedendo invece che gli fosse permesso di recarsi di persona a New York per confermarle. Una mera formalità che Nicolae non accettò sin al giorno in cui si trovò di fronte ad un plotone d'esecuzione insieme alla moglie, e questo permise a Liviu di tornare al Segretariato per occupare il posto che aveva lasciato. Lo scalpore degli eventi e, riconosco, anche le sue capacità personali, gli permisero un scalata ai vertici portandolo prima al rango di direttore e, successivamente, quando lo conobbi, a quello di SRSG.
Il ponte sull'Inguri
Spesso ostacoli naturali divengono frontiere, quelle linee impalpabili che separano Stati e tanto infiammano i nazionalisti che se le frontiere non esistessero o fossero bellamente ignorate, avrebbero poco o nulla da fare per giustificare la propria esistenza. Questo vale oggi anche per l'Inguri che, dopo aver corso per un lunga proporzione della totalità del suo tragitto in territorio georgiano, prima viene arrestato da una barriera artificiale, una diga che lo forza a formare un grande bacino per lo sfruttamento dell'energia idroelettrica, e poi piega ad occidente separando la regione di Samegrelo da quella di Gali, il confine naturale tra l'Abkhazia e la Georgia. Quando attraversai per la prima volta quel fiume, superato il controllo di frontiera di un gruppo di miliziani non proprio sicuri su come comportarsi con quella macchina con targa diplomatica georgiana, bandiera delle Nazioni Unite e passeggero che rifiutava di far stampare il suo passaporto, entrai in una zona praticamente abbandonata. Tutto intorno vi era una vegetazione rigogliosa di piante da frutta che nessuno potava, di arbusti da tè che ormai erano siepi piuttosto alte, di case coloniche vuote dove il tempo iniziava a mostrare i suoi segni. Si procedeva così per circa 25 chilometri, poi si raggiungeva un canale artificiale con un altro ponte ed un nuovo posto di controllo, poi via per altri ottanta chilometri senza segni evidenti di vita sino ad arrivare in prossimità di Sukhumi. Si capiva che quelle terre erano state abitate sino a tempi molto recenti, la guerra infatti era terminata da poco più di due anni, ma le popolazioni che erano scappate avevano lasciato il vuoto, nessuno era venuto ad occupare quei campi, quelle case.
Perché le cose erano rimaste così. Infatti in tutta quella regione lavoravano contadini georgiani. Erano loro a coltivare i frutteti, il tè, a tenere il bestiame, ad abitare quelle case. Lo avevano fatto da generazioni trasformando quei posti in terreni famosi per i loro frutti. Andati via loro, era anche andata via la competenza necessaria per coltivare. Coloro che erano rimasti non sapevano, non volevano farlo ed altri che sarebbero potuti venire da altre zone, per esempio dal nord del Caucaso, non pensavano conveniente rischiare il trasferimento in una zona di conflitto. Anche Sukhumi sembrava vuota. Di certo vi erano persone, non era tutto desolato come nei cento chilometri precedenti, ma queste erano poche rispetto alla quantità d'edifici. Bastava guardarsi attorno per capire il salasso di abitanti che quei luoghi avevano sofferto.
Solo un ideologo poteva non capire che le cose non avevano senso, appunto un ideologo ed Ardzimba era certamente uno di loro. Mi ricordo che mi parlava degli abkhazi di culto mussulmano che circa due secoli prima erano scappati in Turchia quando l'impero Ottomano aveva perso contro lo Zar di tutte le Russie e costoro erano fuggiti davanti alla sicura persecuzione dei cristiani ortodossi. Lui era certo che sarebbero tornati perché come potevano non sentire la chiamata del loro sangue a tornare sulle loro montagne? Permettere il ritorno dei georgiani avrebbe compromesso la sicurezza e spezzato il sogno di un ritorno alla grandezza del regno d'Abkhazia dei primi secoli del millennio. Gli argomenti che tentai di sollevare per mostrare come l'Abkhazia avesse bisogno adesso di persone disposte a lavorare quelle terre, la loro principale risorsa, erano che le uniche persone disponibili e pronte a tornare subito erano quei georgiani che a migliaia vivevano nei campi profughi pochi chilometri dopo l'Inguri. Avevo visto con i miei occhi persone guadare il fiume per non dover passare per i posti di blocco delle milizie. Il fiume quasi tutte le stagioni offriva molti guadi attraverso i quali potevano attraversare persino delle macchine berlina. Ardzimba di certo non mi fece mai caso. Sono anzi certo che non mi ascoltasse o non riuscisse a capirmi come penso lui giudicasse che io non capissi quello che lui mi prospettava.
Il bello della cosa era che i georgiani tornavano a frotte, illegalmente, senza passare dove erano le poche forze della milizia che, proprio perché ridotte in numero, non si avventuravano a pattugliare se non la strada principale che portava a Sukhumi. Costoro venivano perché erano contadini e volevano vedere le loro terre e volevano trarne un profitto. La cosa era talmente palese che altri a Sukhumi se ne rendevano conto e capivano che questo sarebbe potuto diventare utile.  Sergei Shamba, il loro Ministro degli Esteri, scelto per quell' incarico forse perché uno dei pochi capaci d'esprimersi correttamente in Inglese, capiva e finì per autorizzare noi delle Nazioni Unite ad aiutare chi tornava offrendo materiali da costruzione per riparare le case, per rifare i tetti, dando utensili agricoli, sementi, fertilizzanti, vaccini per il bestiame, aiutando a riaprire scuole per i loro bambini, aprire consultori sanitari. In cambio, davamo anche assistenza per sminare le zone che le truppe georgiane in fuga avevano minato e parlavamo con coloro che tornavano perché accettassero di pagare delle tasse al governo di Sukhumi. In pochi mesi calcolammo che dovevano essere rientrate circa novantamila persone, quasi la totalità di coloro che abitavano precedentemente in quei territori.
La politica degli oleodotti
Mentre questi eventi si realizzavano tra la fine del 1995 e gli inizi del 1998, il Mar Caspio viveva una nuova stagione del petrolio. Agli albori dell'era degli idrocarburi il Caspio ne era stato il centro, ma poi le cose erano cambiate soprattutto perché l'URSS aveva tagliato ogni via d'uscita ad occidente. Dopo la fine dell'URSS il Caspio conobbe un nuovo rifiorire che a sua volta si convertì in opere gigantesche per il trasporto verso i mercati occidentali con oleodotti e gasdotti lunghi migliaia di chilometri degli idrocarburi del Caspio. Investimenti miliardari ebbero inizio. La Georgia era un cammino naturale per queste opere e presto dagli studi di fattibilità si passò ai progetti esecutivi ed all'avvio delle opere. Ovviamente, investimenti di questo genere richiedono molti anni, ma già appena dopo il 1995, i primi lavori erano iniziati. La Federazione Russa, attore d'importanza strategica in questo contesto avrebbe preferito che le rotte scelte passassero al nord del Caucaso in direzione di Poti. Ma questo non interessava agli investitori che invece vedevano nella Turchia ed i suoi porti sul Mediterraneo soluzioni migliori. La forza strategica turca di questi giorni é, a mio vedere, in gran parte il risultato di decisioni prese agli inizi degli anni novanta, quando ad Ankara comandavano altri. L'attuale governo turco ne trae oggi tutti i possibili benefici avendo in mano una quota considerevole dell'approvvigionamento di gas e petrolio dell'Europa.
In epoca sovietica, il petrolio fluiva verso Poti e da lì diramava in varie direzioni, una portava in Georgia lungo la costa del mar Nero. L'oleodotto in questione non era in funzione ormai da alcuni anni dopo gli eventi del 1991, cosa che probabilmente ne aveva compromesso seriamente l'agibilità, ma la sua esistenza offriva dei vantaggi. In primo luogo utilizzando lo stesso tracciato si riducevano in modo considerevole i costi di progettazione e quelli per gli espropri dal momento che i terreni erano già proprietà della società responsabile della gestione. Non era detto che tutte le stazioni di pompaggio dovessero essere fuori uso e comunque doverle solamente riparare e modernizzare era altra cosa che dover costruire il tutto dal nulla. Un oleodotto di quella sorta poteva svolgere una duplice funzione, pompare da Poti verso il porto di Supsa in Georgia, ma anche svolgere la funzione inversa permettendo ai due terminali d'ottimizzare il volume dei loro carichi. Insomma, una soluzione utile per i Georgiani ed i Russi che avrebbero potuto migliorare l'uso dei loro terminali ed una fonte di reddito per l'Abkhazia che avrebbe usufruito dei pedaggi per il transito sul loro suolo del greggio. Dopo visite a Mosca per parlare con vari ministeri interessati, a Sukhumi, incontri con gli investitori del sistema degli oleodotti del Caucaso e ovviamente vari enti e ministeri georgiani, la proposta era pronta per passare allo studio di pre-fattibilità per cui i fondi erano già assicurati.
Il processo di negoziazione di pace tra la Abkhazia e la Georgia che le Nazioni Unite gestivano aveva tre tavoli di negoziazioni. Presiedevo quello sulle questioni economiche e sociali dove progressi fatti nel ripristinare le attività agricole in Gali e i piani per un possibile investimento per il trasporto d'idrocarburi offrivano concrete possibilità di successo che a loro volta avrebbero avuto effetti positivi per gli altri due tavoli, quello sulla questione degli sfollati e quello sulla sicurezza. Le persone che erano già tornate alle loro case erano sfollati che vedevano risolti i loro problemi. Costoro erano circa il 45% del totale degli sfollati georgiani. Il ripopolamento delle terre tra l'Inguri e Sukhumi rendeva quelle zone molto più sicure dal momento che una presenza umana capillare avrebbe scoraggiato se non del tutto fermato le infiltrazioni di piccoli gruppi di persone intenzionate a compiere atti di guerriglia nel resto del territorio controllato da Sukhumi.
 
Un finale sconfortante
Purtroppo, si trattava di un bel sogno. Agli inizi d'aprile 1998, un gruppo di guerriglieri georgiani prese in ostaggio alcuni degli osservatori militari delle Nazioni Unite a Zugdidi. Subito dopo, bande attaccarono posti della milizia abkhaza in Gali uccidendo alcuni miliziani. Le forze di Sukhumi si mobilitarono subito per intervenire, ma ancor prima del loro arrivo osservai con i miei occhi le migliaia di civili che ormai erano tornati in Gali scappare attraversando dove potevano il fiume. In meno di 48 ore dai fatti, Gali era nuovamente deserta mentre le milizie davano fuoco a tutto quello che avevamo aiutato a costruire per scoraggiare un ritorno di coloro che erano appena scappati.
Di chi la colpa, ovviamente in prima persona delle due o tre dozzine di criminali che effettuarono gli attacchi iniziali. Chi li comandava sapeva che sarebbero serviti soltanto a far fallire quanto le Nazioni Unite avevano realizzato. Non volevano essere null'altro che azioni di sabotaggio del processo di pace. Ma sono anche convinto che ci furono altri che incoraggiarono quanto successo. Molti erano a Tbilisi, ma non escludo che alcuni fossero anche a Sukhumi tra coloro che non volevano una accordo con la Georgia. Gli osservatori militari delle Nazioni Unite si dimostrarono inutili dal momento che non videro nulla anche perché ricevettero istruzioni dal loro comando di ritirarsi senza avvisare nessuno che lo stavano facendo. Posso soltanto dire che la decisione non fu presa dalle Nazioni Unite che ne erano all'oscuro, ma negli uffici del comando militare situati in una importante capitale dell'occidente. Gli unici a rimanere furono i quattro funzionari civili delle Nazioni Unite che rispondevano al mio ufficio. Anche le truppe d'interposizione russe ed ucraine servirono a nulla. Gli incursori passarono senza essere visti e riuscirono persino a rientrare dopo quasi due giorni senza essere visti. Ovviamente, la pace in Georgia non interessava e lascio a chi legge decidere chi se ne sia maggiormente avvantaggiato.
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