BRAZILIAN GAMES
DEMOCRAZIA MANIPOLATA

di Paolo Basurto                                                                                                                                                                                                

Il 19 maggio, Glenn Greenwald ha pubblicato su The Intercept la prima intervista rilasciata da Dilma Roussef dopo la sua sospensione dalle funzioni di Presidente del Brasile, decretata dal Parlamento in attesa della conclusione della procedura di impeachment.[disponibili sottotitoli in inglese]   

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Lo scorso 12 maggio la Presidente del Brasile Dilma Roussef, è stata sospesa dalle sue funzioni per decisione delle due Camere del Parlamento. La sospensione prelude alla conclusione del processo di impeachement . Se la Roussef fosse dichiarata colpevole dovrebbe lasciare definitivamente il suo incarico, affidatole poco più di un anno fa, attraverso regolari elezioni.

 Un golpe, così lo hanno chiamato i sostenitori della Roussef e così lei stessa lo indica, anche se ci tiene a sottolineare che non esiste nessun paragone possibile con il colpo di Stato del ‘64 quando i militari presero il potere e instaurarono una delle più repressive e crudeli dittature della storia contemporanea dell’America Latina. Se non altro questa volta gli americani non si trovano nel retroscena a ispirare e finanziare il putsch. E questa volta la Roussef non rischia di ripetere l’esperienza di allora quando fu incarcerata e torturata per le sue attività antiregime; almeno si spera.
Inoltre la procedura dell’impeachment è prevista dalla Costituzione e, a quanto pare, le norme sono state formalmente rispettate.
Ma allora, perché chiamarlo golpe. Il Brasile ha duecento milioni di abitanti. E’ ormai tra le grandi economie mondiali ed esercita una grande influenza su tutti gli altri Paesi della sua area geografica. Negli ultimi 14 anni il governo è stato nelle mani del Partito dei Lavoratori, di ispirazione socialista moderata. La Roussef era il braccio destro di Lula, il precedente Presidente che riuscì a conquistarsi una grande popolarità anche se nei suoi due mandati non brillò per essere stato particolarmente progressista. Il secondo mandato della Roussef coincide con l’inizio della fase più acuta della crisi finanziaria che, come dappertutto nel mondo industrializzato, colpisce il Paese provocando una grave disoccupazione. La Roussef è un’economista e anche piuttosto brava, si dice. Avversaria convinta delle teorie liberiste con relative prediche sulla privatizzazione e riduzione delle spese sociali, tenta di avviare impegnativi programmi di assistenza alle fasce deboli della popolazione non riuscendo però a convincere gli investitori nazionali e internazionali a porre le risorse necessarie a far ripartire l’economia.
 
La disuguaglianza della ricchezza in Brasile è tra le più accentuate del continente. Questo problema lo affligge da sempre e anche se i latifondisti di un tempo si sono convinti in buona parte a riconvertirsi in industriali e finanzieri e una numerosa classe borghese si è costituita, non hanno mai realmente accettato che la sinistra prendesse le redini del potere istituzionale. Non tutti naturalmente. E fino a quando la disponibilità al compromesso praticata discretamente da Lula ha assicurato crescita e una relativa stabilità nel conflittuale mondo del lavoro, i moderati sono riusciti ad avere la meglio nelle decisioni strategiche delle grandi élites plutocratiche. Ma l’avvento della Roussef, assai meno disponibile di Lula al compromesso politico, e lo scoppio della crisi economica, hanno ridato fiato alla destra politica contraria agli indispensabili sacrifici richiesti dal rafforzamento dei programmi sociali.
Far cadere la Roussef è dunque stata la strategia di questa destra specialmente dopo la sua seconda elezione. E’ su questa strategia che vale la pena riflettere.
Ormai anche i più grandi assertori della democrazia rappresentativa fanno fatica a negare l’evidenza: il sistema di rappresentanza delle nostre democrazie, come oggi le viviamo, non funziona più correttamente (se mai prima ci siano riuscite); i meccanismi istituzionali dimostrano fragilità e crepe grazie alle quali la corruzione si infiltra per ogni dove e il voto popolare si svuota progressivamente di significato. Il partito di coloro che non votano è, in molti Paesi, il più numeroso, e questo la dice lunga sullo scollamento tra società e sistema di governo. D’altro canto le uniche alternative possibili, a parte quelle dichiaratamente autoritarie, contemplano tutte una maggiore partecipazione popolare ai processi decisionali; cioè una progressiva riduzione dell’uso della delega agli eletti a favore, invece,di un uso determinante di un forte potere  di vigilanza sull’operato del Governo e della Pubblica Amministrazione. Tutte cose buone, apparentemente. Il criterio della maggioranza come interpretazione del volere popolare nonché come modo sicuro per perseguire la giustizia sarebbe così garantito. Sennonché la validità di questo criterio è tutta affidata alla maturità popolare e questa dipende tremendamente dalla sua informazione, dalla sua autonomia di giudizio e, finalmente da un discernimento chiaro dei propri interessi e del legame che esiste tra questi interessi e quelli della collettività (ciò che altrove ho chiamato: dimensione trascendente).
 
La volontà popolare è fortemente manipolabile e questa è forse la prima ragione del progressivo deterioramento delle democrazie rappresentative ed è questo il problema principale da risolvere per chi volesse davvero proporre una formula di democrazia diretta o più partecipata.
“Quando il presidente Bush e altre autorità statunitensi hanno annunciato che «gli Stati Uniti sono stati presi a bersaglio perché noi siamo il faro più luminoso della libertà e dell'iniziativa individuale nel mondo», la massa dei mezzi di informazione americani non ha fatto altro che riprendere e ripetere questo ritornello. In un editoriale comparso sul New York Times si affermava che gli autori degli attacchi avevano agito «in odio a valori cari all'Occidente, come la libertà, la tolleranza, la prosperità, il pluralismo religioso e il suffragio universale». Vistosamente assente dalle cronache e dai commenti dei media americani era un esame completo e realistico della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi effetti sul resto del mondo. Era difficile trovare qualcosa di più di un fuggevole accenno all'immane strage di civili iracheni durante la guerra del Golfo, alla vera e propria devastazione della popolazione irachena provocata nell'ultimo decennio dalle sanzioni richieste e promosse dagli Stati Uniti, al ruolo centrale rivestito dagli USA nell'appoggio riservato per trentacinque anni all'occupazione israeliana dei territori palestinesi, al loro sostegno in tutto il Medio Oriente a brutali dittature che opprimono le popolazioni e così via. Ugualmente assente era un qualsiasi accenno al fatto che la politica estera americana dovrebbe essere oggetto di sostanziali cambiamenti.” (1) Così commentava Chomsky dopo l’attentato alle torri gemelle di N.York. Mi si dirà che Chomsky è un antiamericano per pregiudizio e che le sue opinioni vanno prese con cautela. Tuttavia, oggi, a distanza di qualche anno, ne sappiamo tutti abbastanza per non negare che la Guerra del Golfo voluta da Bush fu uno dei casi più tragici e clamorosi di inganno dell’opinione pubblica mondiale.
 
Il caso della Roussef  è meno eclatante. Fino a ieri il Brasile era per noi poco più di una grossa Repubblica delle Banane. Può accadere di tutto senza stupirci. Come per gli italiani, il simbolo nazionale è la pizza o la cicciolina (ma se ci va bene, anche Sofia Loren) per i brasiliani più in là di Pelé e del Samba non sempre si va. Tuttavia nessuna domanda seria ci si è posti nemmeno quando il Brasile, negli ultimi Mondiali di calcio tenutisi  nel 2014 proprio in Brasile, è stato eliminato per l’incredibile punteggio di uno a sette. Mai il Brasile aveva subìto una sconfitta così in tutta la sua storia calcistica. Incredibile eppure creduto da tutti. Nemmeno un’insinuazione sulla possibilità che quell’avvenimento, così sproporzionato, fosse parte di una strategia di lotta contro la Presidente. Il clima lo riassume così l’Huffington Post : La partita è stata bagnata da lacrime, tante lacrime del pubblico, molti fischi e perfino gli Olè brasiliani alle azioni manovrate dei tedeschi. Fuori dallo stadio rabbia, atti di vandalismo, bandiere bruciate e saccheggi in molte città, con feriti e arrestati. Alla fine i giocatori sono incapaci di dare spiegazioni: “Spiegare l'inspiegabile è difficile - dice il portiere Julio Cesar” (2). La Presidente è costretta a dire la sua e lo fa su Twitter: Brasil, levanta, sacode a poeira e dá a volta por cima [Brasile, rialzati, scuotiti la polvere di dosso e ricomincia daccapo]”.
Intanto i campionati erano costati 14 miliardi di dollari. Una polemica accesissima era sorta prima che si svolgessero. Una vera e propria mobilitazione di folle contro lo sperpero e i compensi favolosi ai giocatori. La sconfitta umiliante faceva convergere tutti, pro e contra i campionati, nell’accusare il Governo di insipienza. "Massacro", "Umiliazione storica": così la stampa online brasiliana ha commentato la sconfitta. "La più grande vergogna della storia" titola l'edizione online del quotidiano sportivo Lance, "Umiliazione storica" è il titolo dell'edizione digitale del giornale O Estado di Sao Paulo, "Massacro!" si legge invece sulla homepage del quotidiano Folha di Sao Paulo.
Pochi mesi dopo, in ottobre, ci sarebbero state le elezioni generali. La Roussef era data vincente al primo turno e con un buon margine invece riuscì a conquistare il suo secondo mandato solo dopo una combattutissima battaglia e in un ballottaggio che le assicurò il minimo dei voti indispensabili.
 
Da allora la popolarità della Roussef è andata in rapido declino. Si succedono gli scandali. Personaggi di spicco del Governo e del gruppo politico della Roussef vengono coinvolti. Lo stesso Lula viene compromesso nello scandalo gigantesco –un vero e proprio caso ‘mani pulite’- della Petrobras, il gigante energetico brasiliano.
Come racconta Miranda sul The Guardian, per un anno i mezzi di informazione quasi tutti al servizio della destra (in particolare quelli facenti capo alla rete O Globo), bersagliano l’opinione pubblica, descrivendo una popolazione sempre più irrequieta e insoddisfatta, infuriata contro un governo corrotto e ogni giorno più decisa a chiedere la rinuncia della Presidente.  Le manifestazioni di piazza non mancano naturalmente e le immagini di queste proteste vengono diffuse con grande enfasi allo scopo preciso di creare un clima drammatico.(3)
Naturalmente l’approssimarsi dei giochi olimpici previsti in Brasile con annessa emersione delle immancabili magagne finanziarie e, ciliegina sulla torta, la scoperta di Zica, la terribile zanzara che fa nascere bambini focomelici, divengono subito materiale ghiotto per alimentare la sfiducia e la rabbia popolare.
Finalmente il tempo è giudicato maturo per tentare il colpo. La Roussef viene accusata di aver truccato i conti pubblici al fine di fare apparire la situazione economica del Paese meno grave di quanto in realtà sia. Su questo sospetto si chiede e si ottiene l’apertura del processo di impeachment.
 
Intendiamoci, la Roussef ha commesso i suoi passi falsi. Anche l’opportuno maquillage dei conti, che lei stessa non ha mai esplicitamente smentito, può non essere una mera montatura. Tuttavia, come lei insiste, non è certamente proporzionato e sufficiente per aprire un processo di impeachment. In questo consiste il golpe, nell’essere riusciti ad avviare una procedura che ha come prima conseguenza la sospensione del Presidente dalle sue funzioni. Funzioni che possono, in tal modo, venire assunte dal Vicepresidente Michel Temer.
Glenn Greenwald su The Intercept così descrive il Vicepresidente: “Michel Temer, profondamente coinvolto anche lui in gravi casi di corruzione, è estremamente impopolare. E’ un servo fedele della ristretta plutocrazia brasiliana” (4).  Tra lui e la Roussef i rapporti sono pessimi. La Presidente non mi ha mai considerato suo amico - si lamenta Temer, in un’intervista rilasciata al NyTimes. Ho subìto il suo ostracismo per quattro anni, eppure sono sempre stato il suo alleato più importante e non vorrei essere considerato ora come l’ispiratore di un complotto per soddisfare una mia vendetta personale (5).
Greenwald non crede per niente alla sua buona fede e ci va giù duro, offrendo di provare il complotto smascherando chi davvero l’ha voluto. Tre nomi vengono fatti dal giornalista, sulla base di una Nota informativa della Reuters (6): Eduardo Cunha, talmente coinvolto in vari casi di corruzione che ha dovuto rassegnare le dimissioni da Presidente della Camera (principale promotore, con il sostegno di Temer, del processo di impeachment), Paulo Leme, attuale Presidente della Goldman Sachs in Brasile e prima scelta esplicita di Temer per la Presidenza della Banca Centrale; e, finalmente, Murilo Portugal, ministro delle finanze in pectore del futuro governo Temer e attuale capo della potente lobby delle Banche industriali del Paese. Ciò che in tutta evidenza unisce questi tre personaggi è la loro dichiarata simpatia per le politiche dure di austerità, basate essenzialmente su un drastico impoverimento del welfare.
Quello che più impressiona in tutto questo è l’abbandono del sostegno popolare, l’unica vera arma nelle mani della Roussef, progressivamente e inesorabilmente annullata da una campagna informativa aggressiva e a tutto raggio. Ma come potrebbe essere altrimenti, sostiene Greenwald se i mezzi di informazione dominanti sono tutti concentrati nelle mani delle poche ma ricche famiglie industriali brasiliane. Non c’è da stupirsi se Reporters Without Borders classifica nel suo Rapporto del 2016, il Brasile al 103° posto.
E’ così che si manipola la Democrazia; è così che l’opinione pubblica si lascia manipolare. Dispiacere addizionale, in questa brutta storia, è lo scarsissimo interesse che i fatti brasiliani hanno suscitato finora anche nei nostri mezzi di informazione. Potrebbe non essere un caso.
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  1. Naom Chomsky, Capire il Potere, Nota all’edizione americana
  2. Huffington Post del 9 luglio 2014
  3. David Miranda, Le vere ragioni dell’impeachment di Dilma Roussef, The Guardian del 22 aprile 2016
  4. Glenn Greenwald, Per capire che succede in Brasile,The Intercept del 22 aprile 2016
  5. Simon Romero, Brazil’s Vice President, Unpopular and Under Scrutiny, Prepares to Lead, The New York Times del 21 aprile 2016
  6. Lisandra Paraguassu and Anthony Boadle, Brazil's Rousseff going to U.N. over impeachment; cabinet in crisis – Reuters del 20 aprile 2016

                                                                                                                                               

 

 

 

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