CATALOGNA

SECESSIONE PARTECIPAZIONE MANIPOLAZIONE

di Paolo Basurto

Finalmente l’Europa si è accorta che in Catalogna accade qualcosa di cui vale la pena interessarsi. Anche persone che conoscono la Spagna e che spendono buona parte dei loro giorni proprio in Catalogna, hanno voluto sempre considerare questo fenomeno dell’independentismo una cosa di poco conto. Un’emersione quasi divertente di provincialismo regionale, tutto sommato legittimo e che non faceva male a nessuno. Altre cose accadono nel mondo di cui preoccuparsi veramente. Ma quanto è avvenuto il 1 ottobre non poteva passare inosservato. Che cosa è avvenuto veramente il 1 ottobre?  Back to facts, com’è di moda dire dopo il successo del Prix Italia, e lasciando da parte, per quanto sia possibile, le interpretazioni emotive, non mi sembra una cattiva idea un breve riassunto informativo.

IL REFERENDUM

Il 1 ottobre il Governo regionale catalano, il ‘Govern’ come si chiama nel dialetto locale, ha chiamato a gran voce e ripetutamente, i cittadini a votare in un referendum. L’invito esplicito delle Autorità era quello di votare affermativamente al quesito di proclamare o meno l’indipendenza della Catalogna, sancendone la secessione dallo Stato spagnolo.
Il Governo Centrale, Guidato da Mariano Rajoy e sostenuto da una minoranza di forze di destra funzionante grazie all’astensione dei Socialisti, aveva fatto ricorso alla Corte Costituzionale affinché si pronunciasse sulla illegittimità del Referendum. La Corte aveva prontamente emesso una chiara sentenza di incostituzionalità. Sentenza che nessuno pone in discussione essendo il dettato della Costituzione assolutamente chiaro sulla questione dell’integrità territoriale.
Il Referendum dunque non avrebbe dovuto essere indetto e mai avrebbe potuto avere valore legale.  Tuttavia il ‘Govern’ regionale ha voluto tenacemente proseguire nell’organizzazione del Referendum, sfidando apertamente tanto il Governo centrale che la massima Istituzione statale: la Corte Costituzionale. L’iniziativa delle Autorità regionali era così chiaramente mal fondata, che lo scetticismo circa il suo buon esito cresceva apertamente anche tra molti simpatizzanti della causa indipendentista.
E’ a questo punto che il Governo centrale commette l’errore più incredibile e inaspettato: decide di fare intervenire la polizia per impedire il referendum con la forza. La mia amica Gisella Evangelisti -che ha scritto su questo stesso sito, le sue opinioni a caldo (ma che non condivido del tutto)- dice con arguzia che il miglior sostenitore dell’indipendenza Catalana è Mariano Rajoy. L’uso del tutto inutile della forza per impedire l’allestimento dei collegi elettorali e il sequestro delle schede necessarie alla votazione è stato percepito subito e da tutti, indipendentisti e non, come un’offesa grave e inescusabile. Una decisione degna di un oppressore e non di un Governo preoccupato per il bene comune.
Da quel momento il clima è diventato sempre più ostile al Governo centrale e sotto la spinta verbale e astuta del ‘President’ regionale, il referendum è divenuto un simbolo di partecipazione democratica, una lotta per la libertà di espressione, un diritto insopprimibile per l’autodeterminazione di un ‘popolo’. Manifestazioni sempre più rumorose, striscioni sempre più retorici e impregnati di un nazionalismo viscerale e intimidatorio (chi non è con me è contro di me), hanno così invaso la città e arroventato il clima elettorale e provocato un certo numero di feriti negli scontri con la polizia; e poteva certamente essere peggio.

TUTTI HANNO PERSO

A questo punto già non interessa quanti siano andati a votare (secondo le improbabili e comunque incontrollabili cifre del ‘Govern’ regionale, la percentuale sugli aventi diritto non supererebbe il 30/35%, e il consenso all’indipendenza avrebbe raggiunto il 90% dei votanti), quello che conta è la frattura profonda nella società catalana e la rottura difficilmente recuperabile delle relazioni, che dovrebbero essere di collaborazione, tra Governo centrale e istituzioni regionali. Questo è il disastroso risultato ottenuto dai principali protagonisti politici di questa vicenda.
Naturalmente sarebbe necessario e istruttivo capire come e perché si è arrivati a tutto questo. Il nazionalismo catalano può fare simpatia perché la maggioranza dei catalani è gente simpatica e i turisti che solo in agosto di quest’anno sono stati più di dieci milioni, lasciano Barcellona incantati dall’accoglienza ricevuta. Ma ciò non toglie che questo nazionalismo in azione strumentalizzando istituzioni regionali, è una creatura inquieta e molto rappresentativa delle derive demagogiche presenti in molti Paesi d’Europa. E l’Italia non ne è immune. Stuzzicare il fanatismo attraverso manifestazioni di piazza con masse assai poco informate e desiderose solo di trovare qualche capro espiatorio per le proprie delusioni e frustrazioni è indubbiamente pericoloso e può alimentare facilmente spirali di violenza.
La violenza non è del tutto estranea alla storia anche recente dell’indipendentismo. L’attuale ‘President’ regionale, Carles Puigdemont,  viene da una piccola aggruppazione politica la CUP (Candidatura Unidad Popular), erede esplicita dell’organizzazione terroristica Terra Lliure che negli anni ’80 riusci anche a fare qualche morto prima di disciogliersi. Le ispirazioni ideologiche sono di una sinistra radicale, anticapitalista, antieuropea, e repubblicana che in parte ricordano gli estremismi delle nostre Brigate Rosse e, nel migliore dei casi, di Lotta Continua. L’uso spregiudicato delle istituzioni per una manipolazione tenace dell’opinione pubblica è la vera e propria arma rivoluzionaria dell’indipendentismo. Sui risultati sorprendenti di questa strategia manipolatrice varrebbe veramente la pena riflettere. Sono almeno dieci anni che le Autorità regionali insistono con tutti i mezzi a convincere la popolazione che esiste un suo inalienabile diritto all’autodeterminazione. La sua identità di nazione si fonderebbe su ragioni storiche, culturali, linguistiche ed economiche.
LA STRATEGIA DELLA MANIPOLAZIONE
In realtà la Catalogna non è mai stata indipendente in tutta la sua storia. La sua ricchezza attuale ha le sue basi originarie nei capitali accumulati attraverso il commercio con le colonie e non ultimo quello degli schiavi (l’abolizione dello schiavismo fu aspramente combattuto dai rappresentanti catalani delle Cortes del secolo XIX e la Spagna è stata l’ultimo Paese europeo ad abolirlo). Le condizioni di sfruttamento della classe operaia nel periodo della prima industrializzazione erano peggiori persino di quelle inglesi, e hanno ben contribuito a creare il fertile humus dell’anarchismo nel quale si è allevato quello spirito di conflitto e rivendicazione che ha poi alimentato tante atrocità della guerra civile. La Catalogna è una terra di confine e la sua classe dirigente ne ha sempre approfittato per ottenere privilegi e autonomie a loro quasi esclusivo beneficio. Ma la Storia viene oggi interpretata e divulgata, a cominciare dalle scuole, dove il catalano è idioma di fatto privilegiato, come tentativi di liberazione dall’oppressore spagnolo, a volte riusciti e a volte no. Rasenta il ridicolo l’enfasi di festa nazionale che si è voluta attribuire alla ricorrenza dell’11 settembre 1714. Celebrazione di un terribile bombardamento che segnò la sconfitta di un gruppo di aristocratici e arrivisti borghesi imprudentemente alleatisi con gli inglesi, con la speranza di ottenere la supremazia nella guida della città, strappandola così allo Stato spagnolo, come già era avvenuto poco prima con Gibilterra. Questa volta però gli inglesi preferirono abbandonare il campo. (Chi volesse saperne di più su questi e altri aspetti di questo triste episodio della Guerra di Successione, potrebbe dare una lettura al libro di Henry Kamen España y Cataluña – Historia de una Pasion, trad dall’inglese di J.C.Vales)

ECONOMIA E SECESSIONE

Ma la manipolazione è ancora più sottile e dannosa quando si tratta di far leva sulle difficoltà economiche. La Catalogna è la regione più ricca della Spagna e il suo contributo al PIL è superiore al 20%. Nel peggior momento della crisi, il 2012, il PIL per persona era pari a 27.700 euro, mentre la media nazionale superava di poco i 22mila. Tuttavia la Catalogna è la regione più indebitata della Spagna, circa il 21% del suo prodotto interno. Il bilancio regionale è strutturalmente in rosso e il deficit si aggira intorno ai 6/8 milioni di euro, superando di un bel po' i severi limiti imposti a tutte le regioni, dalla politica di austerità adottata dalle Autorità centrali. Crisi a parte, l'amministrazione catalana non è sempre stata sprecona. Una classe imprenditoriale astuta, ma anche intelligente, colse con intuito la grande occasione delle Olimpiadi tenutesi a Barcellona nel 1992. La città subì una trasformazione impressionante (invito a vedere un video che dà un'ottima idea del colossale investimento fatto- link). Da allora il turismo è cresciuto a un ritmo vertiginoso e costituisce una delle principali fonti di reddito per tutta la regione. Da questo successo è nata una strategia vincente che ha puntato tutto sugli investimenti esterni, lo sviluppo delle attività finanziarie (poche città con poco più di un milione e mezzo di abitanti, contano tante banche come Barcellona), l'internazionalizzazione del commercio (la Fiera di Barcellona ha una rinomanza che ben può dirsi mondiale), il tutto ammantato da un'ostentazione di virtuosità e da un evidente interesse per la qualità della vita dei cittadini che non può che sedurre e aumentare credibilità.

Da quando scoppia la crisi, però, questa virtuosità è messa a dura prova. Nel 2007 la disoccupazione  era del 6,7% , nel 2013 raggiunge il 22%. La Catalogna vede crescere il suo debito e la solvibilità scricchiola. Gli investimenti si riducono troppo rapidamente per consentire adeguati aggiustamenti fiscali e di bilancio. La classe politica regionale decide di giocare di anticipo e dà il via alla campagna indipendentista quasi esclusivamente centrata sulle responsabilità di Madrid. Il sistema fiscale spagnolo, prevede, secondo la Costituzione approvata da tutte le regioni, l'istituzione di un Fondo comune costituito dagli apporti di ciascuna regione. Fondo che viene poi redistribuito dal Governo centrale sotto forma di investimenti. La regione catalana sostiene di contribuire a questo fondo molto più di quanto poi non riceva sotto forma di benèfici investimenti. Se così non fosse, il debito sarebbe assai più ragionevole e il deficit di bilancio forse scomparirebbe. L’ex ‘President’ regionale Arturo Mas ha ricordato mille volte nei suoi discorsi che la Catalogna è la terza regione contribuente al Fondo e la decima in quanto a vantaggi ricevutine. Eppure queste affermazioni non sembrano essere ben sostenute dai numeri. Secondo l'unico studio comparativo disponibile, fatto purtroppo solo nel 2011 (Ángel de la Fuente, Rapporto del BBVA Research), le uniche regioni ad avere un saldo negativo in quanto a costi/benefici del Fondo per le regioni, sono Madrid e le Baleari. Tutte le altre hanno un saldo positivo, Catalogna compresa anche se è vero che in valore assoluto è la decima in classifica mentre è tra le prime per contributi. A questo punto sarebbe opportuno considerare che il Fondo, come ogni sistema fiscale che si rispetti, ha un naturale obbiettivo di solidarietà che si raggiunge attraverso una redistribuzione che si spera sia il più possibile equa. Ma la parola solidarietà è purtroppo assente dal vocabolario indipendentista. Anzi, la penetrazione propagandista è stata talmente forte che non è raro ascoltare il macellaio o la pescivendola dichiararsi a voce alta arcistufi di dover finanziare quei morti di fame dell'Andalusia, anche se tre su dieci catalani di oggi vengono da altre regioni della Spagna e molti, ovviamente, proprio dal Sud, che, manco a dirlo, è anche la parte più povera del Paese.

LA MAGGIORANZA SILENZIOSA

E’ interessante come all’improvviso l’opinione europea scopra che in Catalogna esiste un problema e come invece di individuarlo nella manipolazione delle persone da parte di istituzioni regionali da troppo tempo al potere e scopertamente corrotte, sia invece propensa ad una emotiva solidarietà con la presunta vittima di un potere centrale: il ‘popolo’ desideroso di libertà, autonomia, e partecipazione. E sulla partecipazione delle masse popolari che affollano le strade di Barcellona in rumorose manifestazioni andrebbe spesa un’ultima riflessione. Non c’è sondaggio che non dimostri che chi vuole l’indipendenza non è una maggioranza in Catalogna. Esiste una maggioranza silenziosa che non ha spazi per potersi esprimere anche perché manifestamente intimidita. Riporto qui qualche brano di interviste che Sandrine Morel ha pubblicato recentemente su Le Monde: « Je n’ose plus parler. Ma sœur, qui est médecin et avec qui je m’entends très bien, m’a traitée de fasciste il a quelques jours quand je lui ai dit que tout ça me semblait une folie. Alors on évite le sujet, c’est plus simple ». Elle a préféré utiliser un nom d’emprunt, « car je veux continuer à travailler en Catalogne, et dans la situation actuelle, se prononcer contre l’indépendance peut fermer beaucoup de portes ».  […] De même pour Cristina, madrilène installée depuis quatorze ans à Barcelone, dans le quartier de Poble-Sec. « Auparavant, j’étais pour le droit à l’autodétermination, mais plus maintenant », dit cette réalisatrice de documentaires qui ne supporte pas de voir comment « sont violentés les non-indépendantistes ». Elle applique, comme nombre d’entre eux, une forme d’autocensure : « Je préfère ne pas en parler avec mes voisins, pour éviter les tensions. »
Secondo Le Monde, questa maggioranza silenziosa che è, contro l’indipendenza, rappresenta il 49,4% contro un 41,1% che invece si dichiara favorevole. La fonte di Le Monde non è un qualsiasi istituto di sondaggi ma Il CEO-Centro de Estudios de Opinion, ente pubblico regionale. (Per chi volesse saperne di più ecco il link )

Ma una prova davvero sorprendente della disinformazione delle persone che oggi si schierano a favore della secessione con autentico fervore è chiedere loro se hanno almeno un’idea approssimata di quello che potrebbe accadere all’economia catalana (e a quella spagnola) se davvero il divorzio si consumasse. “Gli indipendentisti si illudono che siano sufficienti un referendum, uno sciopero, le sfilate, lo sventolio di bandiere per essere davvero indipendenti.” dice Mario Deaglio nel suo articolo sulla Stampa del 4 di ottobre, all’indomani del disastroso discorso del Re Felipe sulla ‘ribellione’ dei dirigenti regionali catalani.  La dipendenza dell’economia catalana da quella spagnola ed europea è così vitale che spezzarla equivarrebbe ad un trauma difficilmente sopportabile senza un deterioramento grave del livello di sviluppo della regione.

I RISCHI DI UN FANATISMO NAZIONALISTA

Non esiste nazionalismo accettabile. Scrive Le Monde nel suo editoriale del 29 di settembre:  « L’esquisse de droit international existant en la matière défend le droit à l’autodétermination d’une minorité nationale face au colonialisme ou, comme c’est le cas pour les Kurdes, face à un gouvernement central qui l’opprime par le meurtre, la force et la torture. Les Catalans ne sont ni colonisés ni opprimés – encore moins menacés de génocide, comme l’ont été les Kurdes d’Irak du temps de Saddam Hussein. Vu de l’extérieur, le peuple catalan présente l’une des faces les plus réussies de l’Espagne d’aujourd’hui. ».
Smuovere il fanatismo emotivo credendo in questo modo di favorire la partecipazione democratica e responsabile della cittadinanza è un grave errore di prospettiva che potrebbe essere pagato caro, visti i tempi che corrono.
 

 

 

 

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