BONJOUR BEIRUT
Realtà e sovrascrittura libanese
di Federico De Matteis
Nel 1986 il gruppo pop argentino G.I.T. pubblicò, nel suo terzo album, la canzone Buenas noches Beirut, ballata dai toni apocalittici dedicata al conflitto che già da dieci anni stava devastando la capitale libanese e tutto il resto del paese mediorientale. Difficile, oggi, immaginare come nell’era prima di Internet l’eco di eventi che si svolgevano al capo opposto del pianeta potesse percolare, seppure filtrata, fino all’immaginario collettivo di un’altra [Il Lungomare di Hamra-Fig.1]
nazione tormentata dalla violenza, anche se di diversa matrice e visibilità. Le immagini televisive bastavano per convogliare la distruzione causata dai bombardamenti israeliani del 1982, realtà evocata anche dai CCCP in Emilia paranoica di due anni dopo: «Brucia Tiro / Sidone il roipnol fa un casino se mescolato all’alcool / Bombardieri su Beirut».
Ma quello che è stato il primo conflitto ampiamente visualizzato dai mass media, prima che nel 1991 con Even better than the real thing gli U2 raccontassero la Guerra del Golfo come un’embrionale esperienza di “realtà aumentata” per i piloti degli aerei americani, ha prodotto uno scollamento tra la realtà fisica di Beirut e la sua immagine, divaricazione quanto mai evidente oggi, a più di venti anni dalla conclusione del conflitto. Benché la configurazione odierna di quello che un tempo veniva chiamato Balad, il centro storico, sia pesantemente orientata dall’azione speculativa della grande public company fondiaria, Solidere (Société libanaise pour le développement et la reconstruction de Beyrouth), creata nel 1994 dall’allora premier Rafic Hariri, nonché dagli interessi economici di costruttori decisi a trasformare Beirut in una nuova Dubai o Abu Dhabi, lo spazio urbano rappresenta un interessante ballon d’essai per la lettura dei processi di stratificazione e sovrascrittura della città. Che cosa c’è di “vero”, oggi, a Beirut? In che misura l’anastilosi delle forme urbane del passato può riuscire a rendere giustizia di uno spessore ulteriore, dell’ineffabile peso del “reale”?