Storie vere ed ambigue
CHURIN
La metamorfosi

di Andreina Russo

La  luna  brillava  nel bosco fitto  di  eucaliptus,  le  foglie oscillavano come sottili lamelle di luce. Le tre donne camminavano piano  nel chiarore lattiginoso, il profumo intenso  degli  alberi penetrava  nelle  narici  e le stordiva. Ognuna  di  loro  si  era concessa  un viaggio, un salto breve fuori della vita di  sempre, una compagnia non scontata, persone dai percorsi lontani, che   in   questi  due  giorni strappati   al  normale, incrociavano per poco le loro vite. Il viaggio: sul grande, vecchio fuoristrada  pieno  di ammaccature e di fango,  avevano  percorso verso  Nord la  Panamericana,  nome  grandioso  di   un'arteria

continentale che qui nel sud delle Americhe poco si  attaglia ad  una strada a due corsie, tutta buche e dossi. In certi tratti la sabbia del deserto ne cancella il tracciato e allora, quando in lontananza appare il puntino  crescente  di un veicolo, sorgono dalle  superfici desolate dei campi all’intorno gruppi volonterosi  di  indios,  donne, bambini,  a volte anche  uomini, che spalano solerti  i   mucchi  dorati che si allungano sinuosi  sull'asfalto. Poi  si fanno  avanti chiedendo sorridenti agli occupanti della vettura un contributo per  il  duro lavoro, fatto in fretta sotto il sole o nell'umidità  pungente  della neblina. Il  conducente di solito, se non  è  un  abitudinario fruitore di quella rotta, preso da pietà per quella  misera condizione umana  germogliata sorprendentemente in mezzo a  quelle  distese senza  vita, sborsa qualche spicciolo. Mentre   riparte,  lo sguardo obliquo degli indios ne segue il cammino finché è di nuovo  un puntino all'orizzonte. Allora, solerti come  prima,  si affrettano a ricoprire l’asfalto con le stesse palate energiche con cui l'avevano scoperto, in attesa del cliente successivo.

Lasciato il deserto Carlos aveva puntato dritto verso oriente, dove   le   montagne   apparivano   grigie   e   altissime nella  lontananza. Nadia le aveva guardate inquieta: "È proprio sicuro  che  non ci sarà pericolo lassù?"  gli aveva  chiesto. Carlos l'aveva sbirciata con lo stesso sguardo che aveva avuto  la mattina,  quando  Luigi gliel'aveva presentata: "No  se  preocupe señora,  non  ci sono terroristi nella mia valle: sono  su nelle  valli alte e più a Nord. Mentre Nadia tornava, più tranquilla a contemplare il paesaggio, A., seduta dietro,  cercava di  tenere   a   freno  l'entusiasmo   dei   figli   acceso  da quell'inusitata  avventura.  Andavano nella sierra con  una  sola macchina, e non c'era nemmeno papà! Marco e Lorenzo erano abituati da quando  erano  arrivati  in quel paese alle  gite  in  carovana: almeno  tre auto a darsi manforte in caso di guasti sulle quelle strade  dissestate o a proteggersi da qualche brigante  di  quelli all'antica. Il trucco più comune per bloccare le loro vittime era  nascondere  un grosso masso in sacchi di plastica simili a quelli dei rifiuti  e lasciarlo  in mezzo alla carreggiata dopo una  curva; chi guidava vedeva   il  sacco  all'improvviso  e  frenava  bruscamente   per evitarlo  o, immaginandone un contenuto innocuo, lo  investiva  in pieno. (E  lì  era  pronto l'uomo dal viso  di  cuoio spuntato dal nulla, che con voce bassa e ferma dettava la  tariffa per proseguire). Poi c'erano i terroristi, ma a quelli nessuno di coloro  che osavano avventurarsi fuori città voleva pensare. Altro  che tre macchine ci sarebbero volute. E dunque questa volta che  cosa succedeva? Come mai la mamma si era lasciata convincere da Luigi  a  fare quest'uscita  fuori  dalle  regole  ora  che  papà  era lontano ? “O forse proprio per questo?" si domandava A., presa dal  rimorso di aver coinvolto i figli in questa specie di  fuga. Ma poi  che fuga? Con Luigi che aveva dieci anni meno di lei,  con Carlos  che ne aveva venti di più e con queste  due  praticamente estranee, conosciute  per  nient'altro che  quattro  chiacchiere  in qualche party?

Il fuoristrada sobbalzava violentemente, i  ragazzini ridevano sballottati sui sedili e  la loro allegria  finì per contagiare   anche   le donne. Carlos  guardò di  nuovo  Nadia  seduta  accanto a lui   e buttando là come per caso le chiese "Anche su esposo è lontano per  affari?" Nadia si girò verso di lui e sorrise. Si addolcì l’espressione del suo viso, bello di una bellezza classica, severa, di statua romana: la fronte alta, il naso  dritto, la  bocca arcuata e carnosa. Su tutto  spiccavano  gli  occhi grandi,  allungati,  di un colore  incredibilmente  viola. "Yo  no tengo  esposo " gli disse pacatamente.  Carlos  non staccò  lo  sguardo  dalla strada  che diventava  sempre  più stretta e tortuosa. Dopo qualche momento, come parlando fra sé e sé, mormorò piano: "Los italianos no tienen ojos".  Nadia pensò che era la cosa più bella che le avessero detto da  anni e  la  sua  solitudine si accese di  un  tepore dimenticato.  La macchina  arrancava  per la salita erta, le  montagne  brulle  e grigie verso il mare cominciavano a popolarsi di  una rada vegetazione di xerofile. Sui versanti affacciati verso l'interno che si scoprivano d'improvviso, dopo una curva,   la vegetazione era invece già  verde: alberelli radi, cespugli, perfino  praticelli  sulle terrazze   incaiche  abbandonate  da  tempo. Cominciavano   ad apparire   qua e là piccole figure di contadini avvolti nei mantelli, chi  in  cammino con  gli  attrezzi da lavoro sulle spalle, chi  seduto  sul ciglio della strada come  in attesa.

 Luigi  taceva. Era l'unico del  gruppo  che  da  quando avevano lasciato le allucinanti periferie della città non aveva più aperto bocca. Le donne lo guardavano con tenerezza, non solo perché la   sua  bellezza  di  giovane intellettuale   idealista, il viso asciutto, gli occhialetti alla Gramsci, suscitava  in  loro  quello speciale istinto  femminile  che  è  a metà tra   la  madre  e  l'amante,  ma  anche perché sapevano esattamente che cosa stesse provando in quel momento. Anche loro prima di  lui avevano varcato  quella soglia.  Luigi  era l'ultimo arrivato, trasferito un mese prima da quell'altro  mondo al di là dell'oceano. I primi giorni erano stati convulsi,  si era  dovuto  presentare in Istituto e poi in  ambasciata  aveva dovuto affrontare, cercando di mostrare il suo aspetto migliore, gli sguardi indagatori dei superiori, e più tardi, invitato a  cena nei giardini di ville sontuose, quelli un po' meno discreti  delle loro  mogli. Aveva  avuto subito successo: era  solo  il  suo secondo  incarico  all'estero ma aveva già acquistato l'aplomb necessario, l'atteggiamento  lievemente   sdegnoso,  l'italiano perfetto, il sapiente  dosaggio di completi fumo  di  Londra  e pantaloni dalla piega impeccabile, cinture e mocassini di  cuoio, polo  Lacoste. E si  sentiva un traditore. Quando  pensava al  suo passato,  le riunioni fiume nello scantinato di San  Lorenzo,  le notti  in  sacco a pelo in facoltà, le discussioni  infinite,  i lunghi   ta-ze-bao  scritti   per  terra  incurante del   dolore lancinante alle ginocchia, l'odio  feroce  contro tutto     ciò    che sapesse anche lontanamente di borghese, di grasso sazio appagato, banale, egoista  e stupido...” Eccomici in  mezzo,  sono come loro”, si diceva. La sua laurea in filosofia lo aveva  portato prima  nelle  aule  di licei bollenti  dove  ragazzi  poco  più giovani di lui gli erano apparsi già tanto lontani nel sentirli ripetere a pappagallo slogans che la sua generazione aveva costruito e sofferto  sulla propria pelle. Si era illuso che quello fosse il suo ruolo  vero, il  nuovo  insegnante,  la figura rivoluzionaria  in  una  scuola stantia, capace di far cadere le barriere secolari tra studenti  e docenti.  Niente autorità, niente punizioni,  niente votacci, niente  prediche,  solo  dialogo, dialogo  socratico  con  i  suoi allievi  per  andare  insieme in  cerca della verità. E constatare con dolore che gli studenti avevano  subito  fatto  propri della  rivoluzione  (tante  notti insonni,  le botte al commissariato  di  polizia, la  frattura così lacerante col passato, mamma almeno tu devi capire) solo gli aspetti comodi, quelli più gradevoli e gratificanti: la dissacrazione, la trasgressione, l’abbattimento delle regole, lo sberleffo  all'autorità. E ora (così presto!), autorità era anche lui. Lo sberleffo ora era diretto a lui, misto al messaggio silenzioso  che  gli  arrivava  da ogni  banco  da  ogni  viso adolescente che lo squadrava ostentando la sfida: ma che vuoi tu, non  sei  dei  nostri, tu sei dall'altra  parte, noi  facciamo  la rivoluzione tu non ci puoi condizionare tu vuoi impadronirti dei nostri cervelli e guidarli chissà dove, noi vogliamo camminare da soli non ci servono guide non ci fidiamo di nessuno. E così se ne  era andato, aveva fatto domanda agli Esteri per un  posto  di addetto  negli Istituti  di  cultura ed ora  era  qui  col  suo bagaglio di amarezze come tutti gli altri. Ma in questo  momento Luigi  vive  solo  il presente, tutto  è  lontano,   varca  la  soglia  del luogo, sta bevendo  l'aria,  la  pelle toccata  dal  vento freddo delle montagne che  cala  lungo  le valli. Il sole al tramonto illumina i pendii come un riflettore la scena, i contorni  delle cose diventano nitidi le linee si disegnano nette  i  colori scoppiano puri davanti ai suoi occhi. E’ il mondo andino  che  si apre per lui, è il pianeta altro, quello  dei  grandi silenzi e delle solitudini astrali, che  rovescia la  prospettiva  della tua visuale  e  ti  fa apparire  quello  che conoscevi prima, il mondo degli uomini, piccolo e insignificante. Ci sono ­ lo sa ­ altri luoghi della terra, il Tibet, la Patagonia, gli altopiani mongolici, capaci di  svelare dimensioni nuove, ma questa è la sua prima volta,   questa è la terra rivelatrice.

Le donne lo avevano provato prima di lui, ed anche a loro era toccato rimanere mute in estatica stupita contemplazione,  per questo lo guardavano   intenerite  come  si guarda  un bambino che accenna i primi passi.
 Ida , la più giovane, taceva, sul  viso di bambina aleggiava un sorriso vago, gli occhi celesti  tondi, un po' acquosi, guardavano qualcosa molto  lontano da  lì. Strana creatura ­ pensava A. osservandola ­ piena  di contraddizioni e di fobie. Aveva vinto un concorso per architetti all'UNESCO e stava lì per partecipare ad un progetto di restauro delle   fatiscenti   città  coloniali. Lavoro   ambizioso   ed affascinante,  che si scontrava duramente con lo squallore  della realtà locale, il caos amministrativo e  l'avidità delle autorità locali,   che sarebbero  state  ben più felici di  ricevere  finanziamenti  da gestire  in  proprio piuttosto che questi giovani  tecnici  internazionali pieni  di albagia e animati dall'idea che le cose si  potessero  davvero cambiare. E dunque era arrivata un giorno, tutta sola nel grande aeroporto  della  capitale  con  una valigia e  il  suo  viso  di bambina. Il funzionario dell'ambasciata che era lì per riceverla si disse “Questa è del tipo Alice nel paese delle meraviglie, tempo  un  mese che fa i bagagli e se ne torna dalla mamma".  E invece Ida aveva sfoderato un caratterino energico: aveva chiesto aiuto per cercarsi una casa, era stata adottata, come succedeva  a tutti i "nuovi", dalle signore residenti che le avevano  fornito generosamente indirizzi di parrucchieri, di sarte, di agenzie  di collocamento  per il personale domestico, di quei pochi negozi  di alimentari di cui gli stranieri si fidavano, insomma il know-how per  sopravvivere in una grande città del terzo mondo. Lei  aveva imparato  presto,  si era affittata un appartamento  piccolo  ma prestigioso a due passi dalla residenza dell'ambasciatore e aveva cominciato  a fare vita di società, entrando nel mondo  ristretto degli  stranieri accreditati e in quello  più  minuscolo  della comunità  italiana. Non aveva riscosso grandi simpatie. C'era  un che  di falso e di atteggiato in lei che  cominciò con l'urtare anzitutto  le  altre  donne, le  cui  antenne  finissime  avevano captato  segnali di pericolo. Ida bamboleggiava: pur  essendo  una ragazzona  alta  una  metro e ottanta, quando usciva  di  casa  si faceva  accompagnare  sempre dalla domestica, una donnina  che  come quasi tutte  quelle della sua razza non superava il metro e mezzo,  fin dentro  i negozi o alla soglia delle case dove veniva  invitata, suscitando  commenti ironici o, nei più buoni, uno  sguardo  di commiserazione. Ci  si  chiedeva  perché, da brava  ragazza di provincia, non avesse fatto la sua domanda per insegnare  disegno nelle  scuole, invece di finire quaggiù, un postaccio  pieno  di molti  pericoli  reali e di molti di più inventati dalla  paura  della gente. La cosa che mandava in bestia A. che, affettuosa e  socievole di natura era presto entrata in amicizia  con  tutti quelli  che aveva conosciuto, dai diplomatici, ai  tecnici, agli esperti  ONU, alle loro mogli, ai loro bambini, senza attuare  le sue  scelte  in base al prestigio o alle cariche, ma aprendo  la sua casa  a tutti, era che Ida non  perdeva  occasione,  ogni volta che la incontrava, di raccontarle che il giorno prima  era stata  al cinema con l'addetto culturale, il giorno dopo  sarebbe andata a cena con il consigliere militare. "Con chi?" rispondeva Aurora fingendosi distratta, “Ah! Con Roberto e Paolo? Fai bene, sono due  ragazzi  in  gamba.”  Ma  non  riusciva a smontarla.   Reggere l'ubriacatura  di una missione all'estero già era difficile  per gente  smaliziata o dotata di grossi anticorpi culturali, ma per una come Ida era veramente troppo. Aurora distolse lo sguardo da lei.  Era stanca, ormai da  cinque  ore  il  fuoristrada  aveva  lasciato l'infinito rettilineo della panamericana e si inerpicava  sempre più  a fatica sulla strada in cui l'asfalto sempre  più  spesso lasciava  il  posto  a un ripiano  diseguale. Attraversarono  un pueblo: le  misere case di fango disseccato mostravano come unico lusso  tetti di lamiera ondulata che da lontano  riflettevano  la luce del sole. Era quello il primo traguardo del contadino se mai arrivava a guadagnare  qualcosa di più dello stretto necessario per  campare la  giornata: un tetto di lamiera, quando  veniva  il temblor, o peggio  ancora,  il terremoto, non ti cadeva in testa  col  peso letale  di  un tetto  di tegole.  Quando  gli  spagnoli avevano importato  la tecnica costruttiva di casa loro e l’avevano applicata sui pendii  delle Ande,  non sapevano ancora quanto frequentemente  quelle montagne iraconde tendessero a scrollarsi di dosso i loro incauti abitanti. I nativi invece, prima dell’arrivo dei mostri dell’altro mondo, mezzo uomini mezzo cavalli, avevano imparato davvero, con la pena di secoli, come si costruiva lassù, sui pendii della roccia inquieta.

Frotte di galline fuggivano terrorizzate all’arrivo della grossa automobile, vecchine dalle gambe rinsecchite che spuntavano dalle larghe gonne variopinte si giravano incuriosite senza rallentare il passo, con la gerla piena di erba profumata che le caprette aspettavano pazienti nel recinto di casa. Il gruppo si fermò sulla piazza principale. In nessun pueblo del Perù manca un grande spazio quadrato o rettangolare, della cui antica funzione rimane solo l’enfatico nome di plaza de armas, ombreggiato spesso da maestosi platani secolari. Anche lì, nonostante la piccolezza dell’abitato, esso si allargava tra gli edifici più antichi, case mezzo diroccate, con i balconi di legno che le facevano assomigliare a baite alpine, la cattedrale con i suoi campaniletti gemelli e l’improbabile color rosa confetto bordato di bianco. Eppure tutti questi elementi eterogenei componevano un insieme di grazia armoniosa, immersi com’erano nell’atmosfera limpida della sera, percorsa da stridi di rondini. I viaggiatori entrarono in un bar della piazza, dove ai pochi tavolini sgangherati rari indios sedevano immobili, senza espressione sul viso, forse avvolti in un sogno lontano generato dall’alcool, dalla coca o semplicemente dalla loro mente visionaria. Sul bancone, poggiati su una carta oleata, alfajores appena sfornati, ricoperti di zucchero a velo risvegliarono con il loro profumo la fame nei due ragazzi. A. li frenò senza nemmeno dar loro il tempo di cominciare un capriccio. Troppo fresca era ancora l’esperienza del tifo dell’estate prima, che per poco non si portava via il più piccolo. Lei a casa a disinfettare tutto con l’amuchina, il cui odore costituiva ormai il fondo comune a tutto quello che mangiavano, e i due incoscienti a bere a scuola l’acqua del rubinetto, nonostante le mille raccomandazioni. Che poi mica era sicuro che se lo fossero preso così il tifo; d’estate nugoli di mosche banchettavano prima di loro sulle pietanze appena tolte dai fornelli, sui pantagruelici buffet dei ricevimenti, nelle cucine dei ristoranti. “Solo bibite sigillate, altrimenti dovrete aspettare l’arrivo. In macchina vi siete divorati i biscotti nelle prime due ore di viaggio, adesso che volete?”. Marco e Lorenzo si rassegnarono subito, conoscevano il tono definitivo della mamma. Dopo aver placato la sete e riassestato lo stomaco messo a dura prova da ore di scuotimento, se ne andarono a curiosare per i vicoli del villaggio, pavimentati di terra battuta solcata da rigagnoli, le cui acque torbide e puzzolenti dichiaravano apertamente la loro provenienza. Pochi i passanti, qualche vecchio dallo sguardo intorpidito, gruppi di bambini di età diverse, i più grandi con in braccio i più piccoli, tutti con le guance paffute sporche di terra, gli occhi vispi e curiosi che seguivano attenti le mosse dei forestieri.

-Andiamo, si fa tardi! Carlos richiamò le donne che si erano incantate davanti alla bottega del cappellaio: sulla parete di fondo erano appese decine dei cappelli bianchi col nastro nero destinati a coprire la testa delle donne della sierra. La loro severa foggia maschile in contrasto con la femminilità dei vestiti sgargianti dai corpetti ricamati, conferiva a queste donne un aspetto disomogeneo, che spiazzava i turisti occidentali.
-Aspettate! Me ne voglio comprare uno!- Ida aveva giá in mano un cappello e si apprestava a cominciare la contrattazione con l’omino della bottega, felice di avere addirittura clienti straniere (ne passavano cosi’ poche), quando, voltandosi, si accorse che le altre si erano incamminate verso l’auto sulla piazza.
-Apettate!- sembrava una bambina capricciosa: poso’ sul bancone il cappello e segui’ correndo Nadia ed A., mentre sul viso dell’artigiano si dipingeva la delusione.
Il viaggio riprese: man mano che si saliva di quota, la valle si restringeva e diveniva piu’ ripida: sui fianchi cominciavano ad apparire gli eucaliptus, ormai quasi gli unici alberi della sierra, importati dagli spagnoli, che hanno succhiato a questa terra arida anche le ultime gocce d’acqua. Ma la fame di legno era troppa, allora come ora, e le politiche ambientali non sfioravano questo paese, allora come ora. A. e Nadia notarono che le sponde del torrente che scendeva a valle schiumeggiando erano colorate di un bel rosso mattone, come se vi scorresse non acqua ma un te’ forte, e ne chiesero la ragione a Carlos. –Sono acque minerali, fu la risposta, qui cominciano le sorgenti termali che fiancheggiano il torrente e vi scaricano le loro acque calde, vedrete quando saremo su.
-Non possiamo fermarci un attimo? chiese Ida con la sua vocetta petulante.
  • No, fra poco fara’ scuro, e’ meglio affrettarci.
  • Non avevi detto che questa e’ una zona sicura? chiese A., che aveva scambiato un’occhiata preoccupata con Nadia.
  • Ma certo! non vi avrei portate fin qui! io conosco uno per uno tutti i contadini della valle, di molti di loro sono compadre, ho fatto dai padrino ai loro figli, non c’e’ pericolo.
La risposta ambigua tranquillizzo’ le donne solo in parte: si chiedevano quale nesso sottinteso ci fosse tra il battesimo dei bambini della valle e la presenza dei terroristi. La piu’ tesa era A., che sentiva su di se’ la responsabilita’ di aver trascinato i figli in quell’avventura. Finalmente arrivarono: Carlos fermo’ l’auto nello spiazzo davanti ad una grande casa dalla pianta ad elle, simile a quelle viste nel villaggio: due piani intonacati a calce, un lungo balcone di legno intagliato che circondava tutto il primo piano, il tetto di tegole rosse. All’intorno solo vegetazione, il silenzio rotto dalle loro voci e dallo scrosciare del torrente nascosto tra gli alberi.
  • E’ bellissimo! esclamavano i passeggeri scendendo con sollievo dalla macchina, le membra indolenzite, le teste frastornate dallo scuotimento, dal rumore e dall’altitudine. Avevano un gran voglia di camminare, di stirarsi, di stendere le gambe. Si lasciarono condurre dal padrone di casa nelle camere: pochi mobili vecchi, odore di umido e di legno, le pareti imbiancate a calce come l’esterno. I bambini erano elettrizzati: - Dai mamma sbrigati, andiamo da Carlos che ci ha fatto il te’! A. si sarebbe volentieri stesa sul letto, ma non poteva negar loro un po’ di sfogo, dopo tante ore di viaggio. Andiamo, disse. Uscirono di nuovo nello spiazzo: il sole era calato oltre le cime delle montagne, le ombre salivano rapidamente sul lato opposto. Ebbe un brivido: fra poco sarebbe stato buio. Nel soggiorno un caminetto incorniciato di pietra ospitava un bel fuoco, sul tavolo Carlos aveva gia’ disposto le tazze, la teiera, i dolci che aveva portato dalla citta’. Luigi e le donne si lasciarono cadere nelle vecchie poltrone foderate di cuoio scuro, i bambini attaccarono affamati i dolci. Carlos li osservava sorridente: estos extranjeros! Poche ore di strada e guarda come si riducono. - Poi tutti a fare il bagno! esclamo’. –Il bagno? a quest’ora? a quest’altezza? fra poco fara’ un freddo del diavolo! esclamarono tutti in coro. Ma che freddo!- rise Carlos- C’e’ la piscina nel bosco, l’acqua viene direttamente dalla sorgente, e’ a 38 gradi.
  • Non abbiamo i costumi - obiettarono le donne.
  • Ma che costumi! nel bosco non c’e’ nessuno, vorra’ dire che daremo la precedenza alle signore e quando voi tornerete andremo noi , esta’ bien?
  1. e Nadia erano tentate, ma ancora incerte se cedere alla stanchezza o alla curiosita’, quando Ida esclamo’ con la solita voce piagnucolosa:-Ma io ho paura!
Questo fece decidere immediatamente le altre due:- Dai, andiamo in camera, prendiamo gli asciugamani!
Mentre uscivano dalla stanza si sentirono dietro, come si erano aspettate, la vocina implorante: -Aspettatemi, vengo anch’io!
Si trovarono di nuovo nello spiazzo ghiaioso: il buio era calato, il cielo nero era fitto fitto di stelle.
- Mi sa che siamo un po’ matte, mormoro’ Nadia – ci possiamo fidare di Carlos?
  • Io penso di si’- disse Aurora, inciampando in qualcosa mentre si inoltravano nel bosco; rabbrividiva, ma non era solo il fresco della sera. Si sentiva addosso, come le altre, una strana eccitazione, la sensazione del pericolo la faceva essere tesa ma le dava anche un piacere sottile, inaspettato. All’improvviso il bosco si inargento’, i tronchi divennero visibili, le figure che avanzavano fosforescenti.
  • Che succede? si chiese Nadia, ed alzo’ gli occhi al cielo: attraverso le chiome degli alberi scorsero la luna, una grande, sfacciata luna piena, che era sorta da dietro la muraglia scura dei monti.
  • Dio mio! esclamo’ Aurora guardandosi intorno: il bosco era diventato un luogo magico, iridescente, che palpitava mosso dalla brezza in infiniti riflessi di luce. Ida taceva incantata, per una volta la sua ansia dormiva, immersa in quella luce surreale.
Arrivarono alla piscina, quasi sulle rive del torrente, una vasca quadrata di cemento in una radura erbosa.
  • Io mi vergogno a spogliarmi davanti a voi, non sono mica abituata!- cinguetto’ Ida. In effetti tutte e tre erano imbarazzate, perche’ avevano contato sul buio che le nascondesse alla vista delle altre.
  • Oh be’ – taglio’ corto Nadia - non saremo arrivate qui per nulla! – e comincio’ a spogliarsi in fretta.
  • Che freddo! strillava Ida sfilandosi i jeans aderenti, forse per dimostrarsi disinvolta davanti alle due meno giovani.
E si calarono con cautela nell’acqua, che le accolse in un abbraccio tiepido, quasi tenero. Ebbero la sensazione di ritornare nel ventre materno, di fluttuare nel liquido primordiale come creature non ancora nate. La dolcezza le sopraffece: rimasero a galleggiare in silenzio, muovendo appena gambe e braccia, dapprima guardando solo il cielo color latte in mezzo ai rami, stordite dal profumo penetrante degli eucalipti che le avvolgeva. Immersero la testa , il viso: i capelli fluttuavano come alghe nere in un lago notturno. Poi si guardarono: i loro corpi bianchi splendevano sulla superficie dell’acqua, le spalle lucide, i seni galleggianti come sfere lucenti.
  • Driadi ed amadriadi...- penso’ A., rievocando i nomi mitici delle ninfe dei boschi – Non e’ vero, e’ un’ allucinazione, che ci ha messo nel te’ quel matto di Carlos?
La risata di Nadia ruppe il silenzio fatato: - Magari lo avessi sempre cosi’ bello dritto, il seno! Era un modo per esorcizzare la tensione, il ribollire dei sensi che Nadia sentiva prepotentemente lievitare in se’, come la marea che sale. Era abituata a rintuzzare questi assalti, ma questa volta era davvero difficile, c’era qualcosa di stregato in quella notte, in quel luogo. Tutte e tre avevano pensato agli uomini in attesa nella casa: era ora di uscire, di indossare di nuovo gli abiti consueti, di ritornare le donne composte e misurate che erano solo un’ora prima.
L’effetto fu quello cercato: alla battuta di Nadia avevano cominciato a ridere, a sollevare con le mani spruzzi scintillanti a giocare come bambine complici di una piccola, innocente avventura. Poi erano uscite dall’acqua, avevano scambiato battute leggere mentre si strofinavano i corpi bagnati e a fatica rimettevano i pantaloni che non scivolavano sulle gambe.
Saltellando intirizzite si avviarono verso la casa, e a meta’ cammino incontrarono Luigi, da solo.
  • Dove sono gli altri? chiese Aurora subito memore dei bambini.
- Marco e Lorenzo si sono addormentati vicino al fuoco, e Carlos e’ rimasto con loro. Io vado a fare un tuffo, com’era il bagno?
  • Lo sentirai..- gli rispose ambigua Nadia, senza voltarsi.
Fecero ancora pochi passi, poi, senza parlare, tutte e tre rallentarono, si fermarono, si volsero indietro. Quella era una notte magica, non c’era bisogno di parlare per capirsi. Lontano tra gli alberi la luna rischiarava una figura che si piegava, si drizzava, per un attimo apparve loro nitida, le forme lineari, perfette, i muscoli lunghi e levigati: un guizzo, e scomparve nell’acqua. Come vorrei essere acqua, come vorrei essere luna.
Si scambiarono un rapido sorriso, si volsero, raggiunsero la casa. Scomparvero nell’ombra del porticato.
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