MONTAGNE, VINO, GUERRE E DITTATORI
discorrendo del Caucaso occidentale.

di Marco Borsotti

 
Le montagne

Sono ormai trascorsi vent'anni, da quando mi avvicinai per la prima volta alle vette del Caucaso. Ammetto allora averne saputo poco di quelle Nazioni anche perché sino a pochi anni prima quei luoghi, essendo parte dell'Unione Sovietica, erano soltanto piccole repubbliche autonome di poche decine di migliaia di chilometri quadrati su di un territorio che superava i 21 milioni di km2. Delle montagne del Caucaso ne avevamo sentito parlare tutti a scuola, catena montana tra il Mar Nero ed il Mar Caspio (sarebbe corretto denominarlo come lago perché non ha sbocchi naturali con nessuno degli altri mari) che separa l'Europa dall'Asia.
 Per arrivarci con la mia fresca nomina a capo missione delle Nazioni Unite nella Repubblica georgiana, presi a Vienna un volo della Air Georgia compagnia sconosciuta ai più al punto che arrivato all'aeroporto fu difficile trovare lo sportello, non annunciato sul tabellone, dove ritirare la carta d'imbarco e consegnare la valigia, operazioni svolte da un addetto che aveva la lista dei passeggeri stampata a macchina dattilografica su fogli di carta che teneva in una valigetta appoggiata sul bancone. Non era la prima volta che vivevo queste esperienze di volo diciamo primitive, ma non mi sarei mai aspettato che questo potesse succede a Vienna nel centro d'Europa. Per eventuali passeggeri odierni, preciso subito che le cose sono molto cambiate ed Air Georgia, rinominata Airzena, funziona oggi come qualunque altra compagnia di volo internazionale. Del volo ricordo poche cose; la mela omaggio che l'assistente mi diede dopo l'imbarco spiegandomi che la frutta era una delle ricchezze del posto dove ci apprestavamo a volare e la spartana essenzialità degli arredi dell'aereo-nave, un Tupolev ancora con motori ad elica. Arrivammo a destinazione che era già sera inoltrata e questo mi impedì, per quella volta, di vedere le cime del Caucaso nella discesa verso Tbilisi, comunque, sin dal giorno successivo le cime in lontananza mi fecero sentire d'essere arrivato in una regione di montagne, con punte maestose, alcune ben superiori ai cinquemila metri d'altitudine, come il Kazbek. 
Le montagne occupano praticamente tutto il territorio della piccola repubblica della Georgia, con dal centro verso est una lunga vallata dove si concentrano quasi tutte le città principali e la capitale Tbilisi, ed ad ovest una pianura più corta che arriva sino al Mar Nero. Le montagne dominano tutta la frontiera sia a nord che a sud e scendono anche a circa metà del paese da nord verso sud, separando nettamente i tratti pianeggianti dell'est da quelli dell'ovest. L'orografia della Georgia, frutto della collisione tettonica di due grandi placche, si sviluppa in montagne molto alte e lunghe valli che incidono i fianchi di questo imponente sistema montuoso, rendendo arduo l'attraversarlo, ma anche offrendo facile rifugio alle popolazioni locali che potettero sempre trovare sui monti protezione. Non stupisce, quindi, che la Georgia abbia preservato costumi, tradizioni e cultura quasi incontaminati anche se, ad un certo punto della sua storia, divenne parte dell'impero romano, dopo essere stata occupata dal regno armeno che al massimo del suo splendore si estendeva dal Caucaso giù nella Mesopotamia sino alle coste del Mar del Levante all'estremità orientale del Mar Mediterraneo. Queste valli furono oggetto d'attrazione sia per i persiani che per i turchi ed alla fine per i russi. Tutti, come appena scritto, in un epoca o l'altra della storia occuparono quelle pianure, ma non riuscirono mai ad assumere un controllo sicuro delle valli e dei monti che le circondavano, fatta eccezione per i pochi passi dove era possibile transitare muovendosi da est ad ovest o viceversa.
  
Così, le popolazioni locali riuscirono a preservare la propria identità, la propria lingua, la propria scrittura, dividendosi in gruppi etnici chiusi che sono sopravvissuti sino ad oggi. Una conseguenza di questo isolamento spiega come l'alfabeto georgiano come anche quello armeno siano unici e diversi tra loro. Nel mondo esistono oggi soltanto quattordici sistemi alfabetici completamente originali tra di loro, due si trovano nel Caucaso. Le comunità erano piccole, ma ebbero modo di sviluppare tradizioni culturali complesse nella letteratura, il più antico poema epico scritto in georgiano, fu composto molto prima della Divina Commedia dal loro divino poeta Shota Rustaveli, monaco vissuto nell'era d'oro della Georgia durante il regno di Tamara che, pur essendo donna, i georgiani definiscono nella loro lingua come Re Tamara invece che regina, nella pittura, nel canto. Le corali dodecafoniche maschili ancora molto popolari ai giorni nostri derivano da un tipo di musicalità che si ritrova soltanto in alcune parti della Sardegna e nella regione Basca oltre che in Georgia e ha radici antiche. Da citare che già nel 1106 il Re David il Costruttore volle che nell'allora capitale del suo regno fosse fondata un'università ispirata al modello culturale di Bisanzio nei terreni che appartenevano al Monastero di Gelati situato nella zona occidentale del paese.  
Tutti associano la tradizione biblica con la Palestina, ma i racconti soprattutto della Genesi probabilmente si svolsero nel Caucaso. Il Monte Ararat, punto d'approdo, dice la Bibbia, dell'Arca, si trova infatti ai confini di quella che é oggi l'Armenia e la Turchia. Si favoleggia che il diluvio universale fu dovuto alla rottura delle barriere che nel Bosforo impedivano alle acque del Mediterraneo di espandersi nelle pianure ad est che si trovavano ben al di sotto del livello del mare, come ancora oggi succede con tutta la zona attorno al Mar Caspio. Infine, il Caucaso fu la terra verso cui si diresse la spedizione degli Argonauti per la conquista del vello d'oro. Come curiosità menziono che il nome Medea, mitica principessa dal temperamento focoso, é molto comune tra le donne georgiane ancora oggi.
 
Il Vino e le sue origini 
In Georgia tutti sono sicuri che la vite sia pianta originaria del Caucaso, di una regione situata ad oriente denominata Kakheti e che le tecniche di vinificazione furono inventate in Georgia. A sostegno di questa tesi, esibiscono ritrovamenti archeologici, che ho potuto visitare, situati in zone probabilmente abitate sin dai tempi dell'età del bronzo o persino antecedenti dove si trovano fosse scavate in quelle che potevano essere delle foresterie situate all'interno di zone fortificate dove avrebbero accomodato giare di terracotta usate per l'invecchiamento del vino, tecnica in uso ancora oggi in molti luoghi della Georgia. La natura del clima e la consistenza del suolo, in Georgia, garantiscono condizioni stabili di temperatura ed umidità, cioè, tutto quanto é richiesto perché la fermentazione possa completarsi in condizioni ottimali permettendo la formazione dell'alcool derivato dagli zuccheri dell'uva. Queste giare sono conservate sigillate in luoghi coperti ed oscuri, come le nostre cantine, non diversi dalle grotte in cui anticamente si mettevano i barili ad invecchiare. In sostanza, il procedimento é simile a quello attuale e certamente popolazioni vissute ormai migliaia d'anni prima di noi lo mettevano in pratica. 
Nel mondo georgiano il vino, sia bianco che rosso, svolge un ruolo importante. Ovviamente, le molte invasioni hanno introdotto anche la preparazione e consumo di bevande a maggiore contenuto alcolico come la vodka o l'acquavite, ma la tradizione veramente georgiana attribuisce al vino il ruolo centrale soprattutto nei grandi banchetti. I georgiani amano socializzare e il loro luogo privilegiato é ancora oggi la “supra”, parola che si può tradurre come banchetto. Le occasioni per invitare amici ad una supra sono innumerevoli, matrimoni, nascite, compleanni, anniversari di ogni genere, persino funerali. Gli amici si riuniscono attorno ad una tavola imbandita, sia a casa come in un ristorante, per trascorrere molte ore in allegria, ed il vino ha in tutto questo una funzione centrale. Infatti, per ogni tavola deve essere scelto un maestro di cerimonie, in georgiano “tamadan”, che durante tutto il pasto ad intervalli che lui scandisce a suo piacimento invita i commensali ad una bevuta, ma solo dopo aver ascoltato un suo elaborato pur se breve discorso per spiegare le ragioni del brindisi. Un tamadan con esperienza sa come mantenere viva la conversazione a tavola e come alternare l'attenzione ai piatti serviti con pause che permettano di mantenere lo spirito dei commensali alto. Alcuni brindisi sono di rigore, come quelli per celebrare la patria, l'amore, i figli o tutti gli ospiti che siedono al tavolo, ma altri sono lasciati alla discrezione del tamadan. La pratica vuole che si beva soltanto quando invitati dal maestro di cerimonie che é quindi anche responsabile per far si che le persone bevano quel tanto che le possa rendere allegre e comunicative, ma sempre senza eccedere perché la presenza di ubriachi al tavolo disturberebbe la festa per tutti. Mi pare che questa cerimonia abbastanza frequente per ogni georgiano sia come una grande terapia di gruppo. Infatti, i brindisi esaltano sempre le doti degli ospiti o del padrone di casa o la bontà di un'iniziativa o di qualunque cosa per cui la tavola sia stata imbandita. La supra é occasione di spensieratezza, ma anche di rassicurazione collettiva perché, anche grazie al vino che accompagna il cibo, l'allegria domina persino in momenti di dolore come possono essere i funerali. L'allegria, spesso si manifesta in canti corali e musica che accompagnano tutto il banchetto sino a che, alla fine, per sciogliere l'allegra comitiva, un commensale propone l'ultimo brindisi, quello per il tamadan, segnale che anche per quella volta la festa é finita.
 
Il vino é comune tutti i giorni a tavola dove si pasteggia, soprattutto la sera, accompagnando le vivande con qualche bicchiere. Molti un tempo anche in città facevano il proprio vino e per questo si vedono ovunque pergolati di viti, persino sui balconi. Oggi, la pratica della vinificazione é praticamente sparita in città anche se conosco varie persone che non rinunciano al piacere di invitare gli amici perché possano assaporare il vino fatto da loro, ma rimane molto diffusa in campagna dove non esiste cascinale o fattoria che non abbia anche un po' di terreno dedicato alla vite. Le caratteristiche del suolo, la presenza d'acqua, il clima estivo soleggiato e secco, sono tutti fattori che favoriscono la vinificazione. Ovviamente, molti dei vini amatoriali sono appena mediocri, ma nel complesso le viti tipiche del posto danno, se trattate da esperti, vini molto pregiati di tutte le qualità, compresi gli spumanti.
 
Le guerre 
Sapevo, arrivando, che il paese era preda di conflitti inter-etnici sfociati in un susseguirsi di lotte civili crudeli come sanno essere tutte le guerre che si combattono tra persone vissute sino a ieri come vicini di pianerottolo. Dopo il crollo improvviso del muro di Berlino e poco dopo dell'Unione Sovietica, le quindici repubbliche che ne facevano parte si proclamarono indipendenti. La Georgia, però, anticipò i tempi con un voto del suo Parlamento nazionale che decise nel maggio 1991 di separarsi dal resto dell'Unione. Da sempre serpeggiava in Georgia un forte sentimento nazionalistico, dimostrato dal fatto che le autorità di Mosca non erano mai riuscite, pur avendolo tentato, d'imporre il russo come sola lingua ufficiale. Nella Repubblica Socialista Georgiana il georgiano era lingua ufficiale affiancato dal russo. Quindi, le forti spinte all'indipendenza che seguirono la caduta del muro, trovarono nei rappresentanti eletti al parlamento di Tbilisi terreno fertile per approvare a larghissima maggioranza la scissione unilaterale con alcuni mesi d'anticipo con la dissoluzione ufficiale dell'Unione Sovietica. 
Le cose non furono però così semplici. I georgiani erano maggioranza, ma rappresentavano poco più del 60% della popolazione. Il restante 40% era diviso tra almeno altri otto gruppi etnici principali, tutti con tradizioni, lingua ed in alcuni casi religione diversi. Ben consapevoli di questa realtà, sin dai tempi di Stalin che era georgiano di nascita, le 15 repubbliche dell'URSS avevano al loro interno provincie autonome, in alcuni casi di fatto indipendenti dalla repubblica di cui facevano parte, dove invece la popolazione residente era prevalentemente di un altro gruppo etnico. Tutto questo rendeva fragili le repubbliche, proprio quello che Stalin aveva voluto, lasciando al potere centrale di Mosca il compito di dirimere qualunque contrasto fosse sorto all'interno di ciascuna repubblica. Per questo, subito dopo la proclamazione d'indipendenza, due provincie autonome della Georgia contestarono il risultato del voto e manifestarono a Mosca il loro rifiuto categorico di lasciare l'Unione. Quando divenne Segretario Generale dell'URSS, Gorbachev aveva scritto nel suo libro Glasnost, trasparenza, che il punto critico per il paese era la questione delle autonomie e differenze etniche. L'averlo capito, però, non gli fu utile, come tutti sappiamo e lui fu scalzato dal potere prima dei fatti che sto narrando lasciando al centro una situazione di totale confusione, un caos dove quando arrivarono le proteste delle province che non intendevano separarsi nessuno fu in grado non dico di rispondere adeguatamente, ma persino di capire quali sarebbero state le conseguenze di quelle mancate azioni. Il risultato é noto. Le richieste di rimanere parte dell'URSS furono interpretate come tradimenti tesi a distruggere l'unità territoriale dei nuovi Stati. Presto, le autorità dell'auto-proclamata Repubblica georgiana non seppero fare nulla di meglio che mandare i carri armati per domare le rivolte e ripristinare il controllo centrale di quei luoghi. Il fatto che nella pratica quelle zone erano sempre state quasi indipendenti dal centro non sfiorò neppure per un attimo i pensieri dei nazionalisti che avevano il controllo del Parlamento di Tbilisi. I traditori dovevano essere puniti e l'ordine ristabilito.
 
Per prima le forze georgiane attaccarono l'Ossetia del Sud, un piccolissimo enclave prevalentemente d'etnia osseta a sud del Caucaso che la divideva dalla ben più grande e popolosa Ossetia del Nord che invece era parte della repubblica russa. In quella regione vivevano circa centomila persone, di cui circa due terzi erano di etnia osseta. Il paradosso era che nella capitale Tbilisi vivevano più di centomila osseti che erano anche presenti in gran numero a Gori, un grande centro rurale non lontano dall'Ossetia del Sud, facendo si che ci fossero molti più osseti residenti fuori dall'enclave di quelli che invece ci vivevano. Costoro furono le vere vittime del conflitto perché costrette a scappare e cercare rifugio fuori dalla Georgia.  Alla fine dell'estate 1991, arrivati nelle prossimità di Tskhinvali, la capitale dell'enclave, con circa ventimila abitanti, i carri armati dell'esercito georgiano iniziarono a bombardare una cittadina abitata prevalentemente da civili, provocando varie dozzine di morti. L'orografia, però, era a tutto vantaggio dei difensori. Per entrare in città bisognava attraversare un solo ponte per altro abbastanza stretto, quindi facile da difendere perché i carri armati dovevano avvicinarsi in una zona completamente aperta dove era possibile contrastarli anche con le poche armi pesanti di cui disponevano i difensori. In aggiunta, l'enclave si trova alle pendici di monti e valli impervie dove rapidamente tutta la popolazione sfollò trovando rifugio e preparandosi a resistere. Per ultimo, in quel territorio si trova l'uscita del solo traforo che passa sotto il Caucaso, uscita che da sempre é presidiata e difesa da truppe federali, allora dell'URSS oggi della Federazione Russa. Quelle truppe nel 1991 si dimostrarono efficaci per fermare l'attacco che non riuscì a penetrare in quei territori. É interessante notare che nessuno sembra abbia capito o studiato gli eventi del 1991 perché nel 2008 l'esercito georgiano tentò nuovamente la stessa azione con il medesimo risultato, anzi con un'umiliazione maggiore perché la contro offensiva russa in poche ore prese il controllo della Georgia e non volle entrare in Tbilisi soltanto perché a Mosca non sembrò opportuno occupare militarmente quella repubblica riottosa che avrebbe probabilmente messo in atto una guerriglia per opporsi alla presenza militare russa.
 
Arrivai in Georgia cinque anni dopo quei primi eventi. Nulla era cambiato dall'autunno 1991. Piccoli avamposti georgiani controllavano da lontano la zona. Esisteva una terra di nessuno larga a volte anche meno di un chilometro dove praticamente non vi erano attività e che nessuno, a parte le delegazioni dell'OSCE responsabili per supervisionare il cessate il fuoco osavano attraversare apertamente. Ovviamente, esisteva un mercato nero e gente disposta a rischiare, ma in gran parte i contatti erano cessati. Avendo esperienza di conflitti ero stato scelto per quel posto. Mi avevano anche dato un fondo di due milioni di dollari da spendere per iniziative di pace, una cifra non esorbitante, ma sufficiente per poter diventare un incentivo se fossi riuscito a gestirla in modo appropriato. Appena arrivato nell'incontro che ebbi con il Presidente georgiano Eduard Shevardnadze sollevai subito l'argomento chiedendo di poter avviare conversazioni con il governo per discutere come poter mettere a buon uso quei fondi. Il Presidente indicò nel Ministro degli Esteri Menagashvili  la persona con cui avrei dovuto lavorare. Questa fu una scelta brillante perché il Ministro si dimostrò immediatamente uomo aperto e, soprattutto, non partigiano di un cieco nazionalismo. Anche lui voleva proteggere l'integrità della Georgia, ma si rendeva conto che per farlo efficacemente fosse necessario riconoscere gli interessi e le preoccupazioni anche delle altre etnie.
Dopo il primo incontro, in poche settimane riuscimmo a mettere in cantiere un piano per cercare di sbloccare la situazione. Fui fortunato anche per avere nel capo missione della OSCE Dieter Boden, diplomatico di carriera tedesco, un valido alleato anche lui convinto che i problemi inter-etnici non trovano mai risposte durevoli se si vuole risolverli con l'uso delle armi.
 
Arrivammo così alla mia prima visita a Tskhinvali accompagnando una delegazione governativa georgiana formata dal Primo Vice-Ministro degli Esteri, il governatore di Gori e pochi altri. Dopo i fatti del 1991, quella era la prima volta che georgiani di quel livello entravano in quella regione. Ricordo la piccola colonna di macchine aperta dalla mia con la bandierina delle Nazioni Unite sventolando sul cofano e chiusa da quella di Boden con la bandierina dell'OSCE. In mezzo le macchine dove sedevano i dignitari georgiani. Arrivati al punto di controllo, dopo essere passati senza fermarci davanti alla postazione delle truppe russe, presenti come forze di pace dell'OSCE, rallentammo il cammino per farci riconoscere ed permettere alla macchina che ci aspettava di mettersi in testa per guidarci al posto in cui si sarebbero tenuti i colloqui. Il luogo prescelto era quello che mi fu presentato come il Palazzo di Governo, dove aveva i suoi uffici anche il Presidente dell'auto-proclamata repubblica. L'edificio aveva cinque piani che dovemmo salire a piedi perché non c'era corrente elettrica per operare gli ascensori. Ricordo con che sollievo non dovetti entrare in uno di quegli ascensori sapendo che da anni ormai non dovevano aver ricevuto un'appropriata manutenzione. 
La proposta che portavo con me era semplice. I fondi erano stati assegnati al governo georgiano che a sua volta aveva accettato che li destinassi ad opere di ricostruzione in Tskhinvali. Per gestire i fondi, le due parti nel conflitto dovevano giungere ad un accordo su quali opere realizzare. Una commissione tecnica congiunta avrebbe controllato i lavori. Le regole per l'assegnazione dei contratti sarebbero state quelle in uso per l'esecuzione nazionale di progetti delle Nazioni Unite ed, infine, i disborsi di denaro sarebbero stati effettuati direttamente dal mio ufficio alla presentazione di regolari contratti firmati dalle due parti e dagli esecutori dell'opera o di fatture certificate dalla commissione tecnica che attestavano il completamento di differente fasi dei lavori. I lavori realizzati e la contabilità sarebbero stati sottoposti a controlli indipendenti alla fine di ogni anno finanziario. Mi ricordo aver insistito sul fatto che non volevo che le priorità fossero decise dalle Nazioni Unite, OSCE o altri. Dovevano essere il frutto di accordi tra le parti in conflitto. Le riunioni per discutere del programma dovevano svolgersi in modo alterno, una volta in territorio controllato dai georgiani e la volta successiva in territorio controllato dagli osseti. Le riunioni sarebbero state presiedute da me nella mia capacità di mediatore con la presenza dell'OSCE come osservatori.
  
In poco più di due mesi avevamo già un programma dettagliato delle priorità e una scaletta delle scadenze. Con molto buon senso, le parti avevano deciso: (1) di ripristinare il servizio telefonico riparando i danni dovuti ai bombardamenti della locale centrale per le comunicazioni; (2) ricostruire un ponte crollato per un terremoto che aveva sconvolto la regione subito dopo il cessate il fuoco, quel ponte permetteva la comunicazione di una regione sotto il controllo georgiano con Tbilisi facilitando allo stesso tempo la ripresa di tutte le attività di economiche che si trovavano nella valle; (3) riparare i piloni elettrici danneggiati nei bombardamenti che avevano bloccato d'allora l'erogazione della corrente elettrica in tutto il territorio; (4) riparare alcune case danneggiate nei bombardamenti soprattutto in zone dove gli abitanti appartenessero alle due comunità. 
I lavori iniziarono quasi subito ed in meno di un anno e mezzo furono completati. Ricordo con piacere circa otto mesi dopo l'inizio delle opere, subito dopo una riunione della Commissione a  Tskhinvali mentre passeggiavo prima d'andare alla macchina per tornare a casa, un gruppo di donne mi fermò per ringraziarmi per aver permesso la riparazione dei telefoni, l'unico strumento che avevano per sapere dei loro cari che vivevano in Russia e con cui, dopo la guerra, non erano più riuscite a parlare. Il mio piano funzionava perché le cose da fare erano scelte dai diretti interessati. Il fatto che le parti dovessero mettersi d'accordo tutelava in modo sufficiente contro il rischio che le scelte fossero dettate da interessi esclusivamente personali di chi proponeva l'iniziative. Rimanendo neutrale nella discussione, arrivai a portare le parti a discutere tra loro di cose da fare e non di astratti principi nazionalistici. La chiave era la partecipazione nelle decisioni senza nessuna forzatura dall'esterno come alcuni colleghi avrebbero voluto, convinti di aver saputo scegliere meglio gli obiettivi da realizzare. Questo é un errore tipico di quasi tutti gli interventi con la partecipazione di stranieri. Invece di ascoltare e pensare che chi vive sul posto sappia meglio di chi viene da fuori quali siano le necessità e come definire le priorità, chi arriva pretende sapere, ma soprattutto non si fida che i locali sappiano realizzare dando quindi incarico ad imprese esterne, spesso straniere, per la realizzazione di opere che i locali avrebbero saputo realizzare da soli e probabilmente meglio. Purtroppo, i due milioni finirono e non riuscii ad ottenere fondi aggiuntivi per continuare. A dire il vero, fondi furono stanziati dalla Commissione europea e dalla Banca Mondiale, ma non solo non vollero farli pervenire attraverso il mio ufficio, cosa possibile, ma rifiutarono anche d'adottare lo stesso approccio designando organizzazioni non locali per la loro realizzazione. Ovviamente, l'aver stimolato la partecipazione ed il coinvolgimento diretto delle parti non piacque, forse perché riusciva a far dialogare parti in conflitto aiutandole a scoprire che cosa guadagnassero lavorando in comune. Il momento che si era generato andò svanendo e presto la collaborazione tra le delegazioni cessò di essere un fattore ravvicinante tra le parti del conflitto. Di questo addebito ovviamente le parti, ma penso anche che coloro che disponevano di nuovi fondi siano anche loro responsabili per non aver voluto investire nel costruire ponti  che avvicinassero le due comunità. Infatti, scelte fatte da persone esterne nel definire le priorità diedero adito a sospetti di collusioni dietro le quinte e quello che prima aveva portato a prendere decisioni comuni divenne nuova occasione di contrasto.
 
Il dittatore 
Ritornando a Tbilisi dopo quel primo incontro a Tskhinvali, ci fermammo a Gori dove viveva il governatore che era stato membro della delegazione. Secondo la migliore tradizione georgiana, il governatore ci invitò tutti per una supra per festeggiare l'esito della nostra prima visita. Mentre eravamo fermi nella piazza principale arrivò di ritorno da una visita ad una sua comunità parrocchiale il Nunzio apostolico che nella migliore tradizione georgiana fu invitato con noi. Ovviamente, preparativi dovevano essere stati iniziati molto prima perché in poco più di una ora fummo chiamati a tavola. Entrando vidi due damigiane da venti litri ed il nunzio mi disse, “vedrà che quando andremo via questa sera saranno vuote”, parole profetiche perché dopo quattro ore di banchetto con circa una trentina di commensali le damigiane erano ormai svuotate. 
Prima di sederci a tavola il governatore invitò il nunzio, Boden e me ad una visita al Museo di Stalin cui Gori aveva dato i natali e che tutti in città consideravano e, penso, considerino ancora come un loro grande concittadino. Il Museo deve essere stato costruito subito dopo la morte di Stalin. Si tratta di un grande edificio neoclassico che ha nel suo piazzale due interessanti reliquie: la casa dove Stalin nacque, una casetta modestissima dove nel sotto scala viveva la famiglia di Stalin e dove pare lui sia stato partorito come era solito farsi in quegli anni; il vagone ferroviario personale, quello che Stalin usava in tutti i suoi viaggi perché sembra che rifiutasse di prendere un aereo per timore di possibili sabotaggi, dove vicino ad una sala di riunione si può visitare il suo scompartimento con bagno dove troneggia una vasca abbastanza grande per le sue abluzioni. Nel vagone, c'erano anche due scompartimenti per le sue guardie del corpo ed uno per il suo segretario personale. Per il resto il museo non contiene nulla di particolare esclusa forse la maschera di cera fatta al volto del dittatore subito dopo il decesso, una piccola collezione di doni inviati a Stalin da sezioni del partito comunista di vari paesi esteri come l'Italia, ed una collezione di fotografie di momenti salienti della vita di Stalin, alcune interessanti dal momento che, per chi conosce gli originali, si può vedere come fossero state cancellate dagli scatti le presenze di personaggi della rivoluzione d'ottobre o di varie tappe della storia sovietica che era caduti in disgrazia e quindi eliminati non solo ammazzandoli come quasi sempre era successo, ma anche oscurandone la memoria come se non fossero mai esistiti.
 
Nella supra a Gori é consuetudine dedicare uno dei primi brindisi alla memoria del grande concittadino. Invero, proprio di fronte al palazzo del governatore troneggia una colossale statua di Stalin. La statua fu eretta quando Stalin era ancora in vita e d'allora troneggia a Gori. Durante il governo Sakashvili ispiratore ed esecutore della rivoluzione delle rose del 2003 il governo da lui presieduto decise di rimuovere la statua dal suo piedistallo e metterla in un magazzino prima di rifonderla. Per rinfrescare la memoria, Sakashvili fu la persona responsabile per la disastrosa ripetizione del tentativo di entrare con la forza a Tskhinvali nel 2008. Conosco personalmente questo individuo e non faccio mistero di averne una bassissima opinione. Per togliere la statua gli addetti dovettero farlo di notte e con una grande presenza di forze speciali per tenere lontani i cittadini di Gori. Poco dopo, Sakashvili perse le elezioni e gli abitanti si affrettarono a rimettere la statua al suo posto dove é possibile vederla ancora oggi. 
Il brindisi mi colpì perché non ricordavo aver mai sentito menzionare Stalin con tanto rispetto e tanta devozione. Ascoltando il Tamadan mi fu detto che Stalin era stato il vero artefice del trionfo e consolidazione della rivoluzione d'ottobre, lottando contro i russi bianchi sostenitori dello Zar e successivamente contro tutti coloro che avevano tentato di sabotare il consolidamento del potere dei soviet. Stalin era il grande vincitore della seconda guerra mondiale e per questo a Gori tutti lo rispettavano ed amavano. Tanto il fervore, che altri presenti al tavolo chiesero ed ottennero la parola per allargare il brindisi. Ricordo in particolare una anziana signora, membro dell'Accademia delle Scienze nel campo della matematica, che parlò di chi tradì Stalin, in primo luogo Beria, l'uomo cui Josef aveva assegnato la responsabilità di gestire la sicurezza e che, a insaputa del suo capo, era il vero colpevole per le tante atrocità che poi furono attribuita al loro concittadino al ventesimo congresso del Partito Comunista Sovietico. Beria non era cittadino di Gori e quindi era facile fare di lui il capro espiatorio di tutto quanto d'atroce fosse successo nei lunghi anni dello stalinismo.
 
Quella fu la prima volta che ascoltai simili parole. Conoscendo i fatti per quello che furono, sapevo da molto prima d'arrivare in Georgia che Stalin come Beria si erano macchiati di crimini orrendi. Anche se le motivazioni fossero state accettabili, i metodi usati non potevano essere giustificati. Rimane però come un fatto, che molti e non solo in Georgia considerino Stalin come una figura importante nella storia, il solo capace di prendere le redini di quel grande paese che era stato l'ex-impero zarista in molte sue parti fermo alla servitù della gleba, per portarlo in pochi decenni a tappe forzate a raggiungere l'industrializzazione e colmare il divario che lo separava dal resto dei paesi occidentali. Anche queste considerazioni sono certamente legittime e corrispondono al vero. L'impero degli zar era l'ultimo rimasuglio dell'ancien regime proprio delle monarchie europee prima della rivoluzione francese. Stalin e coloro che lavorarono con lui ottennero il quasi miracolo di chiudere un divario di due secoli in tre decadi. Il costo umano fu immenso certamente aggravato dalle paranoie che affliggevano Stalin e Beria ed altre figure centrali di quegli anni a Mosca, ma la Russia alla morte di Stalin non era certamente più quella che alla fine del 1917 aveva spodestato il regime corrotto e crudele degli zar. Va infatti detto che la nobiltà russa e lo stesso zar non furono mai meno crudeli di Stalin. Anche loro facevano uccidere migliaia di persone senza pensare per cui trovo che la recente santificazione di Nicola II da parte della chiesa ortodossa russa non sia diversa dalla santificazione laica che molti riconoscono a Stalin. Entrambi facevano uccidere senza esitazione. Miracoloso é che quei paesi che hanno conosciuto governanti così crudeli siano comunque andati avanti nella storia. Questo vale per la Russia, ma anche per la Georgia e per molte altre repubbliche che furono parte dell'Unione Sovietica e che prima erano parte del grande impero zarista.
 
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