DONNA IN AFGHANISTAN

Appunti di viaggio

di Massimo D'Angelo 

Portava una tanica pesante d’acqua, arrampicandosi a fatica sulla stradina che si snodava sul dosso delle montagne che penetrano fin quasi al centro di Kabul, costeggiando le casette che sono sparse lungo il percorso, appoggiate lì quasi come per miracolo.  La roccia sabbiosa di queste montagne che d’estate offre lo spettacolo, allo stesso tempo desolante e terrificante, d’un terreno arido e impervio, di un colore uniforme di polvere, d’inverno assume toni più piacevoli. Le casette si vestono di un aspetto nuovo che mi ricorda i presepi della mia infanzia, con i tetti coperti di neve che abbelliscono il paesaggio con un calore umano inaspettato. Ma la giovane donna che si trascina sul sentiero con la tanica d’acqua  turba bruscamente quest’immagine piacevole con una nota dura che mi riporta alla realtà.  Non è un presepio. Questa è una delle parti più  povere di Kabul.

Chiedo al mio autista perché la ragazza si debba trascinare il peso della tanica, vista la ripidità del pendio.

Dopo tutto stiamo in zona urbana. E l’autista mi indica una fontana davanti a noi, dove un gruppo di ragazze fa la coda con altrettante taniche. La pompa è manuale e ciascuna giovane aziona a turno la leva per pompare l’acqua e riempire le taniche.  Poi le ragazze si avviano, lentamente, con le taniche piene, lungo le stradine ripide che conducono alle loro case.  Chiedo all’autista: ma non c’è l’acqua corrente in questa parte della città? No, mi risponde. Lì non c’è l’acqua. Solo nelle parti basse della città c’è una rete idrica moderna.    Il compito di portare l’acqua in casa è delle donne, come in tante altre parti del mondo in via di sviluppo.

C’è molto traffico a Kabul. È l’ora  del pomeriggio in cui tutti escono dagli uffici ed il traffico è caotico.  Ci si muove a passo di lumaca.  La nostra auto blindata, simbolo di falsa sicurezza in una città imbevuta di misure di protezione contro eventuali attacchi terroristici, non va da nessuna parte, imbottigliata nel traffico. E guardo la ragazza che si trascina con la tanica.  Deve essere molto pesante, e si ferma continuamente per prender fiato. Appoggia la tanica per terra. Poi riprende. Fa qualche altro passo, e poi si riferma. Si guarda intorno, sudata nonostante il clima rigido di alcuni gradi sotto zero, e quasi come se sapesse che la stessi osservando, volge il suo sguardo verso la mia auto. Non si accorge subito che la sto guardando, ma alla sosta successiva, nota il mio sguardo dietro il mio finestrino antiproiettile. Le sorrido, e lei mi risponde con un sorriso, anche se siamo lontani; il suo è un chiaro messaggio di ringraziamento per la mia comprensione. Poi riprende il suo cammino, con un gesto di rassegnazione.

Cercare di capire la condizione della donna in Afghanistan, per un visitatore come me, concentrato e recluso nelle esigenze del lavoro e della sicurezza , non è facile.  Certo, posso fare ricerche, aver colloqui con specialisti del settore. In teoria potrei chiedere di incontrarmi con alcune di loro, ma non fa parte del mio lavoro immediato.  Debbo accontentarmi delle immagini fucaci.

Nel quotidiano, confinato nei bunker fortificati  –incroci tra villaggi turistici, caserme e campi di concentramento – di incontri con le donne afghane ne ho pochi e sono tutti molto superficiali, salvo che nell’ambiente di lavoro, ma anche lì si tratta di incontri che hanno tante limitazioni.

Ogni mattina le vedo entrare quasi furtive, in gruppo, nel complesso fortificato ove risiedo: si tratta delle addette alla pulizia.  All’inizio le saluto e non mi rispondono. Hanno quasi paura di guardarmi. Poi, a forza di incontrarle, giorno dopo giorno, vedendo sempre la mia stessa faccia che insiste nel salutarle, si abituano a sapere chi sono.  Cominciano a conoscermi nelle mie abitudini. Conoscono i miei libri e le mie scartoffie che non leggono.  Toccano con rispetto il mio computer, quando spolverano il mio tavolo di lavoro, lasciandolo sempre nella stessa posizione. Conoscono le mie scarpe e  i miei indumenti. Sanno se sono ordinato o se lascio qualcosa in disordine. Sono testimoni silenziose ed invisibili della mia vita privata. E a forza di vedermi, alla fine, riesco a strappar loro un sorriso ed un saluto. Chissà, se insistessi ad imparare qualche parola in Dhari, forse potrei andare anche oltre il ‘buon giorno’.

Loro sono fortunate: hanno uno stipendio, basso, sia pur sempre uno stipendio, che è ben meglio di quanto tocca a tanti residenti urbani, costretti a subire altissimi tassi di disoccupazione. Probabilmente riescono a risolvere i problemi di sopravvivenza immediata delle loro famiglie.  Quelle che entrano nel complesso fortificato non indossano il ‘burqa’, ma hanno solo il capo coperto da un normale velo, come le nostre suorine di vecchia memoria.  Però non so dire di più. Non ne conosco il livello d’istruzione. Non so se siano sposate, se abbiano figli, ove abitino, e quali abitudini abbiano. La loro capo-gruppo parla l’inglese ed è l’unica con cui riesco a fare qualche breve conversazione. Sembra una donna ben preparata, ma non so se sia rappresentativa delle altre. Delle altre non riesco a sapere di più.

Quando  vado in ufficio, le donne afghane le vedo dal finestrino anti-proiettili.  Giovani e vecchie, anzi per la maggioranza giovani.  Anche tante bambine.  Vedo continuamente ‘burqa’ azzurri, quasi tutti uguali, dello stesso colore, ma non sono la maggioranza.  C’è chi copre il viso solo con un velo che nasconde la bocca ed il naso.  Ma moltissime portano solo un fazzolettone, che d’inverno a Kabul è molto comodo, visto che fa un freddo incredibile.  Le giovani studentessse hanno uniformi in nero con il fazzolettone bianco, e sorridono allegre con queste divise scolastiche che sembrano così nuove. E penso: queste sono fortunate. Con i Talebani, a scuola non potevano andarci.

Le donne per strada sono occupatissime nelle loro faccende di tutti i giorni, andando a fare la spesa come tante donne nel mondo.  Il che non sembra niente di eccezionale. Eppure durante gli anni più duri del regime Talebano, non potevano farlo, se non erano accompagnate dal loro ‘uomo’ che ne garantiva l’onestà e la sicurezza.  Adesso, possono muoversi da sole, o tra donne, o con i loro bambini.  Con il capo coperto, chi più chi meno. I cambiamenti in Afghanistan sono lenti, si misurano in termini di decenni o di secoli, e la gente si accontenta anche di questi piccoli cambiamenti, e dicono che questi sono segni di modernismo.

Quando entro in ufficio, incontro colleghe afghane, poche, per lo più in posizioni subalterne: segretarie, addette all’amministrazione.  Poche le funzionarie governative  con responsabilità manageriali. Gentili, dinamiche, ti fanno capire che non appartengono alla media della popolazione femminile del paese. Loro non hanno paura di lavorare con gli uomini e di sicuro non indossano il ‘burqa’, ma mantengono un rispetto per una posizione tutto sommata subordinata e silenziosa. Meglio non alzare troppo il polverone con atteggiamenti femministi.  Gli equilibri sono fragili ed il ricordo dell’incubo talebano è solo dietro l’angolo. Mentre tra i maschi, sento a volte commenti negativi sulla presenza delle truppe straniere, tra le donne c’è più riserbo.  Forse è la consapevolezza che se i Talebani tornassero al potere, loro dovranno forse abbandonare il lavoro e tornare al medioevo.

Non è facile parlare di politica con la gente, anche con le donne, anche se le persone non sembrano avere l’incubo inquisitivo che ho trovato in Iran.  Alla fin fine, ci si può esprimere liberamente in Afghanistan.  Ma noto sempre una prudenza inevitabile.  Non si sa mai.

Quando si parla con la popolazione maschile, c’è chi si lamenta delle truppe straniere, chi si lamenta dei terroristi, chi dice che la colpa è tutta dei pachistani e degli iraniani, o dei corrotti al governo.  Ma sulle donne ho l’impressione che preferiscano evitare l’argomento. Ti dicono che i Talebani avevano sbagliato tutto, o avevano esagerato.  Ma comunque qualche osservazione sulla necessità di preservare i valori “culturali” diversi viene sempre espressa.  E dietro questi valori “culturali” non ci vuole molto per capire che si nascondono concetti come il ruolo tradizionale della donna e dell’uomo, e dei loro rapporti reciproci.

Mi diverto spesso a dialogare con colleghi nazionali per conoscerne la vita e le abitudini, e loro di solito fanno altrettanto con me per sapere come vivo. Così ne approfitto per parlare anche con gli uomini per sapere come trattano le loro mogli e le loro figlie.  Quando posso parlo con le colleghe afghane, per capire di più.  Sto attento alle domande che faccio.  Non voglio offendere nessuno. Non si sa mai quali sensibilità si possano urtare.

Una segretaria di un collega si presenta nel mio ufficio e sfacciatamente mi dà la mano. Immediatamente mi avvisa che qui quel gesto non lo fa nessuno ma che a lei non le importa: è una donna moderna e mi dà la mano per salutarmi.  Con le altre faccio attenzione a non fare altrettanto, perchè non voglio mettere in imbarazzo nessuno.

La mia segretaria è molto sorridente e parla bene l’inglese.  Mi parla delle sue ambizioni accademiche. Laureata in agronomia, vorrebbe prendere un Master in un paese di lingua anglosassone. Durante la mia prima visita mi dice che non è interessata a sposarsi subito, ma vuole continuare a studiare. Alla mia terza visita scopro che ha una piccola fede all’anulare della sua mano sinistra e le chiedo cosa significhi: “Mi sono fidanzata”, mi dice.  Come mai?  La spiegazione non è una bella storia d’amore, come ci si aspetterebbe da una ragazza di 24 anni dalle nostre parti.  Il fatto è, lei mi confida, che col passare del tempo, volendo lei bene alla sua famiglia, ha dovuto fidarsi dei consigli di chi è più saggio di lei. E tutti in famiglia le dicevano che stava invecchiando e che bisognava che cominciasse a pensare al matrimonio. Così i suoi genitori, come è usanza da quelle parti, si sono messi d’accordo con i genitori di un ragazzo suo coetaneo, e le hanno proposto un “findanzato” di comune accordo.  E’ fortunata, dice lei, perché lui è giovane (non è infrequente che i matrimoni combinati siano tra mariti anziani e mogli giovanissime, appena adolescenti), è una persona che lei già conosce, un cugino, e non le dispiace, e poi lui le ha detto che lei potrà continuare a lavorare anche dopo sposata, insomma un progressista.  E gli studi di specializzazione all’estero? le chiedo io.   Hanno deciso che una volta sposati andranno insieme all’estero per specializzarsi ambedue.  Sembra un sogno da favola. La ragazza ha trovato la mediazione tra tradizione e progresso, rispetto dei vincoli culturali e modernità.

Le colleghe di lavoro le trovo tutte a pranzo, dove sediamo insieme su di un lungo tavolo. Segretarie, impiegate ed impiegati amministrativi, funzionari e capi ufficio siedono l’uno accanto all’altro, per condividere il pasto preparato dal cuoco locale.  Le donne stanno l’una vicina all’altra, ma siedono sempre sulla stessa tavola e non hanno problemi a interloquire gioviali e cordiali con i loro colleghi maschi.  Non sembra che ci siano discriminazioni.

Mi perdo gran parte delle loro conversazioni, che sono per lo più in Dhari, ma quando mi parlano in inglese riesco a capire di più della loro vita. Un giovane collega mi racconta delle sue visite nel villaggio d’origine, in provincia, in occasione delle quali è costretto a raccontare bugie sulla vita che la sua famiglia conduce a Kabul: non parla mai del fatto che le sue figlie frequentino la scuola, ed in modo particolare deve assolutamente nascondere che la sua figlia più grande frequenta l’università.  L’anziano del suo clan lo taccerebbe di “tradimento” culturale e di immoralità.  Forse potrebbe escluderlo dal clan familiare. Sono tutti d’accordo che in provincia gli anziani non capiscono il modo moderno di vivere e che il salto culturale è enorme, quasi insormontabile.

Durante una di queste riunioni conviviali, apprendo che stiamo celebrando il fidanzamento di un impiegato amministrativo, un giovane poco più che ventenne. Sono tutti allegri e le congratulazioni per il neo-fidanzato si sprecano.  Chiedo al collega se ha già previsto una data per il matrimonio, e lui mi accenna ad un periodo più o meno incerto di uno o due anni, ed aggiunge: la fidanzata ancora non l’ho mai incontrata. Rimango stupito e gli chiedo chiarimenti: la ragazza vive in Germania, e il fidanzamento è stato combinato dai rispettivi genitori. I due fidanzati si sono scritti e si son sentiti per telefono. Chissà forse questa estate lui andrà in Germania per conoscerla o lei verrà in Afghanistan.  Continuando la conversazione con questo collega, lui mi spiega che molta gente della sua famiglia vive già in Germania, compresa una sua zia, un’attivista per i diritti della donna. Lui ne parla orgoglioso, per dimostrarmi quanto lui sia intellettualmente aperto. Eppure vive ancora in un clima culturale in cui i diritti della donna hanno forti condizionamenti.           Che contraddizioni! Questo è l’Afghanistan di oggi.

Nel gruppo di colleghe c’è l’anziana segretaria del capo, apparentemente la veterana di tutto l’ufficio, che durante il periodo talebano fu l’ultima a resistere, lavorando in clandestinità da casa sua, prima di rifugiarsi in Pakistan dove il resto dell’ufficio nel frattempo si era già trasferito.  Una donna austera e competente, con cui è piacevole dialogare.  Mi racconta del periodo talebano.  È una donna di cultura superiore. In Italia si potrebbe definire di “buona famiglia” (è figlia di un generale, di chissà quale periodo storico).  Mi confessa che in famiglia l’hanno sempre presa in giro dandole il nomignolo di “Margaret Thatcher”, per il suo carattere di donna di ferro e non per le sue opinioni politiche.  Le consiglio di andare a vedere il film “Iron Lady” che sembra adattarsi molto al suo carattere.  Lei ascolta affascinata i miei commenti sul film.  Mi racconta anche un episodio di discriminazione professionale di cui lei è stata vittima, quando ha cercato di fare il concorso interno per avere accesso alla categoria dei “professionali”.  Nonostante fosse – a detta di tutti – la più qualificata tra i candidati, il fatto che fosse una donna era stata una considerazione che aveva giustificato una decisione di “non opportunità” da parte della giuria di selezione e non fu scelta come vincitrice del concorso.  Le avrebbero fatto capire che le autorità nazionali non lo avrebbero visto di buon occhio.  Non ho motivo di sapere se questo racconto sia accurato  o no. So solo che si tratta della persona tra le più qualificate dell’ufficio, e di sicuro con sufficiente anzianità di servizio da meritare un riconoscimento professionale.  Ma a prescindere dall’attendibilità del racconto di una possible discriminazione sessuale, rimane il fatto che questa collega percepisca di essere stata discriminata e non solo da nazionali ma anche da stranieri che si sono prestati a perpetuare pregiudizi di questo genere.  La ringrazio per avermi raccontato questo episodio, tanto confidenziale. Lei mi ricambia venendo ad ascoltare le mie conferenze e i miei seminari, quasi a sancire un riconoscimento di stima reciproca.  Quando lascio il paese, la vado a salutare nel suo ufficio e le stendo la mano. Lei sorride e mi ricorda: lo sai che in Afghanistan non si usa? Ed io le rispondo: ma tu sei una cittadina del mondo, e non posso farne a meno. E lei mi stringe la mano.

Ma queste non sono le donne afghane discriminate che rischiano, per la loro condizione di inferiorità rispetto all’uomo, conseguenze atroci, le donne malnutrite di cui parlano le statistiche, le donne che hanno in media più di sei figli durante la loro vita, le donne con uno dei più alti tassi di mortalità materna registrati nel mondo, le donne cui è impedito di accedere a tanti mestieri solo perché questo implichirebbe avere rapporti esterni al di fuori della famiglia.  Queste sono le donne privilegiate, con istruzione, con reddito, con ruoli professionali, anche se limitati. Le altre donne forse sono nascoste dietro i ‘burqa’ che intravvedo per strada. Forse stanno facendo la fila al fontanone per riempire la loro tanica d’acqua. O più probabilmente non le ho mai viste e non le vedrò mai, nascoste dietro le loro pareti domestiche, o disperse nelle zone remote del paese, gravate dalle incombenze più pesanti.

Per sapere di queste altre donne debbo andare al di là dei miei incontri quotidiani: debbo leggere, debbo parlare con le responsabili del ministero per gli affari della donna, debbo incontrarmi con coloro che spingono per l’introduzione di politiche innovative sulla condizione femminile.  Ma questa è un’altra storia, e  la racconterò un’altra volta.{jcomments on}

______________________

[foto: WOMEN for WOMAN.org]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DESIGN BY WEB-KOMP