INDIPENDENZA CATALANA: ELOGIO DEL NONSENSO
di Paolo Basurto
Lo scorso 9 novembre (il 9N, come lo chiamano gli spagnoli), la Catalogna è stata teatro di uno spettacolo che lascia a dir poco, perplessi. I giornali italiani hanno chiamato l'avvenimento: referendum sull'indipendenza. E ne hanno parlato, quasi tutti in toni sorprendentemente elogiativi, come una manifestazione democratica di massa. In realtà, nelle intenzioni dei massimi promotori, e cioè la coalizione dei partiti attualmente al governo nella regione, avrebbe dovuto essere un referendum sull'indipendenza. Ma il Governo centrale non lo ha permesso ed è ricorso alla Corte Costituzionale che ha dichiarato l'iniziativa inammissibile perché contraria alle norme abbastanza chiare della Costituzione. Il Presidente della Regione, Arturo Mas, ha allora astutamente aggirato i 'no' del Governo e della Corte, e il 9 novembre ha fatto svolgere una consultazione sondaggio, formalmente voluta e organizzata, non più dalle istituzioni locali, ma da alcune delle tante organizzazioni private collegate ai partiti indipendentisti.
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CHI HA VINTO?
Secondo i calcoli più accreditati, basati sui dati dell'Istituto Nazionale Statistico, gli aventi diritti al voto, in Catalogna si aggirano sui cinque milioni. Tuttavia questa volta i milioni erano sei, perché a questa insolita consultazione sono stati invitati i cittadini di almeno 16 anni (nelle politiche il limite è 18) e tutti gli stranieri in possesso di residenza legale (che non sono pochi perché ammontano a circa 700mila).
Secondo le cifre non controllabili dichiarate dagli organizzatori, sarebbero due i milioni di persone che sono andate a votare. Il quesito proposto aveva una formulazione plebiscitaria e si articolava in due domande: Vuoi che la Catalogna sia uno Stato? Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente? L'80 per cento di quei votanti ha espresso 'Sì' a tutt'e due i quesiti. Un 10 per cento si è dichiarato contrario all'indipendenza ma non a che la Catalogna diventi uno Stato (il significato pratico di questa scelta può solo essere immaginato perché non esiste nessun progetto formale nel senso di uno Stato federato a quello centrale ma con maggiore autonomia di quanto attualmente ne goda ora la Regione), il resto si è dichiarato contrario ad entrambe le opzioni. Tralasciando l'attendibilità di questi dati e le scarse garanzie di neutralità offerte dagli organizzatori che presiedevano al voto e che chiaramente ostentavano la loro passione indipendentista, l'affluenza alle urne è stata considerata una manifestazione chiara di una massiva volontà popolare.
Il Governo regionale ha festeggiato pubblicamente i risultati, salutandoli come un grande successo che il Governo centrale non potrà ignorare. A queste conclusioni hanno fatto eco molti giornali tanto spagnoli che esteri, compresi i nostri.
Eppure, a ben vedere, non sembra per nulla un gran risultato. Solo un terzo degli aventi diritto è andato a votare. Chi non c'è andato è perchè era contrario all'iniziativa e quindi all'indipendenza. Se si fosse trattato di un vero referendum ci sono molte ragioni per credere che i risultati sarebbero stati abbastanza diversi. Rimane il fatto che più di un milione e mezzo di catalani ha detto chiaramente che voleva la sua regione indipendente dalla Spagna, alla quale è sempre stata legata da secoli di storia. Ma anche questo non è una novità. Il progetto indipendentista è stato elaborato nelle cucine dei due maggiori partiti della Regione, oggi al governo: il CiU (Convergenza e Unione) e Esquerra republicana (Sinistra Repubblicana). Approfittando del potere nelle loro mani, sono mesi che vanno svolgendo una propaganda piena di slogan populisti assai simili a quelli dei nostri conterranei leghisti. Il motivo dominante è lo stesso, solo che la ladrona non è più Roma ma Madrid. I catalani sono stati ossessionati, in questi ultimi due anni, dalla propaganda del Governo regionale indipendentista e molti si sono convinti che la colpa della crisi economica, che qui ha colpito duro ma assai meno che altrove nel Paese, era tutta da attribuirsi alle 'rapine' del Governo centrale, che imponeva alla Catalogna di dare sempre molto di più di quanti benefici potesse ricevere. Insomma, le vere ragioni del relativo successo della proposta indipendentista, sono di natura economica e acquistano efficacia grazie alla suggestione di slogan facili da diffondere e difficili da controbattere senza una dettagliata analisi che la gente comune non ha alcuna voglia di fare.
UN PO' DI STORIA
Nessun irredentismo nazionalista, culturale o storicamente fondato, regge o rafforza questa proposta. La Catalogna non è mai stata una nazione indipendente. Le sue autonomie di epoca medievale sono sempre state frutto di occasione o di rivendicazioni baronali, come in qualsiasi altra regione di europa. Terra di frontiera sempre, la sua identità culturale si fonda su un dialetto diffuso di piena matrice latina e che ha saputo dare buoni esponenti nella letteratura come nelle altre arti. Nulla di molto diverso da regioni come la Sicilia o la Campania. Quando nel 1931 la Spagna sprofonda in una gravissima crisi politica e il Re, spaventato, si autoesilia, nel Paese si proclama la Repubblica. Pochi giorni prima che la nuova forma di governo venisse installata, il Presidente della Catalogna, Francesc Macià (un ex militare dei tempi del dittatore Primo de Rivera, con il quale era entrato in dissenso), dichiara la regione, Repubblica indipendente. Durerà poco perché la neonata Repubblica spagnola si affretta a negoziare uno statuto speciale riconoscendo autonomie di gestione e non solo, per l'epoca assai pronunciate, in cambio la Repubblica Catalana scompare, anche se da quel momento e fino alla fine della guerra civile che scoppierà nel '36, il Catalano acquista formalmente dignità di lingua ufficiale. Del resto era questo il vero obbiettivo di Macià, già in carica da 10 anni e pronto e rinsaldare il suo potere con la creazione di un partito che, ancora oggi, si chiama Esquerra republicana. A questo si riduce l'unica esperienza di stato indipendente della Catalogna.
Tutto crolla con la dittatura di Franco, che cancella ogni autonomia e commette il grande errore di proibire addirittura l'uso comune del catalano. Il periodo franchista viene sentito dalla maggioranza dei catalani come quello dell'oppressione del Governo centrale e, anche se il tempo è più che passato, è probabilmente quella l'esperienza più vicina che, come una ferita mal cicatrizzata, può dare qualche spiegazione oltre a quella economica, della passione indipendentista che oggi brucia l'anima di almeno un milione e mezzo di catalani. C'è infatti chi addirittura si rifà alla resistenza opposta dai barcellonesi all'esercito dei borbone che si erano insediati sul trono di Spagna al posto degli Asburgo. Ma non si è trattato d'altro che della lunga guerra di successione che si conclude nel 1714 e che vede un nuovo assetto degli equilibri di potere che si erano mantenuti fino ad allora in Europa. Roba tra Re e regnanti, figli e nipoti di Re e regnanti in conflitto tra loro a causa dei loro pasticci matrimoniali. Nessuna vera partecipazione né popolare né nazionale.
MADRID LADRONA...
Non rimane a questo punto, che analizzare un po' di più la motivazione economica. La Catalogna è la regione più ricca della Spagna e il suo contributo al PIL è superiore al 20%. Nel peggior momento della crisi, il 2012, il PIL per persona era pari a 27.700 euro, mentre la media nazionale superava di poco i 22mila. Tuttavia la Catalogna è la regione più indebitata della Spagna, circa il 21% del suo prodotto interno. Il bilancio regionale è strutturalmente in rosso e il deficit si aggira intorno ai 6/8 milioni di euro, superando di un bel po' i severi limiti imposti a tutte le regioni, dalla politica di austerità adottata dalle Autorità centrali. Crisi a parte, l'amministrazione catalana non è sempre stata sprecona. Una classe imprenditoriale astuta, ma anche intelligente, colse con intuito la grande occasione delle Olimpiadi tenutesi a Barcellona nel 1992. La città subì una trasformazione impressionante (invito a vedere un video che dà un'ottima idea del colossale investimento fatto- link). Da allora il turismo è cresciuto a un ritmo vertiginoso e costituisce una delle principali fonti di reddito per tutta la regione. Da questo successo è nata una strategia vincente che ha puntato tutto sugli investimenti esterni, lo sviluppo delle attività finanziarie (poche città con poco più di un milione e mezzo di abitanti, contano tante banche come Barcellona), l'internazionalizzazione del commercio (la Fiera di Barcellona ha una rinomanza che ben può dirsi mondiale), il tutto ammantato da un'ostentazione di virtuosità e da un evidente interesse per la qualità della vita dei cittadini che non può che sedurre e aumentare credibilità.
Da quando scoppia la crisi, però, questa virtuosità è messa a dura prova. Nel 2007 la disoccupazione era del 6,7% , nel 2013 raggiunge il 22%. La Catalogna vede crescere il suo debito e la solvibilità scricchiola. Gli investimenti si riducono troppo rapidamente per consentire adeguati aggiustamenti fiscali e di bilancio. La classe politica regionale decide di giocare di anticipo e dà il via alla campagna indipendentista quasi esclusivamente centrata sulle responsabilità di Madrid. Il sistema fiscale spagnolo, prevede, secondo la Costituzione approvata da tutte le regioni, l'istituzione di un Fondo comune costituito dagli apporti di ciascuna regione. Fondo che viene poi redistribuito dal Governo centrale sotto forma di investimenti. La regione catalana sostiene di contribuire a questo fondo molto più di quanto poi non riceva sotto forma di benèfici investimenti. Se così non fosse, il debito sarebbe assai più ragionevole e il deficit di bilancio forse scomparirebbe. Il Presidente Mas ha ricordato mille volte nei suoi discorsi che la Catalogna è la terza regione contribuente al Fondo e la decima in quanto a vantaggi ricevutine. Eppure queste affermazioni non sembrano essere ben sostenute dai numeri. Secondo l'unico studio comparativo disponibile, fatto purtroppo solo nel 2011 (Ángel de la Fuente, Rapporto del BBVA Research), le uniche regioni ad avere un saldo negativo in quanto a costi/benefici del Fondo per le regioni, sono Madrid e le Baleari. Tutte le altre hanno un saldo positivo, Catalogna compresa anche se è vero che in valore assoluto è la decima in classifica mentre è tra le prime per contributi. A questo punto sarebbe opportuno considerare che il Fondo, come ogni sistema fiscale che si rispetti, ha un naturale obbiettivo di solidarietà che si raggiunge attraverso una redistribuzione che si spera sia il più possibile equa. Ma la parola solidarietà è purtroppo assente dal vocabolario indipendentista. Anzi, la penetrazione propagandista è stata talmente forte che non è raro ascoltare il macellaio o la pescivendola dichiararsi a voce alta arcistufi di dover finanziare quei morti di fame dell'Andalusia, anche se tre su dieci catalani di oggi vengono da altre regioni della Spagna e molti, ovviamente, proprio dal Sud, che, manco a dirlo, è anche la parte più povera del Paese.
I RISCHI DEL FANATISMO
Quello che preoccupa di tutto questo pasticcio è la manipolazione spericolata dell'opinione pubblica operata dalle Autorità politiche regionali, che invece di assumere responsabilmente l'onere di fronteggiare una crisi economica, che è mondiale, invece di trattare con il Governo centrale, che non sempre mantiene i suoi impegni finanziari con puntualità ed ha le sue colpe nel non aver messo allo studio meccanismi fiscali più adeguati ed aggiornati, cercano di arraffare quello che possono mettendo spalle al muro le Autorità di Madrid con il ricatto dell'indipendenza. In questo gioco oscuro il dibattito al livello della gente comune ha perso ogni lucidità ed è divenuto visceralmente appassionato, con manifestazioni di fanatismo crescente che lasciano interdetti per la loro assoluta mancanza di senso. Per fortuna la violenza non è ancora emersa né in forma organizzata nè in quella casuale. Ma non mi stupirebbe che con il progressivo arroventarsi del clima questo avvenisse, coinvolgendo altri temi caldi, come quello dell'abolizione della monarchia, cavallo di battaglia di Esquerra republicana. Catalogna non è i Paesi Baschi e un ETA catalana è impensabile; così dicono i catalani anche più arrabbiati. Ma queste non sono affermazioni quanto, piuttosto, speranze.
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Antonio Ingles - Ho l'impressione che l'articolo sostenga un punto di vista viziato all'origine e perciò sia essenzialmente condizionato. Secondo me le fonti utilizzate non includono mai documentazione diversa da quella ufficialmente ammessa dallo Stato spagnolo. Questo rende le argomentazioni un tanto sospette. E' possibile che un italiano sia inoltre influenzato dalla situazione politica dell'Italia. Anche se è perfettamente comprensibile, bisogna tenerne conto perché è un'altra possibile ragione di cattiva interpretazione della realtà e di quello che significa l'identità catalana.
Molte affermazioni e conclusioni non riesco francamente a condividerle. Non voglio cadere in sofismi retorici cercherò invece di sintetizzare quello che penso sul perché il popolo catalano si riconosce come Nazione e come Stato, indipendentemente dal fatto che lo sia assieme ad altre Nazionalità o Stati. Mi sembra che fu Mancini che meglio definì che cos'è una nazionalità: una comunità naturale di uomini che vivono assieme e che hanno in comune un territorio, una stessa origine, le stesse tradizioni e una stessa lingua e che inoltre hanno piena consapevolezza di essere una comunità. D'altro canto la base filosofica del principio delle nazionalità è la stessa di quella del principio della libertà individuale: il riconoscimento della sua personalità. Giunti a questo punto discutere della personalità dell'essere catalano è negare la sua esistenza e quindi mettere in forse la sua identità. Questa è, secondo me, la rivendicazione principale del popolo catalano. Del resto, non mi pare che la Costituzione spagnola neghi questa realtà. Lo Stato spagnolo invece la ostacola e la minimizza.
Forse vale la pena ricordare quello che un gran pensatore e poeta, Antoni Rovira i Virgili diceva in proposito: ogni Nazionalità ha il diritto a costruirsi uno Stato indipendente o autonomo. [trad. dallo Spagnolo]
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Marco Borsotti - Premetto di non avere mai seguito seriamente la questione catalana limitandomi a registrare in memoria che ci fosse un problema d'autonomia che sarebbe potuto sfociare in una richiesta d'indipendenza dal governo centrale. Capisco che forze politiche catalane odierne spingano per l'indipendenza per ragioni propagandiste a loro favore, anche se mi pare di ricordare che le radici del movimento vanno lontane nel tempo al punto che, alle Olimpiadi del '92, si fece uso del catalano come lingua ufficiale al pari dello spagnolo. Ricordo aver trovato la cosa curiosa, ma anche di aver letto che molti catalani già allora non si sentivano rappresentati dal governo di Madrid. Leggo, poi, che il problema era ancora più antico anche se la dittatura aveva bloccato ogni espressione di dissenso sino alla morte di Franco nel 1975.
Se da una parte non si può non prendere atto che la diversità catalana esiste, dall'altra non credo che l'indipendenza risolverebbe i problemi economici della Catalogna.
Qui stiamo cercando di integrare due paesi diversi come l'Italia e la Finlandia in una stessa entità politica, e questi ancora festeggiano la diada (11 settembre 1714, caduta di Barcellona nelle mani di Filippo V di Spagna durante la Guerra di Successione Spagnola).
Fra l'altro non mi pare che nessuno di questi indipendentisti si sforzi di immaginare come una eventuale Catalogna indipendente potrebbe integrarsi nella Comunità Europea, con la Spagna che sicuramente si opporrebbe.
Infine non mi pare che il risultato della consulta sia poi così positivo per gli indipendentisti. Al massimo potranno ritenersi soddisfatti di aver salvato la faccia e aggirato la sentenza della Corte Costituzionale.