IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO ? UN NUOVO APPROCCIO  (II)

(parte I)

di Massimo D’Angelo

UN’ANALISI CRITICA DELLE POLITICHE DI CONTENIMENTO DELL’IMMIGRAZIONE

Le alternative ad un Piano Marshall per l’immigrazione

Nella prima parte di questo saggio ho esaminato la proposta di lanciare un Piano Marshall per l’immigrazione per risolvere il problema dei flussi massicci di immigranti provenienti dal sud del mondo. Riconosco che una simile proposta potrebbe avere i suoi pregi, portando benefici ai paesi in via di sviluppo destinatari di tali aiuti, di cui probabilmente hanno estremo bisogno. Ammetto che un Piano Marshall rappresenti anche un simbolo importante di solidarietà internazionale che verrebbe così rafforzata, e ciò non va assolutamente sottostimato. Tuttavia, un Piano di tal genere con ogni probabilità sarà inefficace, insufficiente o tardivo come risposta ai problemi odierni delle migrazioni internazionali.[1] Puntare tutte le nostre speranze su quel suggerimento potrebbe essere fonte di grande delusione. I flussi migratori potrebbero rimanere inalterati nel breve e nel medio periodo, qualunche sia il pacchetto di aiuti varati, ammesso (ma non concesso) che qualche riduzione dei flussi migratori sia conseguibile nel lungo periodo come conseguenza dei nuovi piani di aiuto. 

A quel punto, quali alternative ci restano? Ci sono solo due altri tipi di politiche che conosciamo:

  • politiche “difensive” di contenimento; e
  • politiche di accoglimento e di integrazione.

Le politiche del primo gruppo, basate sul principio della difesa della “sicurezza nazionale”, mirano direttamente a ridurre i flussi migratori, o a contenerne la dimensione, e includono l’adozione di tutta una serie di misure “restrittive” anche amministrative, volte a limitare la concessione del diritto di soggiorno, ma anche azioni repressive di ordine pubblico (comprese misure anti-terroristiche e di lotta alla criminalità) che limitano l’accesso al territorio nazionale a individui sospetti, proteggono le frontiere, e perseguono il respingimento degli  immigranti irregolari, o il loro rimpatrio (volontario od obbligatorio), salvo poi concedere il diritto di asilo a chi può farne richiesta come rifugiato.

Le politiche del secondo gruppo hanno invece una impronta prevalentemente assistenziale e sociale. L’implementazione d’iniziative di accoglienza e di integrazione richiede un notevole impegno di istituzioni nazionali che forniscono servizi sociali essenziali e conta sull’appoggio, spesso cruciale, di organizzazioni non governative che impiegano, oltre a contributi pubblici, anche risorse proprie. Tuttavia, una politica di “integrazione” su larga scala è molto rara nella maggioranza dei paesi occidentali, anche se non mancano esempi importanti di applicazione di alcuni aspetti di questa politica. Più frequenti sono le misure di accoglienza di breve periodo (emergenza umanitaria).

Questi due gruppi di politiche non si presentano in forma sempre separata, spesso si combinano insieme, specialmente quando assistiamo a operazioni di salvataggio di profughi in mare od offriamo un’assistenza di primo intervento agli immigrati appena giunti nel paese, anche se azioni del secondo gruppo (comprese quelle di emergenza) hanno un peso molto scarso nei paesi ove prevale una forte opposizione all’immigrazione. 

Esiste inoltre tutta una serie di misure che mirano a “regolamentare” i flussi migratori, cercando di “programmare” l’immigrazione, come quando vengono stabilite “quote” annuali per definire il numero massimo d’immigrati che possono essere accolti.  Queste “quote” possono essere considerate sia difensive, se volte a stabilire tetti massimi di flussi migratori ammissibili, oppure possono essere considerate addirittura come forme per promuovere l’immigrazione, se quei numeri sono degli “obiettivi” da raggiungere, flussi desiderabili d’immigrazione, che governi desiderosi di stimolare l’immigrazione intendono generare. Inutile dire che, recentemente, la prima interpretazione è stata prevalente, essendo le quote usate come soglie da non superare, vincoli per proteggere i lavoratori nazionali dalla eventuale concorrenza della manodopera straniera. 

Esistono poi altre misure che non sono difensive di per sé, ma solo se inquadrate in un contesto di politiche in cui si evidenzia la finalità di contenere l’immigrazione. Questo è il caso in cui si persegua il passaggio da una certa forma di regolamentazione dell’immigrazione ad un’altra.  Per esempio, offrire permessi di immigrazione stagionale di per sé non costituisce una misura difensiva, potendo essere addirittura una forma di apertura all’immigrazione, che incoraggia nuovi flussi di lavoratori stranieri per sopperire alla carenza di certe posizioni lavorative. Tuttavia, se la concessione di permessi stagionali viene promossa in sostituzione di permessi di soggiorno di più lunga durata, divengono misure difensive di contenimento.. 

I governi probabilmente preferiscono non caratterizzare le loro politiche di contenimento dell’immigrazione come “difensive”, presentandole in modo più positivo. Spesso le descrivono come mere forme di regolamentazione dell’immigrazione, per garantirne il normale funzionamento, in armonia con altre priorità nazionali e la protezione degli interessi dei lavoratori nazionali. Ma nel corso degli ultimi due decenni questo tipo di regolamentazione è stato sempre più orientato all’obiettivo di difendere la sicurezza nazionale, proteggere l’ordine pubblico, difendere il paese dalla criminalità, difendere i diritti dei lavoratori nazionali, e/o difendere i valori nazionali (qualunque sia la definizione che si attribuisca a questi “valori”).

E alla fin fine le misure difensive di contenimento dell’immigrazione intendono porre un limite massimo al numero di immigranti cui è permesso di entrare nel nostro paese o di restare per periodi prolungati, o per un periodo indeterminato.  Questa finalità corrisponde allo stesso obiettivo di un Piano Marshall per l’immigrazione, ma le misure di contenimento perseguono lo stesso obiettivo in modo più diretto.

Giudicare il successo delle politiche d’immigrazione solo in base alla riduzione numerica degli immigranti è un modo distorto di concepire l’immigrazione e i suoi effetti, anche se i rappresentanti dei governi spesso citano statistiche di questo tipo per vantare i loro successi con l’immigrazione.  Chiaramente questo criterio di successo non si applica alle politiche di accoglienza e d’integrazione, in quando esse non mirano a ridurre il flusso numerico ma sono addirittura compatibili con un suo aumento, in quanto considerano l’immigrazione non come un costo ma come un contributo positivo alla società e all’economia nazionale. Quindi, parlare di successo nelle politiche d’immigrazione e di riduzione dei flussi migratori non è necessariamente la stessa cosa.

Le misure di contenimento dell’immigrazione a disposizione dei governi destinatari possono essere classificate, a loro volta, in due tipi:

  1. Azioni per la gestione dei flussi migratori nel territorio nazionale; e
  2. Azioni che interessano migranti e rifugiati che ancora si trovano, in via temporanea, in paesi “terzi”, in attesa di raggiungere il paese di destinazione finale.

Le azioni del tipo a) riguardano sia gli immigranti regolari, dotati di permesso regolare di ingresso e di soggiorno, che gli immigranti irregolari. Questi ultimi includono:

  • coloro che hanno attraversato la frontiera senza adeguata documentazione e sono perciò entrati non rispettando le regole per l’ingresso nel paese;
  • coloro che (pur se entrati con visti regolari) sono restati dopo la scadenza del loro permesso di soggiorno;
  • coloro che sono in procinto di “sbarcare” sul territorio nazionale con mezzi irregolari; e
  • coloro che sono stati “salvati” dal rischio di naufragio dalle nostre autorità marittime o da imbarcazioni private, incluse quelle di ONG, e che vengono portati sul territorio nazionale.

Tra di essi ci sono anche coloro che intendono chiedere “asilo” (potenzialmente dei rifugiati,  anche se tale stato non è stato ancora sancito). Nelle azioni del tipo a) includiamo anche le politiche di accoglienza per i rifugiati che hanno già visto riconosciuto il propro diritto di asilo, i quali – dopo che la loro domanda di asilo è stata accettata – rientrano tra gli immigranti regolari.

Per quanto riguarda le azioni del tipo b), ricordiamo che la “temporaneità” di questi soggiorni nei paesi “terzi” è relativa, visto che queste permanenze transitorie possono durare anni, prendendo la forma di insediamenti semi-permanenti (basti pensare ai campi profughi per palestinesi, ove generazioni di rifugiati nati e cresciuti in paesi “terzi” si sono succedute per decenni).

Difesa della sicurezza nazionale, selettività e discriminazione nelle misure di contenimento

Non ho intenzione di esaminare in dettaglio le misure di contenimento. Rinvio all’abbondante letteratura sul tema.[2] Mi limiterò qui ad un esame sommario di alcuni aspetti,[3] cominciando dalle misure del tipo a), cioè quelle che riguardano i flussi migratori nel territorio nazionale del paese di destinazione finale. Tali misure includono, fra gli altri, tanti atti amministrativi con cui siamo molto familiarizzati compiuti dalla polizia di frontiera, dagli uffici consolari, o da altri uffici competenti. Sul piano formale, molte di queste misure appaiono come innocui atti di ordinaria amministrazione. “Regolano” flussi migratori con semplici controlli di polizia, verificano lo stato legale degli immigranti ai punti di frontiera, concedono visti d’entrata, permessi di lavoro e  di soggiorno, salvo concedere l’asilo ai rifugiati che ne facciano richiesta. Includono il normale pattugliamento delle linee di confine e delle coste.  Niente di straordinario, apparentemente. Che c’è di strano in tutto questo? Al di là delle apparenze, però, queste misure “ordinarie” sono dominate dalla preoccupazione costante di garantire la sicurezza nazionale, includendo a volte vere e proprie operazioni di respingimento e di repressione, e questa circostanza non va trascurata.

Questa preoccupazione ci aiuta a capire perché la concessione di visti di entrata o dei permessi di soggiorno, i loro rinnovi, la loro estensione a famigliari[4] dell’immigrato siano fondati su criteri tanto rigidi, selettivi, spesso molto discrezionali, e a volte discriminatori per definire lo stato di immigrato regolare, mentre misure severe e repressive vengono riservate agli immigranti irregolari. Questa selettività a volte riflette “preferenze” esplicite, che favoriscono immigrati provenienti da certi stati, o con certe caratteristiche professionali (immigrati ad elevata qualificazione rispetto ai lavoratori manuali). Se guardiamo con maggiore attenzione, però, la differenza tra “preferenze” e “discriminazioni” nello stabilire criteri per concedere questi visti e permessi è spesso minima.[5]

Il fatto è che l’ordinarietà di queste misure è solo apparente. La concessione di visti d’ingresso e dei permessi di soggiorno è funzionale all’obiettivo di ridurre massicciamente il flusso in entrata degli immigranti in generale, e di quelli dal sud del mondo in particolare, eccetto offrire una scappatoia legale ai c.d. rifugiati. Molti amministratori pubblici che gestiscono questi atti amministrativi potranno dissentire da questa caratterizzazione, sottolineando che si tratta di misure dirette solo a provvedere un quadro legale e normalizzato che ha favorito, tra l’altro, l’ingresso a migliaia di immigranti. Probabilmente sosterranno che la selettività è giustificata da motivi di tutela dell’ordine pubblico: così si evita l’entrata a criminali che hanno legami con reti pericolose. Proteggere il proprio paese da questi rischi può ben giustificare l’introduzione di un po’ di selettività.

Tuttavia, trovo difficile giustificare tutte le forme di controllo e di selettività sulla base di queste normali considerazioni di sicurezza, quando vedo quanto difficile sia per le masse di emigranti dal sud del mondo entrare “regolarmente” nei paesi occidentali: quanti ostacoli debbono superare, quante lunghe attese, quante incertezze, e quanti rifiuti, rispetto alla capacità relativamente facile di una persona proveniente da un paese occidentale a emigrare in qualsiasi paese di sua scelta.  Non è questa discriminazione?

Ci sono molti modi per spiegare questa discriminazione.  Non c’è dubbio che ci siano minori controlli e divieti per gli immigranti provenienti dai paesi sviluppati. Quante volte non sono richiesti visti turistici ai viaggiatori provenienti dai paesi industrializzati? O i visti turistici sono concessi agli stessi viaggiatori con estrema facilità? Certamente, quando si tratta di visti d’ingresso per immigrazione, vi possono essere delle restrizioni che si applicano a tutti. Vengono richiesti requisiti standard, come l’evidenza di offerte di lavoro, l’accertamento di qualifiche accademiche o professionali, l’accertamento dell’intenzione dell’immigrante di voler fare investimenti nel paese ospitante (a volte basta comprare una casa), o di possedere adeguati mezzi di sostentamento (livello di reddito o di ricchezza personale).  Altri controlli possono essere richiesti, come attestati di non aver commesso atti criminali, o addirittura non aver infranto leggi finanziarie e fiscali. Ma normalmente gli immigranti dai paesi occidentali non incontrano particolari difficoltà a soddisfare questi requisiti. Gli emigranti dall’est europeo spesso sembrano aver goduto di un’analoga situazione preferenziale, data la facilità con cui hanno ottenuto il permesso di emigrare nei paesi occidentali. Certamente, anche molti immigranti dai paesi in via di sviluppo riescono a godere di questi stessi “percorsi” preferenziali, se hanno analoghe qualifiche professionali – dopo tutto non c’è il fenomeno della “fuga di cervelli”?  –  o offrono analoghe garanzie economiche (se appartengono a élites sociali del proprio paese).

I paesi occidentali d’immigrazione hanno tutta una varietà di visti da offrire a questi potenziali immigrati preferenziali e sufficiente discrezionalità nel concederli, che invece non sono accessibili generalmente agli immigrati non qualificati, manovalanza a basso livello di specializzazione, che è il tipo di immigrato che più frequentemente viene dal sud del mondo. Per questo i criteri di concessione di visti di ingresso risultano essere fortemente discriminatori a danno del paesi in via di sviluppo, specialmente i più poveri e i più fragili e per migranti a bassa qualificazione.

Queste costrizioni a volte dipendono dall’applicazione di “quote nazionali” (non sempre molto trasparenti), che impongono un tetto al numero massimo di immigrati che possono essere ammessi da alcuni paesi ad elevati livelli di emigrazione.  Ma dopo il “9/11”, si ha l’impressione che la porta si sia fortemente socchiusa per molti immigranti provenienti dai paesi del sud, specialmente per entrare in paesi come gli Stati Uniti ma, in qualche misura, anche in altri paesi occidental, vista la preoccupazione di evitare il rischio di concedere il visto d’immigrazione a persone collegate con il terrorismo internazionale o con la criminalità internazionale. Ciò si applica facilmente a chi viene da regioni affette da intensa instabilità politica, conflitti interni, guerre civili, lotte tribali, diffuse condizioni di criminalità e violenza e, per estensione, anche per chi viene da paesi considerati più vulnerabili, affetti da grosse calamità naturali che sconvolgono il funzionamento dell’economia, con estesa povertà, gravi carenze aliminentari, e collasso delle condizioni ambientali. A tutti costoro si applica la moltiplicazione di controlli preliminari e istruttorie prolungate dal risultato incerto prima di aprire la porta d’ingresso. 

In alcuni paesi d’accoglienza, tuttavia, vengono concessi visti d’ingresso anche a immigranti non specializzati, a volte con visti stagionali o permessi di soggiorno temporanei (“guest workers”), specialmente se ciò risponde alla necessità di rispondere ad una precisa domanda di lavoro che può essere soddisfatta solo con accesso a manodopera straniera.

Concludendo, per gli immigranti dal sud del mondo sembra che le maglie dei filtri posti dalle politiche di contenimento siano sempre più fitte. A loro si applicano misure sempre più severe per la concessione del diritto ad immigrare. Per questo, a questi immigranti, di fronte alla difficoltà di ottenere regolari visti d’immigrazione, spesso non resta che un’alternativa: l’immigrazione irregolare. Accettando questa alternativa, essi si assumono, però, tutta una serie di conseguenze, i rischi di un percorso pericoloso e faticoso, che si confronta con misure estreme di respingimento. Il rischio maggiore è quello di essere immediatamente deportati oppure, se colti in fragante nel traversamento irregolare della frontiera, quello di essere detenuti, restando in attesa di rimpatrio per un periodo prolungato, magari sperando di poter fuggire per partire per un altro paese. L’unica speranza per costoro è la chance di essere riconosciuti come rifugiati, se presentano domanda d’asilo, oppure la concessione di una qualche sanatoria che ne legittimi la posizione.

Sui centri di accoglienza, di detenzione e di espulsione per gli immigranti irregolari

Esaminiamo ora le misure di contenimento che riguardano gli immigranti irregolari. La natura difensiva di queste misure è la conseguenza inevitabile dell’attenzione primaria data alla difesa della sicurezza nazionale in materia d’immigrazione È sintomatico che le autorità competenti in materia di immigrazione non siano dicasteri di sviluppo sociale, o il ministero degli esteri, o il ministero del lavoro, o dicasteri economici, o enti assistenziali (incaricati dell’assistenza sanitaria, educativa, alimentare, culturale, o altra area sociale), ma enti competenti per l’ordine pubblico, che si occupano normalmente di furti o omicidi, di difesa delle frontiere, di lotta alla criminalità e al terrorismo, di arresti e di deportazioni forzate, e di indagini investigative su individui sospettati di reati.

Negli Stati Uniti è il “Dipartimento di Homeland Security” (DHL), creato dopo l’attentato alle Torre Gemelle, lo stesso ente incaricato di proteggere il paese dal terrorismo internazionale, a coordinare tutta la materia dell’immigrazione, sia regolare che irregolare. Per “difendersi” dall’immigrazione irregolare,  il DHL opera maggiormente attraverso l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), agenzia federale che ha il mandato specifico di condurre attività investigative riguardanti i crimini legati all’immigrazione nonché gestire la detenzione e la deportazione degli immigranti irregolari.[6] In Italia, è il Ministero degli Interni ad essere competente in materia d’immigrazione, a volte coadiuvato anche dal Ministero della Difesa (in particolare dalla Marina Militare), anche se nella storia italiana della politica d’immigrazione non sono mancate collaborazioni con altri ministeri, a maggiore orientamento sociale.

Le misure di contenimento di queste istituzioni puntano spesso sul respingimento, e frequentemente sono vere e proprie misure di repressione, quando riguardano l’immigrazione irregolare, anche se possono varare (a margine e non sempre) anche azioni di soccorso e di assistenza a favore degli immigranti irregolari con cui vengono a contatto.

A meno che gli immigranti non siano stati già respinti prima di varcare il confine evitando l’ingresso nel paese, le misure più simboliche di questo tipo sono le procedure di arresto e di detenzione cui sono sottoposti gli immigranti irregolari quando si presentano alle autorità di confine, se lo attraversano senza adeguata documentazione, o se sono fermati dopo aver attraversato “clandestinamente” la frontiera. Chiaramente si tratta di immigranti che hanno infranto le leggi nazionali, ma c’è una notevole differenza tra infrazioni di tipo amministrativo o di diritto civile, e infrazioni di diritto penale (crimine). Nonostante questa distinzione, i paesi destinatari si riservano il diritto di procedere all’arresto e alla deportazione forzata  (salvo il rimpatrio volontario), sempre che non venga loro concesso il permesso di soggiorno o il diritto all’asilo.  Tuttavia, anche in paesi come gli USA, ove l’immigrazione irregolare non è mai stata un crimine, il modo di gestire queste operazioni può essere talmente repressivo da rendere la differenza tra infrazioni amministrative e infrazioni penali puramente semantica.

Gli immigranti irregolari in Italia sono spesso chiamati clandestini, termine che, volenti o nolenti, attribuisce una connotazione criminale anche se il nostro sistema giuridico sembra essere ritornato ad una impostazione ove prevale l’idea che il soggiorno come immigrante irregolare rappresenti soltanto una infrazione amministrativa.[7] Sembra strano, tuttavia, parlare di crimilizzazione degli immigranti cladestini quando stiamo trattando semplicemente di gente che fugge dal proprio paese per fame, per paura o per sopravvivere. Sta di fatto che l’attraversamento della frontiera senza adeguati documenti è spesso trattato alla stessa tregua di un grave crimine, del contrabbando o addirittura di attentati terroristici, e represso con lo stesso vigore e rigore, nonostante alcune autorità di governo raccomandino a volte l’adozione di approcci ‘più umani’  meno coercitivi nel gestire queste situazioni.

A queste misure coercitive di tipo detentivo, si aggiungono le misure di difesa dei confini per prevenire l’arrivo di immigranti irregolari, condotte spesso con sforzi che si assomigliano ad operazioni di difesa militare.  Altre simili misure sono adottate per l’identificazione di questi immigranti quando già si trovino dispersi in territorio nazionale, con tutta una serie di attività investigative tese a scoprirne la presenza. In alcuni paesi non è raro assistere a vere e proprie retate compiute dalle forze dell’ordine per assicurarsi l’individuazione più amplia possibile di immigranti in condizioni illegali, assicurarne la cattura, accertarne la condizione illegale e intensificare i processi di espulsione.  Metodologie sempre più sofisticate vengono adottate in queste operazioni, anche grazie all’introduzione di moderne tecnologie biometriche ed elettroniche applicate lungo le frontiere, e grazie anche all’impiego ingente di forze dell’ordine, all’uso massiccio di mezzi di trasporto (anche elicotteri) e di altre complesse attrezzature che forse meriterebbero miglior uso in altri settori. Naturalmente questi approcci variano da un paese all’altro.

In un paese come gli Stati Uniti, gli immigranti irregolari arrestati sono inviati in “centri di detenzione” (vere e proprie carceri, salvo non averne la designazione formale), ove rimangono senza alcuna libertà di uscita in attesa della deportazione obbligatoria.[8] Oppure possono essere rilasciati in via provvisoria, subendo però l’umiliazione di un braccialetto elettronico alla caviglia (in gergo si chiama “shackle”, catena, a memento delle catene degli schiavi), quando il loro stato di detenzione viene sospeso. Ciò avviene quando ci siano ragioni fondate per non temere la fuga immediata dell’immigrato, e se l’immigrato è in attesa dell’udienza in tribunale che deciderà sul rimpatrio obbligatorio o sulla concessione dell’asilo.  La gestione dei “centri di detenzione” è affidata a enti privati, che hanno un aperto conflitto d’interesse che tende i a massimizzare il periodo di detenzione, con possibili abusi, visto che i detenuti non hanno diritto a difensori legali d’ufficio. Gli immigranti temporaneamente rilasciati dai “centri di detenzione” sono sottoposti all’obbligo di presentarsi a controlli periodici, simili a quelli usati per criminali in libertà provvisoria, presso centri di monitoraggio (affidati a enti privati), noti come ISAP. [9] Il mancato rispetto di  questi controlli comporta il rischio di immediata espulsione.

Negli Stati Uniti, l’applicazione di queste misure difensive vede due attori principali: i tribunali per l’immigrazione, che dipendono direttamente dal “Dipartimento di Giustizia”, e l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), forza dell’ordine dipendente direttamente dal “Dipartimento di Homeland Security” (DHL). I tribunali per l’immigrazione hanno giurisdizione assoluta sugli immigranti irregolari, e discutono il merito in materia di espulsione dal paese o la concessione di eventuale asilo. I convocati possono essere difesi da avvocati, ma non hanno diritto ad un difensore d’ufficio, e sono spesso costretti a difendersi di persona, senza alcuna conoscenza del sistema giuridico. L’ICE ha molta discrezionalità operativa per accelerare le espulsioni, potendo adottare procedure sommarie per deportazioni rapide, a volte infrangendo i diritti di chi avrebbero potuto richiedere asilo.

In altri paesi non necessariamente parliamo di “centri di detenzione”, anche se gli immigranti irregolari possono ugualmente essere sottoposti ad arresto e detenzione sotto il controllo delle forze di sicurezza. Varie forme di “centri di accoglienza” esistono, con diverse forme di restrizione alla libertà personale e  con strutture molto difformi, che includono tendopoli, campi profughi, strutture alberghiere convenzionate, o altre soluzioni logistiche temporanee.

Nei paesi europei è frequente trovare anche accampamenti spontanei di profughi, ove nessuna assistenza pubblica è offerta, se non quella eventuale (talvollta ostacolata) delle ONG. In questi campi improvvisati, da ove i profughi sono liberi di uscire quando vogliono, la repressione avviene quando le autorità ostacolano l’arrivo di soccorsi umanitari, od ordinano lo smantellamento forzato delle strutture con l’impiego di forze dell’ordine. Queste operazioni repressive possono essere giustificate dalla fragilità fisica di queste strutture, dal loro cattivo stato sanitario, da motivi di pubblica sicurezza, o dalla vicinanza a punti  sensibili (per es. gli accampamenti presso Calais in Francia, vicini al punto d’imbarco per la Gran Bretagna). La chiusura di queste strutture può avvenire con forme varie di coercizione.

In Italia, a partire dalla riforma Turco-Napolitano del 1998, sono stati istituiti[10] i “Centri di Permanenza Transitoria e Assistenza” (CPTA o più brevemente CPT), col fine di trattenere gli immigranti irregolariper il tempo strettamente necessario” ad effettuare gli accertamenti necessari in vista di avviare il processo di espulsione, mentre ricevono una prima forma di assistenza e di pronto soccorso offerta in collaborazione con ONG ed enti locali. Dal 2008, i CPTA si chiamano “Centri di identificazione ed espulsione” (CIE),[11] evitando così la confusione tra “accoglienza” e “respingimento”.  I CIE non sono strutture per accogliere, ma esistono principalmente per facilitare l’espulsione dei suoi “ospiti”. Il ruolo dei CPTA/CIE, concepiti per rispondere ad una logica “emergenziale”, è stato sin dall’inizio quello di trattenere l’immigrante irregolare che non sia stato già respinto alla frontiera, con lo scopo di facilitare l’espulsione di tutti coloro che non hanno i requisiti previsti dal trattato di Schengen per essere ammessi in un paese dell’Unione Europea, il che esclude tuttavia coloro che, dopo il loro arrivo, hanno diritto (dietro richiesta) a protezione internazionale (asilo).  Nei CIE c’è tuttavia una mescolanza tra coloro che con ogni probabilità saranno estradati con provvedimenti di espulsione, e coloro che alla fine otterranno la concessione dell’asilo in Italia o altra forma di permesso di soggiorno.

Il loro numero, in risposta a forti pressioni per una loro chiusura, è stato sostanzialmente ridotto agli attuali 6  (in precedenza esistevano 13 CPTA). Ad essi si aggiungono alcuni centri temporanei che fanno fronte a situazioni critiche nel Nord Africa.  Nel 2015, alcuni centri furono designati come Hotspot, nei luoghi ove più probabilmente avviene lo sbarco di immigranti che arrivano dal mare, creati per effettuate pre-identificazione, identificazione e registrazione degli immigranti appena sbarcati, a volte dopo un salvataggio in mare, e per facilitare uno smaltimento rapido degli immigranti e avviarli verso i vari hub regionali per coloro che richiedono la protezione internazionale (asilo), mentre gli altri, considerati "migranti economici", vengono inviati ai CIE per la loro espulsione.  A dicembre del 2016, risultavano attivi 4 Hotspot a Lampedusa, Taranto, Trapani e Pozzallo.  Critiche sono state sollevate sulle modalità inadeguate delle operazioni di pre-identificazione degli immigranti, a volte svolte in forma meccanica, in modo affrettato e in condizioni inadatte, compromettendo pertanto le operazioni successive.

Il sistema dei CIE e degli Hotspot è in sintonia con un piano d’azione dell’Unione Europea sul respingimento degli immigranti irregolari, che rafforza le modalità per la gestione coordinata dei rimpatri di coloro che non hanno diritto a restare nell'Unione Europea, ma attualmente non sempre il sistema funziona, per una serie di difficoltà che non permettono il fluido svolgimento delle operazioni per regolare i rimpatri.  Il trattenimento degli immigranti “ospitati” presso i CIE e gli Hotspot, che dovrebbe essere limitato nel tempo, rischia di estendersi per periodi molto lunghi, data l’impossibilità in molti casi di riuscire ad avere provvedimenti di espulsione in tempi rapidi, allungando così l’agonia dell’attesa in condizioni umane non ideali. Non ci si deve perciò meravigliare che questi centri siano stati oggetto di molti episodi di disordini, proteste, incendi, e tentativi di fuga, creando situazioni di frizione con le comunità circostanti.

Altre critiche sollevate contro tutti questi centri in Italia riguardano la qualità della loro gestione (affidata ad enti privati), la qualità del trattamento degli “ospiti”, e l’uso di strutture spesso faciscenti o inadeguate (caserme dismesse, fabbriche o capannoni industriali in disuso, vecchi centri di accoglienza od ospizi, tutte strutture non progettate per svolgere questa funzione), ove possono prevalere condizioni non dignitose di accoglienza.

La funzione di queste forme detentive è fortemente finalizzata al rafforzamento delle espulsioni, spesso in risposta a preoccupazioni sollevate per i possibili legami tra gli immigranti ed il jihadismo o il terrorismo internazionale, o la loro possibile associazione con attività criminali.  Tuttavia, la giustificazione della detenzione in funzione della presunta pericolosità dei detenuti per i possibili legami col terrorismo e con la crimanilità si riferisce in realtà solo ad una frangia minore dei detenuti (e probabilmente i soggetti più “pericolosi” non sono detenuti nei CIE o negli Hotspot ma nelle regolari strutture carcerarie). Per la maggioranza degli “ospiti”  detenuti presso questi centri, l’unica infrazione è quella di trovarsi nel territorio nazionale senza adeguati permessi di soggiorno. Non possiamo non rilevare la sproporzione tra il peso repressivo di questa detenzione, e la giustificazione addotta (“gravi pericoli” alla sicurezza nazionale), da un lato, e la natura vera dell’infrazione commessa dall’immigrante irregolare (aver infranto le leggi sull’immigrazione), dall’altro.

Altre restrizioni rilevanti per gli immigranti irregolari

Resta poi fatto che, nel complesso, solamente un numero limitato di immigranti irregolari transitano per questi centri, sia in Italia che in altri paesi, mentre un gran numero di tali immigranti, nonostante le intenzioni delle autorità governative che vorrebbero espandere il controllo sull’immigrazione clandestina, sfuggono a tali controlli.

Infatti, a coloro che sono detenuti nei centri o sono noti alle autorità attraverso vari sistemi di monitoraggio predisposti nei confronti di coloro che sono stati rilasciati da questi centri, si aggiungono tutti gli altri immigranti che si nascondono, la cui presenza non è stata ancora individuata. Spesso si tratta di un numero elevato di persone. Negli Stati Uniti si parla di più di 11 milioni di persone di immigranti “senza documenti regolari” che si troverebbero in queste condizioni, anche se queste statistiche sono incerte. Se sono rimasti nel paese ospitante per un periodo prolungato, generalmente hanno trovato il modo per integrarsi nel mercato del lavoro, a volte utilizzando documentazione non regolare o falsa; hanno formato famiglie che a volte hanno raggiunto uno stato legittimo; o hanno fatto investimenti, acquistato proprietà, e promosso piccole attività imprenditoriali.

Ma la loro clandestinità ne limita fortemente la mobilità sociale perché sono sempre sottoposti al rischio di essere “scoperti”, detenuti e deportati. Questa clandestinità è un impedimento insormontabile alla loro completa integrazione. Occasionalmente beneficiano di sanatorie legali (o amnistie), ma queste sanatorie, anche se sono state frequenti in alcuni paesi (compreso il nostro) in passato, sono imprevedibili, dipendendo da un’apertura politica verso l’immigrazione da parte di organi legislativi e di governi dei paesi ospitanti. Recentemente quest’apertura sembra  che sia sempre “meno aperta”, mentre si sono acuite le misure difensive. 

Questi immigranti irregolari sono sottoposti a tutta una serie di misure repressive, anche se non sono detenuti:  in primo luogo, rischiano continuamente di essere vittime di retate casuali condotte dalle forze dell’ordine presso gli accampamenti improvvisati dei profughi,  o presso alloggi scelti a caso ove è possibile che abitino immigranti irregolari, o nei luoghi di lavoro ove è più probabile si concentrino (cucine di ristoranti, cantieri edili, luoghi ove si concentrano venditori ambulanti), o addirittura in punti sensibili ove gli immigrati si recano non certo per esercitare attività illegali, come è avvenuto negli Stati Uniti presso le scuole[12] e gli ospedali, e addirittura nei luoghi di culto o nei tribunali per l’immigrazione ove immigranti sono convocati per udienze.[13] Le retate hanno un solo scopo: moltiplicare i processi di espulsione.

Oltre alle misure fin qui esaminate tutti gli immigranti irregolari (che siano in incognito o siano ben noti alle autorità) subiscono tutta una serie di divieti e di costrizioni che ne limitano notevolmente le condizioni di vita. Tra queste costrizioni, le più importanto sono:

  • Impossibilità ad avere accesso legittimo ad un regolare permesso di lavoro.

Questa limitazione può motivare l’immigrato irregolare a rivolgersi al mercato sommerso del lavoro, o a ricorrere ad altri espedienti di natura spesso illegittima per ottenere questo permesso, oppure li obbliga ad accettare forme umilianti per procurarsi i mezzi di sussistenza, compreso l’accattonaggio casuale o sistematico. Questa costrizione trova eccezioni in paesi ove permessi temporanei di lavoro sono concessi a coloro che ne fanno richiesta a particolari condizioni (negli Stati Uniti, dopo tre mesi dalla presentazione della domanda di asilo). L’efficacia di questi permessi temporanei ha però forti limitazioni.

  • Sanzioni imposte alle imprese che impiegano immigranti irregolari, qualora essi non abbiano un regolare permesso di lavoro.

 Sulla carta, queste misure appaiono strumenti di repressione molto efficaci, anche per le ulteriori ripercussioni che potrebbero avere sulle aziende, non solo con penali finanziarie ma anche con altre misure punitive, che mettano in dubbio la liceità delle attività imprenditoriali. Ma in pratica queste sanzioni possono non essere tanto efficaci, per la resistenza sociale da parte dei cittadini e di vari settori imprenditoriali. Colpire i cittadini per colpire l’immigrazione non sembra essere una formula di gran successo popolare. Inoltre queste sanzioni ignorerebbero completamente che, tra gli elementi di fondo che determinano l’immigrazione, vi è la domanda locale di immigranti, che non è determinata dal comportamento degli immigranti, ma dall’interesse economico delle imprese che beneficiano da questi input produttivi importati, riflettendo le convenienze generali dell’economia.

  • Limitato accesso a tutta una serie di diritti sociali o benefici, normalmente riservati ai cittadini, o ai residenti legali, o a settori meno abbienti della popolazione legalmente residenti nel paese.

Esempi sono:

  • Limitato accesso all’assistenza sanitaria pubblica.

Gli immigranti irregolari hanno generalmente diritto solo all’accesso a servizi di pronto soccorso, ma non alle cure mediche non considerate d’emergenza o alla fornitura dei medicinali, assicurate soltanto ai residenti ‘legali’, per esempio attraverso la tessera sanitaria, riservata ai residenti.[14] 

  • Limitato accesso alla scuola pubblica gratuita per i figli degli immigranti irregolari.

Per fortuna, appare che i sistemi scolastici dei vari paesi d’accoglienza non impongano particolari restrizioni all’iscrizione nelle scuole pubbliche, evitando di legare la registrazione nelle scuole alla regolarità dello stato di residenza nel paese, mostrando una certa liberalità nei confronti di tutti i giovani in età scolare, anche se ci possono essere impedimenti di natura burocratica.

  • Impossibilità di poter compiere alcuni atti formali che richiedano documentazione ufficiale sullo stato di residenza, o qualsiasi altro requisito formale, compresa la posizione fiscale nel paese ospitante.

Le misure nei paesi “terzi” 

Il gruppo b) degli interventi di contenimento accennato in precedenza, che interessano migranti e rifugiati che si trovano, in via temporanea, in paesi “terzi”, è forse meno noto al grande pubblico. Questi interventi sono venuti alla ribalta con insistenza negli ultimi mesi, grazie alle azioni intraprese da vari governi europei, ed in particolare da quello italiano, che hanno raggiunto accordi con le autorità di alcuni paesi “terzi” ove i migranti sono temporaneamente residenti o in transito. Esempio di questi paesi “terzi” possono essere la Libia, la Giordania, il Libano, la Turchia, il Marocco, l’Etiopia, il Kenia ed il Niger o altri che si potrebbe aggiungere alla lista. Gli immigranti irregolari si trovano lì in attesa di emigrare verso le loro destinazioni finali.  Si tratta di promuovere in quei paesi misure con finalità tutte orientate verso il “contenimento” dell’immigrazione verso il paese di destinazione finale. Queste misure di certo non sono volte a favorire l’accoglienza degli immigranti, anche quando, per considerazioni umanitarie, ci si preoccupa di migliorare il trattamento dei profughi nei campi ove temporaneamente soggiornano.

Non tutti i paesi destinatari finali dell’immigrazione promuovono misure di questo tipo. Non mi risulta, per esempio, che ci siano interventi di questo genere in Messico promosse dal governo degli Stati Uniti, anche se esistono accordi tra le polizie di ambedue i paesi per colpire il traffico della droga ed il contrabbando in generale, o il riciclaggio di danaro sporco, rafforzando la collaborazione tra le forze dell’ordine contro la criminalità organizzata, ma niente di specifico è mai stato concordato tra quei due paesi per quanto riguarda gli emigranti, salvo forse accordi limitati relativi al lavoro stagionale.  Di sicuro queste misure hanno acquisito maggiore visibilità quando alcuni paesi europei le hanno promosse per “contenere” i continui sbarchi dall’Africa verso le coste meridionali dell’Europa (basta pensare agli accordi con la Turchia e più di recente quelli con la Libia, la Tunisia ed il Niger).

Il nostro Ministero degli Interni ha cercato molti accordi con paesi africani per averne la collaborazione per i rimpatri (per i paesi d’origine) o per averne l’appoggio nella repressione dei traffici di immigranti (sia nei paesi d’origine che per quelli in transito). Ma con chi si dovrebbe mettere d’accordo il governo italiano? Con le autorità governative dei paesi “terzi”? O con chi gestisce i campi profughi? O ambedue?

Salvo il caso in cui si possa avviare la procedura per concedere l’asilo in un paese europeo per alcuni emigranti, la maggioranza degli interventi di questo tipo si articola in una delle seguenti misure:

(a) limitare il trasferimento illegale degli immigranti dal paese “terzo” al territorio nazionale del paese di destinazione finale, fermando barconi di fortuna, bloccando l’attività dei “trafficanti di vite umane”, e controllando rotte terrestri o navali utilizzate da tali trafficanti;

(b) rafforzare la capacità di accoglienza dei campi provvisori ove gli immigranti temporaneamente risiedono nel paese “terzo”;

(c) favorire il rimpatrio degli immigranti residenti nei campi profughi verso il proprio paese d’origine, come auspicato nell’incontro di Abidjan tra Europa ed Africa del novembre del 2017, includendo possibilmente assistenza per il trasporto e altre forme di assistenza necessaria per favorire la reintegrazione nel territorio nazionale di coloro che sono stati “rimpatriati”;

(d) favorire il trasferimento dei profughi da campi non adatti o ritenuti pericolosi (anche dal punto di vista della protezione dei diritti umani) a campi profughi gestiti con criteri internazionalmente accettabili.

Queste misure includono salvataggi in mare vicino alla costa del paese “terzo”, nonché respingimenti di imbarcazioni di fortuna appena salpate da quelle spiagge, effettuati dalle autorità dei paesi “terzi”, ma a volte con la collaborazione dei paesi europei (per esempio della nostra Marina Militare). Tali salvataggi avvengono nelle acque territoriali del paese “terzo”, e i profughi sono riportati a terra nello stesso paese.

Tra questi invertenti dobbiamo annoverare anche l’uso di truppe di paesi destinatari in assistenza ai paesi “terzi” per rendere più efficaci misure di polizia e di controllo dei flussi migratori, con lo scopo di impedire la partenza o il transito di gruppi di migranti organizzati da trafficanti sospetti di attività criminali, se non terroristiche. Un esempio è la decisione recente del governo italiano di inviare un contingente di soldati nel Niger allo scopo di ridurre il traffico illegale di persone che percorrono quel paese, organizzato da gruppi criminali o legati a organizzazioni terroristiche internazionali, e che si avviano verso una delle rotte più frequentemente utilizzate per l’attraversamento del Sahara. 

L’assistenza a paesi “terzi” per ottenere la loro collaborazione nella lotta contro l’immigrazione irregolare è stato oggetto di molte controversie. I respingimenti a mare hanno spesso prodotto gravi tragedie umane, causate da confronti armati con gli scafisti, o perché le condizioni meteorologiche erano pessime. Elevato è il numero di vittime innocenti causati dall’uso inappropriato di forze di polizia di frontiera o della guardia costiera da parte delle autorità del paese “terzo”. Lo scempio di campi profughi in Libia trasformati in lager, l’abuso di trafficanti che controllano alcuni profughi in questi campi, e sono riusciti a ricattarli con richieste di riscatti dalle famiglie nei paesi d’origine, il tentativo di reclutare forzosamente alcuni di  questi profughi come trafficanti o contrabbandieri, o addirittura come nuove leve del terrorismo internazionale, ha giustificato dubbi sull’efficacia di questi interventi, specialmente se non c’è trasparenza nei rapporti con entità locali e le ingerenze di gruppi criminali e terroristici. Se la riduzione del flusso dei migranti che raggiungono le coste italiane deve essere pagato dagli abusi che occorrono in questi campi profughi, come si può parlare di successi dei nostri interventi in questi paesi “terzi”? Non è forse il prezzo umano pagato troppo alto per misurare i nostri risultati soltanto attraverso la riduzione dei flussi migratori? Meraviglia che i governi europei tendano a ignorare tanti di questi episodi, utilizzando toni trionfalistici sul successo di queste collaborazioni.  Come si possono citare i risultati conseguiti con la riduzione del numero degli sbarchi, se poi si ignorano le vittime, le ingiustizie, le sofferenze e gli errori compiuti per ridurre il numero dei viaggi della disperazione?

La pressione dell’opinione pubblica, le proteste di osservatori e della stampa, ha prodotto correzioni a questi interventi (anche se l’ammissione degli errori è stata meno sollecita).  Un maggiore coinvolgomento di organizzazioni multilaterali quali l’UNHCR, l’UNICEF, o la Croce Rossa, o di note ONG internazionali è stata richiesta per garantire il rispetto dei diritti umani. Interventi governativi nei paesi “terzi” a più alto livello sono stati sollecitati nella gestione delle azioni sui traffici dei migranti e sui campi profughi.  Immigranti sono stati trasferiti da luoghi considerati pericolosi in altri campi profughi considerati più sicuri e protetti.

Uso e abuso degli strumenti di cooperazione e contenimento dell’immigrazione nei paesi “terzi”

Questi interventi per il contenimento dei flussi migratori realizzati nei paesi “terzi” rappresentano operazioni nuove, senza una tradizione alle spalle o esperienze precenti ben collaudate. Questo spiega perché a volte sono stati lanciati in modo confuso, tentando nuovi approcci, ma con molta incertezza e una certa dose di contraddizione sui metodi, sugli obiettivi e sui contenuti. Né disponiamo di sufficienti elementi per valutarli esaurientemente.

In che modo riesce un paese destinatario finale del flusso migratorio ad avere la collaborazione dei paesi “terzi” per ridurre il flusso migratorio o migliorare le operazioni di “parcheggio” temporaneo dei migranti nei campi profughi gestiti in quei paesi “terzi”, magari in vista di un possible rimpatrio verso il  paese di origine? In che modo è possibile ‘incentivare’ le autorità di questi paesi per averne l’appoggio efficace per lanciare operazioni tese ad un maggiore controllo e contenimento di questi flussi migratori?

Queste operazioni hanno spesso beneficiato dell’uso di strumenti e di procedure tipiche della cooperazione allo sviluppo o dell’assistenza umanitaria (perciò con una dimensione temporale di più breve periodo, di emergenza). Ciò rende in parte confusa la loro natura, in quanto si tratta di promuovere azioni di pubblica sicurezza e di polizia, ma diversamente da quanto avviene nelle azioni di difesa della sicurezza nazionale compiute in territorio nazionale, il paese destinatario finale si limita a promuovere azioni di collaborazione, vestite nella forma di programmi di “cooperazione allo sviluppo”, anche se non si tratta di programmi di sviluppo, mentre è il paese “terzo” che esegue le operazioni di sicurezza. In realtà non è per niente chiaro se questi interventi siano interventi di cooperazione, anche se ne usano gli strumenti.

Indubbiamente sono stati inviati contributi finanziari ai paesi “terzi” a sostegno della gestione di campi profughi. Varie forme di assistenza tecnica sono state offerte per migliorare la gestione dei campi profughi. Questa assistenza tecnica ha coinvolto la polizia di frontiera e la guardia costiera di alcuni di questi paesi, o più in generale le forze dell’ordine o addirittura le forze armate del paese. Questi interventi possono essere comparati con analoghi interventi che la cooperazione internazionale allo sviluppo ha promosso, con programmi di assistenza tecnica, per il rafforzamento della governance di strutture pubbliche addette all’ordine pubblico, come tentato da tante agenzie bilaterali a partire dagli anni ‘90. 

Tuttavia, l’uso di questi strumenti non rende questi interventi dei veri programmi di aiuto, perche il loro intento non è lo sviluppo dei paesi “terzi” ma il rafforzamento delle loro capacità di ridurre I flussi migratori nei paesi destinatari, intercettando imbarcazioni irregolari, bloccando trafficanti o migliorando la gestione dei campi profughi temporaneamente residenti in quel paese, in attesa di un loro rimpatrio nel paese d’origine.

Questi interventi sono come l’estensione a distanza delle operazioni di contenimento e di respingimento varate sul territorio nazionale dai paesi destinatari nei confronti degli immigranti irregolari, affinché analoghe operazioni possano essere realizzate anche prima che i migranti giungano sul territorio dei paesi di destinazione finale.

La sperimentazione di nuovi modi per promuovere questi interventi si presta a molti scenari.  Accordi possono essere fatti per il trasferimento di risorse finanziarie per sostenere quelle attività, magari previsti nell’ambito di trattati bilaterali, MoU (Memorandums of Understanding), protocolli o altre forme contrattuali o dichiarazione congiunte. Altre “compensazioni”, diverse da versamenti di risorse finanziarie, possono essere immaginate: per esempio, benefici nei traffici commerciali; nei rapporti finanziari (prestiti, indebitamento); negli investimenti da parte delle imprese del paese di destinazione finale; o promesse di pacchetti di futuri programmi di cooperazione allo sviluppo a vantaggio del paese “terzo”.

 Questi ultimi programmi di aiuto possono non aver nulla a che vedere con la promozione di un Piano Marshall per l’immigrazione, anche se promettono programmi di aiuto (vedi quanto indicato nella Parte I di questo saggio al riguardo), perché questi pacchetti di programmi di aiuto, in primo luogo, non perseguono lo sviluppo dei paesi da cui gli immigranti provengono, ed in secondo luogo sono pensati come “merce di scambio” per assicurasi che il paese “terzo” promuova operazioni di polizia ed altri interventi di contenimento dei flussi migratori. 

Le conseguenze delle misure di contenimento sulla condizione degli immigranti irregolari

Le conseguenze delle misure di contenimento dell’immigrazione irregolare possono essere di tre tipi:

 1.conseguenze sulle condizioni in cui si trovano gli immigranti stessi;

 2.costi (finanziari) per i paesi che intraprendono tali politiche;

 3.ed infinerisultati raggiunti con queste misure rispetto ai loro obiettivi perseguiti.

Sulle conseguenze del primo tipo, cioè sulle condizioni in cui vivono gli immigranti irregolari, gli effetti variano significativamente da un paese all’altro, e da un immigrante all’altro, anche a seconda dello stadio in cui si trovano gli immigranti: siano essi appena arrivati, o siano in attesa di pronunciamento sulla loro domanda di asilo, o siano in avanzato stato d’integrazione, o stiano ancora in paesi “terzi” in campi profughi o siano in una fase transito, mentre stanno intraprendendo il loro lungo e difficile viaggio, o si trovino  completamente in incognito nel paese destinatario che li ospita.

I loro disagi sono, in generale, senz’altro notevoli, anche perché, per effetto delle operazioni di respingimento, gli immigranti vengono spesso relegati a condizioni acute di povertà o di marginalizzazione, anche se in alcuni casi riescono a superare i primi gradini della mobilità sociale grazie alla loro determinazione e alla concomitanza di altri fattori che ne favoriscono l’inserimento. Tra questi altri fattori, vale la pena di sottolineare l’aiuto offerto da organizzazioni umanitarie e l’assistenza ricevuta da altri  immigranti. Le network di immigranti sono estremanente efficaci.

La differenza maggiore è tra immigranti irregolari che sono arrivati recentemente, o negli ultimi anni, che vivono ancora in condizioni estremamente volatili e spesso molto precarie di sopravvivenza, alcuni  al limite della povertà assoluta o nell’indigenza più completa, e quelli che sono arrivati già da lunga data. 

Per i primi, le difficoltà incontrate nella fase iniziale della permanenza nel paese d’arrivo sono numerose: una prima sfida è l’accesso ad un alloggio decoroso e, più o meno con la stessa graduatoria, la difficoltà a trovare qualsiasi forma di occupazione decente che produca un reddito che permetta la sopravvivenza. L’assenza di reddito è la formula garantita per una degenerazione della loro condizione. Nel caso di redditi molto modesti, gli immigranti vengono spesso costretti ad accettare lavori ove percepiscono soltanto salari minimi, spesso a livelli inferiori a quelli praticati nel mercato nazionale. Ciò favorisce la loro marginalizzazione nel paese ospitante.

Per i secondi, cioè gli immigranti che sono riusciti a vivere a lungo nel paese che li ospita, pur non avendo perso la loro condizione di irregolarità rispetto alle leggi nazionali di immigrazione, le condizioni vita possono essere meno precarie. Molti di loro hanno trovato sbocchi lavorativi accettabili, con redditi crescenti, con occupazioni abbastanza solide e soddisfacenti, a volte addirittura promettenti, con accesso ad abitazioni residenziali decorose, nonostante l’incertezza del loro stato.

Le condizioni di questi ultimi immigrati continuano ad essere precarie, anche quando hanno raggiunto livelli accettabili dal punto di vista economico, trovandosi sotto la spada di Damocle di una possibile deportazione, con la limitazione ai loro diritti dovuta al loro stato legale. La loro integrazione nella società nazionale è ancora imcompleta ed inadeguata, anche perché la loro illegalità ne favorisce la marginalizzazione dalla società. Sono queste le situazioni che in alcuni paesi hanno dato luogo alla formazione di ghetti separati per immigranti, che limitano fortemente l’integrazione, anche per quelli che hanno guadagnato lo stato di immigranti regolari, e spesso questa marginalizzazione costituisce un rischio per la creazione di situazioni sociali disfunzionali. 

Una costrizione che questi immigranti di lunga data sono costretti a subire e che è spesso ignorata è che la loro clandestinità ne riduce la mobilità migratoria. Uno dei fenomeni recentemente studiato dagli esperti del settore è la natura “transnazionale” dei movimenti migratori, [15] che non sono soltanto in una direzione (dal paese di origine al paese di destinazione finale), ma sempre più frequentemente seguono un percorso complesso, in cui, da un lato, un paese di destinazione non necessariamente è la meta definitiva, se l’emigrante decide di emigrare, dopo un certo periodo, in altra destinazione. Oppure, lo stesso migrante può decidere di ritornare nel proprio paese d’origine, o infine, trascorrere una parte del suo tempo nel paese d’immigrazione e un’altra parte del suo tempo nel suo paese d’origine, in una sorta di pendolarismo.  Ebbene, la condizione di immigrante irregolare, costituisce un ostacolo a poter realizzare questa impostazione transnazionale dell’emigrazione, proprio perché costituisce una remora a muoversi dal paese ove egli si trova, sia in vista di andare in un nuovo paese o per visitare il proprio paese d’origine, o anche considerare un possibile rimpatrio volontario definitivo o parziale.  L’incertezza di poter riuscire a tornare nel paese ove l’immigrato attualmente (irregolarmente) si trova lo motiva ad una maggiore sedentarietà, nello stesso paese da cui le forze anti-immigrazione vorrebbero espellerlo. La mancata regolarizzazione della posizione di immigrante irregolare e tutte le misure volte a rafforzare il suo respingimento (che producono alla fin fine la sua marginalizzazione) stranamente portano alla situazione assurda che, anziché favorire un ritorno al paese d’origine, possono essere addirittura una ragione per desistere da questo ritorno. L’immigrante irregolare è consapevole che l’ingresso nel paese ove si trova non è una “porta girevole” che si può utilizzare a volontà in entrata ed in uscita. Una volta uscito, potrebbe non rientrare, proprio perché è un immigrante irregolare, e questo è un rischio che potrebbe non voler correre.  Così le politiche di contenimento, anziché spingerlo a tornare nei suo paese d’origine, sembrano produrre l’effetto opposto.

Infine ci sono le condizioni in cui si trovano gli immigranti irregolari che sono in transito in paesi “terzi”, che sono di solito di gran lunga peggiori rispetto a quelli che hanno raggiunto la loro destinazione finale,  sia nel caso che affollino campi profughi o che siano ancora nella fase difficile del trasferimento, durante il loro complesso viaggio della speranza (a volte paragonabile, piuttosto, ad un viaggio di lacrime).

Probabilmente il maggior costo sociale pagato dagli immigranti irregolari è quello del numero di vite umane perse durante il viaggio che li porta verso le mete ambite. Si stima che per lo meno un immigrante muore ogni giorno nel tentativo di attraversare il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, per disidratazione, affogamento, ipotermia o insolazione. Lo stesso può dirsi per gli immigranti irregolari che viaggiano verso l’Europa. Le statistiche della morte, probabilmene sottostimate rispetto alla realtà, riguardanti i tentativi di attraversamento del Mediterraneo, suonano come pietre nelle nostre coscienze. Per non parlare di simili tragedie lungo le coste dell’Australia, al confine tra il Messico ed il Guatemala. E quanto poco sappiamo dei tanti morti che accompagnano le traversate nel Sahara. Vite umane perse nel perseguimento di un sogno.

Occorre riconoscere che tutte queste complesse situazioni sociali, inclusa la perdita in vite umane, sono anche il risultato dell’uso prevalente di politiche di contenimento e di respingimento, che favoriscono, anche se involontariamente, la creazione di condizioni sociali degradanti o comunque difficili per gli immigranti, anziche cercare di attenuarle, prevenirle o risolverle.

Fintanto che gli immigranti irregolari dovranno subire le conseguenze delle misure repressive ricordate nei paragrafi precedenti, dovrano pagare questo prezzo elevato, e continueranno a trovarsi in questa specie di limbo legale che li priva di diritti e ne limita le opportunità. La loro marginalizzazione sarà quasi inevitabile, favorendo la creazione di enclave che li escludono dal tessuto sociale del paese ospitante.  Fintanto che l’accesso degli immigranti irregolari verrà ostacolato in ogni modo, impedendo l’uso regolari di normali mezzi di trasporto, il loro viaggio continuerà ad essere pieno di ostacoli e di pericoli per la loro stessa vita.

Il costo finanziario delle politiche di contenimento

D’altronde, queste conseguenze sociali non sono le uniche implicazioni delle politiche di contenimento. Tutte le misure difensive analizzate finora hanno dei costi finanziari sostanziali per i paesi che le lanciano, e questi costi non possono essere sottostimati, anche se sono di difficile valutazione. La difesa dei confini assorbe enormi risorse finanziarie. 

Il mantenimento di una polizia di frontiera non è gratis. La gestione di centri di detenzione o di centri di accoglienza, la realizzazione di operazioni di polizia come retate o controlli periodici degli immigranti assorbe enormi risorse umane e finanziarie. Gli espatri costano. I salvataggi a mare (Mare Nostrum e Fortex) non sono a costo zero. Le procedure per concedere asilo ai rifugiati o per rifiutarlo richiedono strutture e personale. La difesa del territorio dalla intrusione degli immigranti irregolari che tentano di penetrare le frontiere richiede ingenti risorse umane e finanziarie. Spesso, i governi chiedono ingenti stanziamenti di bilancio a questo scopo.

È interessante notare che le difficoltà incontrate per trovare un accordo nel Congresso americano nel febbraio di quest’anno sui provvedimenti legislativi che avrebbero potuto risolvere alcuni dei problemi dell’immigrazione di breve termine negli Stati Uniti si sono concentrati non tanto sul merito delle soluzioni discusse, ma sui livelli di spesa richiesti dall’amministrazione Trump per rafforzare la difesa dei confini, incluso la costruzione (o il rafforzamento) del famoso “muro” con il Messico ed il potenziamento delle truppe di frontiera. Quella richiesta di stanziamento, posta come condizione per adottare un atteggiamento più morbido su altri temi dell’immigrazione – come un percorso legislativo per concedere la cittadinanza a giovani entrati nel paese irregolarmente in età minorile e che beneficiano attualmente della condizione nota come DACA (Deferred Action for Childhood Arrival)[16] – non fu condivisa da chi intendeva proporre un approccio più aperto all’immigrazione.  Alla fine le difformità di opinioni si sono affrontate sul terreno della “spesa” e non su quello dei “contenuti”.

Una problematica analoga, si trova anche nei paesi europei, ove i governi si sentono “obbligati” a rafforzare la difesa dei propri confini con ingenti stanziamenti di bilancio, al fine di garantire il rafforzamento della polizia di frontiera. Le polemiche sulla condizione degli immigranti irregolari in Italia, legata ad episodi di violenza e di cronaca nel paese, hanno portato stranamente a parlare della necessità di aumentare l’impegno finanziario per potenziare le forze dell’ordine, nuovamente affrontando l’immigrazione prevalentemente come un problema di sicurezza e di ordine pubblico, e valutandone le implicazioni finanziarie. Anziché parlare di quanto è necessario per una integrazione efficace degli immigranti nella nostra società, ci concentriamo su quanto dobbiamo spendere per difenderci da loro, per impedire il loro arrivo, e cerchiamo le risorse finanziarie necessarie per mettere in atto queste misure.

Inutile dirlo, è estremamente difficile arrivare ad una stima attendibile del costo di queste misure difensive, anche perché ci può essere disaccordo su ciò che una simile stima dovrebbe coprire.  Un simile tentativo è stato fatto dall’IOM in un rapporto di alcuni anni fa, che portò ad una valutazione, su base annuale, per 25 paesi che sono impegnati in operazioni di questo genere. La stima (fatta nel 2003) portò a valutare questo costo nell’ordine di 25-30 miliardi di dollari all’anno.[17] Anche se questa stima può essere errata in eccesso, ma può anche sottostimare il costo effettivo di queste misure, il suo ordine di grandezza è quanto meno significativo, specialmente se comparato con altra stima di quegli anni, fatta dalla Banca Mondiale, di quanto sarebbe costato poter raggiungere gli obiettivi di sviluppo globale (gli MDG) entro il 2015. Stranamente quella stima arrivò a supporre che il mondo avrebbe avuto bisogno per lo medo di 30-50 miliardi dollari per aiutare i paesi più poveri a raggiungere gli MDG. Anche se fu riconosciuto che quella stima era alquanto grossolana, il suo ordine di grandezza è stranamente paragonabile al costo di quanto i paesi destinatari dell’immigrazione spendono per resistere agli immigranti irregolari.  C’è forse qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, se il mondo spende per “difendersi” dagli immigranti irregolari una cifra analoga a quanto dovrebbe spendere per raggiungere gli obiettivi di sviluppo nei paesi da cui questi migranti provengono. Forse è arrivato il momento di rivedere le priorità delle nostre politiche internazionali, riesaminando le direzioni verso le quali vogliamo che il mondo attuale proceda per risolvere i suoi problemi cruciali. 

Sono i flussi migratori arrestabili con le misure di contenimento?

Infine, il terzo tipo di conseguenze delle misure di contenimento che abbiamo considerato in questa seconda parte di questo saggio è il tipo di risultati raggiunti rispetto agli obiettivi perseguiti dai governi che hanno lanciato queste politiche.

A questo riguardo, alcune questioni di fondo dovrebbero essere poste:

  • Qual è l’impatto delle misure di contenimento dell’immigrazione esaminate in questo saggio?
  • Riescono a ridurre o, per lo meno, a contenere il numerico degli immigranti, come è nelle intenzioni dei paesi che le lanciano?
  • Sono queste misure una valida alternativa alla proposta di un Piano Marshall per l’immigrazione?
  • In che misura la loro dimensione dominante, concentrata sulla “sicurezza nazionale”, rappresenta una catteristica limitante o un elemento di forza di queste misure?

L’ipotesi che sia possibile (e desiderabile) contenere i flussi migratori con misure di contenimento e di respingimento del tipo fin qui esaminato, mirando ad una loro riduzione, ignora che queste misure sono state costantemente adottate in tutti questi ultimi anni, con alterne vicende, ma tutto sommato con modesti risultati: gli immigranti sono puntualmente giunti sulle rive delle spiagge mediterranee, hanno superato i controlli doganali europei, hanno attraversato la frontiera tra Messico e Stati Uniti, sono arrivati in Australia. E questo è avvenuto infrangendo tutte le possibili regole, scavalcando staccionate e muri, nascondendosi in vagoni, usando imbarcazioni di fortuna, eludendo controlli, abusando dei visti turistici, utilizzando documenti falsi o ricorrendo a una miriade di espedienti. Nonostante l’uso sempre più intenso di tecnologie sofisticate per controllare le frontiere, il loro arrivo è stato inevitabile. Quando i governi hanno vantato successi temporanei nel bloccarne l’accesso, sono stati subito dopo smentiti da altri arrivi, o dall’apertura di nuove rotte.

Inoltre, non dimentichiamo che i movimenti migratori mettono in atto processi autopropulsivi cumulativi. Gli immigranti sono collegati attraverso reti di contatto con futuri migranti: gli emigranti di oggi facilitano il compito degli emigranti di domani, compartendo informazioni sui canali da seguire, le rotte da percorrere, gli errori da evitare. Le misure di difesa dei confini non riescono sempre a combattere questa competenza acquisita dalle “network” di migranti. In altre parole, non è difficile promuovere un processo migragorio, ma è estremamente difficile fermarne la sua moltiplicazione a catena, una volta avviato. 

Le misure di contenimento presentano debolezze oggettive che spiegano la loro relativa inefficacia. Ad esempio, molti paesi d’immigrazione hanno frontiere difficimente difendibili per lunghezza o per permeabilità, sia se si parli di coste marine che di frontiere terrestri.  Inoltre, mentre si blocca una rotta, se ne apre un’altra. I muri si scavalcano, o si possono creare passaggi sotterranei. Il filo spinato si può troncare. Ogni ostacolo origina un espediente per superarlo. 

Il ricorso frequente a “professionisti” del traffico di persone (intermediari dell’emigrazione) è in parte una risposta all’uso di tecniche sempre più sofisticate per la difesa dei confini. Quanto più i paesi difenderanno i propri confini, tanto più i potenziali immigranti ricorreranno all’aiuto di questi “professionisti” per evadere i controlli e superare gli ostacoli.  L’impermeabilità delle frontiere è in generale modesta, a meno che non siano state prese misure militaresche degne dei regimi più autoritari.

Nella misura in cui le misure di contenimento sono inefficaci e non interrompono l’ingresso consistente di immigranti irregolari, possiamo concludere che non c’è sufficiente correlazione tra la difesa legale e la protezione fisica dei confini nazionali, da un lato, e l’entità ed intensità dei flussi migratori.

Ma veniamo agli effetti collaterali di queste misure. Se il rafforzamento continuo delle misure di controllo anti-immigranti è in alternativa ad una seria politica di accoglienza e di integrazione, queste politiche difensive esasperano i rapporti tra i cittadini e gli immigranti irregolari neo-arrivati, creando le premesse per un’esplosione di problemi che queste misure dovrebbero risolvere. Le trasgressioni ed il traffico clandestino di immigranti sono, se vogliamo, la conseguenza dei divieti e delle misure anti immigranti. Il che produce, nella logica delle politiche di contenimento, la necessità di intensificare ulteriormente le misure di protezione dei confini nazionali, aumentando i provvedimenti difensivi, in un circolo vizioso che non porta ad alcuna soluzione.

La deteriorazione dei rapporti tra cittadini ed immigranti comporta tutta una serie di conseguenze. Questi ultimi vengono considerati come semi-criminali, paria relegati ad affollare i settori marginalizzati delle città o delle campagne, venendo così a creare nuovi problemi sociali, che esasperano le tensioni negli strati più poveri della società.  Inutile dirlo, queste sono le conseguenze indirette, anche se non desiderate, della eccessiva enfasi data alle misure di contenimento a danno di quelle di accoglienza.  Sperare di regolare i flussi degli immigranti soltanto con la repressione che deriva dalle politiche di contenimento è molto meno realistico di quanto non credano i sostenitori di queste politiche, che vantano di ispirarsi alla realpolitik dell’immigrazione rispetto all’utopia delle porte aperte. Cosa c’è di realistico nell’ignorare che i flussi migratori avverranno nonostante i respingimenti ed i controlli di frontiera?  Solo perché possiamo enumerare le statistiche sul numero degli arresti, degli “ospiti” detenuti, o di immigranti espulsi? O perché possiamo dire che il numero di sbarchi occorsi il mese scorso è diminuito rispetto al mese precedente o l’anno passato, anche se domani potremmo avere risultati completamente inversi? Non ci rendiamo conto che l’immigrazione sta avvenendo ed avverrà in ogni caso, nonostante questi risultati parziali sul contenimento?

La realtà è che ridurre l’entità di questi flussi affidandosi alle misure di contenimento non è così facile come si crede. Non equivale a chiudere un rubinetto: ci vuol ben altro per affrontare i problemi dell’immigrazione. Sperare in questo espediente per risolvere il flusso migratorio è puramente illusorio. Quanti immigranti sono riusciti ad eludere questi controlli  penetrando i confini? Per ogni immigrante fermato sui varchi alpini al confine tra Italia e Francia, quanti sono riusciti a superare quel confine? Per ogni centro-americano fermato dal Border Patrol al confine tra Messico e Arizona, quanti sono riusciti a dileguarsi nel deserto, continuando fino a New York, San Francisco o Chicago? Sembra che i sostenitori della retorica delle politiche di contenimento  abbiano un approccio quasi autolesionistico. Non possono ignorare che le loro misure di difensive non funzionano, eppure continuano a sostenerle ad oltranza. Preferiscono ribadire la loro retorica, anche di fronte all’evidenza dei fatti, ignorando allo stesso tempo che c’è una domanda interna per lavoratori stranieri da soddisfare. Sembra che siano più interessati alla visibilità che il lancio delle loro politiche permette, specialmente in campagna elettorale, piuttosto che raggiungere risultati concreti, perché questi risultati sono apparentemente irraggiungibili.

Nella terza parte di questo saggio, esaminerò più in dettaglio l’approccio di  queste misure di contenimento, ed in particolare i vari tentativi di criminalizzare l’immigrazione irregolare, sia formalmente che sul piano sostanziale, e l’enfasi data, nelle attuali politiche d’immigrazione alla repressione dei crimini legati al processo d’immigrazione. Nelle parti successive, invece, cercherò di espandere l’orizzonte della mia analisi, per superare questa concentrazione sulle misure di contenimento, ed affrontare la tematica dell’immigrazione in termini più costruttivi, che metta anche in risalto le opportunità che esistono per migliorare i rapporti tra gli immigrati e i cittadini del paese che li ospita. Di fronte all’inadeguatezza delle politiche “realistiche” di contenimento dell’immigrazione, vale la pena forse esaminare se le utopie di politiche più aperte all’immigrazione non siano alla fin fine più realistiche e degne di essere considerate. Alla luce dei fatti, quale politica d’immigrazione corrisponde propriamente ad una vera realpolitik?

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[1] Vedi la mia analisi in “UN PIANO MARSHALL PER L’IMMIGRAZIONE: UNA NOVITÀ, UNA SOLUZIONE, UN’ILLUSIONE O COS’ALTRO?”, prima parte del saggio dal titolo “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO” apparso su Partecipagire il 28/1/2018. 

[2] Per un’esame delle misure tradizionali di controllo dell’immigrazione, il lettore può consultare l’amplia collezione di contributi, contenuta in “Controlling Immigration” a cura di J.F. Hollifield, P.L. Martin e P.O. Orrenius, Stanford University Press (2014, terza edizione). Per una visione più sintetica (pur se efficace) si veda l’introduzione al tema di K. Koser (2007), “International Migration”, Oxford University Press.

[3] Per le misure del tipo b), si veda di seguito in questa seconda parte del mio saggio l’apposito paragrafo dedicado alle azioni nei paesi “terzi”.

[4] La concessione di visti di entrata a famigliari dell’immigrato è un tema che è oggetto in questi giorni di dure polemiche nel Senato americano, dopo la richiesta del Presidente Trump di colpire i ricongiungimenti famigliari per ridurre l’immigrazione “regolare”.

[5] L’Australia, ad esempio, paese noto per essere stato molto aperto verso l’immigrazione, ha praticato un approccio molto selettivo, che può essere anche considerato “discriminante” nei confronti di certi immigranti dal sud del mondo. È sintomatico che l’Australia, nonostante la sua apertura in materia di immigrazione, adotti una politica di chiusura rigida nei confronti dei rifugiati, implicitamente rivelando il carattere “discriminante” della sua politica d’immigrazione.

[6] Altro ente importante dipendente dal DHL è USCIS (United States Citizenship and Immigration Services), che si occupano dell’immigrazione regolare, e della gestione dei processi di concessione di stato regolare agli immigranti che vedono riconosciuto il loro diritto a tale stato.

[7] Parlerò più in dettagli dei tentativi di “criminalizzare” l’immigrazione irregolare nella terza parte di questo saggio.

[8] È di pochi giorni la decisione della Corte Suprema che ha sancito che non c’è alcun limite alla durata possibile di tale detenzione, anche se di per sé dovrebbe essere limitata nel tempo.

[9] ISAP significa “Intensive Supervision Appearance Program” (Programma Intenso di Supervisione e Apparizione). È un metodo per monitorare individui che sono entrati negli Stati Uniti senza adeguata documentazione e sono in attesa dell’oridine definitivo di deportazione (“removal”) o stanno aspettando i risultati del processo che riguarderà la loro eventuale deportazione (“removal proceedings”). L’ISAP è uno strumento dell’ICE ed è gestito da una società privata (BI Incorporated) sotto il monitoraggio dell’ICE.

[10] Art. 12 della legge  40 del 1998 (nota come legge Turno-Napolitano, che fu la prima legge , dopo la Legge Martelli del 1986, ritenuta inadeguata per i suoi vuoti normativi), che affrontava l’immigrazione di massa di quegli anni, in provenienza maggiormente dall’Albania e dal Marocco.

[11] Istituiti con decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008, confermato con la  legge 125 dello stesso anno.

[12] Negli Stati Uniti, il rischio di retate presso scuole ha prodotto la “paura” di mandare i figli a scuola da parte di famiglie di immigranti irregolari, anche se si tratta di immigranti che hanno vissuto nel paese per decenni. Il rischio di deportazione è sempre dietro l’angolo, con il rischio di spaccare famiglie intere, separando membri della stessa famiglia sulla base del loro stato legale di residenza. 

[13] Negli Stati Uniti, la legalità di molte misure prese dall’ICE è stata spesso discussa, compresi i controlli casuali per la strada di persone considerate “sospette” (il sospetto spesso consiste soltanto nel “sembrare straniero”), ma l’autonomia di azione di cui gode, grazie alla sua dipendenza dal Dipartimento di “Household Security”, gli garantisce completa protezione.  Questi abusi hanno creato il fenomeno delle città “santuario”: in alcune grandi metropoli americane (ad esempio tutte le città della California, Chicago e New York) le autorità locali hanno chiesto alle proprie forze dell’ordine municipali di non collaborare con l’ICE per l’arresto di immigranti irregolari per il solo scopo di procedere alla deportazione, al fine di tutelare la capacità di garantire l’ordine pubblico nelle proprie città, senza l’interferenza della problematica dell’immigrazione irregolare, e al tempo stesso proteggere i propri residenti da quelli che sono stati visti come abusi compiuti dall’ICE nell’arrestare immigranti irregolari

[14] Negli Stati Uniti, ove l’accesso all’assistenza sanitaria è molto complesso, non è scontato che gli immigranti irregolari abbiano accesso alle forme agevolate riservate ai meno abbienti, come Medicaid, mentre l’accesso al pronto soccorso ospedaliero è sempre garantito. Eccezioni (limitate nel tempo) sono verificabili, come la concessione di Medicaid a donne in stato di gravidanza che abbiano presentato domanda di protezione internazionale e siano in attesa di risposta sulla concessione dell’asilo. In generale, però gli immigranti irregolari non hanno facile accesso a queste forme di assistenza agevolata, e spesso l’unica alternativa è il ricorso all’assistenza medica privata (alquanto dispendiosa), o l’eventuale sostegno fornito da organizzazioni di beneficienza.

[15] Vedi T. Faist, M. Fauser & E. Reisenauer (2013), “Transnational Migration”, Immigration & Society Series, Cambridge (UK), Polity Press.

[16] Il DACA è una sospensione amministrativa provvisoria del processo di deportazione, varata dal Presidente Obama con un executive order (in mancanza di un accordo per un provvedimento legislativo da parte del Congresso americano) a favore di minorenni entrati nel paese illegalmente. Il DACA permette a questi giovani di completare i propri studi e di avere un permesso temporaneo di lavoro. Il sistema è una proposta transitoria, in attesa che il Congresso approvi una riforma legislativa che offra un quadro giuridico più consono per concedere un percorso legale a questi giovani per un loro inserimento completo nella società americana, anche attraverso l’acquisizione della cittadinanza statunitense. Mentre proposte legislative sono in discussione al Congresso per risolvere la questa questione (il DACA ha una durata temporanea), le controversie sono ancora notevoli, anche perché l’amministrazione Trump non è disposta a trovare soluzioni al problema dei giovani che godono della protezione del DACA se non vengono simultaneamente adottate misure molto severe per il contenimento dell’immigrazione in generale, e il rafforzamento della difesa del confine nazionale. Come è chiaro, la situazione è lungi da essere risolta con una situazione politica concreta, vista l’attuale composizione del Congresso americano e l’atteggiamento dell’amministrazione Trump.

[17] Vedi P. Martin (2003), Bordering on Control: Combatting Irregular Immigration in North America and Europe, Ginevra, Svizzera, IOM.  

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