IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO (VI)


LA NATURA DEL PROCESSO MIGRATORIO

di Massimo D'Angelo

 

  1. Dal contenimento dell’immigrazione ad una migliore conoscenza del fenomeno migratorio

Nonostante l’impiego diffuso di severe misure di contenimento dell’immigrazione, specialmente quella irregolare, gli immigranti continuano ad arrivare come un flusso quasi inarrestabile.  Le misure di respingimento dell’immigrazione a volte riescono a femare i flussi migratori o a ridurne l’entità, ma solo in modo transitorio. Dopo battute di arresto, gli arrivi riprendono, indipendentemente dalle politiche di contenimento. Nel lungo periodo quei flussi non sono legati all’efficacia di quelle politiche ma dall’intensità delle spinte migratorie, che dipendono da fattori di tutt’altra natura. Né le statistiche sugli sbarchi o sugli arrivi alle frontiere sono un buon indicatore del  fenomeno, visto che nascondono l’esplosione numerica di coloro che affollano i campi di profughi nei paesi di transito, ignorano il numero di sbarchi che eludono i blocchi navali (e la chiusura dei porti italiani decisa dal ministro Salvini),[1] sottovalutano il numero incontrollato di irregolari che arrivano per altre vie (anche solo con visti turistici), o ignorano i decessi occorsi nel Mediterraneo, nei passi montani o lungo le piste del deserto.

Ma il problema delle attuali politiche migratorie non sta tanto nella incapacità di comprendere la dimensione quantitativa del fenomeno migratorio (sopravvalutato per un verso, quando si parla di vere “invasioni”, e sottovalutato per l’altro, quando si ignorano gli immigranti che sfuggono alla rilevazione statistica), quanto nel fatto che l’inefficacia di queste misure sottolinea la loro completa incapacità di comprendere la natura dell’immigrazione: ignorano chi siano gli immigranti, da dove vengano, quali siano le motivazioni di fondo che li hanno spinti ad emigrare, quali siano i problemi che hanno vissuto prima di emigrare dal paese d’origine, e che hanno vissuto durante il loro percorso migratorio, né sono consapevoli delle prospettive per una loro possibile integrazione nel paese d’immigrazione.  Non c’è perciò da meravigliarsi se la loro implementazione non alteri le tendenze di fondo della dinamica migratoria. Preferiscono concentrarsi nell’immagine distorta dell’immigrazione irregolare dipinta come mero traffico criminale, ripetendo la consueta retorica ostile all’immigrazione.

Per uscire dall’impasse delle attuali politiche migratorie è necessario perciò acquisire una più accurata consapevolezza della natura dell’immigrazione e delle sue cause fondamentali. In particolare è importante comprendere come mai, nonostante le misure di contenimento che pongono tanti ostacoli dell’immigrazione irregolare, milioni di persone continuino a preferire di abbandonare il proprio paese e per le ragioni più diverse, pur se questo comporta enormi sacrifici.

Il fatto è che, in aggiunta a rispondere a motivazioni puramente personali che animano un individuo ad emigrare, i grandi processi migratori dal sud del mondo sono messi in moto da conflitti, da persecuzioni, da calamità naturali (inclusi cambi climatici), da croniche carenze di sicurezza umana (human security), da processi stabilizzanti nei paesi d’origine, e dall’assenza diffusa di prospettive di miglioramento delle condizioni di vita, che riscontriamo in tanti paesi afflitti da problemi cronici di marginalizzazione sociale ed economica. Si tratta di fenomeni che esercitano una pressione enorme sulla scelta migratoria, che diviene spesso inevitabile. Ignorare il peso di questa pressione significa ignorare la realtà, ma questo è quello che in generale fanno la maggioranza delle legislazioni adottate dai vari paesi d’immigrazione. L’aver criminalizzato l’immigrazione irregolare quasi ovunque come un’attività delinquenziale ha ridicolizzato la natura di questa pressione, anche se forse ha permesso qualche risultato provvisorio.

  1. Chi è l’emigrante e perché emigra

Chiunque lasci il proprio paese per un periodo prolungato superiore ad un anno viene considerato convenzionalmente un emigrante.[2] Ma la realtà che è ben più complessa, e dipende dalle motivazioni che lo portano ad emigrare. A volte sono motivazioni legate ad una scelta libera e volontaria, altre volte la scelta è meno libera, ma forzata da circostanze che trasformano l’emigrazione in una fuga o quasi fuga, perciò in una scelta pressocché obbligata, anche se il peso coercitivo delle circostanze che l’hanno determinata è di difficile stima. Certamente una cosa è emigrare per una scelta libera, quando ci si chiede solamente quali siano le convenienze personali da attendersi dall’emigrazione, e ben altro è fuggire da condizioni gravose che determinano uno stato di urgenza e di necessità. Nel primo caso, ciò che conta sono solo le nostre aspettative personali per migliorare la propria posizione economica, professionale o sociale, senza altri condizionamenti se non gli svantaggi e i costi dell’emigrazione (e ce ne sono molti).[3] Nel secondo caso, tuttavia, l’emigrazione è provocata da ragioni impellenti, legate a restrizioni, pericoli, violenze, e disagi dovuti a problematiche sociali, crisi politiche, costrizioni economiche, danni ambientali, da cui l’emigrante sente di dover in qualche modo fuggire. La fuga può essere ispirata dalla ricerca di una maggiore libertà e di sicurezza personale. Anche in questo caso, la decisione migratoria comporta un elemento di “volontarietà” e discrezionale, nonostante l’impellenza delle circostanze che causano la fuga (non per nulla, c’è sempre chi rimane, pur in presenza di queste circostanze negative).

La letteratura sulle cause di fondo dell’emigrazione è abbondante, e non ho intenzione di riassumerla in questa sede.[4] Ma alcuni richiami possono essere utili per basare la nostra analisi su di una maggiore consapevolezza delle determinanti primarie dell’emigrazione.

Senza dubbio, una prima ragione per lasciare il proprio paese è quella legata al miglioramento delle proprie prospettive di lavoro. Questa motivazione è tanto più forte se l’emigrante proviene da paesi ove esiste uno squilibrio tra offerta e domanda di lavoro, spesso alimentato da elevati tassi di crescita demografica e strutture demografiche dominate da fasce giovanili in età riproduttiva, con conseguente eccesso di offerta di lavoro rispetto alle capacità di assorbimento interno, anche se l’economia del paese d’origine è in crescita. È la situazione che ha determinato storicamente migrazioni interne dalle zone rurali a quelle a più accelerato sviluppo industriale un po’ ovunque, e che ultimamente è particolarmente acuta nei paesi in via di sviluppo di più grande dimensione. È la situazione che è prevalsa per decenni in paesi asiatici come Cina, Filippine, Bangladesh, India, Pakistan, Indonesia, Sri Lanka, tradottasi sia in una migrazione all’interno di quella regione, particolarmente intensa verso paesi asiatici ad alti tassi di crescita (come Singapore, Thailandia e Malesia), ma che ha prodotto anche continui flussi migratori verso l’Europa, il Nord America, l’Australia e anche l’Africa (specialmente l’Africa australe). La presenza di grandi concentrazioni di immigranti asiatici in paesi come gli Stati Uniti ed il Regno Unito attestano l’importanza di questa tendenza.  Un fenomeno analogo, legato a simili squilibri nel mercato del lavoro e alle dinamiche demografiche, ha prodotto emigrazioni continue dal continente africano o dalla regione latino-americana, che hanno alimentato sia processi migratori infra-regionali che quelli extra-regionali.

Questi fenomeni migratori sono stati interpretati come il risultato di meccanismi “pull-push”:

  • I “push factors” sono fattori che “spingono” le persone ad emigrare e possono riflettere condizioni particolarmente critiche che hanno colpito i paesi d’origine. Tali fattori includono la densità, il livello ed il tasso di crescita della popolazione; la mancanza di opportunità economiche; situazioni a rischio causate da guerre civili, repressione politica, insicurezza, violenza diffusa; fattori climatici e calamità naturali, ma anche altre situazioni che minacciano la sicurezza o il benessere degli individui;
  • I “pull factors” sono fattori che attraggono l’emigrante verso la meta geografica ambita, e che quindi si manifestano al di fuori del paese d’origine, e includono la speranza di incontrare migliori condizioni di libertà e di sicurezza o le opportunità offerte (o presunte) nei paesi di destinazione, con la speranza (ad esempio) di trovare un lavoro adeguamente remunerato, con la prospettiva di fare rimesse alla propria famiglia nel paese di origine.

Semplificando al massimo, il meccanismo migratorio può essere visto come il risultato di una complessa decisione dell’emigrante che mette a confronto i motivi per lasciare il paese d’origine, in conseguenza di push factors (“fattori espulsivi”), con i motivi per raggiungere il paese ambito, legati a pull factors (“fattori di attrazione”). I push factors sono probabilmente una combinazione di fattori quali povertà, insicurezza e violenza prevalenti in molti paesi d’origine, mentre “fattori di attrazione” possono essere le opportunità offerte dai paesi prescelti per l’immigrazione, ad economia più avanzata o comunque con un più accelerato processo di crescita, o un percepito migliore livello di qualità della vita, fattori che potrebbero essere riassunti in aspettative di maggiore opulenza, sicurezza e protezione dei diritti umani.  

  1. La nozione di “migrazione economica”

L’emigrazione come libera scelta personale per migliorare la propria posizione personale è stata spesso chiamata “migrazione economica”, perché legata sostanzialmente ad un giudizio sul confronto tra condizioni economiche offerte nei paesi d’immigrazione e condizioni prevalenti nei paesi d’origine. Questo è l’approccio tradizionale del modello neo-liberale[5] dell’emigrazione, basato sul semplice confronto tra livelli salariali nei due paesi, o sulle opportunità differenziate per lo sviluppo del capitale umano esistenti nei due tipi di paesi, o sui ritmi comparati di crescita economica tra i due sistemi economici. È un modello che può essere espresso nei seguenti termini:

  • Il modo più semplificato di interpretare questo modello è basato su di un giudizio sulla differenza salariale o di reddito atteso nel paese d’arrivo rispetto a quello del paese d’origine, differenza eventualmente ponderata dal diverso livello di qualificazione professionale del potenziale emigrante;[6] o
  • Il confronto potrebbe essere interpretato in termini di sviluppo del “capitale umano” di cui l’emigrante è detentore. [7] I flussi migratori potrebbero perciò essere influenzati dalla distribuzione non uniforme delle conoscenze e delle capacità lavorative (skills) tra le varie nazioni del mondo: l’emigrazione offre la possibilità di acquisire nuove conoscenze nel paese destinatario, influenzando il calcolo di convenienza sui benefici che ne deriverebbero se il lavoratore emigrasse, a seconda del luogo scelto come futura residenza;[8]o
  • il modello potrebbe consistere in un giudizio da parte del potenziale emigrante, che mette a confronto congiunture economiche più favorevoli e più dinamiche nei paesi d’immigrazione rispetto alle condizioni più stagnanti prevalenti nel paese d’origine.

Il differenziale di reddito, la differenza del salario unitario, le diverse prospettive per acquisire più alti livelli di qualificazione professionale, o il differenziale tra ritmi di crescita, rappresenterebbero le “variabili chiave” con cui spiegare il confronto tra i push factors, cioè i “fattori di espulsione” determinati dalle peggiori condizioni economiche prevalenti nel paese d’origine rispetto ai pull factors (“fattori di attrazione”), che rappresentano le condizioni economiche più attraenti che prevalgono nei paesi prescelti per una possibile emigrazione, che aprirebbero le prospettive per più alti livelli di benessere economico.

 

L’ipotesi di razionalità economica

In termini teorici, l’interpretazione economicistica dell’emigrazione presuppone una razionalità economica da parte dell’emigrante, come se costui fosse un soggetto astratto della modellistica microeconomica, perfettamente al corrente delle migliori opzioni economiche disponibili sul mercato, consapevole dei livelli di salari accessibili nei paesi d’immigrazione o delle possibilità di miglioramento delle proprie conoscenze e delle proprie qualifiche professionali che si aprirebbero nel paese d’arrivo, o degli sbocchi professionali aperti, o dei più alti ritmi di crescita degli investimenti e della domanda di lavoro nel paese di destinazione finale. Il migrante viene così concepito come un soggetto capace di compiere queste scelte razionali tra alternative, grazie ad un calcolo comparato di aspettative di benefici conseguibili nei due rispettivi paesi. La verità è che questa “ipotesi di razionalità economica”, fondata sull’assioma di una conoscenza “perfetta” di parametri economici (quali i differenziali salariali o i tassi comparati di crescita), non corrisponde alla realtà. Quanti immigranti irregolari restano delusi, una volta arrivati sulle nostre coste italiane, dalla mancanza di prospettive di lavoro in un’economia come quella italiana ancora affetta da elevati tassi di disoccupazione. Quanti di essi si lamentano di non essere in grado di espletare mansioni al pieno delle proprie capacità professionali, costretti ad accettare lavori manuali meno qualificanti rispetto alla loro preparazione, remunerati ad un più basso livello salariale.  Infatti, non è infrequente che vengano loro offerti posti di lavoro in primo luogo in settori ove si richiede soltanto lavoro manuale generico, magari pagato in nero, anche se sono in grado di svolgere compiti più complessi, e potranno forse, in prospettiva, migliorare la propria collocazione lavorativa con carriere più interessanti. In verità, gli emigranti partono generalmente sulla base di aspettative fondate su di una conoscenza molto fumosa e vaga della realtà che li aspetta. La stessa scelta, nei  modelli teorici dell’emigrazione, di variabili “quantitative” per motivare le scelte migratorie (maggiore reddito, salari più alti) è fuorviante, perché in realtà l’emigrante basa la sua scelta solo su variabili “qualitative” (aspettativa di avere “una vita più tranquilla”, “più serena”, “più sicura”, qualitativamente “migliore”, qualunque sia il significato di questo aggettivo “migliore”).

Questo approccio tradizionale all’emigrazione, spesso designato come “migrazione economica” comporta una semplificazione eccessiva della complessità motivazionale che spinge le persone a lasciare il proprio paese. Difatti, pur per gli emigranti a più elevata qualificazione professionale, per i quali la motivazione economica sembra essere particolarmente importante, lo spostamento all’estero è sempre legato ad un complesso di circostanze che vanno al di là delle “variabili chiave” sopra menzionate, per includere condizionamenti e vincoli socio-economici e strutturali relativi al funzionamento del paese d’origine che questa interpretazione tradizionale sembra ignorare. Inoltre, questo modello si basa su un’ipotesi molto irrealistica: suppone, come i modelli economici corrispondenti della perfetta concorrenza, una conoscenza perfetta da parte degli emigranti della realtà economica e delle prospettive di miglioramento che li aspetteranno al loro arrivo (vedi riquadro su ‘L’ipotesi di razionalità economica’), mentre, alla prova dei fatti, la capacità dell’emigrante di conoscere quella realtà è molto limitata. Inoltre, vi sono altri aspetti motivazionali che sono ignorati da queste ipotesi economiciste. Tuttavia, la motivazione economica dell’emigrazione continua a rappresentare una spiegazione più che plausibile, sia nel caso di lavoratori ad elevata qualificazione che in quello di lavoratori manuali, ed è particolarmente attraente per la sua semplicità devastante.[9] Non c’`è dubbio che chiunque si potrebbe riconoscere in questa motivazione economica, ed è vero che essa riflette un sentimento molto diffuso tra gli emigranti. Questo approccio è particolarmente adatto ad interpretare le scelte di coloro che partecipano al fenomeno noto come “fuga dei cervelli”, che interessa  emigranti a maggiore livello di qualificazione e che coinvolge sia i paesi in via di sviluppo che altri paesi a reddito più elevato (come l’Italia). In quella situazione, lavoratori qualificati si trovano di fronte ad una mancanza di sbocchi adeguati nel mercato locale del lavoro o non possono contare su sufficienti occasioni per intraprendere congrue iniziative economiche nel paese d’origine, motivandone la conseguente “fuga” all’estero.  

Pur essendo riconducibile al meccanismo semplificato del modello della migrazione economica, e pur essendo una scelta volontaria, la fuga di cervelli è legata a complesse limitazioni dello sviluppo interno del paese d’origine, che non offre alternative occupazionali valide a chi ha un elevato livello d’istruzione e di qualificazione tecnica.[10] In questo saggio ci siamo interessati marginalmente a questo tema, perché non è il tema centrale dell’emigrazione che attualmente affolla le frontiere dell’Europa, del Nord America e dell’Australia, anche se si tratta di una componente importante che non va trascurata.

Fuga di cervelli, migranti regolari o irregolari?

Normalmente gli emigranti che alimentano la “fuga dei cervelli” perseguono la strada dell’emigrazione regolare, cercando contratti con imprese o istituzioni straniere, e - grazie al loro livello elevato di cultura - riescono ad esplorare le opportunità legittime d’emigrazione anche grazie a incentive e offerte dai potenziali paesi d’immigrazione, che prospettano contratti a tempo determinato, contratti di ricerca,  borse di studio, inviano inviti ufficiali, spesso associati all’emissione di visti d’entrata e alla concessione di permessi più o meno provvisori di lavoro e permessi di residenza.

A volte, tuttavia, anche per lavoratori a qualificazione elevata, ma ancor più per quelli a qualificazione intermedia, la strada dell’emigrazione regolare è troppo lenta e complicata, e non è facilmente perseguibile. I visti tardano ad arrivare. Ci possono essere barriere legate alla nazionalità degli immigranti, o presunte incompatibilità tra richiesta di visto (o domanda di permesso di lavoro) e l’offerta concorrente di lavoratori nazionali con analoga qualifica.  Oppure le offerte di lavoro che dovrebbero avallare la richiesta di visti non si formalizzano nei modi e nei tempi richiesti.

In tali casi, questi lavoratori che si vedono chiudere le porte dell’emigrazione regolare, cercano di forzare la mano ai regolamenti dei paesi d’immigrazione, aggiungendosi alle fila già affollate degli emigranti irregolari. Molto probabilmente, non useranno le vie di trasporto usate dagli altri migranti irregolari, ma mezzi di trasporto più che legittimi, con un regolare biglietto aereo o ferroviario o di trasporto marittimo, oppure con un normale veicolo che attraversa la frontiera regolarmente. L’immigrato entrerà come turista e nessuna autorizzazione a lavorare nel paese ospitante, o avrà un permesso di soggiorno limitato (spesso di poche settimane o pochi mesi), ma userà questo espediente per dileguarsi nella clandestinità di un soggiorno di una durata superiore al consentito, cercando un’occupazione.  A quel punto, l’unica speranza di regolarizzare la sua posizione di immigrante irregolare dipende dalle leggi del paese ospite, che a volte permette questa conversion se il migrante riesce ad assicurarsi un’offerta di lavoro in certe forme da presentare alle autorità competenti. Oppure il paese ospite, come spesso successo in passato, potrebbe offrire una sanatoria per tutta una serie di immigranti irregolari, che vengono così regolarizzati, Ma molti paesi d’immigrazione non concedono queste alternative, se non ritornando nel paese d’origine e cominciando d’accapo il processo migratorio attraverso le vie legali, e a volte neanche quest’alternativa è sufficiente.

Gran parte delle moderne “diaspore”[11] dall’Africa, dal Medio Oriente o da molti paesi dell’Asia meridonale, dal sudest asiatico o dall’estremo oriente, o dal Centro-America o dai Caraibi riguarda individui con qualificazione tecnica non molto elevata (anche se non mancano esempi ad alto livello di preparazione professionale). Essi incontreranno maggiori difficoltà a ottenere regolari visti d’immigrazione. Anche loro lasciano il proprio paese per motivazioni economiche. Si tratta di flussi migratori da paesi ad economia più povera, spesso a livello pre-industriale, verso paesi più ricchi e più industrializzati. Si tratta di flussi analoghi occorsi negli ultimi due secoli che hanno accompagnato coinciso con l’esplosione della crescita economica nei paesi capitalisti ad economia avanzata, che hanno beneficiate di grandi movimenti demografici. Migrazioni di tali natura seguirono anche la fine di fenomeni storici particolarmente destabilizzanti come i grandi conflitti mondiali, o profondi sconvolgimenti politici, come l’esodo dai paesi d’oltre cortina durante la guerra fredda, o il crollo del comunismo sovietico, o l’espasione dell’Unione Europea verso l’est europeo.

Pur sembrando la motivazione economica così convincente per la sua logicità lapalissiana, non è sufficiente a spiegare i movimenti migratori attuali, anche sul piano puramente economico. C’è infatti il rischio di ridicolizzare l’aspetto economico come fattore di emigrazione, riducendolo a mero calcolo di convenienza basato su differenze salariali.[12] Ma il processo decisionale dell’emigrante è molto più complesso, legato ad una serie di condizionamenti strutturali che limitano gli sbocchi lavorativi nel paese d’origine, e includono fattori di natura sociale, politica, ambientale e personale.

  1. Migrazione economica, strutture economico-sociali, globalizzazione e squilibri sociali

Per decenni migranti provenienti dal Messico o dall’Africa sub-sahariana o da paesi asiatici hanno risposto alla motivazione economica, pur essendo spinti ad emigrare anche da tutta una varietà di altre motivazioni legate sia a vincoli socio-economici, che a carenze di ogni genere legati alla propria sopravvivenza e a pericoli immediati di ogni natura.  Sono senz’altro le motivazioni economiche che sembrano spiegare la tradizionale mobilità geografica di molte popolazioni provenienti dai paesi nord-africani e del Medio Oriente in direzione dell’Europa e dei paesi del golfo arabico. Allo stesso tempo, questi motivementi demografici sono legati ad aspetti strutturali del funzionamento sia delle economie dei paesi di origine che di quelle di destinazione, ove i push factors sono espressi sia dai differenziali di reddito pro-capite che dalle diverse dinamiche del mercato del lavoro, specialmente in presenza di disoccupazione cronica nei paesi d’origine, mentre le alterne congiunture economiche dei paesi d’immigrazione hanno rappresentato a volte pull factors e altre volte hanno ostacolato o rallentato l’emigrazione nei paesi prescelti come destinazioni finali. Questi sono tutti aspetti diversi di quello che normalmente chiamiamo migrazione economica.

Un esempio tipico di questi flussi fortemente influenzati dalle motivazioni economiche sono quelli verso i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, o GCC), che chiamerò semplicemente paesi del Golfo, dominati dalla migrazione temporanea. Tali flussi hanno fatto sì che la popolazione immigrata rappresenti una percentuale elevatissima della popolazione residente: 88% negli EAU, 74% nel Kuwait, 76% nel Qatar, 51% in Bahrain. Si tratta di processi migratori indotti dalla concentrazione settoriale dell’attività produttiva di quei paesi, legata alle abbondanti risorse petrolifere che hanno generato uno sviluppo economico acceleratissimo, che si è tradotto in un aumento intenso di domanda per manodopera importata, sia nei settori che richiedono alta specializzazione che in quelli che assorbono forza lavoro a qualificazione intermedia o medio-bassa, specialmente nell’edilizia, nel commercio al dettaglio e nei servizi domestici, con l’inevitabile conseguenza di alterare profondamente la struttura demografica di quei paesi.[13] I pull factors di quei flussi sono stati le opportunità di lavoro offerte dai paesi del Golfo, i differenziali salariali e di reddito, nonostante che quei paesi non offrano molte garanzie per la protezione dei diritti degli immigranti. Pur con queste limitate garanzie, i pull factors che i paesi del Golfo riescono ad esprimere, combinati con push factors nei paesi d’origine come l’eccesso di offerta di lavoro in quei paesi, scarsa capacità di assorbimento nel loro mercato del lavoro, eccesssiva pressione demografica, e povertà diffusa, non potevano che generare flussi significativi di migranti nei paesi del Golfo.[14]

Analoghe motivazioni “economiche” hanno influenzato migrazioni verso altre aree geografiche a grande tradizione migratoria, sotto l’influenza di differenti cicli di sviluppo nei paesi d’immigrazione rispetto a quelli d’origine. Paesi emergenti che hanno beneficiate di rapido progresso economico hanno visto crescere il modo significativo le loro attività manifatturiere, e ciò ha prodotto un rallentamento della pressione emigratoria che forti pressioni demografiche avrebbero prodotto, se non ci fosse stata la crescita occupazionale nel settore industriale che ha invece ridotto la ricerca di lavoro all’estero da parte dei lavoratori nazionali. In quei paesi, anche se i differenziali salariali ancora potrebbero svolgere un ruolo centrale per spingere verso l’emigrazione in altri paesi a salario ancora più elevato, il ritmo elevato di crescita della domanda di lavoro in quei paesi a crescita rapida è stato il fattore determinante per limitare l’emigrazione, e a stimolare l’immigrazione, specialmente se messi a confronto con un mercato del lavoro meno dinamico, anche se non completamente stagnante, nel paese d’origine degli immigrati. Questo tipo di motivazione funziona sia che i paesi d’immigrazione siano altri paesi in via di sviluppo (ad economia più dinamica) che paesi a economia più avanzata.

Questo è il motivo per cui l’emigrazione messicana verso gli Stati Uniti, che ha profondamente legato la storia dei due paesi (i messicani sono al secondo posto nel mondo tra le popolazioni che si considerano emigranti), ha subìto negli ultimi anni una completa inversione di tendenza, con un saldo netto di ingressi nel Messico provenienti dagli Stati Uniti, grazie al rilancio del mercato interno del lavoro di quell’economia latino-americana, che ha rallentato i flussi in uscita di lavoratori messicani verso gli USA, fenomeno acutizzato dalla crisi finanziaria del 2008 (che aveva scoraggiato l’ingresso nel mercato del lavoro statunitense), e che si è accompagnato con il ritorno di molti emigranti messicani dagli Stati Uniti (ciò nonostante la retorica del presidente Trump che ha continuamente ignorato questo fenomeno). 

Tuttavia, i meccanismi economici che generano flussi migratori vanno ben al di là dei differenziali salariali, delle prospettive di un maggior guadagno individuale, della diversa dinamica del capitale umano o della diversità dei tassi di crescita economica, che pur sembrano così decisivi. Vediamo di che si tratta. Ci sono processi economici alimentati da forze strutturali interne ai singoli paesi, che storicamente hanno alimentato flussi migratori, come l’evoluzione del funzionamento dei meccanismi produttivi, particolarmente del mondo rurale, che parallelamente agli sviluppi tecnologici e socio-economici sia del settore agricolo che di quello manufatturiero, hanno avuto importanti conseguenze sulle dinamiche migratorie sia interne che esterne. Ad esempio, l’impoverimento di popolazioni rurali concomitante con l’aumentata difficoltà di accesso a terreni fertili – il fenomeno di land grabbing (accaparramento della terra) in corso in molti paesi africani sembra ripetere quanto avvenne nell’Inghilterra durante la rivoluzione agricola ed industriale – ha sempre favorito spostamenti massicci di popolazione, che ha abbandonato le zone rurali, fornendo manodopera a basso costo nelle zone urbane, secondo un modello di crescita dualistica, con conseguente esplosione di disoccupazione o sotto-occupazione nei centri metropolitani.[15]  Quei processi strutturali (sia quelli del passato che attualmente in corso) non hanno prodotto soltanto migrazioni interne, ma anche internazionali, specialmente da paesi a struttura demografica giovane e ad elevato tasso di crescita della popolazione.  Questi migranti sono vittime di esclusione sociale. Il mercato locale del lavoro non è in grado di offrire loro sufficienti posti di lavoro “decente” (come definito dall’Ufficio Internazionale del Lavoro dell’ONU).  Questa dinamica è sicuramente ciò a cui assistiamo nel continente africano in questi anni, attraverso processi di mobilità interna, infraregionale ed extraregionale.[16]

Questi processi strutturali sono tutt’altro che uniformi e altrettanto può dirsi per i flussi migratori internazionali che ne derivano. Molti immigranti che erano partiti dall’Europa meridionale in direzione dell’Europa centrale e settentrionale nel corso degli anni ’50 e ’60 presero la via del ritorno verso l’Italia, la Grecia e la Spagna, a partire dagli anni ’70, dopo anni di permanenza all’estero, mentre i paesi d’origine avevano subìto profonde trasformazioni con decisi progressi nella produzione industriale.

Trasformazioni strutturali sono state influenzate più recentemente dalla globalizzazione che ha stravolto processi produttivi, modalità di investimento, trasferimenti internazionali dei capitali, e distribuzione degli investimenti, dei prodotti e della tecnologia un po’ ovunque, con enormi conseguenze nella vita sociale (per esempio nelle comunicazioni e nella telefonia mobile) che hanno avuto effetti anche sulle modalità migratorie.[17] Questi cambiamenti hanno coinciso con la drastica riduzione della crescita demografica, nei paesi a più vecchia industrializzazione, con conseguente invecchiamento della popolazione e profonda alterazione del funzionamento di quei sistemi economici, mentre pressioni inflazionistiche che sono state accelerate in varie fasi, ma più recentemente nel corso degli anni ’70 (dopo la prima crisi petrolifera del 1973) intensificarono la preoccupazione di contenere il costo del lavoro, accelerando la spinta per una crescente automatizzazione (robotizzazione) dei processi produttivi. Ciò ha generato un flusso sempre più elevato di investimenti di capitale in paesi a più basso costo del lavoro per delocalizzare attività ad alta intensità di lavoro (outsourcing). Ciò ha alterato la mobilità migratoria sia interna che internazionale, ma in modo non uniforme, con stimoli migratori in direzioni multiple e contraddittorie.  

In teoria, le operazioni di outsourcing dovrebbe ridurre le spinte migratorie provenienti da quei paesi che beneficiano da investimenti offshore e che, in assenza di quegli investimenti avrebbero prodotto ulteriori emigrazione verso economie a salari più elevate, perché gli investiment offshore producono posti di lavoro lì ove altrimenti avremmo solo emigrazione. In altri termini, quegli investiment risponderebbero in modo positivo al suggerimento di molti che vorrebbero risolvere i problemi dell’emigrazione internazione creando posti di lavoro nei paesi d’origine (secondo l’approccio “creiamo posti di lavoro nei paesi d’emigrazione”). Effettivamente, investimenti di outsourcing generano lavoro in quei paesi, e possono essere associati ad una intensificazione della mobilità interna in quei paesi dalle zone periferiche verso i c.d. “poli di sviluppo” (sviluppo dualistico). Quegli investimenti dovrebbero favorire, sempre in teoria, un flusso internazionale di personale qualificato dai paesi ad alto livello salariale verso i paesi destinatari degli investimenti transnazionali, complementare ai trasferimenti di capitale: si tratta però di una migrazione selettiva, di dimensioni quantitative modeste, che riguarda solo frange limitate di lavoratori ad alta qualificazione.[18] Ma le operazioni di outsourcing in principio favorirebbero anche flussi migratori di altro tipo verso i nuovi poli di sviluppo: migranti da paesi più poveri e a più bassa capacità economico-finanziaria e a più basso livello di qualificazione che si trasferiscono lì ove si intensifica la domanda di lavoro anche a più basso livello salariale, per sopperire alle carenze dell’offerta locale di manodopera. È questo il caso sopra citato dei paesi del Golfo ed in generale delle emigrazioni verso molti NICs.  Si tratta di immigrazioni indotte da investimenti complementari in settori paralleli, che si sono tradotti in un aumento anche della domanda di manodopera a basso costo, che l’offerta locale non sempre riesce a soddisfare. Questa crescita di domanda di lavoro (anche immigrato) è volta a sostenere tutta una serie di attività produttive:

  • la produzione locale di componenti delle nuove produzioni industriali trasferite dall’estero (outsourced);
  • attività edili indotte direttamente o indirettamente dalle operazioni di outsourcing;
  • attività del terziario indotte dalle altre attività (anche nei servizi quali trasporto, attività alberghere, ristorazione, pulizia, istruzione, sanità), e per investimenti infrastrutturali;
  • altre attività indotte (e relativi investimenti) in settori manifatturieri, servizi finanziari e assicurativi, assistenza tecnologica, generate dall’effetto “moltiplicatore” del maggiore reddito prodotto.

Ma mentre le operazioni di outsourcing genereranno posti di lavoro di cui beneficeranno individui che non emigreranno, i cambiamenti strutturali prodotti all’interno di quelle economie e le contraddizioni tra quelle economie ed altre economie in via di sviluppo che non hanno beneficiato di questi investimenti, si accompagneranno a profondi squilibri di fondo di tipo dualistico. Zone depresse si confronteranno con zone a forte crescita. Conflitti tra classi o gruppi sociali esploderanno. Fenomeni di esclusione sociale si intensificheranno nei paesi ove lo sviluppo dualistico sarà intensificato, interessando particolarmente coloro che non riescono ad essere assorbiti dai nuovi investimenti. Si creeranno così sacche sociali che cercheranno alternative altrove, per evitare di essere confinate nelle periferie delle grandi metropoli, per fuggire dalla sotto-occupazione o dalla disoccupazione che accompagnano questi squilibri. Effetto finale sarà con ogni probabilità continui flussi migratori per fuggire dalla morsa dell’esclusione sociale.  Analogamente, paesi in via di sviluppo che non hanno beneficiato di quegli investimenti di outsourcing subiranno uno stimolo all’emigrazione verso altri paesi a crescita più solida, siano essi paesi in via di sviluppo a crescita più rapida che paesi ad economia avanzata. Concludendo, sono tutti questi squilibri che accompagnano le trasformazioni economiche e sociali in una crescente globalizzazione della società che moltiplicheranno pressioni per una maggiore emigrazione, attraverso i seguenti meccanismi:

  • La globalizzazione produrrà l’intensificazione dei processi migratori sia interni che esterni, sia inter-regionali che infra-regionali, perché il lavoratore è stimolato a cercare opportunità al di là della comunità, del villaggio, del quartiere, della città, della provincia, del distretto, dello stato o paese, perché ­­– poiché lo sviluppo economico non è omogeneamente distribuito – ci saranno sempre zone con migliori occasioni di lavoro (o almeno percepite come tali).
  • Questa maggiore mobilità lavorativa produce un processo cumulativo attraverso un effetto dimostrativo che incoraggerebbe, sul piano psicologico, l’emigrazione, diffondendo la motivazione della migrazione economica su vasta scala, anche grazie alla pubblicità data a migliori condizioni di vita economica e sociale che sarebbe accessibili altrove.
  • La distribuzione non uniforme dello sviluppo economico a livello mondiale produce un effetto espulsivo di masse di lavoratori da tutti i paesi affetti da gravi squilibri sociali verso altri sbocchi lavorativi. Il processo di marginalizzazione sistematica di gruppi sociali o individui (esclusione sociale) associata al dualismo socio-economico rende inospitale l’ambiente di lavoro di molti paesi e può essere aggravata da pressioni demografiche (alti tassi di natalità e a strutture demografiche dominate da giovani generazioni).
  • L’esclusione sociale può essere esasperata da rigidità istituzionali e trappole sociali ed una elevata concentrazione della ricchezza, che reprime la mobilità sociale, producendo l’inevitabile conseguenza dell’emigrazione. Questo effetto è ancor più dirompente negli stati fragili, ove assistiamo a failed states (disfunzione totale dello stato), accompagnato da guerre, conflitti interni, violenza diffusa, corruzione, e mancata protezione dei diritti umani.

È in questa dinamica complessa che accompagna la crescente mobilità internazionale in un mondo globalizzato che le motivazioni economiche dell’emigrazione oggi giorno si manifestano. La molla del mero miglioramento delle condizioni economiche (che è l’ipotesi semplificata della migrazione economica), pur nella sua importanza, non riesce a spiegare ciò che bolle in pentola. Le decisioni migratorie si complicano in una serie di complesse reazioni a catena legate a squilibri e contrasti sociali, ove fenomeni di globalizzazione dell’economia interagiscono con processi di isolamento di regioni che non beneficiano dell’effetto positivo degli investimenti internazionali, mentre squilibri strutturali si moltiplicano e interagiscono con processi di esclusione sociale che hanno effetti inevitabili sulla mobilità geografica dei lavoratori, accelerando l’emigrazione.

È per questo che paesi in via di sviluppo che hanno beneficiato di processi accelerati di crescita economica, anche grazie ad operazioni di outsourcing, non solo sono divenuti sempre più presenti nel commercio internazionale con le loro esportazioni competitive, ma continuano a generare grandi flussi di emigranti: è il caso di paesi come il Bangladesh, le Filippine, l’India, la Cina, il Centro America, molti paesi africani a reddito medio, o altri paesi in via di sviluppo, che pure hanno avuto una forte accelerazione industriale. Evidentemente, la loro dinamica demografica è tale che generano pressioni numeriche non facilmente assorbite nei mercati locali del lavoro.  A questi paesi si aggiungono i paesi che invece sono rimasti esclusi dai processi di sviluppo, ma che continuano ad avere una dinamica demografica incompatibile con la loro economia stagnante. Per quei paesi l’emigrazione sembra un fenomeno cronico ed inevitabile, specialmente se afflitti da altri squilibri interni (politici e sociali).

  1. Fattori non economici e l’emigrazione come decisione collettiva

I flussi epocali di migranti che registriamo nelle cronache quotidiane non sembrano essere il semplice riflesso di variabili economiche. Se infatti andiamo al di là dell’analisi degli “stock” di migranti residenti attualmente all’estero, ma cerchiamo di analizzare i “flussi” migratori più recenti, potremmo facilmente notare che le motivazioni economiche, che pur continuando a svolgere un ruolo importante, sembrano essere assolutamente insufficienti a spiegare sia il volume che l’intensità e, in particolare, la persistenza di quei flussi attraverso le diverse regioni geografiche, persistenza che spesso prevale rispetto alle potenti misure di contenimento dell’immigrazione.  Sono gli ostacoli che gli emigranti dai paesi in via di sviluppo incontrano nelle proprie comunità d’origine e da cui fuggono ad esercitare un potere preponderante nel modellare la scelta migratoria come decisione irrevocabile. Supporre che i flussi migratori rispondano esclusivamente a calcoli di convenienza economica ignora l’intensità inarrestabile della dinamica dell’immigrazione odierna.

Troviamo tutto ciò nei flussi migratori dall’America centrale verso gli Stati Uniti (principalmente da El Salvador, Guatemala e Honduras), attualmente dominanti rispetto a quelli provenienti dal Messico e da altri paesi dell’America Latina, così come nei flussi di migranti africani ed asiatici che recano  attualmente in Europa, spesso richiedendo protezione internazionale. Mentre una minoranza di migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia in direzione dei paesi del Golfo continua ad essere motivata da spinte prevalentemente economiche, la gran parte di quei flussi (sia regolari che irregolari) in direzione dell’Europa, del Nord America e dell’Australia, sono motivati da cause più complesse, ove le variabili economiche si mescolano con altre non economiche, spesso dominanti, che si intrecciano con le prime in una dinamica molto variegata.

Questa complessità motivazionale riflette, in primo luogo, una circostanza fondamentale.  L’emigrante generalmente non si muove come un individuo isolato alla ricerca esclusiva della massimizzazione del suo benessere individuale, ma risponde a istanze che influenzano le condizioni di vita della sua intera famiglia,[19] inclusa la famiglia di origine, anche se dovesse intraprende il proprio viaggio da solo. L’emigrazione è un modo per differenziare le fonti di reddito per l’intero nucleo familiare ed, in tal caso, la scelta migratoria assume le vesti di una decisione collettiva. Questo spiega anche che non sono gli individui al livello più basso della povertà assoluta che normalmente emigrano, ma coloro che, pur essendo vittime di  processi di esclusione sociale e di altri condizionamenti economici, sono maggiormente in grado di migliorare la capacità complessivo del nucleo familiare di procurarsi i mezzi di sostentamento (livelihood approach): chi parte è colui che maggiormente è in grado di affrontare le peripezie del viaggio all’estero per raggiungere questo scopo, e non necessariamente chi sta peggio.  Questo vuol anche dire che l’emigrante non sarà necessariamente l’individuo che porterà il contributo finanziario più elevato al reddito familiare. A volte basta il fatto stesso di aver aggiunto una nuova fonte al reddito complessivo del nucleo famigliare è sufficiente a giustificare l’emigrazione di un membro della famiglia, se ciò cambia lo stato generale di benessere della famiglia nel paese d’origine, anche se il reddito conseguito all’estero è limitato.

Le condizioni di vita della famiglia sono legate al contesto storico e istituzionale in cui quella famiglia si trova, interagendo con altre componenti della società, e dipendono perciò dalla struttura sociologica dell’ambiente da cui proviene il migrante, dalla stratificazione sociale prevalente e dalla posizione relativa del migrante e del suo nucleo familiare, e dalle conseguenti disuguaglianze sociali ed economiche di cui essi possono essere vittime (esclusione sociale). Queste disuguaglianze includono anche le difficoltà di accesso a servizi sociali e alle diverse opportunità di crescita e di mobilità sociale. Queste diversità spesso sono il risultato di vincoli che liminato l’accesso ai mercati locali dei capitali, del lavoro e dei beni e servizi. Non tutte le famiglie sono trattate in modo uniforme (basta pernsare alla difficoltà di accesso al mercato del credito in alcuni paesi), con fenomeni acuti di esclusione dovuta a marginalizzazione. La scelta migratoria, quindi, più che riflettere la ricerca individuale di salari più elevati, può divenire una decisione collettiva di un gruppo sociale (il nucleo familiare) – anche se non tutti i membri di quel nucleo emigreranno (alcuni possono non partire mai) o emigreranno simultaneamente (il ricongiungimento familiare è frequente) – nella consapevolezza delle complesse condizioni in cui vivono i vari membri del gruppo. Si deciderà insieme se emigrerà l’uno o l’altro membro del gruppo familiare, e chi dovrà restare; se partirà prima l’uno e poi l’altro. Si deciderà sulla trasmissione di rimesse future verso il paese d’origine (anche quando il processo di integrazione dell’emigrante è ancora nella sua fase iniziale), e se il reddito prodotto all’estero dovrà contribuire ad un piano familiare d’investimento (residenziale, commerciale, industriale o finanziario) nel paese d’origine, sopperendo in tal modo alle carenze del processo di accumulazione nel paese natio. Queste scelte comuni influenzeranno la determinazione della direzione dell’emigrazione (sia l’itinerario che il luogo di destinazione); le modalità del viaggio e la data di partenza; la designazione di chi finanzierà il costo del viaggio e  la relativa raccolta di fondi per finanziare il viaggio; chi provvederà a facilitare contatti durante il viaggio e nel luogo di destinazione, predisponendo i necessari accordi  con eventuali intermediari (trafficanti) e con le persone che possono agevolarne il viaggio e l’accoglienza all’arrivo, usufruendo della rete di contatti e di solidarietà che il gruppo è in grado di offrire; chi effettuerà le scelte per la sistemazione logistica del migrante, per la sua ricerca di lavoro, e per le modalità per tentare l’inserimento nella società e nell’economia del paese d’immigrazione, offrendo varie forme di sostentamento durante il viaggio e nella fase iniziale dell’immigrazione; ed infine eventuali programmi di ricongiungimento familiare.

In questo complesso calcolo, non è necessariamente la massimizzazione del benessere materiale economico (ad esempio, in termini di reddito) la variabile più importante, quanto la speranza di migliorare la propria sicurezza generale e quella del proprio nucleo familiare. Questo è un concetto molto più ampio del benessere economico, e comprende variabili sociali, politiche, antropologiche e considerazioni molto personali. Ma anche in termini puramente economici, non riguarda non solo l’accesso ad un posto di lavoro remunerato con un salario più alto (in generale, l’aspettativa “di far più soldi”), ma anche la speranza di acquisire una maggiore stabilità lavorativa grazie ad un più facile accesso ad offerte alternative di lavoro (dovuta ad una maggiore mobilità lavorativa nel paese di destinazione): questo non equivale necessariamente alla speranza di avere un posto fisso nel paese di destinazione, ma l’aspettativa di trovare più facilmente un’occupazione in un’economia abbastanza dinamica da generare nuove offerte di lavoro, anche precario, con relativa frequenza. In sostituzione della massimizzazione del reddito personale del singolo emigrante (come nel modello neo-liberale tradizionale), suggeriamo qui che il nuovo obiettivo sia la minimizzazione dei rischi per la sicurezza e la sopravvivenza della famiglia, rischi eventualmente compartiti tra i vari membri del nucleo familiare. Quest’obiettivo non concerne solo gli aspetti materiali della vita (reddito o ricchezza patrimoniale), ma anche una maggiore facilità di accesso a servizi sociali (sanità, istruzione, cultura); riduzione del rischio di restare vittime di conflitti e di violenza generalizzata, di soprusi e di angherie; garanzia di poter godere di una migliore tutela da parte delle autorità contro la criminalità; un più agevole accesso ai diritti civili; garanzie per il rispetto della propria dignità personale; garanzia di protezione dei propri diritti umani in generale. Maggiore sicurezza significa la speranza di poter vivere in un paese che offra maggiore stabilità economica, sociale e politica, anziché vivere sotto il rischio costante di perder tutto, rischio particolarmente forte quando prevalgono relazioni conflittuali all’interno della società, minacciando il funzionamento della vita sociale e politica, ed il funzionamento delle pubbliche istituzioni, mettendo a rischio lo stesso rispetto dello stato di diritto.  Si noti che qui non ho suggerito di sostituire la massimizzazione del benessere individuale con la massimizzazione del benessere familiare come obiettivo più realistico dell’emigrante, ma l’uso alternativo dell’obiettivo di minimizzazione dei rischi per la sicurezza e per la sopravvivenza del nucleo familiare. Questo cambio di ottica permette di andare al di là dei soliti cliché della “migrazione economica”, che riducono la scelta migratoria ad un mero calcolo tra aspettative economiche nel paese d’arrivo con posizioni di partenza, per analizzare invece il ruolo centrale della vulnerabilità della famiglia nel paese d’origine, minacciata da pericoli, sofferenze, soprusi, calamità, discriminazioni ed esclusioni, da cui l’emigrante fugge. In tal modo, entrano nella decisione migratoria una grande varietà di fattori non squisitamente economici legati a condizioni politiche e sociali del paese d’origine, che possono esercitare un effetto incontenibile di “espulsione” dal paese natio, da cui i potenziali migranti non riescono facilmente a sottrarsi. Infatti, questi fattori producono “frustrazioni” e “disperazione” che accompagnano l’emigrante durante il suo tragitto, che egli cerca di dimenticare lasciandoseli alle sue spalle quando abbandona il proprio paese, e sono proprio questi ricordi le ragioni fondamentali della persistenza dell’intento migratorio, nonostante gli ostacoli incontrati.  

Quando l’emigrazione è concepita come un processo che coinvolge l’intero nucleo familiare, anche gli eventuali dissidi all’interno della famiglia hanno un ruolo importante. Parliamo di possibili conflitti di interesse, lotte interne di potere tra componenti della stessa famiglia, conflitti inter-generazionali, discriminazioni per membri di diverso sesso, abusi nei confronti di alcuni di essi, conflitti culturali, mancanza di protezione di alcuni diritti fondamentali per alcuni di essi. È chiaro che occorre tener contro di tutti questi fattori, specialmente se queste problematiche assumono manifestazioni molto acute, ove il singolo migrante si trova in contrasto con altri membri della famiglia. 

Concludendo, anche se le motivazioni economiche svolgono un ruolo importante nelle scelte migratorie, la minimizzazione dei rischi per la sicurezza e per la sopravvivenza del singolo emigrante e del suo nucleo familiare ci obbliga a tenere conto di tanti altri fattori, tra i quali emergono le tante situazioni di vere e proprie persecuzioni politiche legate a sistemi autoritari di governo, che impongono restrizioni sistematiche alle libertà civili fondamentali e permettono la persistenza di ingiustizie sociali ormai endemiche in certe comunità. Ciò tanto più è vero quanto più diffusa è la corruzione nelle istituzioni pubbliche che dovrebbero proteggere tutti gli strati sociali. Alcune società non garantiscono valori fondamentali, quali la libertà di espressione e di fede politica o la possibilità di professare la propria religione senza particolari restrizioni, e la fuga all’estero diviene una scelta obbligata.  Molti emigranti “fuggono” da conflitti armati e da guerre civili; da rivalità etniche o tribali; da situazioni di diffusa violenza estrema legata a fenomeni di terrorismo o di criminalità organizzata.  Sempre più numerosi sono i migranti che fuggono da condizioni di abuso (specialmente nel caso di donne e di giovani), a volte legati al traffico di esseri umani (forme moderne di schiavizzazione). Sempre più frequenti sono i fenomeni migratori legati ad una violazione sistematica dello stato di diritto nel paese d’origine. Molti migranti fuggono da desolanti condizioni di povertà connesse alla mancanza cronica di servizi di assistenza sanitaria e di infrastrutture sociali e di sistematica esclusione sociale.  Estremamente frequente è l’assenza cronica di opportunità realistiche di migliorare la propria condizione di vita in paesi devastati da instabilità politica e da una diffusa e pressocché permanente depressione economica.  Di sovente i migranti fuggono da condizioni di fame aggravate da fenomeni ambientali legati a calamità naturali come siccità, inondazioni, terremoti, o cambiamenti climatici, fenomeni a loro volta causati dal deterioramento delle condizioni del suolo dovuto all’eccessivo sfruttamento del suolo e ad una deforestazione incontrollata. Migranti fuggono anche da acute epidemie che elevano il tasso di mortalità.

La retorica ostile agli immigranti ci ha abituato a vedere l’immigrazione irregolare come un mero flusso di migranti economici, che “rubano” il posto di lavoro ed il benessere ai lavoratori nazionali, flusso promosso da trafficanti organizzati in reti criminali, con la complicità di organizzazioni umanitarie. Ma l’immigrazione non è il mero risultato di un traffico di esseri umani, una specie di tratta degli schiavi, deportati dai nuovi “schiavisti” (i trafficanti), perché l’emigrazione, anche nelle più tragiche condizioni, è il risultato di una scelta, generalmente presa all’interno della famiglia, di chi emigra, anche senza visti o con inadeguata documentazione, per una grande varietà di ragioni. Il tentativo sistematico di molte autorità governative di ridurre le motivazioni di fondo di molti immigranti alla semplice migrazione economica impedisce di riconoscere queste “altre motivazioni”, riconosciute soltanto per i rifugiati.

  1. Rifugiati, migranti economici e migranti per oggettive necessità impellenti

Alle forme di migrazioni che corrispondono a scelte libere, motivate nei modi più diversi, con prevalenza da cause economiche, e che giustamente abbiamo designato come migrazione economica, dobbiamo aggiungere tutta una grande varietà di emigranti che, qualunque sia la loro motivazione economica, emigrano perché “fuggono” da qualcosa o da qualcuno, e quindi sono in qualche modo “forzati” a emigrare. Il peso di questa coercizione dipende dalle circostanze che hanno determinato quelle condizioni pressanti. Normalmente continuiamo ad utilizzare l’espressione emigranti anche per queste persone in fuga. Altre volte preferiamo chiamarli profughi, quando l’elemento “fuga” sembra dominante.  Spesso ci riferiamo ai profughi come a migranti irregolari costretti ad abbandonare il proprio paese in modo più o meno drammatico a causa di eventi bellici, a persecuzioni, a cataclismi o a condizioni di estrema necessità. Si tratta di un concetto basato sulla fuga per necessità, da opporsi all’emigrazione come libera scelta.  Tuttavia, sempre più spesso i profughi vengono designati come rifugiati, perché quest’ultimo termine permette l’applicazione di condizioni previste da legislazioni nazionali e da convegni internazionali, concedendo ai rifugiati una protezione particolare. Ma la disinzione tra questi termini non è sempre facile, e vedremo perché.

Secondo l’UNHCR, sono rifugiati tutti coloro che sono fuggiti dal proprio paese per scappare da persecuzioni, guerre o violenza e non possono ritornarvici, avendo fondate ragioni per temere per la propria incolumità personale perché perseguitati.  Questa definizione è derivata dalla Convezione di Ginevra sui Rifugiati del 1951 e riconosciuta da tutti i paesi che l’hanno sottoscritta, ed è un modo semplificato per riferirci al contenuto dell’Articolo 1.A.2 di quella Convenzione, che definisce rifugiato chiunque “a causa di ben fondato timore di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale particolare od opinione politica, si trovi al di fuori del paese di sua nazionalità e sia incapacitato o, a causa di questo timore, non sia disposto ad avvalersi della protezione offerta da quel paese; o chiunque, non avende una propria nazionalità e trovandosi al di fuori del paese di sua residenza abituale usata in precedenza come risultato di tali eventi, sia incapacitato o, dovuto a tale timore, non sia disposto a tornarvi”.[20] Essenziale, in questa definizione, è l’accertamento di una fondata paura di essere perseguitato/a a causa di una delle ragioni sopra elencate. Il timore di tornare nel proprio paese è pertanto legato al rischio di subire violenze conseguenti a quelle persecuzioni. Quella definizione si adattava particolarmente alle condizioni persecutorie prevalse prima e durante il secondo conflitto mondiale, a seguito delle repressioni nazi-fasciste contro oppositori politici e certi gruppi di individui selezionati a seconda della loro etnia, religione o altra ragione fondata su discriminazione prevalentemente razziale o politica. A questo si aggiunse, negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, l’esodo dai paesi dell’est, che a dire il vero era cominciato sin dalla rivoluzione bolscevica del 1917, e che si intensificò dopo il 1945, interessando rifugiati che provenivano dalla Cortina di Ferro e che fuggivano dai paesi del blocco sovietico o da simili realtà politiche. 

Questa nozione di rifugiati è troppo legata all’epoca storica in cui fu adottata e mal si adatta ad una realtà più complessa di un mondo in ebollizione, ove movimenti di profughi si moltiplicano per le ragioni più diverse, non necessariamente legati solo alla repressione da parte di regimi politici dispotici.  Negli anni 50 e 60, situazioni di disordine pubblico accompagnarono la creazione di nuovi stati durante il processo di decolinizzazione in molti paesi dell’Africa ma anche dell’Asia, spingendo molti individui a fuggire dal proprio paese per cercare protezione altrove. La nozione di rifugiato del 1951 mal si adattava alle nuove situazioni geo-politiche. Non è perciò un caso che la OAU abbia usato, a partire del 1969, [21] una definizione più allargata per i rifugiati provenienti dai paesi africani, considerando rifugiato “qualsiasi persona che, a causa di un’aggressione esterna, occupazione, dominazione straniera o eventi che disturbino seriamente l’ordine pubblico, all’interno di una parte o di tutto il suo paese di origine o il paese di cui abbia la nazionalità, è costretto a lasciare il luogo della sua residenza abituale al fine di ricercare rifugio in un altro luogo al di fuori del suo paese di origine o della sua nazionalità.  Questo concetto non disconosce coloro che fuggono dalle condizioni persecutorie previste dalla definizione del 1951, ma lo allarga anche ai casi in cui lo stato di paura sia determinato da “eventi che disturbino seriamente l’ordine pubblico”, che possono causare violenze e possibili altri danni alle persone: è questo il caso di rivoluzioni, guerre civili, aggressioni di bande armate, brigantaggio, criminalità cronica (includendo sequestri di persone e ricatti sistematici). E queste erano le condizioni frequenti in molti stati africani durante il processo di decolonizzazione.[22] L’ordine pubblico non era un problema da tutelare nella Convenzione del 1951, in quanto questo era normalmente sotto controllo anche nei regimi autoritari, e per questo preferiva concentrarsi sulla protezione dalle persecuzioni.[23] Nella regione africana o in generale in tutti i paesi che uscivano da un processo di decolonizzazione o di oppressione attraverso processi rivoluzionari, il numero di persone che fuggivano e cercavano rifugio all’estero includeva non solo coloro che avevano combattuto contro le potenze coloniali per rivendicare l’indipendenza del proprio paese, ma anche tutti coloro che semplicemente fuggivano da condizioni di intensa violenza causata da scontri armati, frequenti e profondi disordini interni, lotte tribali, confronti etnici e pseudo-religiosi, con manifestazioni estreme come eccidi ed elevata criminalità. Queste spinte migratorie non sono tanto “volontarie”, ma sono generate da cause impellenti, che possono perdurerare negli anni anche dopo la raggiunta indipendenza, generando instabilità, diffusa violenza e insicurezza personale e collettiva.  Questa definizione non è riconosciuta dai paesi occidentali, che generalmente preveriscono limitarsi alla Convenzione del 1951 quando esaminano le domande d’asilo, anche se la concessione della protezione sussidiaria da parte di molti paesi d’immigrazione tutela coloro che fuggono da guerre. Semplici disordini sociali (tumulti, turmoils) non sono considerati sufficienti per giustificare la fuga e veder riconoscere lo stato di rifugiato ad un profugo che fugge.

La Dichiarazione Latino-Americana di Cartagena sui Rifugiati del 1984 allarga ulteriormente il concetto di rifugiati per definirli come “le persone che sono fuggite dal proprio paese per la propria vita, salvezza o libertà perché minacciate da violenza generalizzata, aggressione straniera, conflitti interni, violazione in grande scala dei diritti umani o altre circostanze che hanno disturbato seriamente l’ordine pubblico.” Questa definizione è molto più amplia delle due nozioni precedenti, in quanto lega il timore di tornare nel proprio paese al rischio di perdere le propria vita, salvezza e libertà in dipendenza di situazioni di violenza generalizzata, il che include anche la violenza generata da una presenza diffusa di criminalità organizzata. Quest’ultima ha creato in molte realtà latinoamericane un clima invivibile in molte comunità, continuamente minacciate dalle angherie di bande armate e di narco-trafficanti, la cui influenza frequentemente è sfuggita al controllo delle autorità ufficiali, spesso coinvolte in questi traffici loschi, o corrotte o comunque inefficaci. Altro punto importante di questa definizione è il riferimento esplicito a coloro che fuggono perché vittime di eventi legati alla violazione in grande scala dei diritti umani”. L’intera Dichiarazione Universale sui Diritti Umani viene cosi coinvolta in questa definizione, per estendere lo stato di rifugiato a tutti coloro che rischiano di essere sistematicamente vittime di violazioni di quei diritti. La gamma di questi diritti è molto amplia, ed è un concetto che si è andato arricchendo anche dopo l’adozione della Dichiarazione Universale nel 1948 con tutta una serie di diritti in settori specifici, come i diritti per la donna, per i bambini, del lavoro, per le popolazioni indigene, e via di seguito, riconosciuti da convenzioni internazionali ratificate da un gran numero di stati. Questa definizione di rifugiati più amplia meglio risponde alle condizioni dei migranti esaminate nel paragrafo precedente, ma non è stata ancora riconosciuta per il trattamento giuridico dei rifugiati se non da un ristretto numero di paesi. Per la maggioranza di essi, vale solo la ristretta definizione del 1951.  Tuttavia, nel 2011 l’UNHCR cercò di suggerire un concetto esteso di rifugiati, sostanzialmente in linea con quello proposto dalla Dichiarazione di Cartagena, includendo tutte le persone “che si trovano al di fuori del paese di propria cittadinanza o di abituale residenza e sono incapacitate a tornarvi a causa di serie e indiscriminate minacce alla propria vita, alla propria integrità fisica o propria libertà prodotte da violenza generalizzata o eventi che disturbano seriamente l’ordine pubblico.” (il grassetto è mio)  Quest’ultima definizione dell’UNHCR ha soltanto un valore propositivo, è un suggerimento, e non ha prodotto maggiori conseguenze sulle legislazioni nazionali sui rifugiati, non trasformandosi in un obbligo da parte dei paesi firmatari della Convenzione del 1951.

Nonostante i limiti imposti alla definizione di rifugiato dalla Convenzione del 1951, dobbiamo riconoscere che essa rappresenta un segnale di progresso rispetto al passato. Ne vediamo le conseguenze ancora oggi quando ai nostri giorni profughi in fuga da situazioni tragiche si trovano all’interno di un paese di transito che non ha sottoscritto la Convenzione per i Rifugiati di Ginevra per (ad esempio la Libia e la Tunisia), nei quali non sarà loro garantita la protezione internazionale prevista da quella Convenzione. Ancora più preoccupante è la tendenza mostrata recentemente in alcuni paesi d’immigrazione (tra cui dobbiamo purtroppo annoverare l’Italia di Salvini, con i due decreti sicurezza da lui ispirati, e gli Stati Uniti di Trump), che pur avendo sottoscritto la Convenzione di Ginevra, hanno tentato di eluderne l’applicazione rigorosa, imponendo restrizioni faziose alla concessione a quella protezione internazionale, vanificando i princìpi su cui quella Convenzione si basa.[24]

Questa tendenza contrasta con gli sforzi di molti paesi (e sicuramente dei membri dell’Unione Europea) di estendere la protezione internazionale riservata ai rifugiati ad una serie di casi aggiuntivi. È il caso della protezione sussidiaria, concessa a coloro che fuggono da violenze causate da eventi bellici, anche se non hanno tutti i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati ai sensi dell’Art. 1.A.2 sopracitato. Infatti fuggire da uno stato di violenza concomitante con una guerra non equivale letteralmente fuggire da uno stato persecutorio. Nell’Unione Europea, così, ha diritto alla protezione sussidiaria chiunque soffra di un rischio di un danno serio se tornasse nel proprio paese, danno definito come il rischio di essere sottoposto a: (a) pena di morte o esecuzione capitale; (b) tortura o trattamento inumano e degradante o punizione analoga; o (c) minaccia severa e personale per ragioni legate ad una violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato (sia civile che internazionale). Anche con l’aggiunta della protezione sussidiaria, però, siamo ben lungi dall’inclusione di tutte quelle situazioni di rischio previste nella definizione suggerita dall’UNHCR nel 2011 e nella Dichiarazione di Cartagena, non riuscendo a coprire situazioni di minaccia alla vita e all’integratà fisica della persona tout court che siano una conseguenza di situazioni di violenza generalizzata. Simili situazioni, infatti, non si liminato condizioni legate a eventi bellici o conflitti armati, o a “minaccia di tortura” (la cui definizione giuridica è peraltro spesso molto ristretta nelle legislazioni nazionali, o addirittura assente), o al rischio di subire la pena di morte (molti paesi che non riconoscono la pena capitale permettono, tuttavia, violazioni sistematiche dei diritti umani). Ci sono paesi ove la violenza generalizzata consiste in ripetute e sistematiche rivalità tra bande criminali, gruppi tribali, in permanente conflitto, attacchi terroristici, o frequenti episodi di rapimento o di sequestro, estorsioni, stupri e omicidi, con vittime specialmente in certe famiglie o gruppi (donne, minori, minoranze etniche, omosessuali), tra chi abita in un certo rione, e chi è oggetto di abuso per forzato reclutamento in attività illecite.

Abbiamo accennato a tutte queste situazioni quando esaminammo in precedenza la varietà di motivazioni non strettamente economiche che spingono le persone ad emigrare. Molti emigranti che si trovano in quelle situazioni cercheranno di far domanda di asilo per essere riconosciuti formalmente come rifugiati dalle autorità giudiziarie competenti ed usufuire della protezione internazionale loro riservata, sperando nell’applicazione di una interpretazione estensiva della nozione ufficiale di rifugiato, al di là di della Convenzione del 1951 o della protezione sussidiaria (qualora sia contemplata). Ma la decisione finale spesso dipende dalla discrezionalità dei giudici o delle commissioni competenti, nonché dalle legislazioni specifiche di ogni nazione, e spesso non è così generosa,[25] e coloro che non riescono a rientrare nella categoria dei rifugiati o analoga categoria definita dalle legislazioni nazionali, vengono trattati come migranti economici. La decisione è normalmente drastica: o vieni riconosciuto come rifugiato, o sei automanticamente trattato come migrante economico.

Tuttavia, mentre i rifugiati sono definiti con criteri molto rigidi identificati da norme precise e confermati da spesso da una giurisprudenza puntigliosa, ed in virtù di questo riconoscimento formale, concesso prima del loro arrivo o dopo l’accettazione della domanda di asilo), divengono titolari di una serie di diritti (anche grazie ad una protezione internazionale), gli immigranti economici non usufruiscono di un simile riconosciemento, anzi non sono neanche una categoria giuridica: sono “tutti gli altri”, tutti quelli che non riescono ad essere definiti come rifugiati, e quindi sono un concetto residuale.  I sistemi legislativi, infatti, spesso non solo definiscono l’immigrante economico, né li chiamano formalmente come tali. Il termine migrante economico è  piuttosto usato dai politici, per indicare chi non merita di essere considerato come rifugiato,

Abbiamo visto nei paragrafi iniziali di questa Parte VI che il termine migrazione economica corrisponde ad una nozione precisa, analizzata anche dalle teorie dell’emigrazione: si tratta di un risultato di scelte che confrontano possibili guadagni salariali, vantaggi in termini di sviluppo delle capacità umane, o vantaggi derivanti da ritmi o livelli comparati di sviluppa del paese d’arrivo rispetto a quello di partenza, Qualunque sia la variabile economica scelta come parametro di questa definizione, tuttavia, i politici che usano questo termine (e occasionalmente viene usato in modo informale anche in sede giudiziaria) non fanno riferimento a questa definizione analitica di migrazione economica, ma semplicemente solo come una categoria residuale, l’immigrante che non è considerato un rifugiato.  È una non-definizione.

In questo modo non ci si pone il problema di analizzarne le cause che lo motivano. Anzi, si salta a pié pari tutta l’analisi delle complesse ragioni che l’hanno fatto abbandonare il proprio paese, e si evita di dover verificare la natura delle scelte economiche sottostanti.  In questo modo, perciò, l’immigrante “non rifugiato” viene assimilato a chi non particolari urgenze di immigrare, se non le proprie convenienze economiche, ignorando tutte le altre motivazioni che hanno dato luogo a processi di espulsione dal paese natio, e i molti fattori che stanno determinando le attuali dinamiche migratorie.

Ci sono implicazioni penose dell’adozione di questa classificazione semplicistica tra rifugiati e migranti economici. Essa porta ad intensificare le misure difensive contro immigranti irregolari accusati di essere solo dei migranti economici. Si rischia di fomentare una diatriba infinita, una conflittualità permanente, tra migranti e autorità governative, per l’incapacità di queste ultime di captare le situazioni umane che stanno dietro la realtà degli immigranti. Questi scontri continui generano alti costi umanitari per gli immigranti e alti costi finanziari per il paese d’immigrazione. Quest’ultimo, infatti, sarà costretto ad impiegare ingenti risorse in dispute giudiziarie e misure di polizia, moltiplicando iter burocratici e strumenti di detenzione e di respingimento, che costano denaro pubblico e distolgono risorse che potrebbere essere meglio impiegate mettendo a buon uso l’immigrazione a vantaggio del paese. Nel frattempo, si esasperano le tensioni tra immigranti e residenti.  Inoltro, le misure adottate per respingere i migranti economici irregolari sono spesso destinate a fallire, proprio perché ignorano le vere ragioni dell’immigrazione da parte della maggioranza di coloro che bussano alle nostre porte, legate alle condizioni gravissime in cui versavano gli immigranti prima di partire, alle loro privazioni e ai crimini da loro subiti, alle violenze e alle minacce inferte nei loro confronti, che determinano uno stato obiettivo di necessità.

Ma tutto questo è ignorato nella presunzione che quelle persone siano solamente dei migranti economici. L’uso di questa classificazione semplificata tra due categorie nasconde l’intenzione di rigettare a priori gli immigranti irregolari, salvo quelli che riescono a passare il vaglio per la concessione dell’asilo, e quindi sono considerati rifugiati.  Forzando l’inclusione di molti immigranti in questa categoria residuale, negando loro l’accesso all’accoglienza, ma accusandoli di voler minacciare le posizioni di lavoro della manodopera nazionale, di volerci togliere risorse e servizi che appartengono ai residenti del nostro paese, l’uso frequente del termine migrante economico diviene funzionale non alla comprensione del fenomeno migratorio, ma soltanto all’adozione di posizioni difensive nei confronti degli immigranti irregolari. Si preferisce usare pregiudizi nei confronti di immigranti economici, quali la supposizione che essi non contribuiscano al benessere del paese, che non paghino le imposte o contributi sociali, e non contribuiscano allo sviluppo produttivo del paese (mandano tutti i loro guadagni nei loro paesi), saltando un’analisi accurata del loro ruolo nell’economia del paese che li riceve. A questi pregiudizi si aggiunga anche la retorica della criminalizzazione dell’immigrante irregolare, che riduce questi flussi di migranti ad un’invazione di criminali per così giustificare misure repressive.  Ma in realtà, usiamo la categoria della migrazione economica in modo improprio, senza analizzarne le modalità e le conseguenze, perché preferiamo quest’approccio “residuale” per arrivare alla conclusione che questi immigranti vanno in ogni caso respinti.

Se invece classificassimo come migranti economici soltanto coloro che effettivamente rispondono in modo prevalente alle motivazioni del modello neoclassico dell’emigrazione, come quelle analizzate in precedenza, potremmo arrivare a interessanti conclusioni:

  • in primo luogo che questi immigranti economici non sono numerosi (non ci troviamo assolutamente di fronte ad una “invasione” di questi immigranti);
  • in secondo luogo che essi contribuiscono al benessere della nostra società; e
  • in terzo luogo che così facendo ignoriamo la gran maggioranza degli immigranti irregolari, per i quali le classiche motivazioni della motivazione economica svolgono un ruolo importante ma non centrale rispetto ad altri fattori.

Emerge, in questo modo , la necessità di definire una terza categoria di immigranti, specialmente irregolari, che non si riferisca né ai rifugiati né a coloro che si possono definire prevalentemente migranti economici in senso proprio. Si tratta probabilmente di una catetoria intermedia tra i rifugiati ed i migranti economici, che ha caratterische che appartengono in parte ad ambedue le categorie, senza poter essere classificata soltanto nel primo o nel secondo gruppo. Mi riferisco a tutti coloro che:

  • sono fuggigi dal proprio paese per motivazioni complesse, ove la motivazione economica si integra con altre condizioni, come frustrazioni e sofferenze profonde, che vanno ben al di là delle variabili semplicistiche del modello economicista;
  • sono costretti ad abbandonare il proprio paese per cause oggettive, spesso come risultato di una fuga più o meno precipitosa dal proprio paese, dalla propria abitazione, dal proprio villaggio, fuga che è spesso conseguenza di eventi tragici, che includono violenze, cataclismi, epidemie, cause legate a disastri naturali, e sofferenze inaudite, ma che non riescono ad essere riconosciuti come rifugiati;
  • hanno abbandonato il proprio paese sotto la pressione di condizionamenti obiettivi legati a situazioni disperate di indigenza, di esclusione, di violenza, di sopruso, o di mancato accesso a mobilità sociale, legate alle condizioni politiche, sociali, economiche, antropologiche e ambientali nel paese d’origine;
  • sanno che il loro eventuale rimpatrio comporterebbe elevati rischi alla vita personale o alla condizione della propria famiglia, anche se il giudice di un tribunale d’immigrazione non riconosca questi rischi.
  • A volte questi immigranti vengono designate come profughi,[26] ma preferisco evitare confusioni con i rifugiati e riferirmi ai migranti di questa terza categoria di migranti come a coloro che emigrano, in primo luogo, peruno stato obiettivo di necessità dovuto a cause impellenti” per ridurre le minacce alla sicurezza e alla sopravvivenza personale e della propria famglia.

Nessun legislatore o organismo linternazionale, che io sappia, ha mai adottato una nozione di questo tipo per definire una categoria di immigranti. Eppure, mi sembra il modo più naturale di designare le condizioni prevalenti della maggioranza degli immigranti provenienti dal sud del mondo e che si affacciano alle frontiere europee, nord-americane e australiane. Questa categoria si applica in modo particolare alla gran parte degli immigranti irregolari, che spesso fuggono senza aver acquisito regolari visti d’ingresso o altra documentazione necessaria per attraversare la frontiera, anche perché l’urgenta di fuggire è tale che non ci si chiede sempre se si dispone di un visto d’entrata.[27]

La parola chiave di questa terza categoria è lo stato obiettivo di necessità, che non è uno stato soggettivo, anche se le costrizioni oggettive possano aver prodotto impatti psicologici. Si tratta perciò in ogni caso di cause gravi che motivano per l’emigrazione e che non possono essere ignorate. Questo stato di necessità rende la scelta migratoria quasi obbligatoria, anche se continua ad essere il risultato di una libera scelta: ma il margine di discrezione dell’emigrante tende a ridursi, proprio grazie alla pressione enorme esercitata da gravi cause.  Anche il puro migrante economico può forse interpretare le sue ansie in termini di necessità, ma le sue necessità percepite, puramente soggettive, che non portano a scelte obbligate: l’individuo potrebbe tranquilamente optare per non emigrare, anche se verrebbe penalizzato sul piano economico.  Qui parliamo di forze gravi che determinano uno stato di necessità da cui non è facile uscire se non emigrando. La “libera scelta personale” dei veri migranti economici è spinta prevalentemente da motivazioni personali più che da condizioni obiettive, anche se pur in quel caso fattori diversi potrebbero aver svolto un ruolo importante rispetto alle variabili puramente economiche, quali ambizioni professionali, interessi culturali, preferenze geografiche, o altre ragioni personali.

L’impellenza dello stato di necessità di questa terza categoria crea l’urgenza e l’inarrestabilità delle pressioni cui è sottoposto l’emigrante, consapevole che se non emigrerà pagherà un duro prezzo, mentre l’emigrante economico può optare per la non-emigrazione senza particolari danni personali, se non i mancati vantaggi economici. Gli emigranti della terza categoria non hanno quasi altra scelta, non sono tanto “liberi”, [28]  anche se possono restare, subendone le conseguenze.[29] Confondere chi emigra soltanto per i vantaggi economici con coloro che emigrano prevalentemente perché spinti da uno stato obiettivo di necessità dovuto a cause impellenti, fuggendo da condizioni di insicurezza, di vulnerabilità e di esclusione sociale, da difficili realtà socio-economiche, politiche e ambientali, significa fare di tutta un’erba un fascio, associando arbitrariamente necessità obiettive con ambizioni personali.

La differenza tra tutti questi termini sta nella diversità di aspetti messi in evidenza da ciascuno di loro. Parlare di emigrante per stato obiettivo di necessità significa sottolineare le cause profonde che hanno portato all’emigrazione. Parlare di profugo enfatizza la fuga da rischi imminenti alla vita della persona da cui l’emigrante   cerca di sottrarsi. Parlare di emigrante irregolare significa sottolineare l’irregolarità giuridica (dal punto di vista del paese d’immigrazione) dello stato di soggiorno dell’immigrante, e della documentazione di cui dispone quando attraversa la frontiera. Parlare di rifugiato significa riferirsi alle varie nozioni riconosciute dal diritto internazionale per la concessione di uno stato giuridico che concede protezione e tutela giuridica a certe categorie di profughi.

La differenza tra chi emigra per “libera preferenza personale” (il puro emigrante economico) e chi emigra per “uno stato obiettivo di necessità dovuto a cause impellenti” può apparire soggettiva e fragile sul piano concettuale, tanto che nessun sistema legislativo di paesi d’immigrazione l’ha adottata come base per valutare l’ammissibilità di un immigrante, preferendo l’applicazione meccanica dei requisiti previsti per riconoscere i rifugiati. Ma il peso oggettivo di queste circostanze impellenti e la forza che esse esercitano trapela nella pressione incontenibile dei flussi migratori, riproducendo la dinamica di quanto avvenne nel secolo XIX e all’inizio del secolo XX, quando milioni di migranti si diressero verso il Nord America in risposta a impellenti condizioni di povertà, miseria, disperazione, esclusione sociale e ingiustizia che colpiva grandi masse di persone in quel periodo.[30]

  1. Emigranti in stato di necessità e autonomia dei processi migratori

Chi segue i processi giudiziari nei tribunali dei paesi d’immigrazione o le procedure analoghe in commissioni analoghe che si occupano di domande di asilo per migranti provenienti dai paesi in via di sviluppo riconoscerà nella lista di motivazioni e causali indicate per definire l’emigrazione legata ad uno stato obiettivo di necessità dovuto a cause impellenti molte delle argomentazioni addotte dagli immigranti convocati a quelle udienze, mentre cercano di veder riconosciute le loro giustificazioni per acquisire lo stato di rifugiato o accedere a qualche forma di asilo o stato speciale di residente, legato a qualche forma di assistenza umanitaria (questi riconoscimenti di condizioni speciali per concedere tali stati protetti possono variare da un paese d’immigrazione all’altro).  Le testimonianze prodotte in quelle udienze, le memorie scritte presentate all’attenzione dei giudici o dei presidenti di commissione, menzionano quelle condizioni eccezionali, quegli ostacoli, quelle sofferenze, che hanno motivato l’emigrazione dal paese d’origine. A volte, quelle giustificazioni sono sufficienti per ottenere il permesso di soggiorno, anche se è spesso difficile dimostrarne la sostanza con prove che passino il vaglio imposto dal requisiti probatori richiesti in quelle sedi. Molto spesso i tribunali o le commissioni obiettano sulla stessa natura di quelle giustificazioni e sulla loro obiettività, ritenendo che non ci siano prove sufficienti per dimostrare lo stato assoluto di necessità, sollevando il dubbio che forse quelle giustificazioni siano state esagerate solo per evitare l’espatrio obbligatorio. Oppure i tribunali negano che quelle condizioni di sofferenza e di ingiustizia siano sufficienti per ottenere il permesso di residenza, ritenendo che sostanzialmente il postulante stia soltanto utilizzando scuse per coprire una semplice domanda di entrata come immigrante economico, che dovrebbe essere vagliata con i requisiti (spesso molto stretti) con cui normalmente vengono concessi permessi di lavoro a lavoratori stranieri. O infine, vengono rigettate per il fatto che, nonostante la loro consistenza obiettiva, non riescono a rientare negli “stretti” limiti previsti dalla legislazione nazionale per concedere lo stato di rifugiato o altra categoria di asilo o protezione umanitaria.

Nulla vale, in quei contesti giudiziari, fare riferimento al fatto che i flussi migratori prevalenti nel mondo attuale riflettono tendenze epocali legate a dinamiche demografiche globali. Le legislazioni nazionali dei paesi d’immigrazione non sono modellate attorno a quelle pressioni e formulano criteri di ammisssione per persone in stato particolare di necessità soltanto valutando i casi di singoli immigranti, mettendoli a confront con criteri che corrispondano al concetto riconosciuto di rifugiati o statuto similare, ignorando le tendenze collettive dell’emigrazione.  Il fatto che stiamo assistendo ad un raddoppio del volume globale di immigranti nel mondo, specialmente dai paesi in via di sviluppo, come effetto delle dinamiche demografiche di questi ultimi venticinque anni, e che ci sia una esplosione del numero di rifugiati provenienti da un numero elevatissimo di paesi, con un aumento significativo della porzione di migranti di sesso femminile e di minorenni, restano nel sottofondo di questi processi legali e non hanno alcuna rilevanza nei risultati processuali.  Avvocati internazionalisti e giudici dibattono sulle alchimie giuridiche per permettere o negare la posizione formale degli immigranti convenuti per riconoscer loro lo stato di rifugiato o per concere loro qualche permesso di residenza, ma sono costretti a limitare le loro argomentazioni al contesto definito dalle legislazioni nazionali.  Alla fin fine, l’unica possibilità per tener conto di questi processi globali, e delle loro relazioni con le complesse motivazioni addotte dagli immigranti convenuti in quelle udienze, è quando gli immigrati riescano ad essere riconosciuti formalmente come rifugiati o nei rari casi in cui il paese d’immigazione conceda qualche eccezione alle sue regole rigide ostili agli immigranti irregolari, concedendo permessi provvisori o qualche sanatoria nei loro confronti per risolvere irregolarietà passate. E quando queste “eccezioni” o “sanatorie” vengono contemplate, allora sì le tendenze globali vengono in qualche modo tenute in conto anche nel quadro delle discussioni legislative, dibattiti politici, nell’aule parlamentari o congressuali, o addirittura nei tribunali.

L’uso della terza categoria di immigranti da me suggerita – quella dei migranti che lasciano il proprio paese sotto la spinta di necessità obiettive causate da necessità impellenti – potrebbe essere vista come un tentativo di aprire le maglie dell’immigrazione in questi contesti giudiziari, per aprire l’ammissibilità di molti più immigranti cui viene rifiutato l’asilo o la concessione dello stato di rifugiato.  In tal caso, probabilmente chi dovesse trovare nelle udienze dei tribunali e delle commissioni già menzionate potrebbe obiettare a questa definizione di emigrazione per stato di necessità, considerandola come una nozione completamente assurda o inutile in sede legale. Una reazione simile potrebbe essere registrata anche a livello politico, perché accettare una definizione di migrazione legata a condizioni di “necessità obiettiva” potrebbe essere vista come un tentativo di aprire l’immigrazione a tutti, senza discriminazione.

Tuttavia, lo scopo che mi son posto suggerendo questa terza category non è quello di sostenere cause giudiziarie di immigranti che non riusciranno ad ottenere l’asilo, ma quello di identificare categorie “realistiche” per definire l’immigrato in modo da modellare politiche migratorie attorno a un quadro accurato dell’emigrazione internazionale. Trattare l’immigrante irregolare semplicemente come un criminale o come un mero immigrante economico non porta a politiche realitische, ma si traduce in una accumulazione di insuccessi, che mi suggerisce di partire da categorie concettuali che definiscono l’immigrazione per quella che è, riflettendo la realtà del mondo attuale. A mio modo di vedere, questa terza categoria di immiganti riflette meglio la realtà migratoria che è sotto i nostri occhi. Non intendo portare argomentazioni per assistere gli avvocati che rappresentano richiedenti asilo a vincere i loro casi in tribunale, ma aprire una riflessione sugli orientamenti delle politiche migratorie, per uscire da un vicolo cieco cui le correnti politiche migratorie ci stanno portando.

Il problema che pongo sul tappeto, infatti, non è come risolvere processi per la concessione dell’asilo in sede giudiziaria, ma capire perché le politiche attuali sono destinate all’insuccesso. All’inizio di questa Parte VI abbiamo attribuito questo insuccesso al fatto che le misure di contenimento dell’immigrazione ignorano la realtà dell’immigrazione. Aggiungerei qui che questi insuccessi sono dovuti in primo luogo all’inevitabilità dell’immigrazione, alla sua autonomia rispetto alle politiche di contenimento, e alla sua relativa inarrestabilità, aspetti che sono completamente ignorati, proprio per aver trascurato la vera natura dell’immigrazione. 

E non solo immigranti di diversa composizione etnica e culturale continuano ad arrivare (nonostante la crescente ostilità di gruppi xenofobi ispirati da ideologie razziste), ma restano nei paesi d’immigrazione e ne modificano le società, aumentandone la composizione multi-etnica. Le trasformazioni in atto nella nostra società globalizzata, e la rivoluzione tecnologica che ha profondamente cambiato settori come il trasporto e le telecomunicazioni, non fanno che aumentare la mobilità internazionale. Al tempo stesso stiamo assistendo ad un grande cambiamento demografico del pianeta, con i paesi ad economia avanzata che vedono ridurre sostanzialmente i loro tassi di crescita demografica, subendo un invecchiamento delle loro popolazioni, mentre la riduzione del tasso di mortalità e l’allungamento della speranza di vita crea una situazione disequilibrata di pressioni demografiche nel mondo, con processi di espulsione da paesi ad alto tasso di natalità, con la conseguente creazione di nuove dipendenze delle economie avanzate da flussi di manodopera dall’estero, non più in grado di produrre sufficiente offerta di lavoro in molti segmenti di mercato.

C’è così da aspettarsi una sostanziale domanda di immigranti, mentre i flussi di immigranti, sia regolari che irregolari, continuano ad arrivare, nonostate le politiche contenitive. Si crea perciò un dilemma per chi formula politiche migratorie: su che basi rivedere queste politiche migratorie? Il mio suggerimento è di cominciare dall’accettazione dell’immigrazione per quello che è, in modo realistico, evitando categorie concettuali che potrebbero trarre in inganno. La classificazione dei migranti in rifugiati e migranti economici è fuorviante e porta ad una irrealistica descrizione della realtà migratoria. La terza categoria di immigranti da me suggerita aiuta a meglio comprendere la questione migratoria, relazionandola più direttamente all’ipotesi di autonomia dell’immigrazione rispetto alle politiche migratorie, esaltando il legame delle scelte migratorie con le spinte fondamentali che portano i migranti a lasciare il proprio paese. Concentrarsi su muri da costruire, sui porti da chiudere o da aprire, sulle navi di naufraghi da fermare, sui campi di detenzione da costruire, sui processi di espulsione da accelerare o sui migranti da distribuire nei paesi o d’immigrazione, non aiuta molto a capire l’immigrazione: è un modo ingannevole di affrontare i problemi dell’immigrazione, e non fa che perpetuare la serie di insuccessi. L’introduzione di questa terza categoria di immigranti, quindi, lungi dall’essere così assurda, serve ad introdurre un elemento di realismo nella valutazione di alternative politiche con cui vagliare le vere condizioni in cui versano gli immigranti.

Ai legalisti, che preferiscono difendere la lettera delle attuali legislazioni d’immigrazione e che escludono l’ammissibilità di una terza categoria di immigranti, perché sarebbe troppo legata a giudizi soggettivi sulle motivazioni di fondo dei migranti, vorrei rispondere che non c’è niente di più oggettivo della considerazione della realtà dei paesi da cui quei migranti provengono, su cui questa terza categoria si basa.

  1. Sul concetto di “stati o situazioni fragili”

Può essere interessante notare che i governi dei paesi d’immigrazione, che sembrano riluttanti a riconoscere il valore oggettivo delle argomentazioni prodotte da molti immigranti irregolari quando chiedono di essere ammessi nei paesi scelti come destinazione finale, producendo immagini di sofferenza o richiamando situazioni di gravi ingiustizie subite nel paese d’origine,  riconoscono la validità di queste condizioni obiettive di sofferenza, violenza ed instabilità quando gli stessi governi affrontano, come “paesi donatori”, le discussioni internazionali sulle politiche di aiuto allo sviluppo in consessi come la Banca Mondiale, l’OCSE o il gruppo G7. In quei consessi internazionali, i paesi donatori non hanno avuto remore a riconoscere che molti paesi in via di sviluppo sono affetti da problemi cronici di instabilità e di fragilità, che ne compromettono fortemente le prospettive di crescita e di progresso sociale.  Ebbene, se guardiamo bene la natura dei problemi discussi in quel contest, parliamo degli stessi vincoli che obbligano molti emigranti ad abbandonare molti paesi di sviluppo, e che noi abbiamo riassunto nelle motivazioni di base dei migranti della terza categoria sopra suggerita. Naturalmente quei governi fanno tutto ciò sono quando si occupano (come paesi donatori) di cooperazione allo sviluppo, ma non adottano la stessa ottica quando si occupano di processi d’immigrazione.

Chiariamo qui di che cosa sto parlando. Nel dibattito che si sviluppò a partire dagli anni 90 attorno ai temi della cooperazione internazionale allo sviluppo, un esplicito riferimento fu fatto ad un gruppo specifico di paesi in via di sviluppo designati come stati fragili. Si tratta di paesi completamente disfunzionali, ove sono crollate le fondamenta per il normale funzionamento delle strutture pubbliche di base che tutelano la popolazione.  Una volta identificata questa categoria di paesi in via di sviluppo, i paesi donatori hanno riconosciuto la necessità di adottare politiche di assistenza allo sviluppo e di cooperazione finanziaria internazionale che contemplino eccezioni rispetto ai criteri normalmente adottati per l’aiuto internazionale, suggerendo condizioni più flessibili e agevolate, adottando approcci metodologici che tengano conto della natura particolarmente disfunzionale di questi paesi (priorità assoluta dell’attenzione verso i problemi di conflittualità, specificità della fase di transizione post-conflittuale, requisiti specifici dovuti a problemi di ingovernabilità, necessità specifiche di ricostruzione istituzionale, priorità assoluta del sostegno alle popolazioni più marginalizzate, della fornitura dei servizi di base e del raggiungimento di un minimo di sicurezza sociale). L’attenzione a questo tipo di problemi si traduce anche in attività di monitoraggio continuo di questi paesi da parte della comunità internazionale, con apposite analisi, indicatori e rapporti periodici.

In tutti questi casi, sono state le condizioni obiettive di quei paesi fragili a giustificare la modificazione delle regole della cooperazione internazionale, rendendole più flessibili, formulando apposite direzioni per le politiche di cooperazione. C’è da chiedersi, a questo punto, perché gli stessi paesi donatori, quando agiscono come paesi d’immigrazione, non considerano quelle condizioni obiettive dei paesi fragili non più tanto obiettive quando sono addotte dagli immigranti per avallare la loro richiesta di ammissione come immigranti nei paesi da loro scelti come paesi destinatari? Perché quelle condizioni obiettive di debolezza, instabilità, violenza e disfunzionalità di quei paesi, vengono all’improvviso trattate come condizioni soggettive degli immigranti che ne fanno uso per giustificare richieste individuali d’immigrazione?

Inviterei, perciò, chi sta riflettendo sull’approccio migliore per rivedere l’impostazione delle politiche d’immigrazione di prestare maggiore attenzione alla natura prevalente dei problemi economici, sociali e politici dei paesi da cui provengono gli immigranti. Se così facessimo, potremmo avere delle sorprese: per esempio potremmo trovare che tutti gli elementi che io ho indicato nella definizione della terza categoria di migranti da me suggerita, e che sono alla base delle motivazioni di fondo che determinano gran parte dei processi migratori dal sud del mondo, non sono altro che un modo diverso di presentare i problemi di fondo dei paesi da cui provengono quei migranti, problemi che gli stessi governi dei paesi d’immigrazione, quando operano come paesi donatori, riconoscono come urgenti e di una particolare gravità .  Se guardiamo la lista di paesi da cui la maggioranza dei migranti irregolari provengono, infatti, e la confrontiamo con la lista di paesi designati come “stati fragili”, scopriremo incredibili somiglianze. Per questo è opportune indagare con maggiore attenzione sul concetto di stati fragili.

“Stati fragili”

Stati fragili sono paesi in via di sviluppo afflitti da profonde debolezze strutturali, istituzionali e funzionali, associati a condizioni prolungate di instabilità politica, sociale ed economica, con frequenti crisi, carente capacità di governo e disfunzionalità nella gestione della cosa pubblica. Sono paesi spesso incapaci di amministrare i servizi pubblici e di fornire i servizi di base a vasti strati delle loro popolazioni, confermando una incapacità nel risolvere i problemi più elementari della società. In queste realtà, lo stato di diritto è spesso sospeso, delegittimando le istituzioni pubbliche dello stato. L’applicazione della legge è spesso arbitraria e frequente è la violazione dei diritti umani. Non è infrequente riscontrare in questi paesi formazioni irregolari di forze di sicurezza che svolgono un ruolo negativo nella gestione dell’ordine pubblico, compromettendo la legalità delle stesse forze ufficiali di sicurezza: queste formazioni irregolari a volte sono squadre segrete di servizi di sicurezza, a volte si tratta di forze clandestine private (come vigilantes), altre volte si tratta di forze collegate a bande armate criminali o legate a reti terroristiche, altre volte sono forze tribali rivali in lotta tra di loro. Queste società sono spesso frammentate in fazioni elitarie rivali, che hanno un ruolo preponderante nella gestione della società. L’interferenza di agenti stranieri o di governi di altri paesi può spesso ulteriormente complicare la situazione di questi paesi. Se in queste realtà si assiste anche ad alti tassi di crescita demografica, ne derivano enormi difficoltà sul lato del mercato del lavoro, che si traducono in forti flussi migratori sia interni che internazionali, perché sono queste pressioni demografiche, combinate con alta conflittualità interna, a produrre massicci movementi di profughi, eventualmente amplificati se sono concomitanti con gravi emergenze umanitarie e catastrofi naturali.

Una frequente caratteristica degli stati fragili, ma non necessariamente applicata a tutti i paesi indicati con questa designazione, è la presenza di una condizione spesso definita come stato fallito (failed state). Spesso è il collasso dello stato e delle sue strutture la causa delle debolezze intrinseche agli stati fragili. A loro volta, le condizioni che prevalgono negli stati fragili (come la conflittualità continua e diffusa, la prolungata depressione economica, corruzione, e così di seguito) sono fattori centrali che portano al collasso dello stato.  Con stato fallito ci riferiamo ad un paese ove gli elementi che costituiscono le componenti centrali del funzionamento della struttura politica di governo di uno stato sovrano sono in uno stato di completo collasso, rendendo impossibile la gestione normale degli affari pubblici: è il caso in cui uno stato non riesce più a svolgere la sua legittima funzione in modo appropriato.  Caratteristiche centrali di uno stato fallito sono la perdita di controllo del territorio nazionale da parte delle forze governative, o il fatto che forze alternative a quelle dello stato siano subentrate nell’esercizio fisico di tale controllo. Essenziale, perciò, in queste condizioni è l’erosione della legittima autorità delle istituzioni governative e delle decisioni che esse prendono, vanificando completamente la possibilità di fornire servizi ai propri cittadini. Governi di paesi in condizioni di stati falliti hanno difficoltà enormi a svolgere compiti di rappresentanza nei confronti di altri stati o nel contesto della comunità internazionale.C’è chiaramente una sovrapposizione tra il concetto di stato fallito e stato fragile, anche se il primo sembra più adatto per rappresentare il caso estremo di collasso completo delle strutture pubbliche e quindi si adatta meglio a rifleettere i paesi con più alto grado di fragilità, la quale, invece, può essere concepita a diversi livelli di gravità.  Questi due termini, che sono stati spesso usati come sinonimi (anche se non lo sono) si prestano in ogni modo a molte ambiguità interpretative, perché effettivamente non hanno una precisa definizione concettuale, ma vengono normalmente  illustrati con descrizioni che mettono in risalto vari aspetti problematici del disfunzionamento di una società.

Osservatori internazionali non necessariamente concordano nel modo in cui rappresentano questi concetti. Inoltre, il tentativo di misurare questi due concetti con indicatori comprensivi che riflettono questi vari aspetti con una formula che li misura con apposite variabili proxy per rifletterne l’intensità, opportunamente aggregate dando un peso specifico a ciascuna variabile, presta il fianco alla facile critica di arbitrarietà di questi pesi. In ogni caso, il termine stato fallito mette l’accento sull’implosione dello stato e del suo funzionamento, e riflette quelle realtà in cui le strutture pubbliche hanno perso la capacità di esercitare qualsiasi potere di controllo sulla società, e non sono più in grado di esercitare poteri di coercizione sulla popolazione (controllo dell’ordine pubblico, gestione della funzione giurisdizionale, incarceramento, imposizione di multe o imposizione fiscale).  Altri termini sono stati suggeriti, al posto di stati falliti (che in italiano non è un’espressione molto felice, a dire il vero): stati in condizioni di collasso, stati deboli, stati dilaniati da eventi bellici o dilagante violenza, stati autoritari o repressivi, stati disfunzionali. Questi termini non sono assolutamente sinonimi, ma sottolineano aspetti diversi delle problematiche che abbiamo considerato nell’ambito degli stati fragili. Ai fini di questo saggio, tuttavia, preferisco fare riferimento al concetto di fragilità piuttosto che a quello di fallimento dello stato o a qualunque altro termine alternative, in quanto ci dà la possibilità di esaminare una varietà maggiore di situazioni, ove le difficoltà di funzionamento e le debolezze della società possono oscillare tra livellli diversi di intensità, riflettendo situazioni diverse, che non si limitano a considerare solamente situazioni estreme ove prevale il collasso totale dello stato, ma contempla situazioni intermedie con forti disfunzionalità in alcunie aree significative, ma non in altre, situazioni spesso camuffate sotto l’apparenza di normalità dovuta al funzionamento di alcuni settori specifici della vita sociale (ma dobbiamo metterci in guardia dalle apparenze ingannevoli).[31]

Naturalmente non possiamo ignorare le difficoltà analitiche che sono state incontrate nell’uso del concetto di “stato fragile”. Non abbiamo una vera e propria definizione del concetto, ma una descrizione di una serie di possibili caratteristiche che possono delineare una situazione di fragilità. Tutto ciò può essere analiticamente un po’ confuso, e naturalmente configurazioni contrastanti possono essere suggerite per definire una situazion definita come fragile, riflettendo modi diversi in cui abbiamo raggruppato i diversi aspettti problematici di un paese fragile. Ricordiamo, inoltre, che non tutti gli aspetti “disperati” indicati nell’illustrazione sopra fatta degli stati fragili sono presenti in uno stesso paese. Ci sono paesi che soffrono di guerra civile o stanno in una condizione post-conflittuale, mentre in altri lo stato generalizzato di violenza ha tutt’altra origine, legato per esempio ad una diffusa criminalità, magari ancorata al traffico della droga. Anche il grado di gravità delle singole situazioni critiche può variare da un paese all’altro, e tali situazioni critiche possono essere più acute in certi settori e non in altri.  Inoltre, ci sono paesi che non oseremmo definire come stati fragili, che pure presentano le stesse ragioni di fragilità con riferimento ad alcune aree geografiche specifiche del territorio nazionale, anche se in altre aree geografiche la situazione sembra molto più stabile. In tali casi, c’è da chiedersi quali possano essere i motivi che rendono la fragilità di certe sottoregioni così cronica, impedendo soluzioni a problemi tanto gravi, mentre altre regioni dello stesso paese sono immuni da quei problemi. Resta il fatto che in quelle aree particolarmente afflitte da fragilità cronica, le problematiche sono simili a quelle di paesi che non esitiamo a definire stati fragili. In tali casi, forse, anziché parlare di stati fragili, dovremmo più propriamente parlare di situazioni fragili all’interno di un singolo paese.

L’illustrazione qui usata per presentare il concetto degli stati fragili (come già detto, non è una vera definizione) è il modo in cui si riferiscono ad questi paesi organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e l’OCSE, ed i governi dei paesi membri di queste organizzazioni, che concordano nel riferisti a stati fragili quando trattano di paesi che hanno quelle caretteristiche.  La Banca Mondiale e l’OCSE pubblicano periodicamente dati e rapporti[32] sugli ‘stati fragili’, e organizzano dibattiti internazionali sulle problematiche degli stati fragile, che hanno portato anche a giustificare condizioni “particolari” concesse a quei paesi per interventi di assistenza internazionale, vista l’eccezionalità della loro situazione. Infatti, le difficoltà incontrate da quei paesi a procedere in qualsiasi processo stabile di sviluppo giustificano l’uso di condizioni e modalità d’aiuto diverse.

  1. Emigrazione in stato di necessità e indice di fragilità

Poiché la fragilità di un paese riflette aspetti tanto diversi della sua realtà socio-economica e politica, diversi tentativi sono stati fatti di misurarla con indicatori complessi,[33] che selezionano caratteristiche fondamentali dello ‘stato fragile’, e arrivano ad un calcolo complessivo aggregando, con opportuna ponderazione, indicatori specifici per ciascuna caratteristica, usando variabili “proxy”.  L’arbitrarietà di questi indicatori è ovvia. Per questo vanno considerati soltanto come suggerimenti per interpretare realtà geo-politiche e socio-economiche particolarmente problematiche, ed un modo di rappresentare l’indicenza del fenomeno in termini sintetici. Un loro vantaggio è che offrono misure di gravità comparabile nel tempo (registrando miglioramenti o peggioramenti) e permettono confronti tra paesi, nonostante la diversità dei problemi in ciascun paese.  Allo stesso tempo, trattandosi di indicatori che ponderano diversi tipi di disfunzionalità, possono essere falsati dal fatto che, problematiche molto acute in alcune aree potrebbero essere ammorbidite o annullate da risultati di segno opposto in altre aree. Per questo, la gravità riscontrata in alcune aree problematiche ove contlitti e debolezze si manifestano con particolare intensità non può essere trascurata solo perché il paese non presenta analoghi problemi in altre aree. In tali casi, i disagi della popolazioni potrebbero essere in ogni caso molto elevati, e gli indicatori delle singole aree più problematiche potrebbero registrarli, anche se su altri fronti gli indicatori hanno valori meno preoccupanti, riducendone il riflesso nell’indice complessivo che potrebbe registrare la gravità specifica delle singole aree problematiche.

Per motivi illustrativi, mi soffermerò qui sulle informazioni che possono essere ottenute dall’ Indice per Stati Fragili (Fragile States Index) calcolato dal Fund for Peace (FFP), stimato per il 2019.[34]  Quell’indice individua 11 livelli diversi, 6 per paesi che registrano situazioni di fragilità e 5 per paesi considerati relativamente stabili. I valori dell’indice per ciasun livello sono qui menzionati, indicando gli intervalli di variazione:

  • Paesi ad altissimo allarme: con un Indice superiore a 110
  • Paesi ad alto allarme: con un indice tra 100 e 110
  • Paesi in allarme: con un indice tra 90 e 100
  • Paesi ad altissima allerta: con un indice tra 80 e 90
  • Paesi ad alta allerta: con un indice tra 70 e 80
  • Paesi in allerta: con un indice tra 60 e 70

 

  • Paesi stabili: con un indice tra 50 e 60
  • Paesi più stabili: con un indice tra 40 e 50
  • Paesi molto stabili: con un indice tra 30 e 40
  • Paesi sostenibili: con un indice tra 20 e 30
  • Paesi molto sostenibili: con un indice minore di 20

Quell’indice è stato calcolato per un totale di 176 paesi, riuscendo ad individuare ben 117 paesi che presentano un certo grado di fragilità, articolati nei sei gruppi sopra indicati con diversa intensità; gli altri 59 paesi sono paesi relativamente stabili (ripartiti nei cinque diversi livelli di sostenibilità delle proprie strutture societarie). Tra gli stati fragili, vi è un primo gruppo di 5 paesi (Yemen, Somalia, Sudan del Sud, Siria, Repubblica Democratica del Congo), con i valori più elevati dell’indice di fragilità, che sono considerati paesi a maggiore livello di fragilità (ad altissimo allarme). Questo gruppo è seguito da un secondo gruppo di altri 4 paesi (Repubblica Centro Africana, Chad, Sudan, Afganistan), con un indice di fragilità appena inferiore, e considerati ad alto allarme.  Non ci meraglia che questi paesi siano inclusi in queste categorie, e non è un caso che questi paesi siano anche paesi d’origine di moltissimi migranti che affollano le file dei rifugiati, anche se, allo stesso tempo, è preoccupante che vi siano casi concreti di immigranti irregolari provenienti da quei paesi che sono stati respinti o rimpatriati nei loro luoghi d’origine, nonostante la gravità delle condizioni prevalenti in quelle regioni.[35]

Ma l’elenco degli stati fragili continua, seguendo la sequenza di livelli via via inferiori di fragilità, con un gruppo ben nutrito, di ben 22 nazioni classificate come paesi in allarme (in termini di fragilità). Si tratta per la gran maggioranza di paesi africani, ad eccezione di paesi come la Corea del Nord, Pakistan, Haiti, Myanmar e Iraq.  Seguono gruppi con livelli di fragilità man mano decrescente, ma ancora considerati come stati fragili, a cominciare da un gruppo di ben 29 stati considerati paesi ad altissima allerta (che è il livello di fragilità immediatamente inferiore a quelli in allarme). Di nuovo in questo gruppo troviamo una presenza dominante di paesi africani, ma anche paesi di altre regioni come Bangladesh, Cambogia, Filippine, Nepal, Papua Nuova Guinea, Sri Lanka, Timor-Leste e Turchia dall’Asia, e Guatemala e Venezuela dall’America Latina. Di nuovo, non ci meraviglia che moltissimi migranti oggigiorno siano originari di quei paesi. Le condizioni di fragilità di quei paesi mostrano situazioni oggettive di necessità impellenti di cui abbiamo parlato in precedenza.  Questo gruppo è seguito da un altro grande gruppo di 34 paesi ad alta allerta (sempre in termini di fragilità), che include una grande varietà di realtà da tutte le regioni del mondo, e non solo dzll’Africa, con una presenza significativa di alcuni grandi paesi i cui governi probabilmente obietterebbero nella loro inclusione in questa classifica. Anche questi paesi alimentano flussi di migranti, le cui motivazioni per espatriare potrebbe essere fortemente legate a condizioni di fragilità riscontrate nel paese natio.  Lo stesso può dirsi per l’ultimo gruppo di 24 nazioni, che sono ancora considerate come paesi in allerta in base all’indice di fragilità.  

In tutti i paesi di queste ultime due categorie, evidentemente, possiamo trovare condizioni problematiche che fanno da sfondo ad una situazione di necessità impellente da cui gli emigranti cercano di fuggire. Allo stesso tempo, è anche possibile che non tutti i cittadini che emigrano da quei paesi siano motivati da ragioni legate alla fragilità di cui soffre il proprio paese. In taluni casi, migranti economici potranno essere inclusi, se si tratta di persone non particolarmente affette dalle disfunzionalità che giustificano la fragilità del paese d’origine.

Chiaramente la classificazione di un paese come fragile è discutibile. La lista proposta dal Fund for Peace è molto lunga e molti governi obietterebbero sull’inclusione del loro paese in una categoria o in un’altra di questa categorizzazione. D’altronde il concetto di stato fragile è stato criticato anche perché sottostima la capacità delle forze interne di un paese di dare risposte concrete alle proprie sfide, risposte che potrebbero modificare sostanzialmente le prospettive future di quelle nazioni, nonostante il pessimismo giustificato dalla situazione corrente. Tuttavia, l’uso di indicatori di fragilità evidenzia realtà che non dovremmo ignorare.[36] Utilizzando altri indicatori, probabilmente arriveremmo a classificazioni molto diverse dei paesi da considerare stati fragile, e perciò è impossibile attribuire ad un elenco specifico di stati fragili un valore assoluto. Si tratta però di indicazioni rivelatrici di una realtà che non possiamo ignorare, perché ha effetti dirompenti in quelle società affette da un disfunzionamento generalizzato, e che spiega il discontento diffuso in grandi strati della popolazione, con la conseguenza di produrre spinte migratorie di una notevole potenza.

Se infatti mettessimo a confronto la lista di paesi classificati come fragili utilizzando questo Indice degli Stati Fragili, o altro indice alternativo, con le statistiche sui flussi migratori per paese d’origine, troveremmo facilmente che sostanzialmente le due liste coincidono con soprendente correlazione, anche se l’entità dei flussi migratori può non avere una correlazione diretta precisa con il livello dell’Indice degli Stati Fragili. Ciò che conta non è tanto la correlazione quantitativa tra flussi migratori e livello dell’indice di fragilità (che sappiamo essere calcolato con pesi arbitrari), quanto il fatto che consistenti flussi migratori corrispondono ad un’accertata situazione di fragilità nel paese d’origine degli emigranti. Per questo ci è di conforto, ai fini della nostra analisi, constatare che la presenza significativa di migranti originari dall’Africa nei flussi che arrivano in Europa trovi una giustificazione oggettiva nel fatto che quegli stessi gpaesi africani sono stati in cui è stata riscontrato un alto livello di fragilità delle strutture nazionali. La stragrande maggioranza dei paesi africani è inclusa nei quattro raggruppamenti con livelli più alti dell’Indice degli Stati Fragili, e non meraviglia che l’Europa si trovi ad affrontare ondate di immigranti provenienti da tutti quei paesi. Al tempo stesso, riusciamo a trovare tra i flussi migratori che arrivano in Europa, in Nord America ed in Australia una presenza frequente di individui o gruppi familiari che provengono anche da altri paesi, i quali tutti sono inclusi nelle tabelle degli stati fragili, come quelle indicate dal Fund for Peace. In particolare, se confrontiamo i flussi di immigrazione dall’America Latina verso gli Stati Uniti, che hanno visto l’aumento della frequenza di migranti provenienti dal triangolo settentrionale dell’America centrale (Guatemala, Honduras, El Salvador), l’indice di fragilità per questi due paesi pone il Guatemala tra i paesi in stato di allarme in termini di fragilità, mentre l’Honduras aveva nel 2019 un indice di fragilità che lo classificava tra i paesi ad alta allerta, e un paese come El Salvador veniva incluso nella categoria di paesi solamente in allerta.

  1. Livelli di fragilità ed autonomia dell’emigrazione

In tutti questi paesi ove si registra un significativo livello di fragilità, la gente “fugge” dal proprio paese o “lascia il proprio paese sotto la pressione di forti spinte dovute a necessità impellenti”. Anche se molti migranti perseguirano anche obiettivi tipici della migrazione economica, la grande maggioranza sarà spinta da  gravi condizioni di povertà assoluta e depressione economica, acute minacce ambientali, prolungata siccità, forte pressione demografica, carenze alimentari, completa assenza di assistenza sanitaria primaria, conflitti sociali e persecuzioni, guerre e addirittura diffuse minacce legate al terrorismo internazionale.  Coloro che abbiamo classifichiato tra i rifugiati o tra gli apparnenti alla terza categoria di migranti (migranti per necessità) lasciano il proprio paese prevalentemente per ragioni che trovano spiegazione nelle condizioni fragili del luogo di provenienza. Il modello del migrante economico non riesce a dare questa spiegazione, né riesce a spiegare l’intensità e la persistenza di queste pressioni migratorie, mentre la gravità dei problemi riscontrati quando analizziamo la fragilità di un paese ci dà una spiegazione più che plausibile di questa forza irresistibile delle pressioni migratorie. 

È la fragilità di quei paesi che è alla base degli scontenti e dei disagi che obbligano molti individui ad intraprendere la via dell’emigrazione. Il parallelismo tra le motivazioni addotte dai migranti della terza categoria o dalle ragioni di urgenza dei rifugiati e le condizioni critiche che prevalgono negli stati fragili è sorprendente. Quando ci riferivamo in precedenza a condizioni o o eventi tragici da cui questi emigranti fuggono, non cercavamo di impietosire il lettore con argomentazioni soggettive e immagini emotive, ma volevamo sottolineare che quei migranti abbandonano il proprio paese per le condizioni di violenza da cui provengono, per la mancanza di mobilità sociale, per l’esclusione sociale di cui soffrono, e per la privazione economica legata a tutta una serie di condizioni politiche, sociali, economiche, antropologiche e ambientali che prevalgono nel paese d’origine, tutte condizioni che sono oggettivamente riscontrate nei paesi o nelle situazioni che abbiamo riconosciuto come affette da elevato stato di fragilità della società di appartenenza.

Tuttavia, mentre i nove paesi classificati al livello più elevato dell’Indice degli Stati Fragili mostrano debolezze e disfunzionalità su cui non abbiamo dubbi per giustificare fughe in massa di individui da quei paesi, come riscontrato dai flussi migratori irregulari e di rifugiati provenienti da quei paesi, l’associazione del processo migratorio con la fragilità di uno stato può sembrare meno ovvia negli altri casi, ove l’Indice degli Stati Fragili pur elevato, non raggiunge questi livelli estremi, come è il caso quando un paese è classificato nei quattro livelli immediatamente inferiori di fragilità. Tuttavia, per i settori della popolazione che soffrono gli effetti immediate di questa fragilità, la spinta verso l’emigrazione ha un potere elevato, come per paesi ove questa fragilità si estende a tutti gli aspetti della vita sociale. Naturalmente, ci saranno settori sociali che non percepiranno questa stessa pressione.

Ad esempio, la valutazione dello stato di violenza e la sua incidenza in un paese o l’altro per generare spinte migratorie è in qualche modo segnalata dall’indice di fragilità, ma gli specifici valori attribuiti a quell’indice ed i confronti geografici tra un paese e l’altro possono dare informazioni deformate, in quanto l’indice riflette molti aspetti diversi della fragilità, che potrebbe non essere rilevanti nello stesso modo in paesi diversi.  Occorre pertanto entrare nei dettagli delle condizioni prevalenti in ogni paese, che possono variare in aree geografiche diverse o per gruppi sociali particolarmente marginalizzati. Lì ove l’indice totale di fragilità è elevato ma non estremo, di certo ci sono aree preoccupanti di forti disfunzionalità in settori vitali, ma non necessariamente in altri: che queste condizioni riguardino rivalità tribali o etniche prevalenti in certe aree, o dilagante corruzione nella gestione della macchina pubblica, o disparità economiche e sociali, associate alla depressione economica in alcune regioni, o esclusione sociale di certe categorie di individui, non importa. Si tratta in ogni caso di disunzionalità profonde che generano profonte spinte migratorie.

Nei paesi che non stanno ai livelli più elevati di fragilità, evidentemente esistono debolezze croniche nella società che possono dar luogo a intepretazioni ambigue. L’instabilità politica, sociale ed economica cronica, tipica di uno stato fragile, potrà essere vista solamente come un inconveniente da gruppi rivali che si contengono il potere nel paese, anche se ha conseguenze enormi per le classi sociali più deboli.  La diffusa violenza che produce morti nelle strade e minaccia la sicurezza personale di gran parte della popolazione potrebbe non essere il risultato di guerre o conflitti civili, o processi rivoluzionari in atto, che troviamo in paesi al elevatissimo grado di fragilità, ma non per questo è meno preoccupante.  C’è chi potrebbe liquidarla (come fanno spesso molti giudici nei tribunali d’immigrazione negli Stati Uniti) come un mero problema di criminalità comune, di cui si dovrebbero occupare le autorità preposte e quindi non dovrebbero essere rilevante come causa di processi migratori. Ma quella violenza potrebbe essere causata da un’esasperazione della criminalità prodotta dal controllo dominante di bande criminali armate sul funzionamento della società, specialmente a livello locale, acquisendo una rilevanza politica ben al di là delle dimensioni puramente penali. In tal caso, mentre per la gente più povera questa violenza è una minaccia di alta intensità alla propria esistenza (come in una guerra civile),[37] per chi appartiene a gruppi privilegiati protetti da guardie armate, tutelati da forze dell’ordine (che potrebbero non prestare la stessa attenzione ai meno abbienti), o segretamente spalleggiati dalle stesse bande criminali (perché hanno pagato la loro protezione o hanno stabilito rapporti di corruzione o di collaborazione con quelle cosche), la situazione potrebbe essere vista con minor preoccupazione. La disfunzionalità nella gestione della giustizia potrebbe essere vista con particolare preoccupazione dalle vittime di profonde violazioni dei diritti più fondamentali, mentre potrebbe essere vista con minore ansia da chi ha maggiore influenza, per conoscenze personali, sul corso della giustizia. La violazione dei diritti umani potrebbe essere percepita solo da alcuni gruppi sociali, ma non da altri.  L’incapacità di un paese di fornire servizi sociali di base, spesso riscontrato in stati fragili, è un problema acuto per gruppi sociali che dipendono da quei servizi per la propria sopravvivenza ma potrebbe essere trascurata da chi può farne a meno perché, grazie alle risorse di famiglia, riesce a soddisfare gli stessi bisogni (assistenza medica, istruzione, sicurezza sociale) con mezzi privati.  Situazioni croniche di disoccupazione, di sotto-occupazione e di esclusione sociale così frequenti in situazioni fragili, possono marginalizzare interi gruppi sociali, mentre chi vive in settori più dinamici della società o gode dei privilegi può non percepire la gravità di quei vincoli strutturali.

Fuggire dalla violenza

Fare confronti tra le condizioni di fragilità tra paesi diversi è sempre arduo e non sempre corretto.  Paesi con più alto livello di fragilità hanno ovviamente livelli di violenza diffusa. La vita di quelle popolazioni è continuamente in pericolo, e ciò giustifica i flussi di rifugiati e di immigranti che si riversano in altri paesi.  Le condizioni politiche prevalenti lì ove non ci sono condizioni di conflitto armato non sono paragonabili con quelle di stati coivolti in guerre fratricide. Eppure molti emigranti sfuggono da situazioni di violenza, anche se la violenza non è connessa a conflitti civili. Gli emigranti dal triangolo settentrionale dell’America Centrale spesso adducono la diffusa violenza come causa primaria per emigrare, anche se i loro paesi sono classificati a livelli di fragilità meno elevati. Sono migranti motivati dalla paura di divenire vittime di bande armate, che negli ultimi anni hanno imperversato in quei tre paesi, in coincidenza con una crescente assenza della protezione legale.  L’incidenza degli omicidi ha raggiunto livelli mai visti: il tasso di frequenza degli omicidi del Guatemala è cinque volte quello degli Stati Uniti, in Honduras, dieci volte e in El Salvador, dopo una recente impennata di violenza, ben quindici volte quello registrato negli USA.[38] 

Pur se i rischi alla vita umana che si corrono in paesi come Guatemala, Honduras e El Salvador non sono paragonabili con quelli incontrati in paesi come lo Yemen e in Somalia, gli immigranti che fuggono descriveranno le notti passate nei loro villaggi in modo molto simile, quando si odono continuamente spari delle gang armate in lontananza, e descriveranno omicidi visti nella strada, o di aver assistito a rapimenti sotto i propri occhi. Si rischia sempre di essere ucciso dietro l’angolo per i motivi più banali. Una giovane che torni a casa da sola di notte rischia di essere attaccata, struprata, uccisa, nelle strade di Mogadishu come in alcune zone di un villaggio o della stessa capitale di quei paesi centro-americani, con una somiglianza incredibile: in ambedue i casi l’omicidio non verrà riportato alla polizia, e se riportato, raramente verrà indagato o perseguito per le vie giudiziarie. [39] Assistiamo ad una forma di “assenza dello stato” che non garantisce il cittadino, anche se non nelle forme di paesi ad altissimo livello di allarme in termini di fragilità. Molti emigranti da quei tre paesi annoverano vittime di assassini all’interno delle loro famiglia, proprio come in Somalia o Yemen.  Ovviamente non ci sono le tragiche statistiche di morti delle situazioni belliche, ma la lotta armata tra la MS 13 e Barrio M18, bande legate al traffico della droga, non è meno violenta, con omicidi, sequestri, stupri, estorsioni e battaglie reciproche, spesso con la connivenza della polizia locale, altre volte in un confronto armato con le forze dell’ordine nazionali. Anche quanto conflitti civili sono stati superati in quei tre paesi, violenza in altre forme si è prolungata all’infinito: le bande armate, con enorme accesso alle armi, facilitato durante i passati conflitti civili, si è esteso, con la connivenza di politici locali, con collegamenti nascosti tra il mondo della politica ed i trafficanti della droga, mentre lotte constanti tra queste bande si manifestano in attacchi, contrattacchi, e rappresaglie reciproche, con la possibile aggiunta di lotta nei confronti di popolazioni indigene (in Guatemala).

In conclusione, se un paese registra un livello di fragilità significativo, ma non estremo, è probabile che situazioni ibride come quelle appena illustrate prevarranno, ove la fragilità dello stato è percepita in modo molto netto dai settori più deboli della popolazione, che saranno più predisposti a tradurre le loro preoccupazioni in scelte migratorie, mentre altri settori più fortunati potrebbe non percepire quella stessa fragilità nello stesso modo, magari considerandola solamente come un inconveniente marginale.  L’Indice degli Stati Fragili probabilmente registrerà tutte queste situazioni, perché è costruito in modo da riflettere tutti questi aspetti critici della società, specialmente quando raggiungono livelli acuti, ma i suoi valori complessivi potrebbe dare informazioni distorte, sottovaluntando l’esistenza di sofferenze umane e disfunzionalità acute che affliggono vasti strati della popolazione, perché non sufficientemente generalizzate a tutti i gruppi sociali. E sono quelle popolazione afflitte che produrranno emigranti, bussando alle porte dei paesi d’immigrazione, anche se l’Indice degli Stati Fragili non ha raggiunto i livelli estremi dello Yemen o della Somalia.

Ciò conferma che le spinte migratorie legate ad problematiche oggettive di natura politica, sociale ed economica, che caratterizzano situazioni fragili, non sono una invenzione di singoli migranti che cercano fortuna per ambire a redditi più elevati ma sono sintimi di una forza inarrestabile generate dalle condizioni critiche in cui versano certi settori della società da cui l’emigrante proviene, anche se il paese nel suo insieme non è classificato come paese ad elevato livello di fragilità. Facendo riferimento a situazioni fragili, ci riferiamo a situazioni critiche ove debolezze, disfunzionalità e costrizioni si possono manifestare anche in paesi che presentano un’apparenza di normalità e di stabilità nelle strutture nazionali. L’uso di indici di fragilità aiuta a scoprire queste situazioni, anche se spesso bisogna scendere ad un livello di analisi più disaggregata, a livello di singole aree tematiche, o aree geografiche. Per questo, tra i flussi migratori che arrivano in Europa, in Nord America ed in Australia troviamo individui o gruppi familiari che provengono da paesi per i quali l’Indice degli Stati Fragili, pur se elevato, non raggiunge i livelli estremi. Quei flussi sono rivelatori di situazioni critiche in alcuni settori della società, legati a contrasti e contraddizioni sociali, tensioni, esclusioni, condizioni di violenza e di sfruttamento, che forse non si applicano alla totalità della popolazione ma solo a certi settori.

Segnaliamo qui che la nozione di fragilità del paese d’origine è completamente assente nel concetto convenzionale di rifugiato, che si concentra invece sul concetto di fuga (di uè n individuo) da uno stato persecutorio o, nel caso della protezione secondaria, contempla la fuga da un conflitto armato. È invice abbastanza ignorato nel dibattito corrente sull’immigrazione. Il concetto di fragilità ci permette di prendere in considerazione una varietà di costrizioni oggettive di un paese, misurarne l’intensità, e valutarne la possibile incidenza come spinte per generare spinte migratorie sotta la pressione di necessità obiettive causate da impellenti circostanze.  Se stato di diritto non è garantito a tutti i cittadini, o se dilagante è la fragilità politica ed istituzionale che minaccia la sopravvivenza di larghe masse sociali disagiate, la nozione di fragilità servirà come campanello d’allarme che sono in atto pressioni enormi che favoriranno flussi migratori, e non avremo bisogno di prove in tribunale per saperlo.

  1. Povertà ed emigrazione: alcune riflessioni

Fuggono dalla fame, si sente spesso dire per semplificare il fenomeno migratorio di massa dai paesi in via di sviluppo. C’è quindi da chiedersi se l’esplosione delle spinte migratorie non sia legata piuttosto alla povertà prevalente in molti paesi d’origine. Se così fosse, sarebbe la povertà la semplice causa di fondo delle spinte migratorie. È quindi la povertà diffusa in molti paesi condizione necessaria e sufficiente per produrre spinte migratorie verso l’estero in direzione dei paesi a più alto reddito? Questo corrisponderebbe al sentire comune che le persone emigrano prevalentemente perché i loro paesi sono poveri. Ma in che modo si manifesterebbe questo rapporto tra migrazione e povertà?[40] Se pure esistesse una correlazione statistica tra povertà ed emigrazione questo di per sé non sarebbe sufficiente a stabilire una vera relazione causale tra i due fenomeni: occorre infatti una spiegazione logica che interpreti come individui che rientrano nella definizione di “poveri” nei paesi d’origine siano portati a prendere la decisione di emigrare proprio grazie alle loro condizioni di povertà. Solo in tal caso la povertà potrebbe essere un “push factor” (ovvero, condizione sufficiente e necessaria per emigrare). Altrimenti, ipotizzare un rapporto diretto tra la condizione di povertà nei luoghi di partenza e la spinta verso l’emigrazione equivarrebbe ad affermare che la gente emigra solo perché è povera, e questa affermazione non è vera (molti poveri infatti non emigrano, anzi la maggioranza dei poveri non emigra!).

L’ipotesi di causalità diretta tra povertà ed emigrazione è coerente con il modello neo-liberale dell’emigrazione legato ai differenziali salariali, di ritmi di crescita, o di qualificazione professionale della manodopera: accettando quell’interpretazione, i poveri si troverebbero di fronte alla possibile scelta (razionale) di recarsi verso paesi più ricchi, sperando di beneficiare della spartizione della torta più grande che quella ricchezza genera. Questo è un modo deterministico di interpretare il fenomeno migratorio, che è non solo semplicistico ma anche fondamentalmente errato, poiché molti poveri (anzi la maggioranza) appunto non emigrano, né hanno alcuna intenzione di emigrare. Il fatto è che non sono coloro che vivono al livello più basso della scala sociale nei paesi in via di sviluppo, in condizioni di povertà assoluta o ai livelli più bassi in termini di povertà relativa, che prendono in considerazione la prospettiva di emigrare.  Anzi, se dovessimo classificare la popolazione dei paesi d’emigrazione per livello di povertà, probabilmente possiamo concludere che non sono i più poveri in assoluto ad emigrare, anche se ciò può inizialmente meravigliare. E questo contraddice le previsioni del modello neo-liberale.

Questo non vuol dire che gli emigranti non siano affetti da qualche aspetto della prevalente povertà del paese da cui provengono. Però non sono i più indigenti ad emigrare, salvo casi eccezionali, e per un motivo molto semplice.  Coloro che stanno al fondo della scala sociale, nella condizione più misera, spesso hanno difficoltà a concepire un disegno migratorio di ampio respiro, non disponendo né delle conoscenze necessarie per avviare un piano migratorio, né delle risorse minime richieste per finanziare la realizzazione di quel piano (emigrare costa!).  Apparte i casi legati a emergenze umanitarie, ove la fuga migratoria interessa tutti i livelli sociali, anche i più poveri, la gran parte dei flussi migratori avverrà attraverso processi complessi che escludono gli strati più indigent. Difatti, ogni migrante dovrà dare risposte valide a tutta una serie di questioni prima di intraprendere il suo viaggio, e non tutti hanno capacità e mezzi per fornire tali risposte:

  • sarà necessario preparare un piano migratorio con tempo e con cura;
  • sarà necessario avere una nozione dell’itinerario da percorrere, specialmente se include luoghi di destinazione distanti dal paese d’origine, ed avere una idea chiara dei paesi da attraversare;
  • bisognerà conoscere quali persone contattare e quale documentazione acquisire;
  • sarà necessario entrare in contatto con intermediari, con emigranti che hanno già fatto questa esperienza in passato, con persone che sono tornate nel paese d’origine;
  • occorrerà formulare aspettative sul lavoro da intraprendere nel paese di destinazione;
  • occorrerà procurarsi un passaporto, denaro, una lista di possibili contatti, un telefono cellulare, o per lo meno cibo, acqua, vestiario, una valigia o uno zaino, o anche solamente una borsa;
  • occorrerà un biglietto per il trasporto o pagare un intermediario che si occupi del trasporto;
  • occorreranno mezzi finanziari non solo per partire ma anche per sostenersi durante il viaggio.[41]

Non saranno i più poveri in grado di procurarsi tutti i mezzi finanziari necessari per emigrare, neanche a costo di indebitarsi (il loro credito è troppo basso), né avranno le conoscenze necessarie per dare risposte a tutte queste questioni. Per concepire un piano migratorio ambizioso, che comporti un viaggio di migliaia di chilometri, con l’attraversamento di deserti, il passaggio tra paesi diversi e traversate marittime, i migranti hanno bisogno di un bagaglio culturale che non appartiene a chi è al livello più basso della stratificazione sociale. Per questo, anche se provenienti da classi a reddito basso, gli emigranti saranno probabilmente gli elementi più dinamici dei gruppi sociali relativamente poveri, con prevalenza di persone giovani e di forte costituzione, e probabilmente non i più poveri. Saranno coloro che hanno migliori informazioni, maggiore curiosità e più conoscenze (spesso con un livello d’istruzione superiore a quella di chi resta), capacità intuitive (e più coraggio), per apprezzare le possibilità offerte da altri paesi.[42]  Di sovente sono i più poveri che restano e non i primi ad emigrare, salvo in caso di evacuazioni di massa legate ad emergenze umanitarie, in cui tutti fuggono.

Pur rigettando la spiegazione semplicistica di una relazione diretta tra povertà ed emigrazione, non possiamo ignorare che qualche legame tra le due esista, anche se attraverso relazioni più complesse. Nelle pagini precedenti abbiamo visto che la crescita di disuguaglianze sociali esasperate che si accompagna al processo di sviluppo socio-economico, associata a concentrazione accentuate del reddito e della ricchezza in ristretti ceti sociali o addirittura in pochi individui, è spesso caratteristica tipica di paesi affetti da una notevole fragilità, da cui processi migratori hanno spesso origine. Queste situazioni si traducono in fenomeni di esclusione sociale, così frequenti in stati o situazioni fragili: settori significativi della popolazione – pur avendo superato il livello più basso della scala sociale attraverso una prima formazione scolastica, forme elementari di assistenza medica, ed un livello di nutrizione sufficiente, ed aver accumulato qualche esperienza in attività lavorative nel paese d’origine –

Quando i più poveri emigrano

In alcune circostanze drammatiche, di fronte a improvise calamità naturali, inondazioni, siccità dilagante, guerre o conflitti civili, che portano alla distruzioni di villaggi o città, anche i più poveri fuggono, cercando rifugio nelle zone limitrofe o nei paesi circostanti. Ma in tal caso, tutti fuggono. Si tratta di evacuazioni di massa, il fenomeno degli sfollati (Internally Displaced Persons, IDPs), che coinvolgono anche gli strati più poveri della società. Alcuni, diverranno rifugiati se varcheranno la frontiera del paese confinante.  Ma normalmente non andranno molto lontano, al massimo nel prossimo villaggio, o nel prossimo distretto o nella prossima provincia, o nel prossimo stato, cercando di mettere una distanza di sicurezza tra il posto ove si sono rifugiati ed il luogo da cui son partiti, seguendo lo spostamento dei propri vicini per mettersi in salvo, senz’avere necessariamente una chiara idea della destinazione finale. Quando varcheranno la frontiera nazionale, spesso lo faranno senza rendersene conto (se vivono in regioni ove i confini non sono ben delineati, come avviene in alcune aree del continente africano o di quello asiatico): ciò che conta è garantire la propria salvezza, sia questo ancora in territorio nazionale o al di là della frontiera.

continuano a sentirsi esclusi da un processo di mobilità sociale dinamica. In tal caso, è la povertà relativa tra gruppi, e non la povertà assoluta di un individuo o del suo nucleo famigliare, che conta come fattore che motiva l’emigrazione verso altri stati: l’emigrazione sarebbe il mezzo per rompere il circolo vizioso della loro esclusione sociale, qualora si sentano “esclusi” dai benefici di un certo tipo di crescita economica.[43] Le scarse prospettive di miglioramento della posizione economica di una persona, appartenente ad un certo gruppo sociale, ad una certa classe di reddito (probabilmente medio-bassa), è probabilmente un fattore più importante che il differenziale di reddito nel determinare la scelta migratoria. Sono queste complesse relazioni tra classi sociali, che variano notevolmente a seconda del contesto nazionale, a dar luogo a processi di espulsione migratoria, specialmente se esse sono di natura conflittuale. Per questo processi di impoverimento di alcuni settori sociali legati a profondi squilibri strutturali sono più frequenti in stati o situazioni fragili, ma è difficile stabilire a priori quali siano i gruppi o gli individui più inclini ad emigrare. Se occorrono risorse per finanziare il piano migratorio, sembrerebbe logico supporte che è più facile l’emigrazione per chi è benestante – anche per l’attrazione del maggiore reddito conseguibile all’estero, che è più alta per persone ad elevata qualifica professionale (vedi la fuga dei cervelli) – ma è anche vero il contrario, perché esiste un disincentivo ad emigrare per chi detiene posizioni di potere e di elevato stato sociale, grazie ai privilegi che ne derivano, privilegi che svanirebbero facilmente all’estero, pur se compensati dai redditi maggiori.

Per questo, l’emigrazione resta un modo primario per aprire nuove prospettive a chi non può accedere facilmente ad una rapida mobilità sociale nei paesi in via di sviluppo a causa di processi di esclusione sociale e di marginalizzazione, ed eccessiva concentrazione della ricchezza e del potere, condizione esasperata nel caso di chi vive in paesi ad elevata fragilità. L’esempio delle conseguenze dell’accaparramento di terreni agricoli (land grabbing) a più elevata fertilità da parte di grandi imprese in atto in vaste zone dell’Africa ed altre regioni in via di sviluppo, sulla scia di quanto avvenne in modo analogo all’inizio della rivoluzione industriale (e quella agricola) in Europa, è significativo di come questo tipo di squilibri sociali porti ad una maggiore mobilità migratoria legata all’impoverimento nelle zone rurali, che si traduce sia in una crescente urbanizzazione che in nuove spinte d’emigrazione all’estero. Sono le popolazioni che non hanno accesso a terreni fertili in Egitto che tendono ad emigrare, più che coloro che sono proprietari di buoni terreni agricoli, anche se i primi sono più poveri dei primi, sottolineando come il legame tra povertà ed emigrazione non sia così ovvio. Sono i giovani che, anche se provenienti da classi disagiate, hanno ricevuto una prima formazione scolastica di base e hanno cercato un primo lavoro nel proprio paese come meccanico, o come saldatore, o come lavoratore agricolo specializzato, che spesso cercano l’emigrazione, perché sono frustrati dalla precarietà della loro posizione lavorativa e dalla marginalizzazione sociale in cui vivono, con grige prospettive per risalire nella scala sociale in una società molto stratificata che li obbliga a restare nelle frange depresse della società locale, dominate da sotto-occupazione e disoccupazione. Sono questi individui che, pur appartenendo al ceto più povero, sono di certo non i meno abbienti ma pur si sentono esclusi dalla mobilità sociale, vittime di un circolo vizioso di marginalizzazione. Quindi, non è tanto la povertà che determina l’inclinazione a emigrare, quanto l’incidenza di questi meccanismi di esclusione sociale,[44] tanto più deprimente in paesi o situazioni fragili.  Ma esclusione sociale e povertà non sono sinonimi.[45]

Esclusione sociale comporta difficoltà di accesso alla mobilità sociale, a causa del modo in cui l’individuo o, meglio, il nucleo familiare[46] si mette in relazione con altre componenti della società (individui, imprese, istituzioni) e del limitato accesso a certe condizioni sociali (servizi, opportunità lavorative, processi di accumulazione, partecipazione all’attività sociale e e politica, credito bancario[47]), limitando le potenzialità di sviluppo delle capacità personali e l’avvio di dinamiche per un futuro migliore. Probabilmente molti migranti dal sud del mondo sono individui che hanno cercato di salire la scala della mobilità sociale nel proprio paese, ma si sono visti rifiutati, spinti verso il basso, subendo umiliazioni che hanno reso la prospettiva migratoria una forma di liberazione da quelle costrizioni insormontabili. 

  1. Uno sguardo d’insieme alla realtà dell’emigrazione dal sud del mondo

Abbiamo esaminato finora chi sia l’emigrante proveniente dai paesi in via di sviluppo e quali siano le sue motivazioni per emigrare. Un esame che ha cercato al di là dellla retorica ostile agli immigranti.  Diamo ora uno sguardo alla consistenza quantitativa del fenomeno migratorio e alla sua distribuzione globale. In questo mi baserò essenzialmente sulle informazioni diffuse dall’IOM, che utilizza varie fonti statistiche.[48] Nel 2017, il mondo registrava 258 milioni di migranti internazionali, corrispondenti al 3,4% della popolazione mondiale, di cui circa il 30% in Europa ed un altro 30% in Asia, mentre il Nord America ne ospitava il 22%, con percentuali molto ridotte in Africa (9%),  America Latina e i Caraibi (4%), e Oceania (3%). Questi dati riflettono immigranti che stanno in un paese diverso da quello da cui provengono, e non si riferiscono ai flussi migratori in corso. Il dato del 3,4% dovrebbe tranquillizzare chi teme invasioni apocalittiche, visto che gli immigranti rappresentano una proporzione molto bassa della popolazione mondiale: la maggioranza delle persone preferisce vivere nel proprio paese.

Ma forse più significativa è la percentuale degli immigranti rispetto alla popolazione residente in ciascuna regione d’immigrazione. Può forse essere sorprendente che l’Oceania sia in prima posizione con il 21% d’immigranti rispetto alla sua popolazione, ma questo non significa l’immigrazione verso quella regione sia molto elevata, ma che la popolazione che vive in Oceania è molto scarsa, per cui anche modesti flussi migratori hanno una notevole incidenza relativa. Questo indicatore è più significativo in zone più popolose. Infatti, in seconda e terza posizione sono il Nord America (15%) e l’Europa (10%), e questa volta sì, il dato rivela intensi e prolungati processi migratori. Questa percentuale crolla in Asia e in Africa (1,7%r rispettivamente), e in America Latina (1,5%), che sono più spesso all’origine di processi di emigrazione più che d’immigrazione, e sono influenzati anche da alti valori della popolazione residente e alti tassi di crescita demografica.  È l’emigrazione da queste tre ultime regioni che maggiormente ci interessa.   

Questi dati si riferiscono agli “stock” di immigranti e non la loro dinamica, che invece richiede infomazioni sui flussi annuali. Ma quest’ultima informazione è lacunosa, inaccurata, insufficiente e inaffidabile, specialmente per i migranti irregolari, e le politiche di contenimento sono dirette ai flussi correnti e alla relativa dinamica, e non agli “stock” di immigrati.[49]  La dinamica dei “flussi” è influenzata da fattori su cui abbiamo già concentrato la nostra attenzione in questo saggio.

Ma anche le statistiche sugli stock di immigranti irregolari sono fragili. Nel Regno Unito passiamo da una stima di stock di immigrati irregolari pari a 417.000 persone nel 2007 ad un’altra stima pari a più del doppio (865.000 persone) per lo stesso anno, semplicemente utilizzando metodologie diverse. Simili differenze si riscontrano in Germania, ove nel 2014 il volume di immigranti irregolari è stato stimato a volte attorno ai 180.000 immigranti, altre volte fino ai 520.000 immigranti. In Italia, si passa da un minimo di 279.000 ed un massimo di 461.000 di immigranti irregolari stimati nel 2008. Per l’Unione Europea nel suo insieme, le stime di immigranti irregolari oscillano da 1,9 milioni a 9 milioni di persone (riferite sempre al 2008).[50] Nel 2009, una stima molto approssimativa del volume totale di migranti irregolari a livello mondiale parlava di un fenomeno che globalmente potrebbe interessare circa 50 milioni di persone, ma l’attendibilità di quella stima è dubbia, anche se offre un ordine di grandezza del fenomeno, ma di certo non è una base accurata per un’analisi quantitativa.

C’è chi ha stimato che nel 2015 circa l’1,3% della popolazione mondiale adulta avrebbe espresso intenzione di lasciare permanentemente il proprio paese nel corso dei successivi dodici mesi, formulando qualche piano di espatrio.[51] Ovviamente è molto difficile vagliare l’attendibilità di un simile dato, vista la sua fragilità metodologica. Comunque, anche se lo si utilizzasse solo per avere un ordine di grandezza di possibili piani migratori, una simile percentuale implicherebbe che nel 2015 circa 66 milioni di individui stavano considerando la scelta di emigrare nell’immediato futuro, prescindendo dalla loro nazionalità, dalle loro motivazioni, dalle cause di fondo dell’emigrazione, senza alcuna distinzione tra emigranti regolari (che avranno accesso a visti e a permessi di soggiorno) e coloro che saranno emigranti irregolari. Stiamo comunque parlando di un volume modesto di persone interessate ad emigrare rispetto alla popolazione totale. La maggioranza delle persone è sedentaria e non intende emigrare.

Se mettiamo a confronto statistiche di “stock” di migranti per grosse aggregazioni regionali (a livello continentale) rilevate in periodi alternativi, possiamo dedurre qualche segnale significativo sulla dinamica dei flussi (variazioni degli “stock” nel tempo). Il grafico riportato qui di lato, basato su stime del periodo 2010-2015 delle Nazioni Unite (DESA) per grandi regioni mondiali,[52] sottolinea il significativo numero di migranti verso paesi a reddito più elevato, sia attraverso migrazioni inter-regionali che infraregionali, cioè all’interno di una stessa regione, aspetto spesso trascurato nei dibattiti sull’emigrazione. L’emigrazione infraregionale è il primo passo di processi migratori interregionali, ed è favorita da prossimità geografica, affinità culturali, legami storici e legami di parentela.

Questi flussi mostrano che l’Africa, una delle fonti più importanti di emigrazione, ha una elevatissima migrazione infraregionale (spesso ignorata dagli osservatori europei), premessa dei trasferimenti dall’Africa subsahariana verso il nord Africa, prima di tradursi nelle traversate del Mediterraneo che portano in Europa. Il flusso di africani verso l’Europa equivale agli emigranti africani verso altri paesi africani (nel 2015 circa 16 milioni di persone). Assistiamo anche ad un aumento dell’emigrazione africana verso alcuni paesi asiatici, anche se l’Asia non è la meta preferita dagli africani.

I movimenti infraregionali africani si sono intensificati nel nuovo millennio, e ancor più dal 2010 e sono molto intensi in tutte le sub-regioni. Sono motivati dalle cause più diverse, tra cui emergono le diversità di condizioni economiche prevalenti nei paesi di partenza rispetto a quelli di destinazione, nonché fattori demografici ed ambientali. I flussi infraregionali nell’Africa occidentale sono favoriti dai seguenti fattori:

  • libera circolazione di manodopera tra i paesi membri della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS);
  • attrazione di paesi che offrono posti di lavoro in settori dinamici (es. petrolio e legname);
  • piccola dimensione geografica di molti paesi d’origine;
  • frequenti spostamenti temporanei e stagionali favoriti dall’elevata mobilità infraregionale (es. da paesi come il Niger ed il Mali verso paesi della costa come il Ghana e la Costa d’Avorio), generalmente in conseguenza delle diverse opportunità di lavoro e delle differenze salariali;
  • forti legami etnici esistenti, che generano stretta interazione tra gli abitanti della stessa zona;
  • elevata mobilità favorita dalla porosità dei confini nelle zone desertiche e semi-desertiche del Sahara, del Sahel e di molte altre zone africane;
  • varietà e complessità di push factors di natura extra-economica dovuti all’intensità di condizioni di fragilità e disfunzionalità dei paesi di partenza che spingono le popolazioni ad emigrare, anche prevaricando i limiti della zona ECOWAS.

È la persistenza di questi push factors che spinge i migranti africani ad emigrare al di là dei limiti regionali o subregionali, pur violando legislazioni o regolamenti dei paesi di transito, per recarsi verso il nord Africa e poi raggiungere le sponde del Mediterraneo. Molti flussi transitano per il Niger, anche a causa dell’elevata porosità delle sue frontiere. L’attraversamento anche senza autorizzazione di molte zone dell’Africa è favorito dalla scarsa densità demografica delle zone di transito, dalla loro frequente instabilità politica, e la mancanza di controlli di pubblica sicurezza. È così che movimenti infraregionali all’interno dell’Africa hanno coinciso con una parallela esplosione dell’emigrazione verso altri continenti, con il raddoppio del numero di africani che vive al di fuori del continente africano a partire dal 1990. Un ruolo speciale per l’emigrazione africana ha l’Europa con circa 9 milioni di immigranti africani, anche se troviamo ben 4 milioni di africani in Asia e 2 milioni in Nord America.

Anche i movimenti infraregionali nell’America Latina e nei Caraibi possono essere la prima tappa per andare altrove, generalmente negli Stati Uniti e, in misura minore (ma significativa), anche in Europa, specialmente in Spagna e, in misura marginale, in Italia. Le tendenze di quei flussi infraregionali variano da un paese all’altro, anche in alterne fasi storiche, e sono spesso legate a vicissitudini politiche. Una prima causa di tali flussi sta nei differenziali dei livelli economici raggiunti dai vari paesi e nelle differenti condizioni dei mercati del lavoro. La ristrutturazione economica di alcuni paesi sudamericani ha favorito questi movimenti, beneficiando della maggiore libertà di circolazione nel Mercato Comune del Sud (Mercosur) e nella Comunità Andina delle Nazioni (CAN).  A questo si aggiunga la crescente domanda di lavoro femminile nel settore del lavoro domestico e dell’assistenza sociale all’infanzia e agli anziani, che ha provocato la “femminizzazione” di quel movimento migratorio. Questi fenomeni hanno interessato in primo luogo l’Argentina come paese d’immigrazione, con provenienze principalmente da paesi confinanti come il Paraguay e la Bolivia (circa 2 milioni di immigranti vivono in Argentina).  Anche il Brasile, il Cile, il Venezuela ed il Messico hanno attirato lavoratori dall’area andina e dal Paraguay.[53]

Il Nord America, particolarmente gli Stati Uniti, continuano ad essere la meta preferita dell’emigrazione latino–americana: nel 2015, si stimava che un numero pari a 25 milioni di latino-americani risiedesse come emigrati nel Nord America, con un aumento significativo dal 1990, quando quei migranti si stimava che fossero circa 10 milioni. Un numero inferiore di latino-americani si riversa verso l’Europa (4,6 milioni nel 2015, ma erano solo 1,1 milioni nel 1990), mentre relativamente modesto è il flusso in entrata di immigranti nei paesi dell’America Latina e dei Caraibi provenienti da altre regioni (circa 3 milioni di persone, rimaste sostanzialmente stabili nel tempo). La composizione dei migranti latino-americani presenti in Nord America vede la prevalenza di messicani (12,5 milioni, stimati nel 2015).[54] Negli Stati Uniti, altri immigranti latino-americani provengono dal Brasile, dalla Colombia, dall’Ecuador e dal Perù, e naturalmente dal Centro America (particolarmente Guatemala, El Salvadoor e Honduras), la cui presenza si è rafforzata recentemente. Di fronte alla resistenza crescente esercitata dagli Stati Uniti ad accogliere immigranti latino-americani, il Messico (tradizionalmente paese d’emigrazione o paese di transito) ha cominciato a svolgere un ruolo sempre più attivo come paese d’immigrazione, grazie al suo più elevato livello di sviluppo economico e ai progressi raggiunti nel suo sistema di istruzione.

L’Asia è fonte primaria di flussi migratori internazionali. Il 40% dei migranti internazionali proviene infatti da paesi asiatici, e circa la metà di questi migranti (59 milioni, stimati nel 2015) risiede al di fuori della regione asiatica, mentre l’altra metà ha preferito restare in altro paese asiatico. L’emigrazione infraregionale asiatica ha mostrato una intensificazione notevole a partire dal 1990, quando consisteva di solo 35 milioni di persone. L’emigrazione, sia regolare che irregolare, proveniente dall’Asia è quanto mai complessa,[55] essendo quel continente una regione molto composita. Nonostante l’entità significativa dei movimenti infraregionali, una parte considerevole degli emigranti asiatici risiede al di fuori di quella regione, ed in primo luogo nell’America settentrionale (15,5 milioni) ed in Europa (20 milioni), mentre il continente asiatico è meta di una modesta quota di immigranti provenienti da altri continenti, in primo l’luogo dall’Europa (specialmente dalle zone europee della ex URSS, che si sono trasferiti nell’Asia centrale, sia nell’ambito della Federazione Russa che in altri stati ex sovietici), ed in minor misura dall’Africa. I flussi di emigranti asiatici riflettono le motivazioni più diverse, con una grande influenza della spinta economica, ma anche la presenza di push factors di altra natura, che variano nelle diverse realtà geografiche, e che hanno anche visto cambiamenti significativi in diverse fasi storiche.

I gruppi demografici che dominano l’emigrazione asiatica provengono dall’India e dalla Cina, ma sono una modesta percentuale della popolazione residente nei due paesi, ambedue sovrappopolati.[56] Seguono tra i migranti asiatici quelli provenienti dal Bangladesh e dal Pakistan (molti dei quali si dirigono anche in Europa e nei paesi del Golfo Arabo), nonché dall’Indonesia, dalle Filippine, dal Vietnam e dal Nepal. Da notare che, dopo i messicani, gli immigranti provenienti dalla Cina, dall’India e dalle Filippine, rappresentano la quota maggiore di immigrati negli Stati Uniti e, mentre il flusso di messicani si è ridotto moltissimo, il flusso di cinesi e di indiani continua ad essere molto sostenuto, specialmente attraverso la formula dei ricongiungimenti familiari, visti per studenti e visti temporanei di lavoro.[57] Le motivazioni economiche di questi flussi sono certamente fondamentali, vista la condizione di sovraffollamento di molti paesi asiatici, e la difficoltà a trovare sbocco lavorativo nei mercati nazionali. In tal caso, la strada migratoria è spesso la soluzione inevitabile. Ma non sempre le condizioni economiche sono l’unica spiegazione dei motivimenti dei migranti asiatici, vista l’incidenza elevata dei rifugiati, ma hanno a che vedere con le situazioni di fragilità menzionate in precedenza, ed in particolare fenomeni acuti di esclusione sociale.

Molti flussi migratori infraregionali nelle varie sotto-regioni asiatiche si traducono in spostamenti verso altre sub-regioni, sempre all’interno della stessa Asia, oppure in migrazioni interregionali verso l’Europa, l’Australia, la stessa Africa (per esempio, verso l’Africa australe o quella orientale), nonché verso il nord America, sia negli Stati Uniti che in Canada, che continuano ad essere mete preferite dei migranti asiatici.[58] Come per gli emigranti dall’Africa e dall’America Latina, anche l’emigrazione asiatica extra-regionale include una quota elevata di migranti irregolari, di difficile stima quantitativa, anche per la porosità dei confini che non permette di verificarne l’entità numerica.[59]  

Le molte rotte dei migranti irregolari dall’Asia

Come avviene anche per gli emigranti dall’Africa e dall’America Latina, molti sono i migranti irregolari di provenienza asiatica. Anche se di difficile stima quantitativa, anche per la porosità dei confini di molti paesi asiatici, questi flussi seguono diverse rotte extra-regionali nelle direzioni più diverse, verso l’Australia, l’Europa ed il nord America. Per raggiungere l’Europa spesso seguono il corridoio dell’Asia centrale e della Russia, nonché la via della seta che porta verso il Medio Oriente in direzione dei Balcani attraverso la Turchia. L’emigrazione asiatica irregolare verso l’Australia transita attraverso la Malesia, la Thailandia e l’Indonesia, ove gli emigranti possono trovare anche condizioni per una permanenza provvisoria o definitiva. 

Per il trasferimento nel Nord America, le strade perseguite sono le più diverse, compreso il trasferimento pericolosissimo attraverso container clandestini. Inutile dirlo, in questi casi, molti di questi emigranti subiscono gravi forme di sfruttamento e di vessazione, non molto dissimili da quelle denunciate per migranti che provengono da altre regioni, esaminate in altre Parti di questo saggio.

I flussi infraregionali all’interno dell’Asia centrale sono fortemente caratterizzati da spostamenti verso la Federazione Russa, che ospita circa 5 milioni di migranti nati in altri paesi dell’Asia centrale, anche grazie all’appartenenza di molti di questi paesi alla Commonwealth of Independent States (CIS), creata dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica.  Quei movimenti hanno trovato nella differente dinamica economica una spinta fondamentale, ma recentemente si sono ridotti di intensità, in conseguenza del rallentamento dell’economia russa e dei cambiamenti nelle politiche migratorie russe, che hanno limitato questo tipo di trasferimenti, anche attraverso vincoli imposti alle rimesse finanziarie che gli emigranti possono fare al proprio paese di e. Ciò ha causato un flusso di ritorno di molti migranti verso i paesi di origine o si è tradotto in una inversione della direzione dell’emigrazione centro-asiatica verso altri paesi della sottoregione (per esempio, verso il Khazakistan). Il Khazakistan ospita un numero elevato di persone nate altrove (3,55 milioni), di cui 2,35 milioni sono russi, essendo gli altri di proveniena dal Kyrgyzstan, dal Tajikistan e dall’Uzbekistan, ma è anche un paese di transito per coloro che lo usano per recarsi verso la Federazione Russa o destinazioni europee (passando per la Russia).[60]

 I flussi infraregionali dell’Asia meridionale rappresentano l’85% degli emigranti provenienti da quei paesi (14,1 milioni di persone), ed includono sia migranti regolari che migranti irregolari. La loro molla principale è rappresentata dalle opportunità differenziate di lavoro, anche se per gli immigranti irregolari le motivazioni fondamentali sono con ogni probabilità più e e legate alle situazioni di fragilità prevalenti in molti paesi d’origine.  Le traiettoie principali sono quelle dal Bangladesh verso l’India, dall’Afganistan al Pakistan, dall’India al Pakistan, e dal Nepal all’India. A questi flussi si aggiunge l’intensa migrazione interna che ha visto esplodere la popolazione urbana di tutti quei paesi, cresciuta di 130 milioni dal 2001 al 2011 (le stime per i prossimi 15 anni parlano di una possibile crescita della popolazione urbana in quell’area di 250 milioni di persone), con gli immaginabili squilibri e scompensi che si sono tradotti in ulteriori pressioni migratorie.  Nel sud-est asiatico, l’emigrazione infraregionale da paesi a più basso reddito ha visto la Malesia e Singapore come mete preferite. Altri flussi hanno interessato Thailandia, Cambogia, Laos, Myanmar ed in parte Vietnam, con migrazioni frequenti, che risalgono anche a momenti storici ben lontani nel tempo, rinnovati ancor oggi, spesso dietro la molla di motivazioni economiche, interagenti con forte instabilità e fragilità interna. 

I processi infraregionali nell’Estremo Oriente, regione che tradizionalmente alimentò massicci spostamenti demografici verso altre regioni, risentono di recenti trasformazioni nella dinamica migratoria, visto il basso tasso di crescita demografica e l’invecchiamento della popolazione di alcuni paesi, che ha generato sorprendenti cambiamenti in paesi come il Giappone e la Corea del Sud, storicamente ostili all’immigrazione (per tradizionali convinzioni nazionalistiche che hanno cercato per secoli di mantenere una omogenità culturale), con l’adozione recente di approcci sperimentali di apertura verso immigrazione temporanea. Data la dimensione sub-continentale della Cina, importanza cruciale hanno i flussi migratori all’interno di quel paese, particolarmente dalle province occidentali (ad alti tassi di crescita demografica, abbondante offerta di lavoro, bassi salari e scarsa capacità di assorbimento del settore rurale) verso quelle orientali con redditi più elevati ed un’economia più urbanizzata ed industrializzata.  Questi spostamenti possono essere considerati analoghi ai movimenti migratori infraregionali di altre zone e hanno visto migrazioni di centinaia di milioni di cinesi dalle zone rurali verso centri urbani, in risposta all’accelerata crescita industriale della Cina a partire dagli anni ‘80.

  1. Ma i fattori politici, sociali ed ambientali sono sempre più importanti

Il rapido excursus sulla dimensione quantitativa e le direzioni dei flussi migratori presentato nella sezione precedente ha sottolineato specialmente le motivazioni economiche di molti di quegli spostamenti. Sono motivazioni fondate non soltanto su differenziali salariali (senz’altro importanti), ma anche sui diversi ritmi di crescita economica, e ancor più sui differenziali nella domanda di lavoro e sulle complesse dinamiche strutturali dei paesi d’origine, spesso soggetti a stagnazione cronica che limitano le opportunità per i giovani che si affacciano al mercato del lavoro.  Sono condizioni spesso legate alla marginalizzazione di chi si sente escluso dal processo di sviluppo economico, specialmente in paesi affetti da gravi problemi strutturali, come abbiamo riscontrato negli stati fragili, o anche nei paesi nel cui ambito si annidano aree socio-economiche e geografiche afflitte da gravi condizioni di instabilità, ingiustiza e fragilità strutturale. Queste condizioni favoriscono sia migrazioni infraregionali che interregionali verso paesi a economia avanzata, anche se questi ultimi paesi non hanno necessariamente ritmi elevati di crescita, ma garantiscono pur sempre un’adeguata domanda di lavoro immigrato. Tuttavia, i flussi epocali di migranti d’oggigiorno più che riflettere dinamiche puramente economiche, sono l’effetto di problematiche più complesse, in cui i fattori economici sono intrecciati attraverso complessi legami di natura strutturale con squilibri di ogni natura, vincolati a quanto avviene nella sfera della politica, nell’ambiente e nei meccanismi puramente sociali.  

La conflittualità all’interno dei paesi d’origine è spesso citata come fattore determinante che genera fiumane di migranti irregolari registrati nelle statistiche sopra menzionate, specialmente se riferite a coloro che chiedono protezione umanitaria. È senz’altro un fattore che motiva molti migranti di provenienza africana che richiedono asilo in Europa. È la condizione di tanti profughi afgani, iracheni e siriani, che in numero crescente si affacciano alle nostre frontiere. Causa parallela è lo stato di insicurezza, citato da molti immigranti irregulari come fattore di espulsione. Rientrano in questa categoria non solo chi emigra per fuggire da guerre e da conflitti civili, ma anche da chi scappa da epidemie o da violenze e da soprusi di varia natura. Spesso lo stato di insicurezza si combina con diffusa povertà e marginalizzazione o esclusione sociale. È questo ciò che avviene in molti paesi dell’Africa sub-sahariana, del nord Africa e del Medio Oriente, ma anche nell’Asia meridionale, nel sud-est asiatico, o in America Latina (specialmente in America Centrale).  A questi fattori di natura politica e sociale, dobbiamo aggiungere le spinte migratorie, altrettanto potenti, legate a calamità naturali e altri condizionamenti ambientali che possono avere a volte valore determinante.

Abbiamo visto che tutte queste categorie rientrano nella condizioni di molti paesi che abbiamo definito stati fragili, ma anche di quanto prevale in situazioni ad alto livello di fragilità nell’ambito di paesi ove realtà più vaste e variegate vedono la coesistenza di situazioni stabili con altre fortemente fragili, anche se questa fragilità non interessa tutte le aree geografiche o tutti i settori sociali o economici. Questi push factors generano, in primo luogo, migrazioni nei paesi limitrofi, che possono poi manifestarsi anche in paesi più lontani, dapprima nei c.d. paesi di transito, spesso aliminentando grandi concentrazioni di profughi, rifugiati e immigranti irregolari, in attesa di raggiungere paesi a reddito più elevato, prescelti come destinazioni finali. Ma non di rado i paesi di transito diventano soluzioni meno transitorie di quanto inizialmente previsto. Molti di questi flussi migratori riguardano sia migranti irregolari che rifugiati. Nel 2017 l’UNHCR ha stimato un volume di rifugiati pari a 25,4 milioni, ma il numero di persone costrette a fuggire a causa di persecuzioni, conflitti, violazioni di diritti umani, calamità naturali e violenze di ogni tipo è senz’altro più alto e si è stimato che possa aver raggiunto nello stesso anno il livello di 68,5 milioni di persone (alla fine del 2017). La differenza tra queste due stime è che la prima registra profughi ufficialmente riconosciuti come rifugiati, mentre la seconda (molto più incerta) riguarda le persone che potrebbero aver diritto ad essere considerate rifugiati, se facessero domanda di asilo. In ogni caso si tratta di individui fuggiti da situazioni pericolose, qualunque sia lo stato del loro riconoscimento ufficiale come rifugiati. A queste stime, aggiungiamo anche altri statistiche. Si stima che nel corso del 2016, circa 25 milioni di persone siano state vittime di sfruttamento sotto forma di lavoro forzato o simili forme moderne di schiavitù, di cui 5 milioni sono state oggetto di traffico internazionale.  Menzioniamo questo traffico perché si tratta di fenomeni contigui: il traffico di persone da un lato e l’emigrazione dovuta a stato di necessità dall’altro. Questi due fenomeni sono spesso confusi come se coincidessero, anche se si tratta di flussi di natura profondamente diversa. L’unica cosa che questi due flussi hanno in comune è che in ambedue i casi si tratta di persone che sono costrette a lasciare il proprio paese per motivi che non legati alla ricerca di un maggior benessere economico.  Purtroppo l’informazione statistica su tutti questi flussi fenomeni è debote, spesso frammentaria e legata a fatti episodici, non sempre comprovati, e difficilmente aggregabili. Tuttavia, anche l’informazione aneddottica può avere grande valore, se rivelatrice di evacuazioni di dimensioni ragguardevoli anche se imprevedibili, vista la volatilità dei processi migratori.

Il fenomeno dei rifugiati è frequente da molti paesi dell’Africa centrale ed orientale, ove conflittualità, instabilità politica e situazioni di estrema violenza sono diffuse, causando flussi di rifugiati o sfollati (Internally Displaced Persons o IDPs) o semplicemente profughi all’interno della stessa regione o che si spostano verso altre regioni. Conflitti prolungati e apparentemente irrisolvibili hanno dilaniato molte zone per anni, e i ripetuti tentativi di rappacificazione spesso hanno raccolto solo insuccessi, prolungando situazioni di instabilità politica in modo cronico. I paesi del Corno d’Africa sono soggetti a questo tipo di dinamica, con la Somalia, l’Eritrea, il Sud Sudan in prima linea, ma anche paesi quali Sudan, Burundi, Rwanda, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo,  alimentando continui trasferimenti verso paesi limitrofi.  L’esodo dal Sud Sudan e dalla Somalia è forse quello più elevato in tutto il Corno d’Africa, a causa delle atrocità delle guerre civili nei due paesi. Il primo posto spetta al Sud Sudan, i cui rifugiati si sono riversati in numero elevato in Uganda e in Etiopia, ma anche in altri paesi della regione, con migrazioni anche al di fluori dell’Africa. I profughi somali si riversano in primo luogo in Etiopia ed in Kenia, ma sono presenti in altre zone dell’Africa, e sicuramente rappresentano una quota elevata dei rifugiati in Europa.  Altri paesi che generano molti profughi verso paesi limitrofi sono l’Eritrea, la Repubblica Centrale Africana e la Repubblica Democratica del Congo, con flussi infraregionali che si sono riversati in primo luogo nei paesi della Comunità Africana dell’Est (EAC) – in cui spiccano il Kenya, l’Uganda e la Tanzania – utilizzati come “parcheggio” o come paesi di transito, prima di dirigersi verso il medio oriente, l’Europa o l’Africa australe, seguendo principalmente quattro rotte: la rotta occidentale (via Sudan, Libia e attraversamento del Mediterraneo); la rotta meridionale (attraverso il corridoio orientale che porta in Sud Africa, attraverso lo Zimbabwe); la rotta settentrionale (via Egitto ed Israele); e la rotta orientale per lo Yemen fino all’Arabia Saudita per continuare in altre regioni. Si stima che circa 540.000 profughi siano fuggiti dalla Repubblica Democratica del Congo (RDG) fino alla fine del 2016, e che 450.000 rifugiati si siano riversati in quello stesso paese in provenienza dagli stati limitrofi. Ricordiamo che questo fenomeno migratorio dalla RDG o attraverso la RDG verso altri paesi dell’Africa occidentale si aggiunge ad un intenso movimento migratorio all’interno di quel paese (che si stima abbia interessato 2,2 milioni di persone) o all’interno di paesi limitrofi da cui gli emigranti provengono.

L’Indice degli Stati Fragili sembra essere particolarmente sensibile a queste situazioni. DIfatti, i valori di questo indice per questi paesi, valutati per il 2019, sono particolarmente elevati, anzi tra i più alti a livello mondiale (secondo la classificazione del Fund for Peace). Così troviamo paesi come Somalia (con un Indice di fragilità pari a 112.3), Sud Sudan (112.2), Repubblica Democratica del Congo (110.2), appartenenti quindi al gruppo di paesi ad altissimo allarme (in termini di fragilità). Seguono paesi nella categoria ad alto allarme, quali Repubblica Centrale Africana (108.9), Sudan (108.0),  o paesi in stato di allarme, quali Burundi (98.2), Eritrea (96.4), Etiopia (94.2), o Rwanda (87.5) (quest’ultimo classificato come paese in stato di alta allerta. Notiamo che l’Etiopia ed il Sudan sono anche stati di transito. Comunque, l’Indice degli Stati Fragili è significaticamente elevato anche per altri paesi indicati come paesi di transito. Il più fragile è lo Yemen (113.5), che da quando è divenuto teatro di un’atroce guerra non è più un paese di transito ma un netto esportatore di rifugiati. Ma i valori dell’indice di fragilità sono significativamente elevati anche per altri paesi di transito, particolarmente per Zimbabwe (99.5), Uganda (95.3), Kenya (93.5), Libia (92.2), così come per Egitto (88.4) e Tanzania (80.1), e non insignificanti per Arabia Saudita (70.4).  Questo quadro complica il quadro della dinamica migratoria, così che paesi in transito, per la loro fragilità interna, divengono essi stessi fonti di migranti.

Simili flussi sono registrati in provenienza da molti paesi dell’Africa occidentale. Molte persone abbandonano la Nigeria o paesi limitrofi per sottrarsi dalle pressioni del movimento terrorista di Boko Haram, o rispondendo a sconvolgimenti politici, tensioni etniche e dissensi che dilaniano le comunità locali all’interno di molti paesi dell’Africa centrale e occidentale. Questi movimenti interagiscono con flussi infraregionali da paesi come Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria e Repubblica Centro Africana o si riversano verso l’Europa. Di nuovo, l’Indice degli Stati Fragili ci aiuta a misurare il livello di tensione in questi paesi, con valori tipici di stati ad alto allarme di fragilità, quali Repubblica Centro Africana (108.9) e Ciad (108.5), a paesi in stato di allarme, quali Nigeria (98.5), Camerun (97.0), Niger (96.2) e Mali (94.5). Di certo, non parliamo di paesi che garantiscano molta stabilità al loro interno, e perciò non ci meraviglia che siano piattaforma di partenza di molti processi migratori.  

I flussi migratori da questi paesi sono considerati come causati in primo luogo da uno stato obiettivo di necessità impellenti che motivano le persone ad abbandonare il proprio paese per cause tra le più complesse. Ma dall’Africa occidentale registriamo anche migranti da paesi africani a reddito pro-capite medio o medio-basso (di certo non ai livelli più bassi di povertà di quel continente) come quelli originari della Costa d’Avorio, dal Ghana, dalla Nigeria e dal Senegal, spesso considerati a priori come “migranti economici”: tuttavia, circa la metà dei migranti  provenienti da questi ultimi paesi presentano domanda d’asilo una volta raggiunto il territorio europeo, e questo si spiega solo con l’esistenza di problematiche che vanno al di là della mera dinamica economica, e che includono complessi vincoli socio-economici e politici che spingono individui ad emigrare.  L’Indice degli Stati Fragili per Nigeria (98.5) e Costa d’Avorio (92.1) è ancora molto elevato, mentre per Senegal (77.2) e Ghana (65.9), pur essendo relativamente più contenuto, mostra una fragilità comunque significativa, sintoma di sacche di tensione interna. In molti di questi ultimi casi, sarà difficile veder accolte le domande di asilo, non ritenendo di poter applicare la Convenzione di Ginevra del 1951 per i rifugiati alla luce dei riscontrati fattori di espulsione da quei paesi, e ci sarà la tendenza ad assimilare le motivazioni di molti migranti come legate solo ad ambizioni di tipo economico. Eppure il fatto che questi migranti siano disposti ad accettare rischi, disagi e sacrifici immensi durante il loro viaggio, pieno di insidie, fatiche e oneri di ogni tipo, attraversando deserti o intraprendendo traversate marittime pericolose, spesso subendo umiliazioni e soprusi immani, mostrando una tenacia spesso irreversibile, giustifica per lo meno il dubbio che forse non sia la semplice ambizione per un posto di lavoro più remunerato a spiegare la scelta migratoria. L’indice di fragilità, pur nella sua incompletezza e debolezza concettuale, ci serve come monito che possano esistere squilibri in quelle società di origine degli emigranti, che probabilmente si traducono in forti spinte migratorie.

Abbiamo già commentato gli spostamenti migratori dai paesi centro-americani verso gli Stati Uniti, che hanno manifestazioni significative infraregionali, riflettendo elevati livelli di conflittualità interna, instabilità politica e sociale e insicurezza personale e familiare, che interagisce con diffusa violenza e criminalità, e inadeguata protezione dei gruppi più poveri da parte delle autorità pubbliche (in parte corrotte e sicuramente inefficienti), che generano abusi, minacce e ritorsioni continue inferte da bande criminali. Le vittime sono generalmente gruppi vulnerabili, particolarmente i minori e le donne.[61] Fattori economici (gravi condizioni socio-economiche e carenza di opportunità di lavoro) si intrecciano con fattori più squisitamente sociali e politici. Quei flussi sono aumentati di ben dieci volte dal 1980 al 2015, e rappresentano il flusso più consistente di migranti irregolari dalla regione latino-americana verso gli Stati Uniti.  Anche se la maggioranza di essi (78%) si dirige verso gli Stati Uniti, crescente è la resistenza incontrata alla frontiera meridionale americana,[62] e molti profughi rimangono in altri paesi del Centro America, quali il Messico, il Belize o il Costa Rica (il 15% dei migranti centro-americani si trovano attualmente nel Centro America). In ogni caso, significativo è il numero di profughi latino-americani che decidono di rimanere in altri paesi della stessa regione, specialmente quelli provenienti dalla Colombia, da Haiti, dal Messico, dal Guatemala, dal Venezuela e dall’Honduras. A volte le situazioni conflittuali all’interno del contesto geo-politico e sociale dei paesi di provenienza cambiano nel tempo.  Flussi di rifugiati dalla Colombia verso il Venezuela e verso l’Ecuador, legati alla conflittualità interna alla Colombia prevalente in passato, si sono invertiti recentemente con flussi di rifugiati dal Venezuela,[63] per l’intensificazione della conflittualità interna in quest’ultimo paese, mentre flussi di rifugiati da Haiti causati dai conflitti politici che per anni hanno colpito quel paese continuano a manifestarsi ancor oggi. Numerosi sono i migranti dal Nicaragua, dal Panama e da altri paesi latino-americani in direzione del Costa Rica (sia per emigrazione definitiva che temporanea), alcuni dei quali legati a problematiche socio-politiche.  Sono flussi non facili da gestire, che hanno anche registrato resistenze severe in alcuni casi, con la chiusura delle frontiere all’immigrazione, a volte estesa anche al mero transito (vedi la chiusura del confine meridionale del Nicaragua nel novembre 2015 a migranti provenienti da Cuba e da Haiti, o la chiusura del confine costarricense nei confronti di immigranti cubani nel dicembre 2015, estesa a tutti gli immigranti irregolari a partire dell’agosto 2016). È stata la difesa dagli immigranti provenienti da Haiti a motivare la posizione negativa della Repubblica Dominicana nei confronti del Global Compact for Migration recentemente lanciato dalle Nazioni Unite. Misure di chiusura sono state tentate anche dal Messico nel 2014 con il cosidetto “Piano della Frontiera Meridionale” volto a ridurre i flussi provenienti dal “triangolo settentrionale” e più di recente, su pressione degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump .[64] Altri flussi verso gli Stati Uniti che provengono dal Sud America sono quelli dalla Colombia, Ecuador, Brasile, Perù, e recentemente dal Venezuela, dalle isole caraibiche e da altre regioni (Asia e Africa).  Comunque, i profughi latino-americani, in generale, preferiscono, gli Stati Uniti come luogo di destinazione. Nel 2016 i richiedenti asilo (sia in altri paesi latino-americani che negli Stati Uniti) provenivano maggiormente da paesi come Haiti (20.000), Messico (64.000), El Salvador (62.000), Guatemala (46.000), Honduras (35.000) e Venezuela (45.000).[65] Ma la tendenza recente negli Stati Uniti di limitare la concessione dell’asilo ha fatto sì che  solo un numero modesto tra di loro riuscirà ad avere lo stato di rifugiati o simile posizione protetta, e più spesso verranno considerati meri immigranti irregolari, rischiando, come tali, l’espulsione in quanto considerati meri immigranti economici irregolari.

Come per l’Africa e per l’America Latina, molti migranti asiatici combinano motivazioni meramente economiche con motivazioni legate alla sicurezza personale e altri motivi extra-economici, a seconda del paese d’origine. Il Medio Oriente continua ad essere sia la fonte ma anche la destinazione del più grande flusso di rifugiati nel mondo. Circa il 45% dei rifugiati nel mondo intero si trova nel Medio Oriente. I rifugiati provenienti da quella regione si riversano in primo luogo nei paesi confinanti, che ne assorbono il numero maggiore. È questo il caso della Turchia, del Libano e della Giordania, nonché (per gli afgani) del Pakistan e dell’Iran, che sono paesi ove i rifugiati “parcheggiano” per molti anni.  Molti dei migranti “irregolari” che provengono dal Medio Oriente si aggiungono a quelli provenienti dal nord Africa per entrare in Europa, e meraviglia che ancora si insista ad attribuire motivazioni prevalentemente economiche ad alcuni di essi, vista l’instabilità e la fragilità di tutti questi paesi, sia d’origine che di transito, ove problemi di sicurezza personale sono dominanti.  Ai flussi prodotti da cause squisitamente politiche e sociali che hanno generato rifugiati dal medio-oriente (palestinesi, libanesi, egiziani e siriani), si sono via via aggiunti quelli provenienti dalla Libia e dal Sudan, e quelli originari da paesi più lontani (a cominciare dall’Afghanistan, dall’Iraq, dall’Iran) cui si sono aggiunti flussi asiatici provenienti dall’Asia meridionale (per esempio dal Bangladesh) e addirittura dal sudest asiatico (per esempio dalle Filippine).

Terrorismo, guerre e rifugiati

La proliferazione del terrorismo favorita da organizzazioni come Al Qaeda e ISIS ha avuto conseguenze migratorie nei paesi asiatici, con spostamenti enormi di gruppi etnici o nazionali.  I movimenti all’interno dell’Iraq sono conseguenza collaterale di avvenimenti bellici di questi ultimi decenni, intensificati con l’espansione dell’ISIS, e la successiva riconquista dei territori in precedenza occupati da quell’organizzazione terroristica. Si parla di circa 3 milioni di persone disperse in Iraq.  Globalmente, i profughi originari dalla Siria e dall’Afganistan rappresentano la porzione più elevata di rifugiati del mondo (un terzo dei rifugiati, stimati nel 2016, proveniva da questi due paesi). L’Afganistan rappresenta, forse, il paese che maggiormente è stato soggetto a questi fenomeni, con spostamenti massicci della sua popolazione all’interno del territorio nazionale. Il paese è al secondo posto nel mondo tra i rifugiati che risiedono in altri paesi (2,5 milioni alla fine del 2006). Questa è la conseguenza di una conflittualità pressocché permanente che va indietro nella storia di quel paese per molti decenni. Questo numero di rifugiati si aggiunge ad un volume particolarmente elevato di migranti interni (più di 1,5 milioni di sfollati). Infatti, l’Afganistan è al decimo posto nel mondo per IDP (un decimo della popolazione si trova nella condizione di Internally Displaced Person). I paesi limitrofi sono i maggiori destinatari di questi flussi: il Pakistan, grazie alla sua affinità culturale, religiosa, etnica e linguistica, ai suoi stretti legami economici, e alla porosità dei suoi confini terrestri, ospita il più alto numero di rifugiati afgani (1,4 milioni, alla fine del 2016), anche se ci sono stati molti ritorni dal Pakistan alla fine del periodo talibano (380.000 rifugiati siano ritornati dal Pakistan). Il ritorno di rifugiati non è stato facile, per la difficoltà di trovare lavoro, alloggio, il difficile accesso a servizi sociali, la diffusa insicurezza alimentare, il perdurare del conflitto civile con i talebani e la presenza di azioni terroristiche.  I rifugiati afgani si riversano anche in Iran (circa un milione), e naturalmente in altre regioni (in particolare in Europa), sia pure in misura minore. Il fenomeno dei rifugiati dalla Siria, legato all’ultimo conflitto civile in quel paese, si è distinto per la sua particolare intensità, in un arco di tempo breve. Nel solo 2017, più di 5,5 milioni di rifugiati siriani hanno cercato scampo all’estero, seguendo la rotta che li ha portati sulle sponde del Mediterraneo, in Giordania, Libano e Turchia, prima di tentare l’ingresso in Europa, che si aggiungono a oltre 6,3 millioni di sfollati e 184.000 richiedenti asilo. Per lo meno il 65% della popolazione siriana ha abbandonato il proprio domicilio. L’esasperazione del conflitto civile nello Yemen, con interazione con formazione terroristiche e l’intervento pesante di forze esterne, ha reso quella zona particolarmente vulnerabile alla violenza, raggiungendo livelli di insicurezza mai visti in precedenza, mentre la popolazione locale è costretta ad emigrare (il paese conta con più di 2,5 milioni di sfollati, valutati alla fine del 2015), con una tendenza ad aumentare (a marzo del 2017, gli sfollati rappresentavano il 10,4% della popolazione yemenita). Questo è un cambiamento notevole rispetto al passato, quando un numero significativo di migranti dell’Africa orientale aveva trovato lavoro in quel paese, producendo un elevato flusso di rimesse dallo Yemen verso l’Africa. Molti emigranti africani sono stati obbligati a tornare in Africa, e ad essi sono aggiunti gli yemeniti, che si sono rifugiati in Uganda, Ethiopia, Kenya e Tanzania, come destinazione immediata, anche se molti di essi premono per attraversare la RDC per arrivare nell’Africa occidentale, e proseguire verso il Mediterraneo.[66]

Prolungati conflitti civili, instabilità politica, conflitti etnici o addirittura persecuzioni di gruppi specifici, diffuso stato di violenza e repressione politica sono state alla base della dinamica migratoria che trova origine anche nell’Asia meridionale, con manifestazioni che variano considerevolmente da un paese all’altro. L’India, il Pakistan ed il Bangadesh sono paesi ove il fenomeno delle migrazioni interne ed internazionali ha sempre avuto manifestazioni particolarmente acute, fenomeno che però è comune a quasi tutti i paesi asiatici che hanno ricevuto un numero elevato di profughi e rifugiati da paesi limitrofi. La composizione nazionale degli immigranti asiatici attualmente residente nei paesi ad economia più avanzata risente di molti fenomeni storici avvenuti già parecchi decenni fa: basta pensare all’influenza che la spartizione del 1947 tra l’India e il Pakistan che seguì all’indipendenza dalla corona Britannica ha esercitato sui flussi migratori successive verso gli Stati Uniti ed il Regno Unito, ma anche verso altre regioni (da segnalare il flusso di migranti dall’India negli EAU, stimati al livello di 3,5 milioni nel 2015).

Mentre le migrazioni dal sud-est asiatico furono in passato legate a guerre o conflitti civili, questo fenomeno si è considerevolmente attenuato in questi ultimi anni, salvo che in Myanmar e Bangladesh, mentre persistente è l’emigrazione dalle Filippine. Recentemente, più circa 625.000 di Rohingya hanno attraversato la frontiera tra Myanmar e Bangladesh tra l’agosto ed il settembre del 2017. Si tratta di migrazioni in risposta ad abusi e a violazioni dei diritti umani. Molti di questi migranti sono irregolari e fanno uso di reti di trafficanti. Come risultato, troviamo paesi come la Malesia che ospita un numero significativo di rifugiati (92.000). Il maggior numero di rifugiati da questa sub-regione, negli ultimi anni, è provenuto dal Myanmar, che presenta anche un alto numero di IDP. Prima della crisi dei Rohingya, i profughi birmani si riversavano maggiormente in Thailandia, mentre più recentemente in Bangladesh. Un numero consistente di rifugiati birmani si è insediato in Australia, negli Stati Uniti ed in Canada.

l’Indice degli Stati Fragili di tutti questi paesi ci conferma la rilevanza di condizioni di fragilità nel generare flussi migratori e fuga di rifugiati: questo indice è infatti a livelli elevatissimi, come è da attendersi, in paesi come Yemen (113.5), Siria (111.5), Afganistan (105.0), seguito dall’Iraq (99.1), ma livelli relativamente molto elevati sono registrati anche in Myanmar (94.2) ed in Pakistan (94.2), seguiti da livelli sostenuti in Bangladesh (87.7), Libano (85.0), Filippine (83.1), Iran (83.0) e Turchia (80.3), e livelli non trascurabili in paesi come Giordania (75.9), India (74.4) e Thailandia (73.1). Notiamo che questi paesi sono tutti originari di flussi di emigranti, ma alcuni di essi svolgono anche il ruolo di paesi di transito o paesi di parcheggio prolungato per molti profughi.

Una condizione particolare hanno mostrato i flussi migratori asiatici che si trovano nelle zone offshore a nord dell’Australia, vista la politica adottata dal governo australiano nei confronti dei migranti irregolari costretti ad una estenuante attesa in quelle zone di “parcheggio”, nella speranza (spesso vana) di veder riconosciuta la possibilità di entrare nel paese, nonostante la disponibilità del governo australiano a ricevere un certo numero di rifugiati internazionali.[67] Si creano così condizioni tipiche prodotto dall’esternalizzazione dei confini, esaminata nella Parte V di questo saggio con riferimento al Mediterraneo, che determina situazioni particolarmente avverse ai migranti, costretti a subire elevati costi umani e materiali, e che recentemente l’amministrazione Trump sta promuovendo in Messico ed in Guatemala.[68] L’Australia e la Nuova Zelanda insieme ricevono un numero elevato di migranti da altre regioni (7 milioni di migranti per tutta l’Australia e l’Oceania), 38% dei quali provenienti dall’Asia (specialmente dalla Cina, dall’India, dal Vietnam e dalle Filippine) e 37% dall’Europa (in primo luogo dal Regno Unito), con una tendenza all’aumento della quota degli immigranti di origine asiatica. Esiste però anche una dinamica infra-regionale, che pur essendo di modeste dimensioni in termini assoluti, rappresenta un aspetto importante per la vita di piccole zone dell’Oceania. Emigranti da Toga, Samoa e Figi sono una percentuale elevatissima della popolazione locale di quelle isole, che si dirige prevalentemente verso la Nuova Zelanda, ed in minor misura verso l’Australia, spinte da motivazioni economiche (mancanza di opportunità lavorative per giovani) ma anche da fattori ambientali.  Un numero di circa 100.000 rifugiati e richiedenti asilo trova ospitalità nella regione dell’Oceania, principalmente in Australia, nella Papua Nuova Guinea e nella Nuova Zelanda, provenienti da paesi come l’Indonesia (che si concentrano nella Papua Nuova Guinea), Afganistan ed Iran (in Australia).[69]

Alle migrazioni dovute a fattori prevalentemente politici e sociali, dobbiamo aggiungere gli spostamenti legati a calamità naturali e fenomeni ambientali, la cui distribuzione geografica non è uniforme, ma dipende da molti fattori puramenti regionali, che hanno un impatto ancor più grave ove hanno la tendenza a ripetersi con particolare frequenza ed intensità. Paesi del Sahel hanno subìto trasformazioni legate all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, e ai cambiamenti climatici profondi del nostro pianeta, che hanno alterato le condizioni ambientali in cui vivono le popolazioni rurali, causando un aumento della mobilità verso le zone urbane, ma anche l’emigrazione da un paese all’altro. Nonostante un aumento recente nelle precipitazioni atmosferiche, il Sahel ha subìto i maggiori effetti di una aumentata mutevolezza delle condizioni atmosferiche, associata ad una più elevata probabilità di frequenti episodi di siccità, alternati con frequenti inondazioni. Inoltre, la forte pressione demografica favorita dalla struttura per età esercita un’enorme pressione sulle risorse naturali, intensificando lo sfruttamento dei terreni agricoli, con depapeurizzazione del suolo, aggravata dalla crescente deforestazione e da un pascolo eccessivo che favorisce l’esaurimento rapido della vegetazione, con effetti cumilativi sul cambiamento climatico e la sicurezza alimentare.[70]

Questi fattori ambientali hanno svolto un ruolo chiave nel determinare processi migratori anche dall’Africa orientale e australe, vista la crescente incidenza di fenomeni di siccità legata al fenomeno ciclico del Niño e l’eccessiva variabilità delle precipitazioni atmosferiche. Nel 2015 e nel 2016 una vera crisi umanitaria nell’Africa orientale è esplosa, con carenze significative negli approvvigionamenti alimentari. Inondazioni hanno causato vere e proprie evacuazioni in paesi come l’Etiopia (300.000 persone), il Kenia (40.000), la Somalia (70.000). Analoghi avvenimenti occorsero in Tanzania e nel Madagascar nel corso del 2016.  A volte quelle migrazioni sono state transitorie, ma molto più spesso, in combinazioni con altre cause drammatiche di natura sociale, politica ed economica già menzionate, hanno portato all’abbandono definitivo della zona d’origine.  È impossibile esaminare i flussi che dall’Africa si dirigono verso l’Europa, senza considerare il legame con questa problematica ambientale. Spinte analoghe si riscontrano anche in vari paesi dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico, anche se la fenomenologia ambientale è diversa. Molti paesi sono particolarmente vulnerabili a cicloni, terremoti, alluvioni, tsunami, terremoti e tifoni, e alle conseguenze dei cambiamenti climatici (variabilità ed intensificazione dei fenomeni metereologici, rialzo del livello del mare, erosione delle coste). Alcune isole dell’Oceania sono tra le più vulnerabili a tali fenomeni. Il rialzo del livello del mare ne minaccia la stessa esistenza. La maggiore frequenza di fenomeni di siccità incide sulle condizioni di vita. L’aumento della salinizzazione dei terreni costieri altera la produttività Agricola. La degradazione della costa legata a corrosione genera movimenti migratori sia all’interno delle isole, che in altri paesi della regione, in direzione della Nuova Zelanda, qualora l’accesso alla costa nelle singole isole sia impedito dall’urbanizzazione dilagante legata a fenomeni di sovrappopolazione.

Fenomeni ambientali spesso causano solo migrazioni temporanee, ma mescolati con dinamiche nei mercati del lavoro, processi socio-economici e problematiche socio-politiche, possono dare luogo a flussi migratori infraregionali ed interregionali inarrestabili, creando le condizioni di vere crisi umanitarie. Assistiamo in misura crescente a manifestazioni sempre più intense di queste calamità in molte regioni, specialmente se i governi non sono in grado di attenuarne gli effetti, contribuendo a spinte migratorie ulteriormente alimentate dall’elevata densità demografica e dalla dipendenza dalle risorse agricole.

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NOTE

[1] Scrivo questo testo a metà del mese di agosto 2019, in piena crisi del governo Conti in corso, e non mi è dato fare previsioni sul futuro della chiusura dei porti e dei due decreti sicurezza voluti dal ministro dell’interno Matteo Salvini, non sapendo se questo governo che li ha approvati avrà alcun futuro o quale governo lo seguirà, e se il parlamento italiano modificherà quelle decisioni. Debbo accettare il fatto che la realtà delle politiche migratorie cambia in continuazione. Ma i problemi di fondo restano.

[2] La definizione convenzionalmente riconosciuta di migrante internazionale è quella corrispondente alle “Raccomandazioni sulle Statistiche sulla Migrazione Internazionale” suggerite dalla Dipartmento di Affari Eonomici e Sociali (DESA) delle Nazioni Unite nel 1998, secondo le quali una persona è considerata un migrante internazionale se ha cambiato il paese di residenza abituale, distinguendo tra migranti di breve periodo (che hanno cambiato residenza per lo meno per tre mesi, ma meno di un anno) e migranti di lungo periodo (che cambiano residenza per un periodo non inferiore ad un anno). Vedi al riguardo OIM, “WORLD MIGRATION REPORT – 2018”, Capitolo 2.

[3] Naturalmente, anche in tal caso, l’emigrante dovrà trovare il modo per superare gli ostacoli legali per realizzare il proprio disegno migratorio, come ottenere un visto di entrata ed un permesso di soggiorno e/o di lavoro.

[4] Per una visione sintetica delle cause primarie dell’emigrazione, si veda ad esempio Khalid Koser (2007), “International Migration – A Very Short Introduction”, Oxford University Press, Oxford, e Peter Stalker (2008), “The no-nonsese guide to International Migration”,  New Internationalist, Oxford. Si veda anche B. Hanlon & T.J. Vicino (2014), “Global Migration – the basics”, Routledge, London/New York; De Haas & M.J.Miller, “The Age of Migration – International Population Movements in the Modern World”, Palgrave Macmillan, London (quinta edizione 2014) e T.J. Hatton & J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, MIT Press, Cambridge (MA).

[5] Vedi questo approccio nelle pagine di T.J. Hatton & J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit., Capitolo 11 intitolato “World Migration under Policy Constraints”, in particolare la sezione “Explaining Migration”, pp. 225-229.

[6] Questo differenziale salariale potrebbe infatti essere diverso a seconda del livello di capacità tecnica del lavoratore migrante: potrebbe essere più basso nel caso di lavoratori manuali, ma più elevato man mano che il livello di qualificazione tecnica del lavoratore diviene più alto, giustificando così una maggiore spinta all’emigrazione per la categoria di lavoratori a maggiore grado di specializzazione e preparazione professionale, che potrebbero attendersi maggiori guadagni salariali rispetto ai lavoratori manuali. Vedi a questo riguardo l’illustrazione fatta di queste relazioni in T.J. Hatton & J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit.pp. 226-227.

[7] L’emigrazione sarebbe in tal caso la risposta all’opportunità di “investire” il proprio capitale umano in un processo che richiede lo spostamento fisico in altro paese per acquisire nuove capacità produttive e nuove conoscenze (skills) che sono più facilmente accessibili quando ci si sposta in paesi a più elevato livello di istruzione, di tecnologia e di organizzazione industriale e sociale. L’emigrazione diventerebbe l’occasione per investire il proprio capitale umano in modo da migliorarne le potenzialità e la produttività, e così permettere anche l’accesso a salari e redditi più elevati, in modo analogo all’effetto generato da un investimento in un livello più elevato d’istruzione. Si tratta di rivisitare la motivazione economica tradizionale in termini in cui la conoscenza ed il capitale umano emergano come fattori dominanti.

[8] Questa interpretazione del processo migratorio si presta particolarmente a spiegare flussi migratori che interessano le generazioni più giovani di migranti, che maggiormente possono avvantaggiarsi dei miglioramenti dei livelli conoscitivi e degli aumenti della loro produttività nel lungo periodo, e sicuramente serve a spiegare decisioni migratorie ove determinante è il confronto tra realtà economicamente depresse e stagnanti nei paesi d’origine rispetto a paesi a economia dinamica con alti tassi di sviluppo. In questi ultimi paesi, si registreranno ritmi elevati di crescita della domanda di lavoro immigrate e abbondanti occasioni per lanciare attività economiche per immigranti disposti a intraprendere iniziative di lavoro non dipendente. Queste condizioni attraenti saranno in pieno contrasto con situazioni nei paesi d’origine in cui prospettive di crescita siano particolarmente scarse e poco promettenti.

[9] Una presentazione schematica di queste teorie neoclassiche dei processi migratori può essere trovata, ad esempio, in  S. Castles, H. De Haas & M.J.Miller, “The Age of Migration ecc.” cit, Capitolo 2, “Theories of Migration”, pagg. 29-31.

[10] Per i paesi in via di sviluppo, la fuga dei cervelli rappresenta senz’altro un problema più che serio, perché il mercato nazionale perde componenti preziose (e scarse) del suo capitale umano, che in teoria avrebbero potuto generare spinte propulsive allo sviluppo socio-economico di cui il paese ha estremo bisogno. Ma affinché queste spinte si possano concretizzare nel paese d’origine, utilizzando i quadri tecnici qualificati disponibili in loco, sono necessari investimenti pubblici e privati nazionali che generino adeguati posti di lavoro per quei lavoratori ed un ambiente socio-economico e culturale favorevole a questi quadri. Nella misura in cui quegli investimenti interni non si materializzino o siano carenti, e quindi non si creino le condizioni per generare i necessari posti di lavoro e l’ambiente favorevole a questa crescita, non c’è da meravigliarsi se quei lavoratori qualificati cercheranno sbocchi professionali altrove.

[11] Il termine “diaspora” non definisce rigorosamente la natura del fenomeno migratorio di massa in corso attualmente da alcune regioni del sud.

[12] Per altri aspetti economici rilevanti, la sezione dal titolo “Strutture economico-sociali, globalizzazione, squilibri sociali e flussi migratori” in questa Parte VI del saggio.

[13] Questi immigranti sono per lo più provenienti dall’India, dal Bangladesh e dal Pakistan, ma anche da paesi come Sri Lanka e Nepal. Significativa è anche la presenza nei paesi del Golfo di migranti originari dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana.  Alcuni migranti beneficiano di accordi bilaterali stipulati tra governi quali quello tra gli EAU ed il Kenia, e quello tra l’Arabia Saudita e l’Etiopia.

[14] Questi emigranti temporanei alimentano un elevato flusso di rimesse verso i paesi d’origine. L’Asia meridionale riceve il più elevato flusso di rimesse da emigranti al mondo, circa $62.7 miliardi (stima relativa all’anno 2016)

[15] Quei processi strutturali svolsero un ruolo importante nella storia dello sviluppo capitalistico in Europa ed altrove, in concomitanza con la rivoluzione agricola e industriale del XIX secolo, avviata sin dal secolo XVIII, con manifestazioni che hanno continuato nel XX secolo.  Nei paesi in via di sviluppo questo sviluppo dualistico, sia pur in forma diversa, si è manifestato intensamente ed è divenuto una loro caratteristica strutturale, con l’espansione squilibrata del settore urbano, sia in presenza che in assenza di uno sviluppo industriale, generalmente accompagnato da una esplosione del terziario nelle grandi aree metropolitane, esplosione che è occorsa anche in assenza di una crescita delle attività manufatturiere. Gli squilibri sociali che hanno accompagnato lo sviluppo dualistico hanno prodotto tensioni e fenomeni di esclusione sociale.

[16] Vedi a questo rituardo T.J. Hatton & J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit., pp. 248-252.

[17] L’uso di telefoni cellulari e di contatti Internet da parte degli immigranti è frequentissimo, e mostra come queste tecnologie, fortemente influenzate dalla globalizzazione, esercitano un grande impatto sull’emigrazione.

[18] Vediamo così tecnici giapponesi che si trasferirono in Corea ed altri paesi asiatici per trasmettere conoscenze sui processi industriali ad alta tecnologia, e tecnici europei o americani che, pur per un periodo limitato, si trasferirono in molti NICs (Newly Industrializing Countries) per il trasferimento di intere catene produttive in talune attività manifatturiere, che spiegano  l’esplosione delle esportazioni da quei paesi verso le economie avanzate occidentali.

[19] Vedi su questo punto B. Hanlon & T.J. Vicino (2014), “Global Migration – the basics”, cit. pag. 13.

[20] Mia traduzione libera in italiano dal testo originale in inglese.

[21] Vedi Convention Governing the Specific Aspects of Refugee Problems in Africa, 1969.

[22] Il riferimento agli effetti di dominazioni straniere si riferisce chiaramente a coloro che combatterono guerre d’indipendenza dalle potenze coloniali.

[23] Anche in regimi autoritari movimenti di opposizione si manifestano in varie forme di resistenza, prevalentemente clandestine, ma solo occasionalmente in forma pubblica (ad eempio in Ungheria, Cecoslovacchia e nella stessa Cina). Normalmente l’ordine pubblico è garantito dallo stato di polizia. Non possiamo dire altrettanto negli stati di recente indipendenza in Africa, ove lotte interne generato disordini interni, spesso legati a lotte etniche o tribali che si sono protratte fino ai nostri giorni, e che sono divenute una costante caratteristica della regione africana, causando una diffusa instabilità politica.

[24] Esempi allarmanti di queste tendenze si stanno registrando in questi giorni (sto scrivendo nell’agosto del 2019) sia negli Stati Uniti che in Italia, a seguito di recenti tentativi intrapresi rispettivamente dall’amministrazione Trump e dal ministro degli interni Salvini per restringere il riconoscimento dello stato di rifugiato.

[25]Negli Stati Uniti, la protezione internazionale tende ad essere applicata in modo restrittivo. Linee guida recentemente emesse dal Dipartmento di Giustizia dell’amministrazione Trump sembrano accentuare questa tendenza, ignorando, ad esempio, le minacce alla vita personale del rifugiato generate dal clima di violenza diffusa che prevale in paesi come quelli del triangolo settentrionale dell’America Centrale. Si preferisce trattare queste minacce come criminalità comune, di cui dovrebbe farsi carico le autorità locali, non giustificando la concessione di alcuno stato di rifugiato. Queste linee guida (emesse dal DOJ nel luglio del 2019) limitano l’applicazione del concetto di persecuzione sistematica a danno di membri di un gruppo sociale (prevista nella definizione della Convenzione di Ginevra del 1951), se si tratta di membri di un nucleo familiare soggetto a minacce e a violenze, in contrasto con quanto normalmente riconosciuto dalla corte d’appello del Tribunale di d’Immigrazione. Queste linee guida saranno probabilmente oggetto di dispute giudiziarie, ma confermano l’intento dell’aemministrazione Trump di restringere la concessione della protezione per rifugiati a coloro che richiedono asilo negli Stati Uniti.

[26] Il termine profughi è poco rigoroso, e generalmente viene usato con riferimento ai campi di rifugiati in paesi “terzi”. Ma quando l’immigrante viene riconosciuto come rifugiato, il termine profugo rimane ambiguo, e non si capisce se è applicabile ad altri immigranti irregolari. 

[27] Naturalmente si può emigrare per uno stato obiettivo di particolare necessità ed essere anche un emigrante regolare, se si dispone di adeguata documentazione per l’espatrio e per l’ingresso nel paese d’immigrazione.

[28] Pur permanendo la volontarietà della scelta migratoria anche nell’emigrazione per stato di necessità impellenti, le migrazioni di massa di questa natura riflettono in primo luogo l’urgenza di abbandonare il paese d’origine.

[29] Certamente, non tutti coloro che sono sottoposti a situazioni obiettive di necessità impellenti emigreranno, anche perché le ragioni per ‘restare’ sono molte: i legami familiari; la paura per ciò che non si conosce; la mancanza di soldi per affrontare il viaggio; l’attaccamento al proprio ambiente culturale; la dipendenza psicologica e sentimentale dal proprio paese natio; la speranza che, dopotutto, nonostante che tutto vada male, alla fine si riuscirà a trovare una soluzione. Emigrare significa rompere un cordone ombelicale con l’ambiente familiare e culturale che ci ha cresciuto e ci ha definito. Per questo, gli anziani normalmente non emigrano ma restano.

[30] Molti preferiscono evitare analogie con precedenti storici, ma in realtà le situazioni sono molto simili, anche se riguardano gruppi nazionali, sociali ed etnici diversi. Certo le condizioni di accoglienza erano diverse. Le politiche odierne delle porte chiuse contrastano con la politica delle porte aperte di allora, che favorì, ad esempio, l’ingresso di grandi masse d’immigrati nel Nord America. Eppure, anche allora non mancavano resistenze acute esercitate da gruppi nativisti, con forme di discriminazione e di opposizione che si assomigliano alle impostazioni sovraniste di oggi. Ma quel che è ancor più soprendente è l’analogia con le condizioni di partenza e le motivazioni degli emigranti di allora, che pur appartenendo a gruppi nazionali, linguistici, religiosi ed etnici diversi, condividevano analoghi “stati di necessità” dei migranti di oggi. Se gli abitanti dei paesi d’immigrazione riflettessero di più sulle somiglianze tra queste situazioni storiche, aumenterebbe notevolmente l’empatia per i flussi correnti di migranti che provengono dal sud, e si ridurrebbero le tensioni che nascondono, in realtà, molti pregiudizi razziali.

[31] C’è chi obietta all’uso del termine stato fallito per motivi politici e ideologici, in quanto potrebbe essere utilizzato come giustificazione per invadere un paese o interferire profondamente sulla sua gestione con interventi esterni con la scusa che uno stato non è più in grado di assolvere al proprio ruolo. Questo è occorso particolarmente quando il collasso dello stato si è accompagnato all’insediamento di nuclei armati legati al terrorismo internazionale, che hanno giustificato interventi armati esterni, in mancanza di capacità nazionali di controllare queste tendenze terroristiche. Se questo tipo di obiezione ha qualche fondamento, si basa comunque su di un pregiudizio politico, che obietta a priori a qualsiasi interferenza di potenze straniere nella definizione di ciò che viene fatto in un paese in profonda crisi, mentre il paese in questione dovrebbe affidarsi alle forze interne del paese e alla loro capacità di affrontarne i problemi con soluzioni soddisfacenti.  Non entro in questo dibattito, che non può essere affrontato in astratto, ma solo con riferimento a specifiche realtà geopolitiche. Pur riconoscendo quindi una certa verità in queste preoccupazioni, che potrebbero forse essere attutite se gli interventi esterni fossero tutelati da garanzie multilaterali (per esempio, nel contesto delle Nazioni Unite), resta il fatto che far riferimento alla fragilità interna di un paese non significa necessariamente favorire interventi esterni, in quanto può essere visto come un modo per accogliere le istanze delle vittime di questa fragilità, cioè dei gruppi sociali più deboli. Ignorare le loro sofferenze per ragioni di orgoglio nazionalistico, infatti, potrebbe essere funzionale per proteggere gruppi di potere del paese, che contrallano fazioni o approfittano del crollo delle strutture istituzionali per accumulare ricchezze o controllo.

[32] Vedi ad esempio OECD States of Fragility Report (annuale), e il sito della Banca Mondiale su Fragility, Conflict &Violence in  https://www.worldbank.org/en/topic/fragilityconflictviolence/overview#2

[33] La Banca Mondiale usa il suo Country Policy and Institutional Assessment (CPIA) Index per identificare gli stati fragili, che sostiene con il suo,programma per i LICUS (Low Income Countries Under Stress, ovvero Paesi a basso reddito in crisi). Il CPIA usa 16 diversi indicatori per misurare lo stato di fragilità di un paese, che si riferiscono a quattro diversi aspetti di funzionamento di una società, riguardanti rispettivamente: (i) la gestione economica; (ii) le strutture politiche; (iii) le politiche di inclusione sociale e giustiza sociale; e (iv) le istituzioni e la gestione del settore pubblico. Il gruppo G7 ha proposto un altro indice per misurare la fragilità degli stati basato su cinque aree distinte: (i) legittimazione politica; (ii) giustizia; (iii) sicurezza: (iv) economia; e (v) reddito e servizi. Quell’indice è stato utilizzato per classificare i paesi in cinque livelli distinti di “fragilità”, che rende la classificazione di un paese come “stato fragile” variabile da un anno all’altro. Il Fund for Peace, una ONG per la prevenzione dei conflitti violenti e la promozione di una sicurezza sostenibile ha elaborato un Indice per Stati Fragili (Fragile States Index), spesso usato a livello internazionale da ricercatori o da singoli governi, che si basa su tre categorie e sottostanti indicatori: (a) la dimensione economica; (b) la dimensione sociale; e (c) la dimensione politica. Una fonte alternativa di informazione sulla fragilità degli stati è quella pubblicata mensilmente dall’International Crisis Group (ICG) – una NGO transnazionale – che cura la preparazione di un bollettino chiamato CrisisWatch, che indica variazioni di breve periodo nella condizione di fragilità, specialmente riferita a situazioni di conflittualità. L’ICG è una NGO transnazionale.

[34] Vedi  https://fragilestatesindex.org/wp-content/uploads/2019/03/9511904-fragilestatesindex.pdf

[35] Naturalmente non voglio entrare nelle giustificazioni specifiche addotte per motivare quegli ordini di rimpatrio obbligatorio. Sospetti fondati su collegamenti dell’immigrante con reti terroristiche o coinvolgimento diretto in gravi attività criminali, ad esempio, potrebbero essere buone giustificazioni per avallare ordini di rimpatrio. Ma qualche dubbio è stato sollevato in passato sulle procedure adottate per questi rimpatri, seguite in condizioni che non offrivano sufficienti garanzie per la protezione dei diritti dei migranti.

[36] In particolare, l’uso dell’indicatore proposto dal Fund for Peace che ne cura la stima, e che prepara annualmente un’analisi della dinamica degli stati fragili, ha il vantaggio che il FFP è un’entità indipendente non controllata da governi, mentre gli indici calcolati da vari organismi multilaterali non offrono analoga garanzia di autonomia, visto che quelle istituzioni rispondono a organi direttivi di natura inter-governativa.

[37] Tutte le notte si ascoltano spari per le strade; uccisioni davanti all’uscio della casa diviene uno spettacolo non inusuale; uscire in strada dopo il tramonto è pericoloso, ed è meglio restare in casa, come se ci fosse un coprifuoco; il rischio che ogni famiglia possa essere colpita da morte violenta è elevatissimo per chi appartiene alle classi più povere, soggetti a soprusi, a ricatti, a minacce, a reclutamento forzato nelle bande di trafficanti di droga o nella prostituzione, con l’unica alternativa di doversi sottomersi per evitare rappresaglie violente, compreso il rischio di perdere la vita.

[38] Il modo diverso con cui alcune autorità d’immigrazione trattano migranti che fuggono da situazioni di violenza originata da conflitti civili rispetto a coloro che fuggono da violenza originata dalla criminalità organizzata, concedendo la protezione per rifugiati o la protezione secondaria alle vittime della prima forma di violenza, ed escludendo questa protezione alle vittime del secondo tipo di violenza, dipende, oltre che dalle legislazioni nazionali che offrono orientamenti distorti in materia, anche dal fatto che quelle legislazioni si basano su di inaccurata conoscenza della natura dell’emigrazione, e delle cause che l’ha determinata. Né vale l’obiezione che l’unica eccezione possibile a questa regola è il dimostrato rischio alla vita personale sofferto dal singolo richiedente asilo. Violenza che comporti un rischio costante per la perdita della propria vita costituisce un rischio reale non soltanto quando la pistola è puntata alle proprie tempie, ma anche quando esiste un quadro generale che moltiplica la possibilità di un simile rischio. Non si può sempre pretendere che solamente la gente ferita o minacciata con arma da fuogo abbia diritto a fuggire, se il rischio da violenza è così esteso. Lo stesso vale per i processi di esclusione sociale.  Non si può aspettare di essere in condizioni di povertà assoluta o cronica, per abbondonare un paese per uscire da situazioni ove prevalgono meccanismi che perpetuano condizioni di esclusione sociale all’infinito.

[39] Mi è capitato di parlare con molti immigranti irregolari provenienti da quei paesi convocati da un tribunale americano per l’immigrazione per la prima udienza per il processo di deportazione. Molti di loro avevano membri della propria familia (padre, madre, fratello, marito) che erano stati uccisi da bande criminali che, per vari motivi, continuavano ad imporre un sistematico stato di terrore e di condizionamento al resto della famiglia, rendendoli completamente vulnerabili a quel tipo di violenza. Sono situazioni molto diffuse in quei tre paesi centro-americani, ove bande criminali come la MS 13 e Barrio 18, in generale chiamate maras, esercitano un controllo incredibile nella vita sociale, economica e politica della società. Spesso i casi delittuosi citati da quelle vittime non sono perseguiti dalle autorità locali, sia per la mancata collaborazione della polizia locale (a volte corrotta e complice dei crimini) o per omertà delle stesse vittime che temono ritorsioni.  Le autorità pubbliche hanno programmi ufficiali di lotta contro la criminalità, ma la loro efficacia è dubbia, vista la frequente collusione di molti politici con bande criminali, l’inefficacia e l’inaffidabilità dei tribunali nazionali e delle polizie locali, per cui le vittime sono abbandonate a se stesse, completamente insicure nel proprio paese, con l’unica opzione di emigrare. Purtroppo, nella maggioranza di quei casi, i tribunali americani non considerano queste situazioni sufficienti per concedere l’asilo, interpretando quegli avvenimenti come casi di pura criminalità ordinaria, sostenendo che le autorità del paese d’origine hanno la responsabilità di proteggere i propri cittadini, e questo è sufficiente per non concedere loro la protezione internazionale riservata ai rifugiati, disconoscendo che queste persone sono soggette a condizioni persecutorie e rischiano moltissimo se torneranno nel loro paese.

[40] Naturalmente qui parliamo di povertà all’inizio del processo migratorio, cioè nel paese d’origine. Esiste anche un collegamento tra migrazione ed il rischio di confinare l’emigrante in condizioni di povertà nel paese di destinazione finale, ma questa è tutt’altra faccenda, e si riferisce alle condizioni di accoglienza nel paese d’immigrazione.

[41] Sfortunamente gli emigranti scoprono, aimé troppo tardi, che i soldi che si sono portati appresso non bastano più, sono finiti, sono stati rubati, ed il migrante è costretto a inventarsi nuovi modi per continuare il prioprio percorso, chiedendo altro danaro dalla famiglia nel paese d’origine, indebitandosi a destra e a manca, entrando in un circolo vizioso di ricatti e sfruttamenti, accettando lavori improvvisati, rendendosi disponibile per lavori umilianti, compreso la prostituzione e attività criminali, subendo condizioni di lavoro forzato o di semi-schiavitù.

[42] Se confrontiamo il bagaglio culturale degli emigranti provenienti da famiglie povere, spesso troviamo che hanno un livello di scolarizzazione superiore a quello dei genitori, magari completamente analfabeti, e hanno una maggiore dimestichezza con moderni mezzi di comunicazione di massa (telefoni cellulari, Internet), spesso sconosciuti a coloro che sono considerati al margine della società nei paesi d’emigrazione. 

[43] Vedi, ad esempio, quanto affermato da T.J. Hatton & J.G. Williamson (2005), “Global Migration and the World Economy – Two Centuries of Policy and Performance”, cit., page 240.

[44] C’è un ampia letteratura internazionale sul concetto di esclusione sociale. Per un riferimento autorevole e sintetico si veda, dalle Nazioni Unite, in seguete testo: https://www.un.org/esa/socdev/rwss/2016/chapter1.pdf

[45] Condizioni di povertà, specialmente nelle aree rurali, non sono soltanto il risultato di complesse dinamiche del processo di sviluppo. La povertà non è solo un fenomeno importato dai processi di modernizzazione.  Certe forme di povertà pre-esistono al contatto delle zone rurali con l’economia moderna. Infatti, anche le società tradizionali, che stanno ai primi gradi dello sviluppo, scarsamente monetarizzate (con prevalente uso del baratto), ove ancora prevale un sistema economico di autoconsumo (economia di sussistenza) possono essere afflitte da profonde contraddizioni interne e da rapporti intra-comunitari di tipo conflittuale, che denotano forti contrapposizioni e fenomeni di oppressione di un gruppo di potere rispetto all’altro, con manifestazioni di esclusione sociale e di sfruttamento, anche se questi squilibri non sono attribuibili alle contraddizioni dei meccanismi di sviluppo economico di tipo capitastico. È rischioso mitizzare le società primitive, considerandole una specie di Nirvana irreale.

[46] Tutte queste considerazioni vanno viste all’interno di una valutazione della scelta migratoria non come decisione individuale, ma come scelta che tiene conto delle condizioni in cui si trova l’intero nucleo familiare di cui l’emigrante fa parte nel paese d’origine. Più che dipendere dal livello di povertà del nucleo familiare, però, la decisione  migratoria sarà il giudizio dell’emigrante rispetto all’esclusione sociale dell’intera comunità familiare operata da altri soggetti della comunità o della società di appartenenza, conseguente anche a possibili rivalità sociali o economiche all’interno del contesto familiare, comunitario, e tribale, e dell’intera comunità nazionale (rivalità anche legate all’appartenenza ad una particolare classe sociale, o gruppo etnico, o religioso, o genere, o altro raggruppamento che favorisca la marginalizzazione).

[47] Nel paese d’origine l’accesso al mercato del credito può essere molto imperfetto, se è fortemente limitato a favore di gruppi elittari, escludendo famiglie cosi costrette a ricorrere all’emigrazione di alcuni membri per procurarsi i mezzi finanziari necessari per effettuare investimenti, non potendo contare su finanziamenti interni. 

[48] Vedi ad esempio https://www.iom.int/global-migration-trends

[49] Durante la sua campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016, Donald Trump occasionalmente faceva riferimento alla necessità di espellere lo “stock” di 11 milioni di immigrati irregolari che attualmente risiederebbero negli Stati Uniti, stima grossolana che includeva anche coloro che erano entrati nel paese da lunghissima data, anziché fare riferimento ai flussi correnti di immigranti irregolari, di gran lunga più contenuti.

[50] Vedi IOM, “World Migration Report 2018”, pag. 21 Table 2.

[51] Per molte di queste stime, si veda ad esempio IOM, “World Migration Report 2018”, capitolo 2 e capitol 3, e le reference ivi riportate.

[52] Vedi: www.un.org/en/development/desa/population/migration/data/empirical2/migrationflows.shtml

[53] Questi paesi dell’America del Sud sono anche meta di immigranti nati negli Stati Uniti, che comprendono sia persone di origine latino-americana che ritorna nei paesi dei loro genitori o nonni, che cittadini nord-americani che si trasferiscono in quella sotto-regione.  Le motivazioni di questi flussi, tuttavia, non sono legate ai differenziali economici che invece possono motivare flussi infra-regionali.

[54] I messicani rappresentano il secondo gruppo di emigranti nel mondo dopo gli emigranti provenienti dall’India, che detengono il primato.

[55] L’emigrazione proveniente dal continente asiatico è stata condizionata in modo particolare dalla storia dei singoli paesi. Ricordiamo, ad esempio, le conseguenze della partizione dell’India ex colonia britannica nel 1947 che portò ad una emigrazione mai vista nella storia umana che accompagnò la formazione dell’attuale India e del Pakistan, nonché la formazione successiva del Bangladesh.

[56] Gli emigranti cinesi sono al quarto posto nella classificazione mondiale di emigranti, dopo gli indiani, i messicani ed i russi. Circa 2 milioni di loro vivono negli Stati Uniti, così come moltissimi sono gli immigranti residenti nel Nord America provenienti dal sud-est asiatico e dall’India.

[57] Molti di questi immigrati temporanei usano i visti H1- B previsti per lavoratori ad alta qualificazione, visti rimasti ormai famosi per essere stati allo stesso tempo molto favoriti ed osteggiati, continuando ad essere oggetto di grandi controversie negli Stati Uniti.

[58] Una menzione specifica merita l’immigrazione asiatica verso il Canada, forse meno nota al pubblico italiano, visto che il Canada ospita una quota significativa di rifugiati dalla Cina, ed è anche meta di molti rifugiati di provenienza dalla Colombia. Oggigiorno la maggioranza degli immigrant in Canada sono asiatici, in particolare dalla Cina e dall’India, che nel 2015 hanno superato gli immigranti provenienti dal Regno Unito (che costituivano la base tradizionale dell’immigrazione in Canada), con l’aggiunta di un flusso significativo di immigranti dalle Filippine.  Gli immigrant filippini attualmente rientrano tra i primi cinque paesi d’immigrati in Canada (posto che in precedenza era rappresentato dagli immigrati di origine italiana), seguiti da coloro che provengono dal Vietnam e dal Pakistan. In passato, gli europei rappresentavano la quota dominante degli immigranti in Canada.  Il Canada rappresenta un paese d’immigrazione con un ruolo crescente della sua popolazione nata all’estero (che rappresenta il 22% della popolazione totale, stimata nel 2015). La quota di popolazione immigrata rispetto a quella totale è in crescita: nel 2000, gli immigranti rappresentavano il 18% della popolazione totale, per salire al 18,8% nel 2005 e al 20,5% nel 2010.

[59] A questi flussi migratori asiatici verso paesi ad economia avanzata se ne aggiungono altri che non rientrano nella problematica affrontata in questo saggio, perché si riversano verso paesi in via di sviluppo.  Tra questi flussi spiccano quelli di origine asiatica verso l’Africa, sia in via temporanea che permanente. Questi flussi asiatici hanno tradizionalmente interessato l’immigrazione dal sub-continente indiano verso l’Uganda, il Kenya ed il Sud Africa. Più recentemente, assistiamo ad un arrivo crescente di immigranti cinesi in Africa, che si sono concentrati prevalentemente nel Sud Africa e nel Botswana, ma che hanno interessato anche Malawi, Mozambico, Lesotho, Zimbabwe, e Swaziland. Questi flussi extra-africani si sono aggiunti al flusso di richiedenti asilo negli stessi stessi paesi da parte di migranti provenienti da altri paesi africani. Nel Sud Africa, il numero di immigranti è aumentato da 1,9 milioni nel 2010 a 3,1 milioni nel 2015.

[60] Migranti provenienti dall’Asia centrale si trovano anche al di fuori del continente asiatico: la Germania ospita attualmente più di un milione di khazaki. Un accordo del 2015, ha permesso a cittadini di paesi come il Khazakistan e Kyrgystan di emigrare nell’Unione Europea.

[61] Numerosi sono infatti gli emigranti minorenni non accompagnati e le donne che emigrano con i loro figli in età molto giovanile.

[62] Il risultato di questa resistenza crescente ha portato ad una intensificazione degli arresti di immigranti clandestini da parte delle autorità federali statunitensi per essere trasferiti nei centri di detenzione, ove molti fanno domanda di asilo, anche se pochi riescono a veder riconosciuto il proprio stato persecutorio e vengono trattati come meri “migranti economici”, e pertanto soggetti a processi di espulsione o di rimpatrio.

[63] Recentemente assistiamo all’esplosione di evacuazioni di profughi dal Venezuela, di fronte alla crisi politica e socio-economica che ha assunto in quel paese dimensioni colossali. Attualmente il numero di rifugiati e di emigrati venezuelani ha raggiunto il livello di 3,4 milioni di persone, secondo l’UNHCR e l’IOM, di cui 2,7 milioni si trovano in America Latina. Nel 2018 si stima che una media di 5.000 venezuelani al giorno hanno cercato rifugio altrove. Invertendo tentenze del passato, è la Colombia il paese ove si sono maggiormente riversati i venezuelani (1,1 milioni), seguita dal Perù (506.000), dal Cile (288.000), Ecuador (221.000), Argentina (130.000) e Brasile (96.000), ma un numero consistente di venezuelani si è riversato anche in Messico e in paesi dell’America centrale, e naturalmente chiedono di essere accolti negli Stati Uniti. Molti dei profughi venezuelani sono riusciti ad avere permessi di soggiorno in altri paesi latino-americani, e alcuni di essi hanno richieso asilo come rifugiati.

[64] Questi tentativi sono stati per lo più vani, vista la capacità di penetrazione della frontiera messicana da parte dei trafficanti di migranti, favorita da una rete di appoggi notevoli nel Messico, collegati a volte con la criminalità organizzata o anche semplicemente con la corruzione locale.

[65] A questi richiedenti asilo si aggiungano i numerosi migranti considerati irregolari provenienti dai Caraibi, dall’Asia e e dall’Africa, e che tentano di penetrare la frontiera meridionale degli Stati Uniti attraverso il Messico. Nel 2015, più di 55.000 migranti irregolari furono catturati mentre attraversavano quel confine e provenivano da paesi al di fuori dell’America Latina.

[66] La stranezza dei movimenti migratori legati al fenomeno dei rifugiati è dimostrata dal fatto che lo stesso Sud Sudan riceva molti rifugiati della sotto-regione, pur essendo fonte di un numero elevato di profughi che escono da quello stesso paese a causa del conflitto civile in corso. Il fatto è che tutti questi paesi che ospitano un elevato numero di rifugiati, sono anche luogo ove ci sono molti spostamenti interni, come dimostrato dall’elevato numero di sfollati (IDPs), che rappresentano una fonte quasi ineusaribile di nuovi migranti che possono decider di partire come migranti (irregolari, profughi o rifugiati?) verso paesi di altre regioni, inclusa l’Europa.

[67] Le autorità australiane mantengono uffici offshore per esaminare le domande di asilo nell’isola di Manus in Papua Nuova Guinea e a Nauru, rifiutando di prendere in considerazione l’accoglienza di qualsiasi imbarcazione con immigranti irregolari che arrivi direttamente sulle coste australiane (è analoga alla politica dei “porti chiusi” di Salvini e all’applicazione generalizzata dell’esternalizzazione dei confine esaminata nella Parte V di questo saggio).

[68] Abbiamo visto nella Parte V di questo saggio che, nella misura in cui i migranti di paesi africani o medio-orientali resteranno bloccati in paesi di transito come la Turchia, la Libia ed il Marocco, assisteremo al moltiplicarsi di violazioni dei diritti umani, impedendo la concessione di garanzie per la protezione dei profughi che si trovano in quelle zone, mentre continuerà a crescere il numero di migranti che risultano dispersi nel corso del lungo tragitto che li ha portati ad attraversare deserti, savane, foreste, mari e altre regioni impervie, soggetti a tutte le privazioni immaginabili, subendo continuamente angherie da parte dei trafficanti, costretti a detenzioni abusive in centri di detenzione nelle zone di transito, soffrendo del maltrattamento frequente degli stessi carcerieri, cui si aggiungono estorsioni, minacce, raggiri, ricatti e violenze, anche sessuali, lavoro forzato e addirittura schiavizzazione.

[69] Il programma di accoglienza di rifugiati in Australiano è al terzo posto nel mondo con un accoglienza minima per 14.000 rifugiati, cui il governo australiano ha aggiunto 12.000 posizioni disponibili per rifugiati siriani e iracheni. L’Australia ospita rifugiati dall’Afganistan e da Myanmar e che sono transitati attraverso la Malesia e l’Indonesia, seguendo l’approccio che le richieste di asilo vengono esaminate al di fuori del territorio nazionale, seguendo la logica dell’esternalizzazione dei confine.

[70] Pensiamo soltanto alle popolazioni che dipendono dalle condizioni ambientali del bacino del lago Ciad, che interessa quattro paesi dell’Africa saheliana e occidentale (Cameroon, Chad, Niger e Nigeria): il livello di quel bacino è sceso del 90% negli ultimi quarant’anni, modificanto in modo irreparabile le condizioni di sopravvivenza di ben 113 milioni di persone che dipendono dallo sfruttamento di quelle risorse idriche.

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