IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO (VII)

UNA SFIDA: ESISTE UN DIRITTO ALLA MOBILITÀ INTERNAZIONALE?

di Massimo D'Angelo

  1. Dall’autonomia dell’emigrazione all’inevitabilità dell’immigrazione

L’incapacità delle politiche migratorie, ed in particolare delle misure di contenimento, di incidere significativamente sull’intensità e sulla dinamica dell’emigrazione internazionale può essere riconosciuta anche da chi le sostiene, nonostante gli sforzi per criminalizzare gli immigranti irregolari per giustificare quelle misure. Di fronte agli insuccessi, aumenteranno gli stanziamenti di bilancio per barriere più rigide, per più agenti ai confini, per muri più alti ed impenetrabili e per più arresti ed espulsioni, ma la realtà non cambierà.  L’incapacità delle politiche migratorie di controllare i flussi migratori è chiamata autonomia dell’emigrazione: i flussi migratori, le loro dimensioni quantitative, i loro tempi, le loro destinazioni, sono “autonomi” rispetto a quelle politiche, sono variabili esogene, indipendenti, un dato di fatto, ma sono determinati da tutt’altri fattori, già esaminati nella Parte VI. Sono questi fattori “strutturali” (demografici, economici, politici, sociali ed ambientali) che giustificano l’ipotesi dell’autonomia dell’emigrazione.  Chi è ostile all’immigrazione, specialmente quella irregolare, cercherà di adottare altri approcci, come l’esternalizzazione dei confini (vedi Parte V), portando gli interventi di contenimento in altri paesi, stabilendo accordi bilaterali, manipolando politiche estere, per estendere l’influenza delle misure restrittive al di là delle zone controllate dalla “sovranità nazionale” del paese d’immigrazione. Nascono zone “cuscinetto” nei paesi di transito, costruendo campi profughi, aiutando guardie costiere altrui. Si cercherà di espletare le pratiche di asilo in paesi terzi.  Ma l’efficacia di questi espedienti è dubbia. Se i flussi in entrata rallentano, esplodono situazioni di “parcheggio” nei paesi terzi, e le crisi umanitarie si moltiplicano. E gli emigranti continuano a lanciare i loro programmi. Vani saranno gli annunci di misure più severe, con muri ancora più alti, chiusura di porti, multe alle ONG che soccorrono naufraghi in mare, minacce di arresti a tappeto e deportazioni in massa, taglio dell’assistenza ai profughi, congelamento delle procedure per l’asilo, concedere l’accoglienza soltanto ai “meritevoli”, o disincentivi nei paesi d’origine.

Gli emigranti dal sud del mondo fuggono da pericoli, da sfruttamento, da pesanti costrizioni politiche e sociali, da economie fortemente squibrate, depresse ed in crisi, da calamità ambientali, e da gravi rischi per la propria vita e quella della loro famiglia (vedi Parte VI).[1] Le loro motivazioni esercitano una tale pressione che le misure di contenimento non attutiscono il numero delle partenze per l’estero in modo significativo. Gli emigranti partiranno lo stesso. Molti di essi arrivano e riescono a entrare nei paesi designati; altri vengono fermati ai cancelli d’ingresso e vengono parcheggiati nei paesi di transito; altri riescono a entrare in paesi diversi da quelli inizialmente designati; molti si perdono per strada lungo il cammino e non se ne ha più traccia; alcuni (pochi) vengono espulsi e soggetti a rimpatrio obbligatorio (ma molti di questi emigrano di nuovo); e altri decedono perché non riescono a superare gli ostacoli che incontrano lungo il percorso. Di fronte alle ondate migratorie continue, la maggioranza dei paesi d’immigrazione, specialmente se società democratiche e aperte, saranno costretti ad ammettere alcuni immigranti, anche se ne rifiutano molti, ma il numero di entrate supererà quello auspicato.  La presenza multi-etnica di immigranti nelle strade di quei paesi testimonierà che le politiche di contenimento non sono bastate: l’immigrazione è avvenuta lo stesso, perché è inevitabile.

Alcuni immigranti riescono ad entrare legalmente, con regolari visti e permessi di soggiorno: sono i privilegiati, perché per loro la strada è meno difficile, anche se dovranno superare le barriere dell’accoglienza e dell’integrazione. Tra gli immigranti irregolari, alcuni riusciranno a entrare comunque, superando le frontiere, e resteranno come clandestini, a meno che non saranno riconosciuti come rifugiati o simile categoria di profugh, o saranno riusciti a trovare, nelle maglie delle legislazioni, modi per accedere a permessi provvisori o altri espedienti legali per strappare un permesso di soggiorno (anche attraverso matrimoni con cittadini o residenti).  Le legislazioni nazionali concepiranno eccezioni alla concessione di permessi di soggiorno, anche sotto la pressione di datori di lavoro interessati ad assorbire lavoratori stranieri, anche se inizialmente solo in via temporanea, con permessi che potranno essere estesi o trasformati in permessi permanenti (non c’è niente di più permanente che un permesso temporaneo rinnovabile). Nuove forme per la concessione di visti saranno escogitate.[2] Altre volte gli immigranti beneficeranno di ricongiungimenti familiari. O il paese d’immigrazione, di fronte alla mole di irregolari da legittimare, introdurrà sanatorie legali o amministie, insieme a meccanismi di accoglienza. 

Gli immigranti continueranno ad arrivare perché la forza delle loro motivazioni ancorate a necessità così impellenti è talmente intensa che nulla potranno fare le autorità per farli desistere dall’affrontare tutti i sacrifici, i disagi e gli abusi pur di arrivare nel paese ambito, anche a costo di rischiare di annegare in un attraversamento marittimo, di morire di fame e di sete nel deserto, o di soffrire i freddi più intensi in un passo montagnoso. Tutto questo giustifica l’ipotesi dell’inevitabilità dell’immigrazione.[3]

L’autonomia dell’emigrazione e l’inevitabilità dell’immigrazione sono strettamente legati tra di loro. La prima si basa sul fatto che le decisioni migratorie hanno radici profonde nelle motivazioni legate alle situazioni prevalenti nei paesi d’origine, imponendo un’ottica sovranazionale alle politiche migratorie, non più limitate a considerare solo la difesa delle frontiere. L’autonomia dell’emigrazione richiede di tener conto di realtà a migliaia di chilometri di distanza e di complesse dinamiche politiche, sociali, economiche e ambientali, non limitandosi a tutelare i diritti dei residenti dei paesi d’immigrazione, ma guardando anche ai bisogni, ai problemi e, aggiungerei, ai diritti degli emigranti, rompendo l’architettura che ha dominato finora le politiche migratorie, che vedono il mondo solo come un insieme di nazioni-stato indiperdenti, autonome e assolutamente sovrane, ma adottando un approccio più globale in un mondo interdipendente.  Ma anche l’inevitabilità dell’immigrazione – che è la conseguenza estrema dell’autonomia dell’emigrazione, quando quest’ultima si manifesta con una pressione inarrestabile – introduce una dimensione sovranazionale nelle politiche d’immigrazione, obbligando a considerare forze esterne (gli immigranti), che comunque riescono a entrare. Quella realtà è apparentemente negata dalle politiche di puro contenimento, limitate alla difesa dei territori nazionali, che prestano attenzione solo ai pochi immigranti ammessi, rifiutando tutti gli altri o addirittura ignorandone l’esistenza. L’inevitabilità dell’immigrazione rende manifesto che l’immigrazione non è un’anomalia, non è soltanto un fenomeno eccezionale, ammesso nei ristretti limiti concessi da regolamenti nazionali, che hanno la pretesa di controllarne i tempi, i modi e le quantità, ma riflettono un aspetto tipico delle società moderne: la libera circolazione di lavoratori. Quest’ultima non è una infrazione alla regola, ma il modo normale in cui si manifestano gli scambi tra paesi aperti a comunicazioni, a scambi commerciali e finanziari, a evoluzioni continue di tecnologie e di conoscenze, perché gli esseri umani si muovono con la stessa facilità.[4] Quest’ottica sovranazionale, riconoscibile sul piano culturale, è generalmente rigettata da chi concepisce politiche migratorie solo in schemi nazionalistici, fondati sulla concezione “sacra” della nazione-stato e sul principio primario della sovranità nazionale, unici criteri con cui si giudica la legittimità delle misure migratorie. Per questo, l’inevitabilità dell’immigrazione, anziché essere vista come una costatazione di fatto, è una minacca alla sovranità nazionale, un attacco territoriale, un tentativo di imporre una presenza non autorizzata, un’intrusione di forze esterne, fonte di imbarazzo per  governi e per politici che si battono per la resistenza all’immigrazione, un’ammissione di fallimento delle politiche di contenimento. L’ottica sovranazionale viene rifiutata a priori. Ma l’immigrazione sfugge al controllo completo delle autorità nazionali e accettare l’inevitabilità dell’immigrazione significa accettare la realtà, e richiede un approccio sovranazionale quando formuliamo politiche migratorie. 

  1. Il diritto ad emigrare

L’inclusione di una dimensione sovranazionale attraverso l’accettazione dell’autonomia dell’emigrazione apre la porta a un tema nuovo, quello dei diritti dei migranti. È l’emigrante libero di lasciare il proprio paese per rispondere a motivazioni e a spinte così forti? Ha un diritto ad emigrare? È possibile “escludere una persona dall’accesso ad una parte del globo terrestre”? [5] E se tale diritto esiste, ci sono i presupposti per considerarlo un diritto umano universamente riconosciuto?

Il diritto internazionale dà una risposta netta a queste domande, confermando che il diritto ad emigrare discende in qualche modo dal diritto naturale, e sancisce la sua caratteristica fondamentale di diritto umano universale nell’art. 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948,[6] che afferma quanto segue:

    “1. Chiunque ha diritto alla libertà di movimento e di residenza nell’ambito dei confini di ogni stato. 

  1. Chiunque ha diritto a lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.[7]

Quest’affermazione, che vincola tutti i paesi che hanno sottoscritto la Dichiarazione Universale, è formulata in modo da includere anche il diritto a rientare nel proprio paese, spesso limitato o negato quando l’uscita dal paese fosse associata alla rinuncia al diritto a risiedere nel proprio paese (un vero esilio). I due comma combinati dell’art. 13 della Dichiarazione Universale definiscono quello che ha volte è stato definito ius peregrinandi,[8] un concetto non ben delineato. Infatti l’art.13 non chiarisce se questo diritto è riferito alla libertà di circolazione e di stabilire la propria residenza senza alcun limite. Inoltre, mentre il primo comma precisa che può essere esercitato all’interno di uno stesso stato, quel comma non precisa se l’individuo di cui si sta trattando debba avere la cittadinanza dello stato in cui si trova, o la norma si applichi anche a stranieri.  In ogni caso, il secondo comma, che si riferisce esplicitamente al diritto ad emigrare, lascia completamente irrisolta la questione del diritto ad immigrare, mettendo perciò in dubbio che il suo contenuto possa essere addirittura chiamato un diritto umano se non ne è garantito il suo esercizio. Infatti può essere esercitato solo in combinazione con il diritto ad immigrare (altrimenti sarebbe piuttosto un diritto a peregrinare, al limite un diritto a poter vagare in giro per il mondo, bussando alle porte dei confini da un paese all’altro). Si può sostenere, pertanto, che si tratta di un diritto con statuto particolarmente debole sul piano giuridico nell’ambito dei diritti umani.[9]

L’universalità e l’inaliebalità del diritto ad emigrare non è sempre stata così ovvia. Nei sistemi feudali,[10] ma anche negli “stati-nazione” che seguirono, espatriare non era un diritto ma una concessione a chi ne faceva richiesta. Si trattava di “sistemi chiusi” da cui non si poteva uscire se non con un permesso speciale, che oggi è rappresentato simbolicamente dall’istituto del passaporto o del “lascia passare[11], essenziale per espatriare. In passato, ottenere il passaporto non era facile, e ancora oggi non è un diritto acquisito da ogni cittadino ma una concessione fatta a certe condizioni.[12] Vi sono paesi in cui la libertà di uscita è ancora ristretta o addirittura ostacolata, generalmente per ragioni politiche. Ricordiamo come fosse difficile ottenere permessi d’uscita dalla Russia zarista, ma anche anche dai regimi di tipo sovietico, da quelli nazi-fascisti, o simili sistemi repressivi.[13] Ancor oggi, quanto più il sistema politico è autoritario, quanto più difficile è ottenere il passaporto.  Per questo, molte persone abbandonano quegli stati in clandestinità, eludendo controlli di frontiera, anche senza i necessari documenti di espatrio, acquisendo diritto alla protezione internazionale riservata ai rifugiati.

Fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, non si parlava di diritto ad emigrare, in quanto la libertà di emigrare era vista come uno scontro tra una sfera privata della libertà individuale e una sfera pubblica ove il paese d’origine aveva il diritto a tutelare il benessere della comunità nazionale e dei cittadini residenti come unica priorità, giustificando in tal modo i controlli all’uscita. Più che di un diritto umano ad emigrare si parlava di una libertà condizionata ad emigrare, concessa nel pieno rispetto delle esigenze legittime di controllo per garantire la comunità dei residenti:[14] un diritto controllato ad emigrare. Questo condizionamento ancora persiste nella misura in cui la concessione del passaporto è vincolata a certe condizioni (assenza di pendenze legali, o adempimento di alcuni obblighi legali), spesso legate a motivi di sicurezza, anche se ormai l’universalità del diritto ad emigrare è riconosciuta quasi ovunque. Questa universalità è il risvolto giuridico dell’autonomia dell’emigrazione. Riflette un desiderio di libertà di qualsiasi individuo. Si tratta di un diritto moralmente ineccepibile, che risponde a princìpi fondamentali di rispetto della dignità umana. In realtà, nonostante sia regolato separatamento dall’art.13 della Dichiarazione Universale, non è un diritto umano isolato, ma può essere visto come un diritto funzionale per permettere l’espletamento di altri diritti fondamentali quali il diritto a scegliere liberamente il proprio lavoro (art. 23) o il diritto ad un adeguato standard di vita (art. 25), i quali possono essere esercitati in pieno solo se è tutelata anche la libertà di scegliere il paese ove vivere.[15] Il diritto ad emigrare è espressione profonda di preferenze personali che ci permettono di fare libere scelte su dove vivere, dove lavorare, dove far crescere la propria famiglia, dove farsi una casa, dove realizzare le proprie ambizioni di vita, ed eventualmente anche dove morire. L’avverbio “dove” pone l’accento sulla extra-territorialità dei nostri diritti di libertà. Molti dei nostri diritti fondamentali non possono essere esercitati se viene limitata la scelta di dove possiamo realizzarci.

Al di là della sua dimensione giuridica, il riconoscimento del diritto ad emigrare riflette il sentire comune e l’esperienza di qualsiasi emigrante, rifugiato, migrante economico o profugo che fugge dalle realtà più complesse:

  • È il diritto che ritengono di avere i nostri neo-laureati e giovani ricercatori che cercano sbocchi lavorativi o educativi altrove, mentre si sentono soffocati da un mercato del lavoro inerte, inadeguate offerte di lavoro, carriere strozzate, remunerazioni modeste, deludenti prospettive, in un contesto istituzionale e socio-economico poco dinamico.
  • È il diritto che reclama il professionista statunitense che vuole esercitare il proprio lavoro in Europa o in Asia per cogliere opportunità proficue in contesti culturali o socio-economici diversi.
  • È il diritto che sicuramente è convinto di avere il programmatore indiano che cerca lavoro (anche temporaneo) in una grande impresa americana nel settore dei sistemi informatici.
  • È il diritto che è convinto di avere il giovane professionista (un medico, un ingeniere, un architetto, un chimico, un biologo) di un paese in di sviluppo che cerca un’affermazione in Europa, in Nord America o in Australia, sempre che i suoi titoli di studio, qualificazioni tecniche ed esperienza pluriennale di lavoro acquisite nel proprio paese siano riconosciuti per esercitare la sua professione.
  • È il diritto che sono certi di avere i giovani africani, asiatici o latino-americani che cercano migliori condizioni di vita in un paese a più alto reddito, abbandonando condizioni di pura sussistenza, ove sbarcare il lunario è una sfida quotidiana, con frequenti rischi alla sicurezza personale e familiare.
  • È il diritto che assolutamente reclama chi scappa da situazioni pericolose, minacce continue, violenza diffusa, criminalità sistematica, terrorismo dilatante, che fugge perché vittima di angherie e di abusi di ogni genere, e di maltrattamenti da parte di membri della propria comunità o famiglia.
  • È il diritto che sentono di avere coloro che hanno perso il raccolto a causa di siccità persistente o hanno visto la loro casa distrutta da inondazioni, o fuggono da carestie, da epidemie o da terremoti.
  • È sicuramente il diritto condiviso da chi scappa dai pericoli della guerra o dei conflitti civili, o da chi fugge da violenza pubblica vissuta come esperienza quotidiana.
  • È altrettanto sicuro che questo sia il diritto di chi fugge da persecuzioni etniche, religiose e razziali, e conseguenti discriminazioni e abusi, per recarsi lì ove ciò non sia possibile.
  • Questo diritto è condiviso da chiunque cerchi nuove prospettive per la propria esistenza, sperando in una maggiore mobilità sociale e in una vita più serena, superando barriere imposte da disfunzioni sociali croniche e da discriminazioni radicate in sistemi di ingiustizia.
  • Era questo il diritto di cui erano assolutamente convinti i nostri bisnonni o trisavoli quando emigrarono oltre oceano più di centanni fa, imbarcandosi a Napoli o a Genova in direzione del nuovo mondo. Era il diritto dei rifugiati europei che dopo il 1848 dovettero fuggire nel Nord America per evitare la repressione dopo i moti rivoluzionari di quegli anni. Era il diritto degli emigranti irlandesi che fuggivano dalla “grande fame” della metà dell’800 che provocò tante morti. Era il diritto di tanti migranti russi che scappavano dalle persecuzioni zariste del XIX secolo o agli inizi del 900. Era un diritto associato al desiderio di libertà e democrazia, benessere e stabilità economica.
  • Personalmente, ho fatto l’esperienza dell’emigrazione varie volte nella mia vita, e non ho mai avuto alcun dubbio di avere il diritto di farlo, anche se dovevo superare il problema di conseguire il visto di ingresso ed il relativo permesso di soggiorno e di lavoro.

Sentire di avere il sacrosanto diritto di emigrare dal proprio paese di residenza abituale è un’esperienza che accomuna qualsiasi emigrante al mondo, povero o ricco, sia che decida di trasferirsi per motivi professionali, o che fugga disperato per ragioni drammatiche. È lo stesso diritto che permise ad Abramo di cercare la terra promessa lasciando la città di Ur nella Caldea, che permise a Giuseppe e Maria di abbandonare la Palestina per fuggire  in Egitto e che permise loro poi di tornare a Nazareth una volta venuto meno il rischio della persecuzione di Erode. È il diritto di Helena, ventenne cha ha lasciato l’Honduras per scappare dalle maglie della Mara MS 13 che l’aveva sequestrata. È il diritto del giovane sottoccupato nigeriano che cerca uno sbocco alternativo in Europa. Chi decide di emigrare sa che questo diritto gli appartiene, corrisponde ad una sua libertà di fondo come essere umano, il diritto di stabilire la propria residenza nel luogo che più si conforma alle proprie necessità e ai propri desideri.

Si potrebbe discutere se questo diritto ad emigrare sia lo stesso nel caso in cui si emigri per fame o per paura, oppure semplicemente si emigri per migliorare le proprie opportunità di vita, includendo il caso della fuga di cervelli. Come diritto umano, la sua inalienabilità si applica nella stessa misura sia all’emigrante che segue il suo istinto per aprire nuove prospettive lavorative o professionali sia a chi invece emigra per uno “stato obiettivo di necessità”, sotto la pressione di pesanti oneri e difficoltà.[16] È un diritto che gli appartiene come essere umano: è un diritto di libertà, come è un diritto di libertà decidere quale lavoro fare, con chi vivere, se sposarsi o rimanere single, ove trascorrere le proprie vacanze o non averne alcuna, avere un’opinione politica o un’altra.

Nonostante la sua universalità, questo diritto ha un costo, e non solo monetario, perché comporta sacrifici. Anche se ci viene concesso il corrispondente diritto ad immigrare nel paese da noi prescelto, il diritto ad emigrare ha un costo corrispondente ai sacrifici cui dobbiamo sottoporci peer esercitarlo. L’emigrazione produce uno sradicamento dal paese d’origine, anche se è compensato dall’aspettativa di una migliore condizione di vita o dalla prospettiva di tornare con maggiori risorse economiche.

Ma una cosa è ribadire che il diritto ad emigrare sia un diritto umano fondamentale e altro è sostenere che ogni individuo abbia un equivalente diritto ad immigrare in qualunque paese in cui egli intenda stabilirsi. Finora, le due questioni sono state tenute completamente separate, ed è proprio da questa dicotomia che origina il grande dibattito sulla politica delle porte aperte o delle porte chiuse. Tutti gli emigranti sono convinti di avere il diritto di lasciare il proprio paese, ma non sono per niente sicuri di poter entrare nel paese da loro prescelto.

 

  1. Dal diritto ad emigrare al diritto ad immigrare

Il diritto ad emigrare non dà la chiave d’accesso ai paesi d’immigrazione, ma apre soltanto la porta d’uscita dal paese d’origine, e semmai assicura il diritto di poter tornare in patria.[17]  Il diritto di emigrare diviene operativo solo se associato ad un corrispondente diritto ad immigrare. Forse dovremmo usare l’espressione latina, ius migrandi, per combinare il diritto ad emigrare con il diritto ad immigrare, e potremmo chiamarlo in termini meno ambigui diritto alla mobilità internazionale. Il diritto ad emigrare mostra la sua maggiore debolezza proprio nel fatto che, pur essendo riconosciuto come diritto umano, non corrisponde ad alcun analogo diritto umano internazionamente riconosciuto chiamato diritto ad immigrare, che invece è un diritto limitato e non elargito automaticamente a chiunque ne faccia richiesta.  Il diritto ad immigrare è definito dalle politiche d’immigrazione dei paesi ove l’emigrante vuole entrare e risiedere, che lo possono limitare a piacimento, fino a rifiutarne la concessione o fino all’estremo di chiudere le frontiere. Solo quelle politiche permettono ad un emigrante di trasformarsi in un immigrante regolare. L’opinione prevalente è che il diritto ad immigrare sia un privilegio da concedere, più che un diritto acquisito dell’immigrante, riflettendo la preoccupazione diffusa che bisogna difendersi dalle forti spinte migratorie che non possiamo assorbire, e contrastarle in ogni modo. Gli immigranti usufruiscono soltanto di un permesso di entrata, concesso nei limiti dei regolamenti e delle leggi locali, con tutti gli elementi di discrezionalità del caso.

Esiste quindi una contraddizione cruciale tra il diritto ad emigrare e il diritto ad immigrare. Il primo è un diritto umano fondamentale universalmente riconosciuto a qualsiasi emigrante, mentre il secondo non lo è, è concesso solo in via ristretta, a discrezione completa del paese d’immigrazione. Questa asimmetria vanifica gran parte del valore del diritto ad emigrare.  Mentre il diritto di emigrare è a monte dell’attraversamento della frontiera, prescinde dalle modalità con cui l’emigrazione verrà espletata e sottolinea la libertà di scelta dell’individuo che intende emigrare, il diritto ad immigrare è a valle dell’attraversamento del confine, e non esprime alcuna libertà di scelta dell’immigrante. Le modalità restrittive con cui viene concesso affermano semmai una limitazione alla sua libertà.

La maggioranza dei paesi, e sicuramente quelli ad economia avanzata, impongono importanti restrizioni all’ingresso degli immigranti. Anche quando concedono visti e permessi di soggiorno, regole restrittive sono sempre applicate. Siamo ben lungi dalla concessione di un diritto universale ad immigrare, che allo stato attuale non esiste, salvo il diritto alla libera circolazione di manodopera ammesso in poche realtà regionali sovranazionali per i cittadini dei paesi membri di quegli schemi regionali (allo stato attuale la libera circolazione è assicurata soltanto nell’Unione Europea e nella Comunità Economica dell’Africa Occidentale, ECOWAS, mentre progressi più lenti sono stati registrati in altri schemi regionali).  

Sin dalla nascita di stati nazionali, le strutture statali sono sempre state concepite come realtà chiuse, ove il diritto ad immigrare è un privilegio concesso dalle autorità pubbliche e non un diritto assoluto del richiedente, confermando la dipendenza della concessione del diritto ad immigrare dal potere assoluto dello stato sovrano. La pressocché universale accettazione dell’istituto della sovranità nazionale è la base logica delle limitazioni giuridiche al diritto ad immigrare. Anche se il concetto di sovranità nazionale è stato oggetto di revisioni critiche in questi ultimi decenni, che hanno suggerito di integrare l’architettura politica degli “stati-nazione” con concezioni multilaterali ove il potere della sovranità nazionale è mitigato da considerazioni globali basate sull’interdipendenza, probabilmente nessuno oserebbe dire che uno stato sovrano non abbia il diritto di imporre a stranieri limitazioni all’ingresso nel suo territorio. Ogni stato sovrano ha il diritto di definire a chi concedere il diritto d’ingresso.

Mentre il diritto ad emigrare, pur con le limitazioni cui è sottoposto, in generale non è contestato, sicuramente a partire dal 1948, gli orientamenti prevalenti in materia di diritto ad immigrare sono sempre stati diametralmente opposti. L’immigrazione è ancora concepita, sul piano giuridico, come uno scontro tra i diritti dell’immigrato e i diritti dello stato sovrano del paese d’immigrazione, ove la sovranità nazionale di quest’ultimo è sempre vista come il giudice supremo che decide, in modo assolutamente discrezionale, quale sia il punto di equilibrio tra i due piatti della bilancia, favorendo però, in modo prevedibile ed inevitabile, l’interesse ed il benessere collettivo della nazione ospitante. Per questo, è opinione generallizzata (tra giuristi internazionalisti e burocrati che gesticono i processi migratori) che non esista alcun diritto naturale ad immigrare da contrapporre e da sovrapporre al diritto di uno stato sovrano che decide i limiti legali per l’ammissione di stranieri.[18]

Il diritto ad immigrare nei grandi paesi d’ immigrazione: dalle aperture del passato alle restrizioni correnti[19]

Anche se nessun paese attualmente associa il diritto ad emigrare ad un equivalente diritto ad immigrare, ci sono state fasi alterne, in diversi periodi storici ed in diversi paesi, ove la libertà di ingresso fu concessa a grandi masse di immigranti, specialmente in territori scarsamente popolati. Nel Nuovo Mondo, registrammo periodi di politica delle porte aperte, grazie al fatto che si voleva incentivare il popolamento di territori a bassa intensità demografica, per stimolarne la crescita economica. La disponibilità di ampi spazi che si supponeva fossero liberi per essere occupati (salvo poi disfarsi delle popolazioni indigene, con metodi tutt’altro che pacifici, se queste ultime rappresentavano un ostacolo all’immigrazione di origine europea) suggerivano l’adozione di una politica migratoria delle porte aperte. L’unico vero limite che dovevano affrontare gli emigranti che si dirigevano verso quei paesi sottopopolati era semmai la difficoltà di trovare i mezzi finanziari per pagarsi il viaggio. L’immigrazione in quei paesi a volte era addirittura incoraggiata dalle autorità dei paesi d’origine, come avvenne per l’emigrazione irlandese nel 1800, incoraggata dal governo britannico, e il caso di potenze coloniali, che favorirono l’emigrazione verso “colonie di popolamento”. In quello stesso ambito ricordiamo anche gli spostamenti migratori da una colonia ad un altra (pensiamo ai sudditi delle colonie inglesi portati dalla penisola indiana in Africa e nei Caraibi).

La politica delle porte aperte adottata negli Stati Uniti fino agli anni settanta del secolo XIX fu via via sostituita da una serie di misure di contenimento e di esclusione, che introdussero il concetto di limitazione al diritto ad immigrare. [20] Queste misure introducevano divieti, criteri discriminatori (anche di natura puramente razziale o geografica) per individuare le categorie di immigranti che potevano essere ammesse e quelle che dovevano essere escluse, invertendo completamente l’orientamento delle porte aperte che aveva prevalso fino ad allora.[21]

Queste restrizioni all’immigrazione sono riapparse in modo più insistente con il successo dei nazionalismi negli anni ‘30, dopo la crisi del 1929 che contribuì a frantumare il sistema di scambi internazionali prevalso a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, dominato dalla libera circolazione delle merci e dei capitali, per sostituirlo con protezionismi nazionali. Le restrizioni all’immigrazione si accumularono nel corso di quegli anni, anche se in parte contrastate dalle persistenti pressioni migratorie. Le stesse restrizioni si sono riacutizzate a partire dalla fine della seconda guerra mondiale in molti paesi a grande tradizione d’immigrazione – salvo nei paesi che hanno addirittua incoraggiato l’immigrazione –  pur con brevi interruzioni in risposta a pressioni legate alla fine di eventi bellici e a flussi eccezionali di rifugiati, che intensificarono i flussi migratori.[22] Questa politica restrittiva continuerà, con alterne vicende, [23] fino ai giorni nostri. Le argomentazioni per la fine del diritto ad immigrare concesso in precedenza in modo liberale erano le solite: difesa dell’interesse generale del paese, princìpi irrinunciabili generati dalla sovranità nazionale, preservare la sicurezza ed il benessere della comunità dei residenti dalle pretese degli immigranti.

Salvo che per i rifugiati, nessuno stato moderno[24] considera un dovere dei paesi d’immigrazione concedere all’immigrante visti d’ingresso, permessi di soggiorno e di lavoro, e tanto meno l’avvio di un processo di naturalizzazione (concessione della cittadinanza). La concessione del diritto ad immigrare è limitata a certe categorie specifiche di persone e sottoposta a vincoli restrittivi. Estenderlo come un diritto umano universale corrisponderebbe ad applicare una politica delle “porte aperte”, che al momento attuale nessun paese è disposto ad introdurre.

  1. Diritto ad immigrare e diritto a limitare l’immigrazione

Poiché il diritto limitato d’entrata viene esercitato dall’immigrante soltanto nel rispetto del principio della sovranità nazionale, quest’ultima è l’unica fonte e principio primario per legittimare la presenza di immigranti nel territorio nazionale. Anziché parlare di diritti degli immigranti, perciò, qui stiamo ribadendo il pieno potere del paese d’immigrazione di regolamentare a suo piacimento le condizioni per permettere ad eventuali immigranti di entrare, non offrendo loro alcuna garanzia che potranno acquisire diritti che appartengono normalmente ai residenti o ai cittadini del paese d’immigrazione.  Concepire il diritto ad immigrare solo come un permesso d’entrata significa riconoscere che c’è un solo diritto veramente riconosciuto in materia d’immigrazione, il diritto a limitare l’immigrazione che il paese d’immigrazione detiene gestendo le autorizzazioni agli immigranti per accedere al territorio nazionale. Tale diritto include anche il diritto a vietare l’ingresso, il diritto a espellere o espatriare, e si è sempre più diffuso a partire dagli ultimi tre decenni del secolo XIX anche negli stati che erano stati più liberali in precedenza in materia migratoria.[25]

Il diritto a limitare l’immigrazione offre alle autorità del paese d’immigrazione un grande potere coercitivo “contro” gli immigranti, potendo limitarne la libertà d’azione sotto molti aspetti, stabilendo confini precisi entro i quali essi possono muoveri una volta ricevuto il permesso d’entrata.[26] Questo diritto a limitare l’immigrazione è fondato sulla superiorità della difesa della sovranità nazionale rispetto alla protezione dei diritti degli immigranti, ma anche sulla convinzione che l’immigrazione possa assomigliare ad un attacco territoriale (da qui il facile riferimento alle invasioni di immigranti).[27]

Il fenomeno dei paesi ”cuscinetto”

Non tutti i paesi riescono ad imporre restrizioni all’immigrazione con controlli severi alla frontiera e con la stessa efficacia. Cosa fanno gli immigranti che non riescono ad attraversare la frontiera nei paesi più “fortificati”? Normalmente non tornano a casa nel loro paese d’origine, ma cercano una sistemazione (magari solo temporanea) in un altro paese, che sia un paese di transito o una opzione alternativa, che non opponga lo stesso tipo di resistenza ai confini.  Queste destinazioni alternative spesso sono paesi più deboli, che non riescono ad imporre analoghe restrizioni al confine, o che non possono permettersi costosi sistemi di respingimento e di controllo alla frontiera, o hanno frontiere porose facilmente attraversabili (deserti, montagne, aree costiere). Ne deriva una situazione asimmetrica di accoglienza degli emigranti, dipendente da una distribuzione non uniforme del potere di controllo dei propri confini e della diversa porosità delle frontiere. In tali circostanze, si pone il problema di garantire una partecipazione collettiva, condivisa a livello internazionale, per distribuire il diritto ad immigrare in modo più uniforme tra i vari paesi, evitando che alcuni paesi siano costretti a divenire paesi “cuscinetto” per assorbire l’immigrazione destinata ad altri paesi, nonostante non siano paesi prescelti come paesi destinatari: così vediamo l’esplosione dell’immigrazione in paesi come la Turchia, la Libia, il Marocco, il Messico, la Papua Nuova Guinea, non perché meta preferita dagli emigranti, ma perché in essi si riversano gli emigranti che si muovono verso l’Europa, gli Stati Uniti e l’Australia, quando vengono respinti da quelle destinazioni preferite. Questo crea un contenzioso multilaterale inevitabile ed il diritto alla mobilità diviene un problema di distribuzione dell’obbligo morale ad aprire le porte ai nuovi immigrati, con alcuni paesi più propensi od obbligati a ricevere i nuovi arrivati, ed altri che riescono ad evitarlo grazie alle loro politiche di contenimento. In un certo senso, questo è un problema analogo a quanto avviene anche nei paesi dell’Europa meridionale (particolarmente Grecia, Italia e Spagna), “costretti” per ragioni geografiche a ricevere un maggior numero di immigranti che attraversano il Mediterraneo rispetto ad altri paesi europei, che possono evitare di condividere le persone sbarcate sulle sponde meridionali dell’Unione Europea, perché fisicamente lontani da quelle sponde, anche grazie alle regole stabilite dai discutibili accordi di Dublino. Questo è il problema della “equa distribuzione” dell’accoglienza verso tutti questi immigranti.  

L’esercizio di questo diritto avviene in primo luogo frammentando lo stato giuridico degli immigranti in molte categorie, in maniera da massimizzare la discrezionalità del potere del paese d’immigrazione rispetto a ciascuna categoria, esercitando un “dominio eminente” dello stato su ogni aspetto della presenza fisica dello straniero nel territorio nazionale.[28] La frequente distinzione tra migranti economici e migranti non economici, peraltro molto ambigua, non è che un modo per differenziare trattamenti a gruppi di immigranti, per facilitarne l’eventuale espulsione. L’esclusione dell’immigrato da certi diritti (l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica, scolastica, residenziale, o legale) rafforza il tentativo sistematico di porre barriere rigide tra immigranti e residenti, e tra immigranti di diverse categorie.  

Il diritto limitato ad immigrare concesso agli immigranti, che è in realtà solo un permesso ristretto, implica una serie di doveri cui debbono ottemperare gli immigranti per restare nel paese e da cui non possono esimersi. Se infrangono quei doveri, automaticamente si trasformano in immigranti irregolari. La concessione di questo diritto limitato ad immigrare è gestita attraverso complicati sistemi di visti, permessi di soggiorno temporaneo, permessi di lavoro e permessi di residenza permanente, che possono individuare percorsi tortuosi per arrivare alla naturalizzazione degli immigranti (concessione della cittadinanza), condizionandola a requisiti che a volte si applicano anche ai discendenti degli immigranti eventualmente nati nel paese. Si tratta di sistemi estremamente complessi, che variano da un paese all’altro, in continua evoluzione.  La complessità della materia è anche il riflesso della riluttanza a concedere l’ingresso agli immigranti, espressione di mancata volontà ad accoglierli.

La concessione dei visti

Per accedere fisicamente al territorio nazionale, l’immigrante normalmente ha bisogno in primo luogo di un visto d’ingresso, salvo nei rari casi in cui questo visto non sia richiesto. La varietà di visti è enorme e include: visti turistici; visti per lavoratori temporanei; visti di transito; visti per scambi culturali; visti per ragioni di studio; visti per condurre affari (negoziare un contratto, partecipare ad una riuione di lavoro o a una consultazione, partecipare ad un evento specifico quale una conferenza, una convenzione, un breve seminario); visti d’immigrazione di lungo periodo o permanente (immigrazione legata ad attività lavorative, per ricongiungimento familiare, per investitori economici, legata ad adozioni internazionali e ad altre ragioni); visti speciali per categorie specifiche (quali alcuni tipi di professionisti con particolari funzioni o stato giuridico, come sacerdoti o personale religioso, giornalisti, personale straniero impiegato in strutture governative nazionali all’estero, funzionari internazionali, pensionati di organizzazioni internazionali e relativi parenti, immigranti minorenni); visti concessi sulla base di ragioni umanitarie, come è il caso dei rifugiati.

La varietà di questi visti è molto maggiore di quanto abbiamo qui indicato e dipende dai regolamenti di ciascun paese. Molti visti permettono solo “visite” di una durata temporanea, alcune volte rinnovabili, altre volte non rinnovabili.  Alla scadenza, il viaggiatore dovrà lasciare il paese. Gran parte degli immigranti irregolari sono coloro che abusano di questi visti a durata temporanea e che rimangono (clandestinamente) nel paese per un periodo superiore a quello inizialmente concesso, senza aver beneficiato di una proroga. Il visto temporaneo è spesso utilizzato come cavallo di Troia per entrare nel paese e poi tentare l’immigrazione definitiva attraverso canali illegittimi.

Il permesso di soggiorno

Altro passo importante è il conseguimento del permesso di soggiorno, a volte contestuale all’ottenimento del visto.  Il permesso può essere di breve durata (pochi giorni o pochi mesi) o di media o lunga durata (annuale, pluriannuale). Può essere a volte rinnovabile. Un soggiorno minimo di una certa durata è spesso condizione necessaria per accedere alla residenza permanente o di lunga durata. In alcuni paesi non esiste il permesso di residenza permanente, se non in casi eccezionali, che, anche se chiamata residenza permanente, può avere una durata limitata, rinnovata periodicamente.  L’acquisizione della cittadinanza non è sempre lo stadio finale di questo percorso.  Gli investitori economici sono una categoria speciale, in quanto “comprano il diritto ad immigrare” grazie al loro apporto di risorse finanziarie nella forma di investimenti di capitali e in proprietà residenziali, o trasferimenti di reddito, spesso dietro incentivi fiscali dei paesi d’immigrazione.

Il permesso di lavoro

Un passo cruciale è l’ottenimento del permesso di lavoro, che dipende dal tipo di visto ottenuto e la durata e il tipo del permesso di soggiorno. A volte è concesso da autorità diverse da chi rilascia il permesso di soggiorno. Se rilasciato da autorità responsabili in materia di lavoro, può richiedere la verifica di compatibilità dell’immigrazione con le condizioni locali del mercato interno del lavoro. 

Criteri d’ammissione

Meccanismi selettivi sono adottati per concedere visti, permessi di soggiorno e di lavoro, diversi da un paese all’altro quali i seguenti: (a) la qualificazione professionale del lavoratore immigrante; (b) la condizione economica dell’immigrante; (c) la nazionalità dell’immigrante; (d) la sua condizione di salute. Anche se i paesi d’immigrazione hanno bisogno di lavoratori di tutti i livelli di qualificazione, c’è una tendenza ad favorire quelli ad elevata qualificazione, a danno degli immigranti a qualificazione più bassa o generica, con speciale attenzione a coloro con straordinarie capacità professionali.[29]

A volte sistemi di punteggio per valutare l’accettabilità di una domanda di visto vengono utilizzati, anche se si prestano ad applicazioni arbitrarie, discriminazioni non giustificate, soprusi ed eccessivo potere discrezionale.[30] Questi sistemi selettivi possono essere visti anche in termini positivi come possibilità aperte agli immigranti che intendano agevolarsi di quei regolamenti.

L’immigrazione temporanea

Nell’insieme delle esperienze dei vari paesi d’immigrazione, dominante è la concessione di permessi temporanei di lavoro come primo passo per poter immigrare, anche se il termine lavoratori temporanei non è utilizzato in modo uniforme. Alcuni paesi parlano eufemisticamente di “guest workers” (letteralmente “lavoratori ospiti”), anche se alcuni preferiscono applicare questo temine soltanto a lavoratori saltuari o a programmi molto specifici. Altre volte “guest workers” sono i lavoratori stagionali, specialmente nel settore agricolo, che svolgono alcune attività specifiche (raccolta, semina, preparazione del suolo) e poi rientrano nel loro paese d’origine alla fine della stagione. Il termine “guest workers” può anche essere utilizzato soltanto come espediente amministrativo per limitare la durata del contratto di lavoro, in modo da evitare di dover ottemperare a certi obblighi contrattuali di natura remunerativa, fiscale o contributiva richiesti per contratti di lavoro di durata superiore, o per evitare problemi di rinnovo di permessi di soggiorno, salvo la possibilità di ripetere il reclutamento per un nuovo periodo (non sempre possibile).  È il sistema adottato per molte badanti che provengono dall’est europeo in Italia. È il sistema utilizzato per molti programmatori indiani impiegati per un periodo di pochi anni negli Stati Uniti.

Il vero significato delle regole

Il problema primario di questa immigrazione temporanea è che spesso questi immigranti non vengono a far parte integrale del mercato nazionale del lavoro, confermando la riluttanza ad accettare l’immigrazione come una realtà strutturalmente integrata nel funzionamento dell’economia nazionale. I governi utilizzano questi espedienti amministrativi per condizionare la concessione del diritto di entrata o dei permessi di soggiorno e di lavoro entro confini ben ristretti, in modo da perseguire l’obiettivo ultimo di contenere l’immigrazione.

Il rilascio di visti d’entrata per ricongiungimento familiare, che dovrebbe essere espressione di un atteggiamento favorevole all’immigrazione, è stato a volte utilizzato come ritorsione o disincentivazione dell’immigrazione, come è il caso quando viene sospeso o cancellato, invertendo decisioni passate, o quando il suo rilascio diviene incerto o imprevedibile, e pertanto impraticabile, o viene escluso per alcuni membri della famiglia (ad esempio, fratelli, nonni o zii). I programmi di “guest workers”, che dovrebbero incoraggiare l’immigrazione di nuovi lavoratori, sono spesso in sostituzione di programmi di immigrazione di più lunga durata, e hanno lo scopo non tanto recondito di assicurarsi che alla fine del contratto l’immigrante torni nel paese d’origine, mostrando che l’obiettivo finale è disincentivare l’immigrazione definitiva. Ovunque ci sono tentativi di limitare la concessione di permessi di lavoro, di ridurne la durata, di escludere certe categorie, certe occupazioni, certe nazionalità, o si cerca di impedire permessi di lavoro che richiedano visti familiari. Altro che diritto ad immigrare!

Come aggirare le restrizioni?

Molti “guest workers” o immigranti temporanei cercheranno di trovare il modo per restare nel paese anche dopo la scadenza iniziale, magari trovando un’altra occupazione. L’alto costo della vita in alcuni paesi d’immigrazione (ad esempio in Germania) ha dimostrato essere un incentivo a prolungare la permanenza di “guest workers” per permettere un’accumulazione minima di risparmi per gli immigranti temporanei, che hanno bisogno di un periodo più lungo per tornare nei paesi d’origine con un piccolo capitale accumulato o permettere rimesse alla famiglia di origine.  A volte faranno tutto questo legalmente, ottenendo un altro permesso di lavoro vincolato ad uno specifico contratto di lavoro con un preciso datore di lavoro che collaborarerà alla richiesta del nuovo permesso di lavoro o rinnovando il contratto iniziale. Altre volte lo faranno infrangendo le regole, dileguandosi nelle fila degli immigranti irregolari.  In ogni caso, i permessi d’immigrazione concessi dalle autorità per attività sia come lavoratore dipendente che come lavoratore autonomo sono quasi sempre di una durata limitata nel tempo, anche se sono rinnovabili. La grande differenza sta nella diversa tipologia dei permessi di lavoro: alcuni vincolati ad un rapporto specifico di lavoro (come la maggioranza dei programmi di “guest workers”) o altri che permettono l’accesso a contratti con altri datori di lavoro, a libera scelta dell’immigrante, pur nei limiti temporali del permesso di soggiorno. Solo in questo secondo caso l’immigrante si sente completamente integrato nella forza di lavoro nazionale, ed il paese d’immigrazione potrà contare con maggiore flessibilità sul suo contributo produttivo.

  1. Sovranismo e diritto a limitare l’immigrazione

Gli orientamenti sovranisti di moda ai nostri giorni escludono che vi sia alcun limite al potere dello stato sovrano di imporre restrizioni o divieti al diritto ad immigrare, specialmente per le grandi masse provenienti dai paesi in via di sviluppo, anche se la presenza continua di nuovi immigrati dimostra che queste politiche rigide non riescono sempre nel loro intento.  La visione sovranista si basa sulla ridida distinzione tra chi “possiede originariamente il diritto di residenza nel territorio nazionale perché vi è nato o vi è arrivato prima” e chi “non lo possiede perché è arrivato dopo”. È il criterio che distingue “chi ha diritto” a risiedere in un territorio da “chi non ne ha diritto”.  La distinzione si può ulteriormente complicare separando “chi è già residente da più lunga data” da a “chi è immigrato solo di recente”.[31]

L’orgoglio dei “nativi”

Se fossimo coerenti con la visione che dà un diritto prioritario alla residenza in un paese soltanto alle popolazioni originarie, secondo un approccio “nativista”, in paesi come gli Stati Uniti, il Canada, il Brasile e l’Argentina questo diritto apparterrebbe non ai primi immigranti europei che vi arrivarono dopo le prime conquiste coloniali, ma alle persone direttamente discendenti dalle popolazioni indigene che vivevano in quelle aree prima del 1492, e anche tra di loro, si dovrebbero porre degli ordini di priorità a seconda della fase storica in cui i loro antenati avevano attraversato lo stretto di Bering, visto che vi arrivarono in ondate successive. Per non parlare della nostra piccola Italia, invasa per secoli da chiunque, in cui neanche i discendenti degli antichi romani avrebbero alcun diritto di prelazione sulla nostra peninsola, visto che i romani invasero territori circostanti già occupati in precedenza, per esempio da genti di origine etrusca o greca o altre etnie italiche (ma analoga osservazione potrebbe essere fatta per gli etruschi o per i greci della Magna Grecia, che erano venuti da altri territori).  Non parliamo poi dell’orgoglio nazionale britannico, spesso vantato come ragione per limitare l’immigrazione di altri gruppi etnici nel Regno Unito: ma furono i celtici, provenienti da tutt’altra regione geografica, che spinsero dal sud le popolazioni precedenti che occupavano il nord della Gran Bretagna (l’area corrispondente al nord dell’attuale Scozia), popolazioni che i romani successivamente avrebbero chiamato Pitti; ed i celtici furono ulteriormente spinti dalle popolazioni germaniche (come gli Angli, i Sassoni e gli Juti), seguite dai Frisoni (dalla Frisia), dai vari tentativi di penetrazione di gruppi scandinavi fino all’invasione dei normanni. Chi sarebbe il britannico “autentico”?

L’impostazione sovranista (spesso chiamata “nativista” oltre-oceano), apparentemente molto semplice sul piano concettuale, in pratica è più complicata di quanto si vorrebbe far credere. La pressione migratoria cambia il rapporto tra popolazione residente e popolazione immigrata. Una politica di accoglienza stimola l’integrazione tra gruppi etnici e culturali diversi, mentre una politica di contenimento sovranista si concentra sulla protezione degli interessi dei residenti, evitando che gli immigranti acquistino uno stato paragonabile a quello di chi è già residente.  Le convinzioni sovraniste accettano – un po’ troppo facilmente – l’assioma che solo i residenti attuali (o i cittadini) possano reclamare il “diritto” a risiedere legalmente nel territorio nazionale, un diritto assoluto derivato dalla sovranità nazionale che darebbe loro il pieno controllo sulle risorse del paese e sul loro uso. Questa è una visione completamente “proprietaria” dei limiti alla concessione del diritto ad immigrare.  È un corollario del diritto originario alla proprietà delle risorse di un paese, che apparterrebbe in modo esclusivo ai residenti (o, in modo ancora più restrittivo, ai cittadini). I sistemi economici e sociali sono visti come nuclei isolati, difesi da barriere doganali e confini, completamente indipendenti e chiusi.

“Nativismo”: una lezione dalla storia

Le posizioni “nativiste” hanno un precedente molto significativo nella storia degli Stati Uniti, quando trovarono espressione particolarmente nel partito noto come Know-Nothing Party, a metà del secolo XIX, a tutela dei diritti acquisiti dai primi arrivati (quindi dai pionieri) che immigrarono in quei territori nei secoli o decenni precedenti, e dei loro discendenti, ignorando, naturalmente, che prima di loro vi erano state popolazioni indigene ad abitare nel sub-continente americano, che avrebbero potuto vantare analoghi diritti di privilegio su quei territori. Il Know-Nothing Party (che utilizzava modalità tipiche delle società segrete, di moda in quegli anni), nel corso del decennio 1840-50, prima ancora della guerra civile americana, aveva appoggiato la causa abolizionista, alleandosi inizialmente con i movimenti abolizionisti e con il partito repubblicano di recente costituzione, di cui Lincoln era uno dei leader più rappresentativi. Dopo il 1848, molti europei erano scappati dal vecchio continente, dopo aver visto svanire il sogno di libertà che i movimenti rivoluzionari di quel periodo avevano promesso. Tra questi, un numero consistente era di origine tedesca (spesso segnalati per la presenza significativa di cattolici tra di loro, mentre gli Stati Uniti erano un paese a prevalenza protestante), e stigmatizzati anche perché, diversamente dagli irlandesi, parlavano un’altra lingua.  Il Know-Nothing Party si scagliò contro quei flussi migratori, in particolare quelli di lingua tedesca. Abraham Lincoln, pur apprezzando l’appoggio di quel partito per l’abolizionismo della schiavitù, non ebbe remore a prenderne le distanze per la sua posizione “nativista”, attaccando con veemenza posizioni xenofobe e discriminatorie, e accogliendo a braccia aperte i nuovi immigrati tedeschi, molti dei quali combatterono al suo fianco contro la secessione suddista. La polemica portò alla fine dell’alleanza del partito repubblicano con le correnti nativiste del movimento abolizionista. Quelle posizioni nativiste sembrano analoghe a quelle assunte del Presidente Trump, pur se riguardano gruppi sociali di origine geografica completamente diversa. [32]

Per completare il confronto storico, può essere utile ricordare che anni dopo, durante la guerra civile,  Lincoln non esitò a scagliarsi, con altrettanta determinazione, contro neo-immigrati irlandesi che a New York, nel 1863, [33] organizzarono una protesta violenta contro la leva obbligatoria che reclutava soldati per il conflitto contro la secessione del Sud schiavista. La vera causa dei disordini, però, non fu l’opposizione alla leva, ma la protesta dei lavoratori irlandesi che temevano la concorrenza “sleale” nel mercato del lavoro da parte delle popolazioni liberate dalla schiavitù, disposte a lavorare a bassi salari.  La protesta, strumentalizzata dall’allora partito democratico, fortemente critico del Presidente Lincoln, assunse manifestazioni molto violente con linciaggio di negri nella città di New York. Fu una vera e propria ribellione, che Lincoln represse senza esitazione, chiedendo l’intervento dell’esercito. Pertanto Lincoln, che fu un maestro del compromesso politico pur nel modo in cui perseguì l’abolizione della schiavitù, non venne a patto su questioni di principio come la difesa del diritto degli immigranti (i neo immigranti tedeschi), e la difesa dei nuovi lavoratori (ex schiavi) in concorrenza con neo immigrati.

In questa visione, il contrasto tra chi risiede originariamente e chi è appena arrivato è associato alla nozione di Nazione e di Popolo, la cui identità va difesa a ogni costo. Si tratta di un’identità culturale, che si fonderebbe sulla storia del territorio e sulle sue tradizioni culturali e religiose, che sarebbe minacciata dall’immigrazione di gruppi con valori culturali, abitudini, lingue ed etnie, tutti diversi tra di loro. Gli immigranti sono trattati come estranei, quasi usurpatori, che osano reclamare il controllo su cose che non sono loro, accaparrando posti di lavoro, risorse fiscali, servizi e sistemi assistenziali finanziati dal reddito dei residenti. Il neo immigrato è visto come una minaccia al benessere del cittadino. La concezione nativista è una lettura semplificata della storia, in quanto è difficile attribuire un diritto primario ai residenti basato sulla storia passata: nessun popolo può vantare questo diritto esclusivo, come se fosse una investitura divina. Tutti gli abitanti della terra sono discendenti di popolazioni immigrate da altre aree in altri tempi, occupando territori, sovrapponendosi ad altre etnie presenti in precedenza in quegli stessi spazi o escludendole, o più spesso mescolandosi con esse.  Chi ha quindi il diritto di prelazione? L’approccio sovranista-nativista ignora questa realtà, ma enfatizza rapporti di forza (che sono elementi di contrasto, a volte segni di oppressione) tra chi è già residente e chi ancora non lo è. La storia del nativismo si rinnova continuamente, cambiando i soggetti ma ripetendo le stesse argomentazioni, facendo finta di utilizzare “valori assoluti” che in realtà sono puri rapporti di forza tra chi detiene il potere di controllo su risorse o situazioni locali in un certo momento storico, e non è disposto a compartirlo con i “nuovi arrivati” (prima i “nostri”, poi gli “immigrati”). Questa visione sovranista ignora, inoltre, che paesi come l’Italia fornirono storicamente emigranti verso altri paesi in nord Europa o nelle Americhe, che furono a loro tempo vittime di umiliazioni, di discriminazioni e di marginalizzazioni di ogni tipo. I sovranisti ignorano che i paesi d’emigrazione del passato si sono trasformati oggi in paesi d’immigrazione, e che stanno spesso esercitando verso i nuovi arrivati le stesse vessazioni subite dai loro antenati in passato quando erano loro gli emigranti, vittime dei nativisti di turno. Una caratteristica frequeste del sovranismo è la mancanza di memoria storica.[34] 

Ovviamente, le posizioni sovraniste non sono tutte campate per aria, e si basano su percezioni ben diffuse, compresa la giustificata ammirazione per le proprie tradizioni culturali, che è meritevole preservare. Inoltre, dobbiamo ammetterlo, quelle posizioni hanno una posizione di vantaggio, perché – più spesso di quanto vorremmo – sono riuscite ad influenzare gli orientamenti di organi legislativi ed esecutivi di governo per decenni, oltre ad esercitare una notevole pressione sull’opinione pubblica, facendo appello alle paure e alle fobie segrete della gente, e alla loro impulsiva difesa contro chi non si conosce. Fanno leva sulle paure di chi vede nel fatto che l’emigrato abbia ottenuto un lavoro e un’abitazione decorosa, sia pur minima, o abbia accesso a servizi scolastici e sanitari per la sua famiglia, una minaccia, se non un insulto, specialmente se il cittadino appartiene alle fasce più deboli della popolazione e si incontra in difficoltà notevoli per sbarcare il lunario, con accesso limitato ai servizi più essenziali (casa, scuola e salute). Ciò che il sovranismo non dice (vedi Parte IX), tuttavia, è che con ogni probabilità l’immigrazione non è la causa primaria dei problemi dei residenti, perché quei problemi poco o nulla hanno a che vedere con i flussi migratori ma sono per lo più legati a dinamiche del processo di sviluppo del paese, squilibri interni e carenze delle politiche nazionali, di cui le classi meno abbienti sono vittime. L’immigrazione potrebbe addirittura offrire un contributo per sbloccare strettoie ai processi di crescita, valorizzando settori che sono rimasti inceppati a causa di distorsioni interne al sistema produttivo, con un migliore uso delle risorse produttive. (vedi Parte VIII) Ma di questo i sovranisti non parlano, preferendo additare gli immigranti come i responsabili dei problemi nazionali o locali, minimizzando il loro contributo produttivo potenziale all’economia del paese. È più facile sventolare la bandiera del nazionalismo xenofobo che risolvere i problemi sociali.

Le posizioni sovraniste possono essere stigmatizzate come estremiste, specialmente se abbinate a ideologie xenofobe, e liquidate come irrilevanti dal pensiero prevalente nei paesi occidentali, ma hanno un’influenza enorme nella formazione dell’opinione pubblica, e di questo tutte le forze politiche tengono conto, anche quelle “benpensanti” e non escluso anche alcuni settori delle correnti “progressiste” (specialmente quando fanno richiamo alla necessità di adottare un “realismo moderato” in materia d’immigrazione). Si ha timore di prendere posizioni coraggiose contro tendenze sovraniste, perché ciò può far perdere consensi elettorali.  Anche quando prevale un gruppo politico maggioritario che si oppone alle posizioni sovraniste perché estremiste, spesso l’influenza di quelle posizioni resta, sia pur in forma indiretta. È l’influenza sull’opinione pubblica, ma è anche l’influenza che ha orientato le politiche migratorie dei vari governi per anni, anche di quelli che non si consideravano sovranisti. Non è un caso che quelle politiche spesso si basino sulla difesa del territorio nazionale per motivi di sicurezza come punto di partenza, e che le restrizioni alla concessione del diritto d’ingresso siano ispirate alle stesse premesse culturali e sociologiche dell’ideologia sovranista, influenzate quindi dalla preoccupazione di garantire la difesa da pericoli esterni, anche se non giungono alle conclusioni estreme dei sovranisti (per lo meno evitando annunci xenofobi). È prova di questa influenza significativa il fatto che molti documenti programmatici in materia migratoria adottati da istituzioni governative nazionali o regionali (come la Commissione Europea) – istituzioni non sospette di tentazioni sovraniste – non esitano a fare riferimenti frequenti a concetti che sono continuamente citati dalle impostazioni sovraniste, anche se queste ultime ne manipolano il contenuto per rafforzarne il messaggio.  La reiterazione continua – da parte di tutti i governi dei paesi d’immigrazione, e non solo di quelli che si ispirano esplicitamente a ideologie sovraniste – dell’importanza di preservare il diritto a limitare l’immigrazione come diritto inalienabile di ciancuno stato sovrano, e la sua dipendenza assoluta dal principio irrinunciabile della sovranità nazionale, e la sua giustificazione fondata su princìpi legati alla difesa della sicurezza nazionale e alla protezione dei diritti dei cittadini, rivelano in modo non molto subdolo l’incredibile influenza dell’impostazione sovranista sulle politiche migratorie prevalenti, molto più di quanto ci saremmo attesi.

  1. Pressioni per estendere la concessione del diritto ad immigrare

Se il modo in cui visti e permessi di soggiorno e di lavoro vengono concessi persegue principalmente l’intento di controllare e di regolamentare l’immigrazione, e spesso di contenerla e ostacolarla, se non reprimerla e disincentivarla, c’è anche da chiedersi se questa continua ricerca di sistemi per contenere la concessione del diritto ad immigrare sia veramente credibile e fattibile, viste le contraddizioni con cui questi sistemi di controllo si realizzano, o se non sia semplicemente un inutile sforzo, vista l’ipotesi dell’inevitabilità dell’immigrazione che consegue alla pressione enorme dei flussi migratori.[35]

Indubbiamente assistiamo ad un dispiego massiccio di mezzi a disposizione delle autorità pubbliche per limitare la concessione del diritto ad immigrare, ma al tempo stesso non possiamo ignorare che vi sono altre forze, altrettanto possenti, che spingono per concedere quel diritto ad un numero crescente di immigranti, operando in tutt’altra direzione rispetto alle politiche dei governi. Si tratta di forze che riflettono non solo la persistenza con cui gli immigranti arrivano, ma anche la debolezza nella volontà politica nei paesi d’immigrazione a portare a compimento le politiche di contenimento fino alle loro estreme conseguenze. Questa contraddizione è anche dovuta al fatto che le misure di contenimento sono troppo costose, e pertanto richiedono ingenti risorse che non sono sempre disponibili. Dietro l’intensità delle spinte migratorie, le autorità possono arrivare alla conclusione che sia futile tentare di limitare il diritto ad immigrare a tutti i costi, viste le complicazioni e gli ostacoli che si moltiplicano nell’attuazione dei regolamenti previsti dalla legge, e la facilità con cui possono essere aggirati, o contraddetti dai fatti. Al tempo stesso, constatiamo l’esistenza di un partito invisibile favorevole all’immigrazione, rappresentato dal confluire di interessi economici delle imprese nazionali, che disperatamente hanno bisogno di lavoratori stranieri, e di interessi politici dei sostenitori di un approccio aperto all’immigrazione, che interagiscono con pressioni di altro tipo che provengono dagli stessi immigranti (attuali o passati), che premono per un maggiore accesso al diritto ad immigrare

Alcune di queste forze sono particolarmente tenaci:

  • La rete di datori di lavoro interessati a reclutare lavoratori stranieri eserciterà una enorme pressione su governi e parlamenti affinché siano rimossi divieti nel mercato del lavoro o resi meno vincolanti, ottenendo regolamenti e leggi diverse e moltiplichando sforzi per assumere personale dall’estero.
  • ONG umanitarie e forze politiche e sociali favorevoli all’immigrazione e aperte a migliori rapporti di cooperazione internazionale hanno un ruolo importante nel mobilitare l’opinione pubblica ed esercitare un ruolo informativo ed educativo con le istituzioni responsabili della politica migratoria.
  • La popolazione residente include anche discendenti di immigranti[36] integrati nella società come cittadini, che svolgono a volte funzioni importanti. Questa componente, dotata in alcuni paesi di un crescente peso elettorale, ha la capacità di influire notevolmente sul dibattito che accompagna la formulazione delle politiche migratorie, favorendo orientamenti più aperti.
  • Gli immigranti raramente sono persone isolate, essendo l’emigrazione un fenomeno di gruppo, che coinvolge interi nuclei familiari, ma i vari membri delle famiglie non necessariamente emigrano allo stesso tempo. Ai primi arrivati seguiranno, in date successive, familiari collegati con coloro che li hanno preceduti o con altri membri della stessa comunità del paese d’origine. I primi, che hanno già superato le difficoltà iniziali per entrare nel paese, sono in grado di suggerire modi per facilitare l’immigrazione a quelli che seguono, grazie alla migliore conoscenza di meccanismi e procedure.
  • Gli immigranti – sia quelli arrivati con visti temporanei che quelli che hanno attraversato la frontiera illegalmente – sono alla costante ricerca di modi per restare, rinnovando permessi di soggiorno, sollecitando asilo, richiedendo permessi di lavoro, tentando espedienti vari. La loro elevata presenza numerica può esercitare una pressione sociale significativa per ottenere l’ambito permesso di soggiorno. Riuscire ad ottenere uno stato legale è una priorità assoluta, e il modo migliore per raggiungere l’obiettivo centrale dell’immigrante: la minimizzazione dei rischi per la sicurezza e la sopravvivenza della propria famiglia (vedi Parte VI su quest’obiettivo).

Queste pressioni convergono per estendere la concessione del diritto ad immigrare ad un numero sempre più elevato di immigranti e ridurre le fila degli immigranti irregolari a vantaggio di quelli regolari, anche se il volume totale degli immigranti dovesse rimanere uguale. Il risultato si vede nel fatto stesso che il numero di immigranti che riesce a beneficiare del diritto (sia pur limitato) ad immigrare è spesso superiore a quello che le autorità intendono inizialmente concedere. Queste forze “aperturistiche” si scontreranno con gli stretti controlli che vogliono limitare le concessioni. Assistiamo ovunque ad un constante “tira e molla” tra queste due forze contrapposte. Questo contrasto è spesso attutito dal modo in cui le restrizioni alla concessioni del diritto ad immigrare vengono gestite, non sempre così efficace come ufficialmente dichiarato. Infatti, le autorità governative non sono indifferenti alle pressioni prima indicate e spesso, nella concreta applicazione di quelle restrizioni, estendono ufficiosamente il diritto ad immigrare, anche quando ufficialmente lo negano, mostrando profonde contraddizioni rispetto alle posizioni formali antimigratorie. Ecco alcuni esempi di queste contraddizioni:

  • Da un lato permessi regolari di lavoro vengono concessi con preferenza solo per immigranti che hanno elevate qualificazioni professionali, con evidente esclusione dei migranti a più bassa qualificazione, ma al tempo stesso si tollera che immigranti temporanei non qualificati non ritornino nel loro paese allo scadere del loro permesso di soggiorno, rallentando o non eseguendo i processi di espatrio, o concedendo a questi ultimi permessi di soggiorno a breve termine, a volte rilasciati apparentemente senza una chiara spiegazione razionale.
  • In alcuni paesi si è più flessibili nel concedere l’asilo a chi aspira ad essere considerato rifugiato, rilasciando più facilmente permessi di soggiorno a chi viene da paesi affetti da gravi squilibri sociali, o concedendo loro qualche altro visto associato ad un permesso di lavoro, mentre in altri paesi, anche di fronte a prove inconfutabili di condizioni di violenza da cui il profugo è scappato, molte domande di asilo vengono rigettate, designando quei profughi come immigranti economici.
  • Il rafforzamento di misure contro l’arrivo di nuovi immigranti irregolari può essere accompagnato simultaneamente da misure che favoriscono l’integrazione sociale per gli immigranti già arrivati, non prendendo una posizione chiara sulla priorità da attribuire all’accoglienza verso gli immigranti.
  • In alcuni paesi, è la legislazione in materia di lavoro che obbliga alla concessione di diritti agli immigranti che altrove sono rifiutati, forse perché le leggi costituzionali proteggono la tutela dei diritti umani di qualsiasi lavoratore (anche straniero). Ma ciò non impedisce che misure molto dure vengano adottate per il respingimento degli immigranti irregolari alla frontiera.[37]

Tutte queste contraddizioni sono sintomi della condizione di incertezza e di confusione che pervade la gestione dei sistemi di concessione del diritto ad immigrare, perché dietro l’apparente certezza delle regole e dei divieti, le strutture burocratiche non sono indifferenti alle pressioni che provengono dalla realtà politica, economica e sociale dell’immigrazione. Nei paesi ove si crede di poter meglio controllare la concessione del diritto ad immigrare con divieti e controlli rigidi che limitano il rilascio dei permessi ufficiali di soggiorno e di lavoro, si assiste all’esplosione del mercato clandestino del lavoro immigrato, perché le pressioni economiche e demografiche sono incontenibili. La sostenuta domanda di lavoro immigrato (vedi Parte VIII) non sarà facilmente attenuata dai divieti.  Si creano così situazioni squilibrate nel mercato del lavoro, con la sviluppo di sweat shops ove i lavoratori stranieri lavorano in condizioni disumane, a condizioni salariali e di sicurezza lavorativa assolutamente insoddisfacenti. L’esperienza del caporalato in Italia ne è una triste testimonianza. Allo stesso tempo, i settori produttivi che hanno un disperato bisogno di manodopera importata continueranno a premere per rinforzare i loro quadri, reclutando anche immigranti irregolari. Molti immigranti potranno penetrare il mercato ufficiale del lavoro anche ricorrendo a documenti contraffatti. I paesi d’immigrazione spesso sono costretti a venire a compromessi, adottando soluzioni contradditorie e sanatorie. Assistiamo a retate nei posti di lavoro per espellere immigranti irregolari, ma raramente si colpiscono le imprese che assumono quel personale, perpetuando il ciclo che sostiene un’elevata domanda di lavoro immigrato. Si minaccia l’esasperazione delle deportazioni in massa, ma le statistiche mostrano un numero di deportati inferiore agli immigranti irregolari che restano, i quali, se non assorbiti per vie legali, useranno le vie illecite per sopravvivere.

Sembra che la concessione del diritto ad immigrare stia sfuggendo di mano alle autorità dei paesi d’immigrazione e non sia più lasciata soltanto alla loro discrezione, sotto la pressione di forze che chiedono un approccio più flessibile, aprendo le porte ad una possibile riconciliazione tra il valore assoluto del diritto ad emigrare con la possibilità di concedere sempre più diritti agli immigranti che bussano ai cancelli delle frontiere. Questa pressione è coerente con le tendenze globalizzanti della società odierna che non si esprimono solo nella libera circolazione di capitali e di merci, di informazione e di idee, ma anche in una richiesta di una maggiore mobilità della manodopera. 

È giustificato quindi porsi una serie di dubbi di fondo. È possibile controllare questo diritto a limitare l’immigrazione che sembrava inizialmente illimitato, nonostante che derivi il suo potere dal principio della sovranità nazionale? Esiste un limite a questo diritto? E quali sono le basi etiche e politiche su cui fondare un simile limite? Esistono obblighi dei paesi d’immigrazione verso gli immigranti che sono stati finora trascurati?  Le pressioni fin qui ricordate favoriscono un ripensamento sulla sistematica restrizione della concessione del diritto ad immigrare. Forse il momento è arrivato per avviare un’ampia riflessione sulla natura di questi possibili obblighi, individuando i vincoli da porre a questo enorme potere degli stati sovrani, identificando princìpi di carattere generale per giustificare questi obblighi nei confronti degli immigranti, obblighi che vadano al di là della mera protezione internazionale di rifugiati o categorie analoghe. È nell’ambito di una simile riflessione che potremmo esplorare spazi nuovi per promuovere sistemi più flessibili che incoraggino la mobilità internazionale su di una scala più amplia.[38]

  1. L’ipotesi della “emigrazione senza frontiere”

Se vi sono pressioni significative per estendere il diritto ad immigrare, possiamo chiederci come sarebbe il mondo se il diritto ad immigrare fosse trattato come il diritto ad emigrare, cioè come un diritto umano universalmente riconosciuto. Una simile ipotesi equivale ad ammettere che prevalga una situazione come quella prevista nel modello dell’emigrazione senza frontiere (migration without borders, o MWB). Si tratta di un modello puramente teorico, che tuttavia aiuta a interpretare situazioni reali, quando è possibile contemplare approcci più liberali sull’immigrazione. Esistono vari studi[39] su questo approccio. Nel modello MWB l’emigrazione è una sfida alle politiche di contenimento e suppone che non ci siano particolari restrizioni ai flussi migratori, i quali risponderanno invece a fattori economici, politici ed etici (vedi Parte VI), dando luogo in qualche modo alla libera circolazione della manodopera.  L’introduzione di una maggiore mobilità internazionale produce anche una “deterritorializzazione” delle identità personali che definiscono individui e istituzioni coinvolti nel processo migratorio, comprese le imprese e degli altri attori rilevanti nel mercato del lavoro, sempre più integrato a livello internazionale o regionale, mentre al tempo stesso si intensifica la migrazione transnazionale.[40]

“Ius migrandi”: cercando nella storia[41]

Il concetto di “ius migrandi”, combinazione del diritto ad emigrare con il diritto ad immigrare, è stato fatto risalire a precedenti storici paricolarmente illustri, relativi al modo in cui poteva venir acquisita la cittadinanza romana nel periodo tardo-repubblicano, tra il secondo ed il primo secolo a.C. da popolazioni limitrofe (i “Latii”). In quei tempi di rapida espansione della repubblica romana, si poneva il problema di garantire la fedeltà delle nuove popolazioni con le quali i romani si stavano confrontando, assicurare una crescita demografica dell’Urbe romana, e offrire lo ‘ius civitatis’ (diritto alla cittadinanza) ad un numero crescente di individui attraverso processi di naturalizzazione. La penisola era ancora controllata da popolazioni latine e italiche non completamente assoggettate al dominio romano, che godevano ancora di significative autonomie locali. Lo “ius Latii” concedeva uno stato particolare a quelle popolazioni, con diritti che erano premonitori dei diritti propri dei cittadini romani. Concedeva a chi contraeva matrimonio con un cittadino romano la possibilità di svolgere attività commerciali con i romani, con le garanzie legali di veder riconosciuti i propri diritti negoziali. Un aspetto non marginale di questo ‘ius Latii’ era la libertà di trasferirsi (immigrare) a Roma (“ius migrandi”), godendo di un trattamento paritetico rispetto ai cittadini romani, incluso il diritto di votare nei comizi elettorali.  Questi speciali diritti col tempo vennero estesi anche a chi non aveva propriamente origine latine o italiche, ma era residente in città occupate dai romani, ben oltre i confini laziali. Una novità interessante dello “ius Latii” fu l’aggiunta di una modalità per l’acquisizione della cittadinanza romana che avveniva attraverso il mero spostamento fisico in territorio romano.  L’ingresso fisico, seguito verosimilmente da una registrazione curata dai censori nelle liste del Censo, assicurava all’individuo e alla sua famiglia una collocazione nella società romana, ed era sufficiente per dare il diritto di sottoporre una domanda ad un magistrato romano per la sua naturalizzazione come cittadino romano. Il magistrato poteva rispondere a quella domanda con un atto amministrativo che confermava la volontà della repubblica di accoglierlo tra i suoi cittadini. Requisiti per concedere taluni diritti richiedevano una permanenza minima nel territorio dell’Urbe.

 Questi diritti riservati ai Latini col tempo furono estesi anche ai non Latini, prevedendo una procedura a stadi successivi per permettere alle popolazioni transpadane di acquisire lo stato di Latini, come fase intermedia prima di poter richiedere gli stessi diritti speciali concessi ai Latini rispetto al diritto di residenza in Roma (“ius migrandi”) e acquisizione della cittadinanza romana, passando per la fase intermedia di essere considerati equivalenti alle popolazioni latine. La questione era tutt’altro che semplice, e fu complicata ulteriormente con l’emissione di leggi speciali, quali la “lex Julia” del 90 a.C., che aveva offerto la cittadinanza romana ai Latini e agli Italici che non avessero combattuto contro la repubblica romana, la “lex Plautia Papiria”, che riguardava gli stranieri residenti in città italiche, la “lex Calpurnia” riguardante l’iscrizione dei “novi cives”, e la “lex Pompeia” per le popolazioni transpadane. Ciò che più conta, ai nostri fini, è che esisteva un meccanismo che permetteva a popolazioni non romane di trasferirsi sul suolo dell’Urbe legalmente e che, attraverso la mera trascrizione nei Censi, offriva un percorso per l’acquisizione della cittadinanza, uno schema molto avanzato se confrontato con gli schemi moderni di immigrazione. Con l’espansione del dominio dei romani e l’avvento dell’impero, numerose limitazioni furono imposte alla libera circolazione degli individui e all’estensione della cittadinanza romana, visto che i romani non erano più interessati ad espandere demograficamente il territorio urbano della grande città, e popolazioni sempre più diverse si erano aggiunte nel grande impero.

 

 Molti potrebbero obiettare sull’uso del modello MWB in quanto si basa su di un’ipotesi completamente “utopica” e l’impossibilità di poterlo realizzare è data per scontata.[42]  Ma questa obiezione non è sufficiente. La rilevanza di quel modello è maggiore di quanto la sua apparenza utopica faccia credere. Oggigiorno un cittadino di un paese europeo che appartenga all’Area Schengen si può muovere liberamente in quell’area come prefigurato nel modello MWB: la libera circolazione non è un’utopia in quella regione. Anche se il modello si applica finora solo ad alcuni casi regionali, esso permette di verificare cosa succede ogni volta i tentativi di bloccare l’immigrazione (specie irregolare) non funzionino, il che è molto frequente. E poi, gli immigranti arrivano comunque, perché le società aperte alla globalizzazione non possono fare a meno della libera circolazione del lavoro (nella Parte VIII vedremo perché), e l’inevitabilità dell’immigrazione è ammessa dalla maggioranza degli osservatori e studiosi, pur con gli alti e i bassi di breve periodo. È proprio qui che il modello MWB ci viene in aiuto. Inoltre, le politiche di contenimento, oltre ad essere spesso inefficaci, sono per lo più insostenibili, anche  se popolari, e la loro sostenibilità è raramente vagliata. I richiami “a erigere muri più alti ed estesi, a creare nuovi centri di detenzione, ad aumentare i quadri giudiziari e di polizia di frontiera” si scontrano con la scarsità di risorse ed il loro peso sul bilancio pubblico. Tali misure inoltre hanno elevati costi umani, col rischio di violare diritti umani e norme di diritto internazionale o regionale (per esempio, europeo), nonché princìpi costituzionali, rischio intollerabile nelle democrazie fondate su quei princìpi.

D’altronde il diritto alla mobilità è già divenuto una realtà di fatto in molti altri casi.  I cittadini dei paesi sviluppati incontrano poche restrizioni a emigrare ovunque, anche se dovranno lavorare con un po’ di fantasia per ottenere visti d’ingresso, non tanto difficili da ottenere se saranno lavoratori ad elevata qualificazione. Titoli di studio ed esperienze professionali sono ottime credenziali per conseguire visti d’ingresso e permessi di lavoro, senza parlare delle agevolazioni concesse ad immigranti di lusso, anche per chi proviene da paesi in via di sviluppo. Per costoro, il modello MWB è già una realtà, anche se applicato in modo imperfetto.  Semmai il problema è per i molti immigranti provenienti dai paesi in via di sviluppo con più basse qualifiche professionali, per i quali il riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale è ancora un serio problema, ponendo una questione di iniquità internazionale. Ciò non di meno, il modello MWB trova applicazione anche in quest’ultimo caso (per gli immigranti non qualificati del sud), nella misura in cui la pressione migratoia da quei paesi è così forte da avere il sopravvento sui vincoli imposti dai paesi d’immigrazione. La realtà del MWB è più frequente di quanto ci aspetteremmo.

Pertanto, pur non potendo sostenere che il mondo attuale rispecchi i parametri del modello MWB, è ragionevole supporre che ci siano fattori che spingono verso una intensificazione dei flussi migratori, con tendenze complesse e a volte contraddittorie, che giustificano una attenzione speciale a quel modello. Ma dobbiamo anche tener conto della complessità delle leggi ed dei regolamenti di ogni paese nel contesto delle divisioni territoriali esistenti. Il modello MWB è compatibile con molte configurazioni alternative con una gamma di possibili modalità. A ciascuna configurazione corrispondono modi diversi di garantire il diritto alla mobilità internazionale. Il modo in cui i confini territoriali svolgono ancora un ruolo nelle relazioni internazionali varia a seconda delle opzioni ipotizzate, cui corrispondono procedure diverse per l’esercizio del diritto alla mobilità internazionale. Le divisioni territoriali non scompariranno automaticamente solo perché adottiamo il modello MWB, ma le competenze giurisdizionali di ogni territorio o stato persisteranno. Inizialmene potremmo individuare tre situazioni possibili:[43]

  • Assenza di frontiere.

In tal caso, lo stato rinuncia a porre qualsiasi delimitazione fisica dei confini territoriali, pur restando tutte le competenze esclusive di natura giuridica. L’assenza di frontiere fisiche trasforma un confine tra due stati solo in una realtà giuridica e virtuale, ma la circolazione di persone e di merci è completamente libera. Non vedremo più le frontiere fisicamente, che resteranno sulle cartine geografiche e nelle competenze amministrative e legislative.  Distinzioni giuridiche permarranno per le molte implicazioni fiscali, finanziarie e pratiche, ma non per la libertà di movimento delle persone. Trasferirsi da uno stato all’altro sarà come andare dalla Regione Lazio alla Regione Toscana o dallo stato del New Jersey a quello della Pennsylvania. Ci sarà forse un cartello, ma non vedremo evidenze fisiche di una frontiera.

  • Frontiere aperte

In questo secondo caso, le frontiere fisiche rimangono, ma la porta è sempre aperta. Ci potranno essere controlli occasionali per verificare identità per motivi di sicurezza, ma non si richiederà alcun visto d’entrata. È una soluzione intermedia, in cui si mantengono le vestigia dell’ufficio doganale, senza però che nessun doganiere ci fermi per controllare il passaporto.  Occasionalmente, se dovessere sorgere problemi, si abbasserà la barra al controllo doganale, per controlli straordinari, specialmente per ragioni di sicurezza o per verificare irregolarità o infrazioni legislative, ma non si richiederà un visto d’ingresso alla frontiera, anche se potrà essere richiesto qualche permesso per lavorare in settori specifici.

  • Formule varie di concessione del diritto alla mobilità internazionale.

Questo terzo caso non è un modello unico, perché si presta all’adozione di moltissime varianti. Si suppone che le frontiere vengano mantenute come lo sono attualmente, e che vi siano ancora i controlli in entrata ed in uscita, ma che la concessione del diritto ad immigrare sarà liberalizzata. Le forme in cui questa liberalizzazione avviene, però, saranno molto diverse. Ciascuna di queste forme sarà un’applicazione del modello MWB, anche se procedure diverse saranno previste per concedere il diritto ad immigrare, alcune fortemente liberali, altre ancora in parte restrittive.

Il vantaggio di questo terzo gruppo è che permette di individuare alternative operative diverse, incluse opzioni più realistiche intermedie, ove l’estensione della mobilità internazionale venga realizzata in modo graduale e flessibile. Per ogni opzione ci saranno procedure diverse. Alcune procedure si limiteranno a modificare gli schemi degli attuali controlli alle frontiere, introducendo una maggiore flessibilità. L’immigrante che sta passando la frontiera sarà ancora soggetto ad una serie di obblighi, che tuttavia non saranno vere restrizioni al suo diritto ad immigrare, ma requisiti amministrativi da rispettare, quali i seguenti:

(i)         La presentazione di un passaporto valido può continuare ad essere richiesta (con o senza visto). Se il requisito del visto è ancora mantenuto, dovrebbe essere una pura procedura amministrativa a fini di monitoraggio, non soggetto a selezione discriminante (sarebbe come chiedere una carta d’identità).

(ii)        L’appartenenza ad una lista di paesi con i quali si è concordato il riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale potrebbe essere condizione necessaria per garantire la libera circolazione, e potrà essere prevista in specifici accordi bilaterali o multilaterali, o estesa a carattere globale, in un quadro di diritto internazionale.

(iii)       L’accertamento di documenti alla frontiera potrebbe continuare, ma legato solo a ragioni di sicurezza, per soddisfare coloro che temono che l’immigrazione possa essere strumentalizzata dalla criminalità, ma non corresponde alla verifica di un visto d’ingresso.  

(iv)       L’attraversamento libero della frontiera non vieta che si possa affiancare alla richiesta di una serie di adempimenti amministrativi che permettano, ad esempio, l’accertamento delle intenzioni dell’immigrante sulla natura del suo viaggio, l’indirizzo ove intende recarsi, se si tratta di una visita temporanea o di un trasferimento di lungo periodo. Quanto più leggeri saranno questi adempimenti, maggiore sarà la libertà di circolazione.

(v)        Tra questi adempimenti amministrativi, la libertà di immigrazione potrebbe essere compatibile con obblighi volti a ufficializzare il trasferimento di residenza, con opportune registrazioni (come quando registriamo il cambio di residenza nei nostri comuni), dietro presentazione di apposita documentazione (un contratto di affitto o di lavoro, corrispondenza al nuovo indirizzo domiciliare, iscrizione all’università, pagamento di una bolletta).

(vi)       La più libera circolazione potrebbe coesistere con la persisitenza di vincoli per dimostrare di avere i mezzi necessari per sostentarsi nel nuovo paese (magari producendo una promessa o un contratto di lavoro, un estratto di un conto bancario, una prenotazione alberghiera prepagata, una lettera di presentazione, una carta di credito o altro).

Queste modalità, qui soltanto esemplificate, indicano forme pragmatiche con cui il modello MWB può essere realizzato. Pur richiedendo, in alcuni casi, il rispetto di una serie di adempimenti formali, l’estensione totale o graduale del diritto ad immigrare è garantita. La fattibilità delle varie opzioni dipende dalle condizioni concrete di ogni paese, e si inquadra nell’ambito di accordi bilaterali o multilaterali da stipolare.  Molti negano che queste opzioni abbiano alcun senso operativo nella situazione attuale, perché escludono a priori che ci sia alcuna possibilità di varare accordi di questa natura, e per questo non prestano alcuna attenzione al modello MWB. Questa obiezione di principio si basa anche sul timore che anche il solo discutere di un simile modello possa essere interpretato come un’accettazione automatica della politica delle porte aperte, politica che i più rifiutano a priori perché – questi sono i loro timori –potrebbe provocare un aumento spropositato dei flussi migratori.

È vero che esiste una relazione tra MWB e la politica delle porte aperte, ma considerare un modello non significa sposarlo. Infatti, discutere sulle implicazioni di qualunque delle opzioni qui menzionate per realizzare quel modello, nell’ambito di una mera simulazione politica, non equivale ad accettare l’opzione delle porte aperte, ma può essere un modo per discutere misure alternative sull’immigrazione rispetto a quelle attuali, esaminando, con un approccio pragmatico, le conseguenze eventuali di un’applicazione graduale e limitata del modello MWB, nell’ambito di una mobilità regolamentata.[44]

Inoltre, temere che l’apertura delle frontiere comporti automaticamente una esplosione dell’immigrazione non è giustificato. È un timore che non ha il sostegno di evidenze empiriche. È solo una posizione aprioristica, basata su pregiudizi,[45] un’affermazione che suppone che le misure di contenimento siano il vero deterrente dell’immigrazione, per cui una loro rimozione produrrebbe un effetto espansivo inevitabile sui flussi migratori. Ma questo significa supporre che quelle misure siano molto efficaci, e abbiamo visto che questo non è vero. I flussi migratori, nel lungo periodo, dipendono da  fattori non legati alle politiche migratorie e questo è confortato da fatti concreti.  Potremmo concedere però che ci potrebbe essere un effetto espansivo temporaneo sull’immigrazione per l’arrivo di coloro che stanno aspettando “dietro i cancelli” (“parcheggiati” nei paesi terzi). Ma l’effetto sarà probabilmente di dimensioni limitate, e sarà presto riassorbito, quando i flussi migratori riprenderanno il ritmo definito dai fattori di fondo. È abbastanza realistico supporre che nel lungo periodo l’adozione della politica delle porte aperte provocherà effetti espansivi sull’immigrazione inferiori a quanto temuto. 

Se le pressioni qui analizzate saranno in grado di esercitare una notevole spinta per una estensione su di una vasta scala della concessione del diritto alla mobilità internazionale, resterà ancora da affrontare una questione sostanziale: quale è la giustificazione politica di fondo per introdurre una riforma di tale portata? Se la risposta a questa domanda può già essere in parte trovata nelle pressioni esercitate su questa estenzione, in quanto la politica non può ignorare tali tensioni, tutto questo non basta. Infatti, le direzioni future della politica migratoria non possono essere determinate solo da avvenimenti del passato e dalle pressioni sociali correnti, se non sono anche ispirate da un quadro di ideali, di obiettivi e di princìpi di carattere generale.  È necessario individuare, infatti, una giustificazione politica ben più robusta che non le sole pressioni esterne, giustificazione che può essere tale solo se fondata su di una solida base etica.  Anticipiamo che una simile base potrà essere individuata soltanto se sarà data nuova attenzione ai diritti degli immigranti, che sostituiranno le preoccupazioni dominanti nelle attuali politiche migratorie finora concentrate solo nella difesa dei diritti dei residenti e dei paesi d’accoglienza. Un simile cambiamento di ottica si può giustifiare politicamente solo se introdurremo una nuova dimensione etica nella definizione delle politiche migratorie. Riteniamo che una simile base etica per concedere il diritto alla mobilità internazionale su più vasta scala non possa che scaturire dal un diverso legame tra il diritto alla mobilità internazionale e la difesa dei diritti umani.

Tuttavia questo quadro ideale, fondato su valori etici che informeranno gli obiettivi politici dei nuovi orientamenti in materia di diritto alla mobilità, non potrà essere realizzato in astratto, ma dovrà tener conto di fattori complessi relativi alle dinamiche economiche e sociali che determinano incertezza e resistenze notevoli ad un’applicazione anche parziale, e necessariamente graduale, del modello MWB. L’estensione del diritto alla mobilità internazionale non sarà un’operazione semplice, anche se ci sono ragioni sufficienti per supporre che farà progressi sostanziali in futuro, attraverso stadi intermedi, difficoltà, rigetti, ripensamenti e adattamenti. Non basterà riferisi in modo astratto ai benefici della libera circolazione della manodopera – come supposto in certe analisi teoriche,[46] ove il lavoro è trattato come merce nelle teorie per il commercio internazionale – per concludere che la mobilità internazionale comporti sempre benefici sia per i paesi d’origine che per quelli di immigrazione. Dobbiamo calarci nei contesti concreti del funzionamento delle economie, ove l’immigrazione interagisce con disfunzioni, squilibri strutturali e dinamiche sociali, per verificare la fattibilità di proposte concrete di espansione della mobilità internazionale. Potremo avere qualche speranza nel fare progressi sulla estensione dell’applicazione del diritto alla mobilità internazionae solo se riusciremo a fuggire i dubbi sulla capacità dell’immigrazione di produrre benefici ai paesi ospitanti. Questa sarà la condizione necessaria per varare queste riforme. Nella Parte VIII di questo saggio affronterò specificamente questo tema.  Ma questo non esaurisce le difficoltà per portare avanti queste riforme.  Il maggiore ostacolo all’estensione del diritto alla mobilità internazionale probabilmente sarà nel diffuso atteggiamento psicologico ostile all’immigrazione, che tanto pesa sugli orientamenti dell’opinione pubblica, e che ha avuto non poche implicazioni per le politiche adottate finora. A questo tema dedicherò la Parte IX di questo saggio. È solo dopo aver esaminato questi aspetti controversi che saremo in grado di delineare ipotesi alternative di un quadro normativo dell’immigrazione più aperto all’accoglienza degli immigranti, che verrà affrontato nella Parte X, a conclusione di questo saggio.

  1. La sfida etica delle “migrazioni senza confini”

La sfida maggiore che il modello MWB presenta non è la sua fattibilità, sopra discussa, ma la sua accettabilità sul piano etico, perché la dimensione etica influenzerà in modo determinante il peso politico delle nuove proposte.[47] Affinché la politica accetti di introdurre il diritto ad immigrare come naturale complemento del diritto ad emigrare – diritto umano sancito universalmente – occorre un impegno morale internazionalmente condiviso dai paesi d’immigrazione che lo sottoscrivono ad accogliere l’eventuale emigrante. Solo una decisione collettiva della comunità internazionale può evitare effetti pertubatori di aperture unilaterali alla mobilità internazionale.[48]  Un simile impegno morale presuppone una solida base etica per favorire un diritto alla mobilità internazionale.

Esistono forti argomentazioni etiche che sostengono questo approccio o ce ne sono altrettante che lo oppongono? La dimensione etica del modello MWB è complessa. Un approccio frequentemente citato nella letteratura sull’argomento è quello di verificare questa dimensione etica nell’effetto dell’approccio MWB sul benessere sociale, non tanto dei migranti, quanto delle popolazioni dei paesi d’immigrazione. È un modo molto riduttivo di verificare la base etica del modello MWB, in quanto semmai l’accettabilità etica del diritto ad immigrare dipenderebbe dalla valutazione del suo impatto sul benessere sociale sia dei paesi d’immigrazione che di quelli d’origine. Prendere il benessere sociale come punto di partenza della valutazione etica, inoltre, complica il discorso, perché non esiste una nozione universalmente accettata di benessere sociale, il quale può essere stimato a livello individuale o a livello di gruppi di individui (per esempio, in termini utilitaristici), o a livello di comunità nazionali (siano esse considerate mere aggregazioni di individui, estendendo così gli schemi utilitaristici, oppure alternativamente siano esse aggregazioni nazionali non riconducibili a semplici somme di comportamenti individuali) o a livello internazionale (sia all’interno di una stessa regione o sul piano inter-regionale).

Nelle impostazioni di tipo individualistico, il benessere consiste nell’ottimizzazione della funzione di utilità di una persona e la libertà individuale è un valore politico primario. Pertanto, le “esternalità” prodotte dall’immigrazione (i suoi benefici “collettivi”) e i loro effetti sulle funzioni individuali di utilità vengono sistematicamente trascurate. Queste impostazioni trovano una tipica manifestazione in concezioni libertarie, che erano in auge anni fa e ne troviamo tracce ancor oggi nel pensiero di molti movimenti o personaggi politici che si richiamano a princìpi libertari. Ci si potrebbe aspettare dal pensiero libertario il riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale come diritto individuale inaleniabile, come espressione della “libertà” dell’individuo e del suo pieno diritto di scegliere dove stabilire la propria residenza. Questa impostazione sicuramente risponde alle posizioni condivise dai radicali italiani che si ispirano a princìpi libertari e che fanno dell’autonomia del giudizio individuale, della libertà di scelta e della libera capacità di associarsi i pilastri di qualsiasi giusta società.

Ma frequentemente non sono queste concezioni aperturiste che sentiamo nei settori conservatori della destra statunitense che si richiamano ai princìpi libertari e che – pur partendo apparentemente dalle stesse premesse filosofiche fondate sulla libertà individuale – arrivano a conclusioni opposte in materia di immigrazione. Il problema è che queste impostazioni ignorano la libertà dell’immigrato, per concentrarsi sulla difesa della libertà e dei diritti del cittadino residente, in particolare dei suoi diritti sulla proprietà privata acquisiti nel tempo ed il suo controllo sulla terra, sulle infrastrutture e sulle risorse naturali del paese, considerati diritti fondamentali e originari, [49] che defiscono uno stato originale della persona sancito dal diritto natural, anche se sappiamo questo stato è definite da processi storici, che nulla hanno a che vedere con l’equità o con uno stato naturale preesistente.[50] Inoltre, il diritto di associazione degli individui è visto come strumentale per difendere gli interessi di gruppo dei residenti, in particolare dei loro diritti di proprietà e dei loro interessi, proclamando che solo i rapporti tra persone che condividono gli stessi orientamenti (quelle persone che in inglese vengono chiamate like-minded) contano.[51] Partendo da queste premesse, queste impostazioni libertarie si oppongono a qualsiasi interferenza dello stato nell’attività economica, e a qualsiasi forma di assistenzialismo statale (politiche del welfare), e quindi anche a qualsiasi sostegno statale eventualmente offerto agli immigranti, perché ritengono che lo stato debba ignorare certe interferenze sui comportamenti individuali. In tal modo, pervengono a conclusioni sul diritto ad immigrare completamente opposte a quelle inizialmente immaginate per chi si ispira alla tutela delle libertà individuali.  L’arrivo degli immigranti, specialmente se incontrollato o troppo numeroso, è visto come una minaccia agli interessi del gruppo dei residenti.[52] Perciò il diritto alla mobilità, che in un’ottica libertaria dovrebbe essere espressione della libertà individuale di decidere dove risiedere, viene concesso solo alle persone che sono omogenee con i residenti, perché così hanno liberamente deciso i residenti.

La base etica di impostazioni discriminanti di questo tipo è estremamente fragile e difficilmente difendibile, a meno che non si riesca a dimostrare che l’immigrazione comporti una perdita considerevole di controllo da parte dei residenti sulle proprie risorse e sul proprio destino, compromettendone il benessere economico. Come qualsiasi analisi individualista, queste impostazioni trascurano i benefici derivabili dall’immigrazione, le esternalità prodotte dalla liberalizzazione dei movimenti migratori per il loro contributo a un benessere comune, di cui anche i residenti beneficeranno, e gli aspetti strutturali del funzionamento delle economie sviluppate, prescindendo da qualsiasi protezione dei diritti fondamentali degli immigranti che invece si potrebbe supporre che un’etica libertaria dovrebbe proteggere.

Apparte queste impostazioni libertarie, cercare una base etica per l’estensione della concessione del diritto ad immigrare attraverso la valutazione del suo effetto sulle funzioni individuali di utilità come espressioni del benessere sociale si scontra con il fatto che gli individui esprimono una grande varietà di tali funzioni molto diverse tra di loro e difficilmente comparabili e aggregabili. Questa varietà riguarda:

  • Imprenditori o quadri dirigenti che impiegano sia lavoratori immigrati che lavoratori nazionali e che traggono vantaggi dall’immigrazione, riconoscendone i benefici, mentre altri imprenditori o dirigenti non sono esposti al lavoro immigrato e potrebbero essere indifferenti ad una loro influenza.
  • Lavoratori che si sentono minacciati dal lavoro immigrato e si battono per proteggersi da queste minacce. Ma per molti di essi questa è soltanto una percezione, legata a pregiudizi. Simultaneamente altri lavoratori, che interagiscono positivamente con i lavoratori immigrati in rapporti di collaborazione, potrebbero avere posizioni completamente opposte.
  • Molti individui, ONG, istituzioni ed entità della società civile sono aperti ad un dialogo globale e multi-culturale, e riconoscono il valore etico del modello MWB. Ma molti individui e gruppi sociali condividono visioni fortemente identitarie nazionaliste e si sentono minacciati dall’immigrazione. Questi ultimi esercitano una notevole influenza su invididui meno esposti a intercambi culturali o meno colti, e pertanto predisposti a subire le suggestioni della propaganda sovranista, che fa leva su di un facile allarmismo per minacce che proverrebero dall’esterno. Infine, molti individui non hanno opinioni “forti” su questo tema, e la loro funzione di utilità è, a dir poco, indefinita.

L’utilizzo dell’approccio utilitaristico per valutare l’impatto etico di una maggiore mobilità internazionale porta così a risultati molto diversi da un individuo all’altro e tutto sommato indefiniti. Il metodo è tendenzialmente statico e non riesce a tener conto dell’influenza di processi strutturali e storici. Ignora effetti “esterni”, come le dinamiche demografiche e le dinamiche del mercato del lavoro, che sono invece centrali, e non perviene a conclusioni chiare sugli effetti del modello MWB per la società nel suo insieme a causa di seri problemi metodologici di aggregazione di giudizi individuali, incapace di tradurli in giudizi collettivi sul benessere sociale. Ricorre alla scappatoia della regola della maggioranza per riconoscere valutazioni globali, ma questo ci porta a risultati aleatori ed inaffidabili, che dipendono da meccanismi istituzionali (elezioni) che esprimono maggioranze politiche che decideranno leggi e misure in materia migratoria. I processi politici sono fortemente influenzabili da meccanismi di pressione sull’opinione pubblica.  Soltanto minoranze ridotte, delle vere e proprie élite, hanno normalmente idee esplicite e articolate in materia di immigrazione, sia a favore che contro i flussi migratori, mentre la maggioranza della popolazione è poco informata o interessata al tema, o non ha convizioni “forti” su questi temi, sia in un senso che nell’altro. Pertanto, il valore etico del modello MWB attribuito da “maggioranze” politiche dovrebbe essere preso cum grano salis, come qualsiasi decisione democratica.  

Ci troviamo quindi in una situazione di impasse sul valore etico del modello MWB in termini di benessere sociale, e ciò dipende in parte dall’aver scelto il benessere sociale come criterio di valutazione e dall’aver utilizzato una metodologia individualistica che ha difficoltà analitiche a esprimere scelte collettive aggregando funzioni individuali di preferenze. Altro difetto di questo approccio è che ci stiamo concentrando sulla valutazione etica fatta dai residenti, ignorando completamente gli interessi e, sottolinerei, i diritti degli immigranti, che sono gli attori principali del processo migratorio.

Un modo per risolvere questa impasse è quello di abbandonare il benessere sociale come variabile etica, ma cercare la valutazione etica dell’apertura alla mobilità internazionale nei valori morali della società, valori che sono legati alla visione etica di ogni individuo. Questi valori morali permettono una comparabilità tra individui di gran lunga superiore rispetto al confronto di funzioni individuali di utilità utilizzate dall’economia del benessere, per la loro incredibile somiglianza.  Questi valori per molti sono ancorati al proprio credo religioso (vedi riquadro qui di seguito), pur se gli stessi valori possono essere condivisi anche da chi non manifesti alcuna fede religiosa, e si riconosca soltanto in una visione puramente laica della società. E questo non ci deve meravigliare, perché un approccio morale di questo tipo si concentra sugli effetti della mobilità internazionale sulla dignità della persona umana, e riporta l’attenzione sulla condizione degli immigranti o dei migrandi. E c’è una convergenza di visioni morali su questo tema di gran lunga superiore rispetto a valutazioni degli effetti sul benessere.

Religioni, valori e mobilità internazionale

Sul valore centrale dell’accoglienza dell’immigrato per la chiesa cattolica, Papa Francesco ha ripetitivamente ribadito una posizione molto netta a sostegno dei migranti e dei rifugiati, e la chiesa cattolica ha apertamente appoggiato gli sforzi delle Nazioni Unite per un Global Compact on Migration, confermando posizioni enunciate da sempre nell’ambito della dottrina sociale della chiesa.[53] In generale, questa posizione è condivisa da tutte le confessioni religiose che si definiscono cristiane, per gli espliciti riferimenti al messaggio evangelico trovati, ad esempio, nel vangelo di San Matteo in 25:30 o nelle Beatitudini (Matteo, 5:6-10, Luca, 6:20-22), o ribatiti in altre parti della Bibbia). Vedi a questo riguardo C. B. Harbin, (2015) “On Immigration – Immigrants, Foreigners, and Strangers – Surveying Biblical Teaching on Issues of Immigration”, Nurturing Faith Inc., Macon, GA. Queste posizioni sono sostenute anche da confessioni non cristiane, seguendo la tradizione ebraica, islamica, buddista o di altro credo religioso o filosofico. Tutte queste tradizioni condividono princìpi di fratellanza universale dell’umanità come principio ispiratore dell’accoglienza verso l’emigrante e molte di esse sono particolarmente attive nel sostegno dell’accoglienza e nell’assistenza ai rifugiati internazionali e altri tipi di migranti, anche attraverso organizzazioni specifiche che offrono sostegno a iniziative umanitarie. Questi princìpi sono condivisi anche da molte persone che non condividono alcun credo religioso, o che affermano posizioni esplicitamente atee, ma che condividono lo stesso rispetto per la dignità umana e i diritti dell’uomo. E sono anche la base ispiratrice di molte ONG laiche che prescindono da qualsiasi specifico credo religioso nel loro impegno per l’assistenza ai migranti.

In questo saggio non mi sono soffermato sull’importanza di impostazioni religiose nell’ispirare politiche a favore dell’accoglienza degli immigrati, avendone esaminato solamente la dimensione laica. C’è anche da ricordare che alcune impostazioni sovraniste hanno utilizzato la difesa di certe identità religiose come giustificazione di politiche anti-migratorie. Questo uso di riferimenti religiosi, come è stato ripetutamente sottolineato da molte autorità religiose e osservatori politici di vario orientamento, è improprio: si tratta di deviazioni generalmente rigettate dalle interpretazione ritenute autentiche delle maggiori religioni, e semplici strumentalizzazioni a fini puramente politici di argomentazioni eticamente non valide. Non basta sbandierare un rosario in un comizio per riflettere profondi valori etici in materia di immigrazione.

Se perciò vogliamo affrontare la valutazione etica della estensione del diritto alla mobilità internazionale in termini che pongano la persona umana al centro del discorso, è appropriato concentrarsi sul titolare di date diritto, l’immigrante, e sui suoi diritti, che non possono essere più trattati al margine o visti come irrilevanti. Ne deriva la rilevanza centrale dei diritti umani nel processo migratorio. Che ruolo hanno i diritti umani nella definizione del diritto ad immigrare? Cercheremo di dare una risposta a questa domanda nelle pagine che seguono. Questo ci permetterà di riordinare la logica del diritto alla mobilità internazionale su basi più solide, prima di passare ad elaborare proposte più operative.

  1. Diritto alla mobilita internazionale e diritti umani

L’impostazione finora prevalente delle politiche migratorie ha trascurato la tutela dei diritti della persona che immigra, cioè la protezione dei suoi diritti fondamentali. La difesa dei diritti umani non è stata mai la base per rilasciare permessi d’ingresso, salvo che per i rifugiati o per visti umanitari.  La stessa protezione delle vittime di traffici irregolari e di migranti abusati è passata in secondo ordine, adottando approcci minimalisti.[54] Piuttosto ha prevalso la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, e la protezione del territorio nazionale. [55]  Le misure di contenimento non esitano a concentrarsi sul traffico di immigranti e sulla loro “criminalizzazione” (vedi Parte III), ma trascurano la difesa dei loro diritti umani.  Per questo motivo, il nostro tentativo di cercare le radici etiche del MWB nel diritto naturale, in una prospettiva egualitaria che ponga gli interessi ed il benessere degli immigranti in primo piano, dando quindi un valore secondario agli effetti dell’immigrazione sui residenti, è un’inversione di rotta a 180o rispetto a quanto fatto finora. Inquadrare il diritto alla mobilità internazionale nell’ambito della protezione dei diritti umani degli immigranti significa partire dalla considerazione dell’immigrante come persona umana. Questo cambio fu parzialmente anticipato quando includemmo il diritto ad emigrare come diritto umano, ma quella inclusione fu incompiuta, perché non comportò l’inclusione del diritto ad immigrare. Tuttavia, di fronte all’insistente pressione per estendere la concessione del diritto alla mobilità internazionale su di una scala più amplia, dobbiamo chiederci se non sia arrivato il momento di riconoscere il diritto alla mobilità internazionale come diritto umano fondamentale.  La domanda è semplicemente questa: appartiene il diritto ad immigrare a chiunque per il fatto stesso di esistere come essere umano?  Se la risposta a questa domanda fosse positiva, l’intera materia della regolazione dell’immigrazione dovrebbe essere stravolta.  La dimensione etica del diritto alla mobilità internazionale troverebbe una definizione molto netta, e quel diritto verrebbe trattato alla stessa stregua delle libertà, dei diritti e dei princìpi sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e nella Carta delle Nazioni Unite.  Il diritto alla mobilità non dovrebbe più essere strappato da una contesa negoziale (appunto come un diritto negoziato) – ovvero, come risultato di una contrapposizione tra detentori di interessi diversi (gli immigranti contro i residenti) – ma diverrebbe un bene comune internazionale, come la libertà di opinione, il diritto all’acqua, il diritto al cibo, all’educazione e alla sanità, la difesa dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile. E non resterebbe altro da fare se non assicurarsi che i singoli paesi (sia d’origine che d’immigrazione) traducano questo diritto in norme operative e azioni concrete, confermando che la tutela del diritto alla mobilità è la posizione etica adottata a livello universale dalla volontà collettiva dei popoli di questo pianeta.

Tuttavia, siamo ben lungi da quel riconoscimento universale.  I giuristi internazionali concordano che il diritto alla mobilità internazionale non è un diritto umano universale, e generalmente sentenziano la sua inammissibilità come diritto umano in modo molto drastico. Essi ribadiscono che non c’è alcun esplicito riferimento al diritto ad immigrare nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o in altro documento analogo, né alcuna menzione del diritto alla mobilità internazionale, diversamente dal diritto ad emigrare indicato in termini inequivocabili nel secondo comma dell’art. 13.

Abbiamo già osservato a suo tempo che lo stesso diritto ad emigrare non era un diritto umano con un suo valore proprio e autonomo, nonostante la norma dell’art. 13, in quanto in realtà si tratta solamente un diritto “funzionale”, necessario cioè per esercitare gli altri diritti umani. A dire il vero, anche se riconoscessimo l’esistenza di un diritto ad immigrare come diritto umano, quest’ultimo sarebbe un diritto “funzionale”, un mezzo per raggiungere un altro fine, ed il fine sarebbe l’esercizio degli altri diritti umani.  Allo stesso tempo, abbiamo più volte ricordato che il diritto ad emigrare è vuoto di significato operativo se non è abbinato ad un riconoscimento del diritto ad immigrare. In questo senso spesso si parla di diritti incompiuti, che non possono essere esercitati da soli se non sono riconosciuti ambedue allo stesso tempo. Ne risulta che anche il valore funzionale del diritto ad emigrare, nonostante sia formalmente riconosciuto, è estremamente debole come mezzo per esercitare gli altri diritti umani, perché il suo potere è praticamente nullo se non è abbinato al diritto ad immigrare.

A questo punto ci chiediamo: che tipo di protezione hanno gli immigranti per quanto riguarda i loro diritti umani, qualora questi diritti siano a rischio, se non hanno la certezza di poter contare sulla valvola di sicurezza dell’emigrazione, essendo i loro diritti ad emigrare e ad immigrare così deboli.  Il tema non è solo di natura tecnico-giuridica, cioè se si tratti di diritti umani formalmente riconosciuti o meno, ma più propriamente una questione politica, e anche etica: in che modo i diritti umani sono garantiti a coloro che hanno intrapreso o intendono intraprendere la via migratoria? C’è chi preferisce dare una risposta attraverso una lettura meccanica dell’articolato della Dichiarazione Universale. Costoro sostengono che le uniche basi giuridiche per parlare di diritti umani immediatamente riferibili agli emigranti si trovano negli articoli 13 e14: l’art. 13 (comma 2) riconosce il diritto ad emigrare, e l’art. 14 (comma 1) dà il diritto a chiedere asilo a chi è vittima di persecuzione politica (diritto ulteriormente articolato nella Convenzione per i Rifugiati di Ginevra del 1951).  In nessun altro articolo della Dichiarazione Universale si trovano riferimenti espliciti a persone che stanno emigrando, salvo riferimenti impliciti, come quando applichiamo l’art. 14 a chi è vittima di violazioni di diritti politici che configurino uno stato di persecuzione. Ma questa lettura meccanica della Dichiarazione Universale è estremamente riduttiva, anche se tecnicamente corretta sul piano strettamente giuridico. Non è in grado di dare una risposta alla questione sostanziale che ci poniamo: la ricerca del valore di fondo del diritto alla mobilità internazionale in termini di diritti umani. A questo fine, dobbiamo considerare la Dichiarazione Universale nella sua dimensione politica complessiva, guardando a ciò che afferma in termini di difesa di libertà fondamentali. Un simile approccio ci aiuta a mettere gli aspetti di fondo dei diritti umani in relazione diretta con le motivazioni fondamentali che spingono gli emigranti a lasciare il proprio paese, specialmente quelli che emigrano per necessità. Queste motivazioni sono strettamente legate alla ricerca di garantire il pieno esercizio del diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona indicato nell’art. 3 della Dichiarazione Universale. Infatti, il processo migratorio potrebbe essere considerato come una delle possibili espressioni dell’esercizio dei diritti umani indicati nell’art. 1 della Dichiarazione Universale, quando afferma che tutti gli esseri umani sono liberi ed uguali in dignità e nei loro diritti, dotati di ragione e coscienza, e dovrebbero comportarsi tra di loro in uno spirito di fratellanza. Non è il diritto alla mobilità internazionale nient’altro che una espressione di queste affermazioni di libertà, di uguaglianza,e della dignità umana? Negarlo significherebbe automaticamente negare che l’art. 1 si applichi a chi ha deciso di emigrare.  

Ma possiamo sostenere senza ombra di dubbio che i diritti e le libertà di fondo rinosciuti nella Dichiarazione Universale si applichino nello stesso modo a chi intende trasferisi da un paese all’altro e a chi intende restare nel proprio paese? Hanno gli emigranti/immigranti la stessa dignità e la stessa libertà? L’art. 1 della Dichiarazione Universale, pur nella sua formulazione generica, offre una risposta molto netta, in quanto chiarisce che la sua applicazione è valida per tutte le persone umane senza distinzione. Decidere di emigrare in un altro paese potrebbe quindi apparire nient’altro che un modo concreto di esercitare una libera scelta fondamentale che appartiene a ciascun individuo, e che è garantita da quell’art. 1.  Se accettassimo questa interpretazione, non avremmo bisogni di alcun riconoscimento formale del diritto alla mobilità internaionale, come fatto con l’art. 13 per il diritto ad emigrare, perché il suo riconoscimento sarebbe implicito nell’accettazione che l’emigrazione non sia nient’altro che l’esercizio di diritti umani fondamentali alla libertà già previsti dalla Dichiarazione Universale.

Infatti, l’emigrazione trova spesso la sua ragione di essere proprio come risposta alla violazione di qualche diritto umano menzionato nella Dichiarazione Universale. Riconoscere il diritto alla mobilità internazionale permetterebbe al migrante di meglio tutelare i suoi diritti umani. Molti osservatori concordano con questa interpretazione.[56]

Probabilmente, non avendo menzionato esplicitamente il diritto ad immigrare o il diritto alla mobilità internazionale in alcuna norma di diritto internazionale, i giuristi continueranno a sostenere che quel diritto non è ufficialmente riconosciuto come diritto umano. Ma se considerassimo in primo luogo la sostanza dei diritti di libertà garantiti dalla Dichiarazione Universale, arriveremmo a concludere che il diritto alla mobilità internazionale non è altro che l’esercizio di un diritto fondamentale alla libertà, e questo sì è ufficialmente riconosciuto. Se il diritto alla libertà non può estendersi anche all libertà di ogni indivduo di scegliere in quale paese vivere per realizzarsi come persona umana, nel pieno rispetto della sua dignità, non vedo come si possa ancora parlare di pieno diritto alla libertà. Quindi, il diritto alla mobilità internazionale è un diritto umano universale non perché riconosciuto in quanto tale da una specifica norma internazionale (in questo i giuristi internazionali hanno ragione), ma perché solo attraverso accettanto questo diritto possiamo garantire il pieno esercizio di tutti gli altri diritti umani anche per gli emigranti.  Se questo ragionamento è valido, non abbiamo bisogno di altro riconoscimento formale.

Forse è il caso di illustrare la validità di questa argomentazione in modo più esteso. Sia nel suo preambolo che nel suo articolato, la Dichiarazione Universale esprime princìpi di grande rilevanza per tutti gli esseri umani, affrontando questioni di fondo come la tutela della dignità ed il valore della persona umana. La Dichiarazione protegge diritti inalienabili di uguaglianza di tutti i membri della famiglia umana, sia uomini che donne. Riconosce che tutte le persone umane sono libere di promuovere il progresso sociale e di raggiungere livelli più elevati delle proprie condizioni di vita nella massima libertà.  I diritti di libertà e giustizia sono specificati, includendo la necessità di tutelare la libertà di espressione del proprio pensiero, la libertà dalla paura e la libertà dal bisogno, come pilastri centrali dell’intera architettura dei diritti umani. Non possiamo immaginare che questi princìpi siano rilevanti solamente per coloro che decidono di non lasciare il proprio paese. La loro validità universale richiede che quei diritti appartengano a tutto titolo sia ai cittadini e agli individui che risiedono in qualsiasi paese del pianeta, che agli emigranti che si stanno trasferendo da un paese all’altro. La Dichiarazione Universale afferma che i suoi princìpi si applicano a “tutti” gli esseri umani, senza distinzioni. Non abbiamo bisogno di aggiungere la specificazione “inclusi gli emigranti” per essere sicuri che gli emigranti siano inclusi in questa protezione.

Inoltre, la DIchiarazione Universale ricorda nel suo preambolo che le persone non dovrebbero essere mai costrette a ricorrere a rivoluzioni come soluzione ultima per lottare contro la tirannia e l’oppressione, in quanto i diritti umani dovrebbere essere protetti dalla semplice applicazione del principio dello stato di diritto, principio spesso violato da regimi autoritari e oppressivi. L’emigrazione offre un’alternativa alla risposta rivoluzionaria a coloro che subiscono ripetute violazioni dei diritti umani, senza obbligarli a far ricorso ad una rivoluzione. L’emigrazione è una risposta pacifica e fattibile al dettato della Dichiarazione Universale quando auspica che nessuno dovrebbe essere costretto a ricorrere a rivoluzioni. Certamente non è l’unica soluzione. Riforme democratiche che portino a processi di sviluppo politico e socio-economico nel pieno rispetto di princìpi di giustizia e di equità probabilmente sarebbero la via maestra per affrontare quei problemi. Ma l’individuo non ha sempre la possibilità di realizzare quelle riforme, né può permettersi di aspettare che quelle riforme siano realizzate. L’emigrazione potrebbe essere la scelta inevitabile e immediata cui ricorre chi è vittima di violazioni continue dei propri diritti umani.

I giuristi probabilmente potrebbero rispondere a queste considerazioni che il riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale non è la necessaria conseguenza di questo auspicio, e che l’art. 14 (comma 1) della Dichiarazione Universale è la risposta, in quanto afferma che chiunque ha diritto di cercare e ottenere asilo in altri paesi per fuggire dalla persecuzione (caso dei rifugiati).[57]  Ma la mobilità internazionale prevista nell’art. 14 si inquadra solamente nei casi eccezionali di fughe da persecuzioni (come nel caso dei rifugiati), mentre l’emigrazione contempla processi in cui la violazione dei diritti umani avvenga in modo molto più esteso. Il diritto alla mobilità internazionale permette la tutela di tutti i diritti umani, e non si applica solamente ai casi in cui un individuo sia perseguitato, e alle violazioni dei diritti politici.

A prescindere comunque dal valore dell’emigrazione come risposta pacifica alla violazione dei diritti umani, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani offre una base per giustificare l’emigrazione in termini molto più positivi della mera fuga da persecuzioni. L’emigrazione può essere una via maestro per esercitare i diritti umani scelta da individui che intendano usare la propria libertà per affermarsi nelle loro ambizioni come persone, scegliendo autonomamente ove farlo. L’intera impalcatura globale dei diritti umani, che si articola attorno al riconoscimento di punti centrali quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona (art. 3) può essere vista da un potenziale emigrante come il quadro complessivo dei suoi diritti umani che gli appartengono come persona. Il diritto alla mobilità internazionale sarebbe un mezzo (una garanzia) che l’individuo può scegliere di usare (ma non l’unico mezzo) per assicurarsi l’esercizio (o il rispetto) di quei diritti, scelta che dovrebbe poter compiere (in quanto persona libera) sia nel caso in cui voglia semplicemente esercitare quei diritti in un paese diverso da quello ove risiede normalmente (emigrazione completamente volontaria), sia nel caso in cui l’emigrazione sia l’unica via di uscita per vedere i suoi diritti  rispettati (emigrazione forzata).

Il diritto alla mobilità diviene in questo modo come la libertà di pensiero e di espressione, ed il suo esercizio diviene garanzia per esprimere la sua libertà e per compensare o ridurre disuguaglianze in questo mondo, permettendo a ciascun individuo di recarsi ove possa trovare occasioni per migliorare la propria posizione personale. Il diritto alla mobilità internazionale acquisisce la natura di diritto umano in quanto garantisce all’emigrante sia l’esercizio dei propri diritti umani che la protezione dalle violazioni dei suoi diritti umani eventualmente subite nel paese da cui proviene,[58] in quanto permette all’emigrante di esercitare quei diritti nel paese di sua scelta. Negare il diritto alla mobilità internazionale equivarrebbe ad avallare la protratta violazione di diritti umani cui l’emigrante fosse eventualmente sottoposto. La difesa di questo diritto diviene quindi una questione politicamente ed eticamente molto rilevante, e la sua base logica diverrebbe difficilmente contestabile.

Vediamo tutto questo in alcuni casi specifici per renderci conto dell’importanza di riconoscere la validità universale di questo diritto alla mobilità internazionale. L’art. 7 della Dichiarazione Universale sottolinea la necessità di proteggere ogni persona da qualsiasi discriminazione legale. Abbiamo visto che ogni volta che il governo di un paese non riesce a offrire la garanzia della protezione della legge ai suoi cittadini, come spesso occorre nei paesi che abbiamo definito come stati fragili (vedi Parte VI), quei cittadini si trovano ad affrontare il dilemma se possano continuare a vivere in una situazione di insicurezza o siano costretti a fuggire dal proprio paese per recarsi lì ove la tutela del sistema legale è garantita. Quando sentiamo emigranti lamentare la mancanza di protezione da parte delle forze dell’ordine del proprio paese di fronte a espliciti soprusi di cui sono state vittime, ridicolizzare queste argomentazioni come insufficienti per concedere il diritto ad immigrare significa ignorare che si tratta di violazioni dei diritti umani riconosciuti dagli articoli 9 e 10 della Dichiarazione Universale.[59]

Quando la “fuga” dal paese natio è causata da discriminazioni (non necessariamente solo da persecuzioni) legate alla razza, al colore, al sesso, alla lingua, alla religione, all’opinione politica dell’emigrante, e alla sua condizione sociale – sia essa stata definita al momento della sua nascita, o definita dalla ricchiezza di cui dispone – o da altro criterio che stigmatizzi il suo stato, l’emigrante sta affermando che la sua fuga è motivata dalla necessità di proteggere l’esercizio di un diritto riconosciuto dall’art 2 della Dichiarazione Universale.

 Quante volte lo stato di necessità lamentato dagli emigranti come motivazione principale per abbandonare il proprio paese è causato proprio da minacce alla vita, alla libertà e alla sicurezza dell’emigrante, protette dall’art. 3 della Dichiarazione Universale!  Migrare all’estero è a volte il modo più efficace o l’unica via per sfuggire dalle costrizioni di cui una persona soffre nel proprio paese, da ostacoli, minacce, pericoli, oppressioni, discriminazioni e privazioni, che compromettono il benessere, la sicurezza e le prospettive di progresso, la cui tutela è assicurata dalla Dichiarazione Universale. Quando l’emigrante lascia il suo paese perché sente che la sua libertà e quella della sua famiglia sono a rischio, perché la sua condizione offende la dignità della persona, e ha preso coscienza di ciò che è meglio per sé e per la propria famiglia, esercita il diritto alla mobilità internazionale come modo per meglio esercitare i diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale.

Ci si può chiedere per quale motivo l’attenzione alla tutela dei diritti umani non abbia aperto finora la strada ad una riflessione più aperta sul diritto alla mobilità internazionale. C’è chi potrebbe sostenere che la tutela dei diritti umani sia stata affrontata prevalentemente come un problema di implementazione all’interno di ogni paese, garantendo lo stato di diritto in ogni  stato, richiedendo l’applicazione di criteri di giustizia e di equità all’interno di ciascun paese, senza necessariamente perseguire la via dell’emigrazione, perciò trascurando le possibili implicazioni delle violazioni dei diritti umani sulle persone che decidono di emigrare, salvo che per i casi estremi di persecuzione politiche, per i quali si prevedono procedure di asilo in altri stati (art. 14).  

  1. Diritto alla mobilita internazionale e diritto allo sviluppo

Limitare la giustificazione del diritto ad immigrare ai soli casi di persecuzione previsti nell’art. 14 della Dichiarazione Universale, che configura la protezione per i rifugiati, è un modo riduttivo di leggere quel testo fondamentale, che include tra i diritti umani, fra l’altro, anche la protezione dei diritti economici, sociali e culturali.  I giuristi internazionalisti non hanno dubbi sul fatto che il diritto ad immigrare è in qualche modo garantito nel caso gli emigranti siano vittime di violazioni di diritti umani come quelli indicati nell’art. 4 a proposito di chi ha sofferto le pene della schiavitù o è stato oggetto di traffico di esseri umani, o quando è stato sottomesso a tortura (art. 5).[60] Ma mentre la violazione dei diritti politici garantiti dalla Dichiarazione Universale [61] è stata spesso considerata sufficiente per configurare stati persecutori e dar accesso a visti d’ingresso e a permessi di soggiorno nell’ambito degli schemi per la protezione dei rifugiati, violazioni ai diritti economici, sociali e culturali non sono normalmente sufficienti per concedere il diritto ad immigrare, anche se quei diritti sono indicati esplicitamente nella Dichiarazione Universale come gli altri.

Stiamo qui parlando di diritti come il diritto a formarsi una famiglia (art. 16); il diritto alla protezione dei propri possedimenti (art. 17); la tutela del diritto alla sicurezza sociale (art. 22); il diritto al lavoro, alla libera scelta di un’attività laborativa e ad adeguata protezione dal rischio di disoccupazione, nonché protezione da qualsiasi discriminazione salariale, diritto ad associazione sindacale, diritto ad una remunerazione che garantisca una esistenza nel pieno rispetto della dignità umana, sostenuta da misure di protezione sociale (art. 23); diritto alle ferie e a ragionevoli orari di lavoro (art. 24); diritti fondamentali attinenti alla salute ed al benessere dell’individuo, incluso il diritto al cibo, al vestiario, alla casa, a tutta una altra serie di servizi sociali, protezione della maternità e dell’infanzia, diritti scolastici e all’istruzione (previsti dagli articoli 25 e 26); diritti in materia culturale, scientifica, e artistica (art. 27).  

Questi diritti equivalgono a corrispondenti obiettivi di politiche di sviluppo economico, sociale e culturale di cui sono responsabili primari i governi dei paesi che dovrebbero lanciarle, a sostegno dei propri cittadini.  Ma la violazione di quei diritti non si limita al caso in cui quelle politiche non siano state lanciate, siano state inefficaci, e non siano riuscite nel loro scopo, ma configura anche situazioni in cui vi siano ostacoli sistematici e strutturali che impediscano l’esercizio di quei diritti, nonostante le dichiarazioni ufficiali possano contraddire queste situazioni di fatto.  Interferenze di ogni natura possono essere esistere che possono avere prodotto generare vere e proprie esclusioni sociali dall’esercizio di quei diritti, esclusioni che vanno considerate violazioni dei quei diritti altrettanto gravi come le violazioni di diritti politici: pensiamo alle persone che sono costrette a povertà cronica per effetto di queste esclusioni, pensiamo a persone che sono sistematicamente discriminate nel loro accesso a servizi sociali a causa di queste esclusioni. Il peso di queste persistenti violazioni di questi diritti fondamentali potrebbe divenire insostenibile e la scelta migratoria potrebbe essere la naturale decisione per alleviare questo peso e offrire qualche speranza a costoro. In nessuno di questi casi, tuttavia, si configura un caso di persecuzione che permetta l’applicazione dell’art. 14 della Dichiarazione Universale. Come possiamo dire, in tal caso, che il diritto ad immigrare non sia collegato in modo diretto all’esercizio di quei diritti umani?.

L’art. 16 della Dichiarazione Universale pone l’accento sulla famiglia come “gruppo naturale e fondamentale della società”. Questo costituisce un concetto fondamentale non solo per inquadrare i diritti umani nell’ambito di una visione completa dell’uomo, ma anche per ricordare questo aspetto cruciale quando affrontiamo problematiche relative alla condizione dell’emigrante.[62] Il diritto a formarsi una famiglia, ad esempio, potrebbe essere violato da abusi imposti dalla comunità locale o dalla stessa famiglia di origine, anche per la difficoltà di addurre testimoniannze probatorie in tribunale, così che simili violazioni potrebbero non configurarsi facilmente come stato persecutorio in sede giurisdizionale. Non per questo si tratta di violazioni meno restrittive ai fini del libero esercizio di quel diritto. Ha diritto ad immigrare chi non riesce ad espletare questo diritto in modo libero nel seno della propria patria?

La tutela dei diritti umani per quanto riguarda la condizione familiare dell’immigrante è stata spesso oggetto di grande attenzione, anche perché violazioni di questi diritti potrebbero avvenire addirittura durante il processo di immigrazione, molto dopo che l’emigrazione è cominciata: la separazione degli immigranti dalle loro famiglie, ad esempio, è uno degli aspetti più problematici per la violazione dei diritti umani degli immigranti, e ha avuto manifestazioni plurime: difficoltà di garantire ricongiungimenti familiari; limitazioni severe che impediscono le visite (anche se di breve durata) di membri della propria famiglia provenienti dai paesi d’origine; separazione forzata[63] tra minorenni e genitori di immigranti irregolari al momento d’ingresso nel paese; divieto di concessione di permessi di lavoro a familiari dell’immigrante; limiti alla concessione della cittadinanza ai figli degli immigranti nati nel paesi d’immigrazione (ius soli); concessione limitata del permesso di soggiorno a chi è arrivato nel paese in età giovanile (come nel caso dei Dreamers negli Stati Uniti).

Il diritto a godere della proprietà dei propri beni (art. 17) potrebbe essere limitato da intimidazioni di componenti della società nel paese d’origine, ma la vittima di questa violazione potrebbe avere difficoltà a difendere adeguatamente il suo diritto in sede giudiziaria, per mancanza di mezzi economici per affrontare le spese legali, o per il funzionamento scorretto dei tribunali, facilmente corruttibili o influenzabili da chi detiene il potere.  L’emigrazione può essere la risposta a processi di espulsione sociale, per ovviare a soprusi e a vessazioni di tal genere, ma potrebbe essere impedita dalla mancanza concessione di un permesso d’ingresso o un visto.   

Fenomeni di esclusione sociale possono essere legati alle condizioni croniche che prevalgono in società fortemente squilibrate e depresse. Anche se la Dichiarazione Universale riconosce ampliamente i diritti a trovare un lavoro, a essere protetto dalla disoccupazione, e a non dover subire alcuna forma di discriminazione nel procurarsi i necessari mezzi di sostentamento, non possiamo escludere che esistano delle situazioni persistenti di squilibrio e di oppressione che rendano vani i tentativi di esercitare questi diritti. L’accesso al diritto alla mobilità internazionale può essere un modo per dare una risposta positiva alle aspirazioni giustificate di una persona, peraltro tutelate dalla Dichiarazione Universale, nel caso in cui una persona non sia riuscita ad esercitare a pieno questi diritti nel proprio paese.  

L’architettura internazionale dei diritti umani si è andata progressivamente ampliando, attraverso conferenze internazionali che hanno approfondito tematiche specifiche, che hanno ulteriormente raffinato la definizione dei diritti umani in settori come quello della donna, del bambino, degli anziani, delle minoranze indigene, del lavoro, dell’ambiente, della salute, dell’habitat, fino a portare a concetti sempre più ampli che si ispirano all’obiettivo globale dello sviluppo sostenibile. Amartya Sen ha addirittura suggerito l’individuazione di un nuovo diritto, il diritto allo sviluppo, che ha un valore onnicomprensivo, che include gran parte dei diritti umani.[64] Il diritto allo sviluppo è stato formalmente riconosciuto come un diritto umano nella Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazionio Unite nel 1986 (risoluzione 41/128) e riaffermata in tutta una serie di vertici internazionali che sono seguiti nel corso dell’ultimo decennio del secolo XX e nel nuovo millennio.[65]  Pur non essendo esplicitamente menzionato nella Dichiarazione Universale – anche perché il termine non era stato ancora introdotto nel linguaggio internazionale nel 1948 – le componenti del diritto allo sviluppo possono essere riconosciute in tutta una serie di diritti inclusi in quel documento, in cui ampio spazio è dato anche ai diritti economici, sociali e culturali come diritti umani fondamentali, alla stessa stregua dei diritti politici e civici. In un certo senso, la Dichiarazione Universale del 1948 anticipa i contenuti del diritto allo sviluppo.[66]

Questi concetti furono ribaditi nel Patto Internazionale sui DIritti Economici, Sociali e Culturali (International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights) del 1966 (entrato in vigore solo nel 1976), che nel suo Art. 11, sollecita i singoli stati, anche attraverso il contributo della cooperazione internazionale, a perseguire questi obiettivi di svilupppo.  Sono appunto tutti questi diritti presi nel loro insieme, ed in concomitanza con gli altri diritti di libertà che prefigurano, nel loro complesso, il diritto allo sviluppo, affermato e riconosciuto nella Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo del 1986, la quale esplicitamente  afferma che il diritto àllo sviluppo è: (1) un diritto umano; (2) un diritto inalienabile; (3) appartiene ad ogni persona umana e a tutti i popoli; (4) è volto a permetter a tutti di partecipare, contribuire e a godere dello sviluppo economico, social, culturale e politico; (5) è strettamente collegato con tutti gli altri diritti umani e libertà fondamentali; che (6) le condizioni di povertà estrema rappresentano un particolare impedimento per l’esercizio del diritto allo sviluppo; e che (7) il suo esercizio dovrà essere tutelato nel pieno rispetto della dignità della persona umana e nel perseguimento del libero sviluppo della sua personalità.

La relazione tra diritto allo sviluppo e il diritto alla mobilità internazionale può essere meglio intesa se articoliamo quest’ultimo in quattro componenti [67] anziché le consuete due componenti sopra suggerite:

(a)     Diritto a non emigrare.

(b)    Diritto a emigrare

(c)     Diritto ad immigrare

(d)    Diritto a ritornare

Solamente le componenti (b) e (d) sono riconosciuste esplicitamente dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (nell’art 13). La considerazione del diritto allo sviluppo permette l’esplicita inclusione delle altre due componenti, anche se nessuno mai parla del diritto a non emigrare. Mentre il diritto ad emigrare è un diritto di libertà, che afferma che nessuno dovrebbe sentirsi limitato nella sua scelta di dove vivere e lavorare, molte persone emigrano non per libera scelta ma perché sono costrette dalle circostanze. Il diritto a non emigrare si rivolge proprio a quelle persone, in quanto afferma che nessuno dovrebbe essere “costretto ad emigrare” per uno stato di necessità. Le persone che emigrano perché forzate da situazioni obiettive, volentieri ne farebbero a meno, se non ci fossero quelle restrizioni. Ciò che il diritto a non emigrare afferma è un richiamo ad un diritto di ogni essere umano a poter contare su di uno sviluppo economico e sociale, ma anche politico e culturale, nel paese ove risiede, un diritto che gli permetta la crescita personale nell’ambito di rapporti pacifici e armoniosi con la sua comunità, senza sentirsi obbligato a considerare la scelta migratoria come via obbligata. L’aver individuato un diritto a non emigrare è un modo per esprimere questa domanda per un diritto allo sviluppo: ogni individuo ha il diritto di realizzare i propri obiettivi di sviluppo nella società ove vive. Se così fosse, non si sentirebbe obbligato a contemplare l’emigrazione per necessità. L’emigrazione ancora esisterebbe, ma sarebbe puramente volontaria, una libera scelta non legata a qualsiasi stato di necessità.

Affermando questo nuovo diritto, possiamo sottolineare che tutti hanno un diritto a “non dover necessariamente emigrare”: questo implica che ogni paese dovrebbe essere in grado di promuovere un processo di sviluppo politico, economico, sociale e culturale che permetta a tutti gli individui residenti in quel paese di realizzare i propri obiettivi di sviluppo personale, senza sentirsi obbligato ad andare altrove per raggiungere quel risultato.  La Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo sottolinea la responsabilità primaria degli stati membri di promuovere politiche di sviluppo che creino le condizioni per soddisfare questo diritto a non emigrare. Tuttavia, poiché il mondo è caratterizzato da profondi contrasti tra paesi poveri e ricchi, e in ogni paese tra zone depresse e zone più dinamiche, con squilibri di ogni sorta, non basta riconoscere il diritto allo sviluppo, confermando la volontà della comunità internazionale a perseguire questo obiettivo ovunque, né basta affermare il diritto a non emigrare come richiamo a moltiplicare sforzi sia a livello nazionale che internazionale affinché nessun individuo si senta marginalizzato nel processo di sviluppo.  La realtà è che spesso questi sforzi (sia nazionali che internazionali) non riescono nel loro scopo, e molti individui si sentono costretti ad emigrare.[68] Sono i fenomeni di marginalizzazione, di sfruttamento e di esclusione sociale che spesso impediscono alle persone di poter realizzare le proprie ambizioni di sviluppo, costringendole ad abbandonare il proprio paese per cercare di soddisfare bisogni fondamentali di sviluppo altrove. Molti di questi emigranti intendono aver accesso a maggiori opportunità di lavoro, a più diversificate fonti di reddito, a servizi pubblici che rispondano alle proprie necessità, alle garanzie di libertà e di rispetto della legalità che sono riassunte nel diritto allo sviluppo, trovando risposte a quei diritti che non sono riusciti ad esercitare in modo adeguato nei loro paesi spesso a causa di esclusioni croniche. Nella misura in cui il mondo non sarà riuscito ad eliminare squilibri e constrizioni che limitano lo sviluppo nei paesi d’origine, riconoscere un diritto a non emigrare non sembra sufficiente per garantire l’esercizio del diritto allo sviluppo. Le persone che ancora non riescono a realizzarsi pienamente nelle loro società, dovranno essere messe in condizione di perseguire i propri obiettivi di sviluppo in altri paesi. In altre parole, il riconoscimento del diritto allo sviluppo dovrebbe essere coniugato con l’accettazione simultanea sia del diritto a non emigrare che del diritto ad immigrare, ovvero del diritto alla mobilità internazionale, dando perciò la possibilità ai singoli individui di perseguire il diritto allo sviluppo comunque e ovunque, sia in patria che altrove, e in questo secondo caso trasferendosi pacificamente in un altro stato per vivervi e per lavorarci, realizzando in quel paese le aspirazioni di sviluppo che l’emigrante non è riuscito a realizzare in casa propria. Quei diritti umani sono riconosciuti dal diritto internazionale, però sembra che la prassi generalizzata in materia migratoria abbia escluso la possibilità di accettare che la mobilità geografica al di fuori del territorio del paese in cui una persona è cittadino possa essere concepita come mezzo per esercitare quei diritti, nonostante che il riconoscimento universale di quei diritti umani sottolinei una responsabilità collettiva ad una loro protezione. Per questo cercano di realizzare questi diritti, garantiti universalmente come diritti umani, recandosi in paesi democratici economicamente più avanzati, ove la probabilità di esercitare questi diritti è di gran lunga superiore.  Una maggiore protezione dei diritti fondamentali e diritto alla mobilità internazionale diventano così sinonimi di accesso per popolazioni più povere del sud del mondo ad occasioni di sviluppo e di crescita, beneficiando anche di una redistribuzione della ricchezza, del reddito, o dei privilegi dei paesi più ricchi, non uniformemente distribuiti a livello internazionale, viste le forti disuguaglianze che prevalgono nel mondo attuale.

  1. Diritti per tutti o solo per i residenti?

Giustificare il riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale come mezzo per permettere agli immigranti di meglio esercitare i propri diritti umani (in particolare il diritto allo sviluppo), ci permette di rivisitare le pressioni a favore di una maggiore apertura verso l’immigrazione, mettendo l’immigrante al centro dell’attenzione e focalizzandoci sul collegamento tra le motivazioni centrali dei principali attori del processo d’immigrazione, gli immigranti, e la ricerca di una maggiore protezione contro violazioni dei loro diritti umani. Ciò può portare anche alla triste conclusione che il mancato riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale equivale a provocare un danno ai potenziali immigranti rigettati che si manifesterebbe in protratte violazioni di quei diritti nei paesi d’origine, che potrebbero essere anche ulteriormente aggravate al ritorno, con l’aggiunta di maggiori danni causati dal mancato accesso al territorio del paese destinatario (che includono sia i mancati benefici che l’immigrazione avrebbe generato attraverso l’esercizio del diritto allo sviluppo, che le addizionali violazioni ai diritti umani eventualmente sofferte durante il viaggio migratorio fino all’espulsione).  Alcuni osservatori considerano perciò il rifiuto di concedere il diritto ad immigrare come causa diretta e indiretta di violazioni dei diritti umani degli immigranti.[69]

Si potrebbe obiettare che il paese d’immigrazione, rifiutando l’accesso al suo territorio, non causa direttamente le violazioni dei diritti umani occorse nei paesi d’origine, ma si limita a non concedere i benefici dell’immigrazione.[70] Questa obiezione è sicuramente valida sul piano formale del diritto civile, ma non altrettanto se parliamo di protezione dei diritti umani. Questi ultimi infatti sono universali e richiedono un coinvolgimento della comunità internazionale, chiamata ad esprimere solidarietà globale, in uno spirito di fratellanza universale, come sostenuto nella Dichiarazione Universale, che ribadisce l’impegno dei paesi membri delle Nazioni Unite a promuovere “il rispetto universale e l’osservanza dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.[71]  Sul piano operativo, è ovvio che non sarà il paese ospitante ad aver prodotto la guerra civile nel paese d’origine, o ad aver generato la criminalità generalizzata nella comunità da cui fugge un profugo o ad aver causato la carestia nelle campagne da cui l’emigrante fugge, o ad essere all’origine della disoccupazione cronica che pervade un paese intrappolato in un circolo vizioso di depressione e di povertà.  Ma avendo negato l’accesso all’immigrante, il governo del paese di destinazione si assume un ruolo attivo nel rigettare l’emigrante nel mezzo di quelle violazioni di diritti umani da cui egli ha cercato di sottrarsi, forse anche esasperandone le manifestazioni, a causa delle ulteriori sofferenze che potrebbero accompagnare il processo di rimpatrio[72]. Inoltre, il rifiuto di condividere i benefici dell’immigrazione (sicurezza, assistenza sociale, prospettive di lavoro) che l’emigrante si aspetta di ricevere una volta ammesso nel territorio nazionale significa impedire al potenziale immigrante l’esercizio di quei diritti umani che abbiamo riassunto nel concetto di diritto allo sviluppo.

Nessuno contesta ai governi di qualsiasi paese il diritto a limitare l’accesso al territorio nazionale a criminali e a terroristi, o a simili categorie di persone indesiderabili. Il problema è semmai di sapere se questi governi abbiano anche il diritto ad escludere in modo arbitrario altre categorie di persone non classificabili come indesiderabili, visto che così facendo provocherebbero loro danni in termini di violazioni dei diritti umani.  La questione è se il paese d’immigrazione abbia un potere illimitato, che gli deriverebbe dalla sua condizione di stato sovrano, di imporre questi limiti all’ammissione, visto che essi producono violazioni dei diritti umani, o se questo potere di esercitare il  diritto di esclusione debba piuttosto essere limitato, proprio perché produce gravi danni agli immigranti in termini di diritti umani.

Aggiungiamo che concedere il diritto alla mobilità non significa che i paesi d’accoglienza si addosseranno la responsabilità di risolvere i problemi che l’immigrante si porta appresso o ha lasciato alle sue spalle. Il paese d’immigrazione si limiterebbe a concedere all’immigrante la possibilità di esercitare il suo diritto allo sviluppo, dopo essere entrato nel paese. Tuttavia, il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del singolo immigrante non sarebbe responsabilità del paese d’immigrazione o del suo governo. Continuerebbe ad essere responsabilità esclusiva dell’immigrante, perché non fa parte del diritto ad immigrare. Sarà l’immigrante che dovrà interagire con altri individui, lavorando, studiando, promuovendo iniziative, insomma facendo ciò che chiunque normalmente farebbe per realizzarsi, quando non è impedito da quelle “costrizioni” che hanno motivato la sua partenza per l’estero.  Le varie componenti della società che accoglieranno l’immigrante (al di là del governo) avranno modo di interagire con il nuovo arrivato, nel mondo del lavoro, del commercio, dell’istruzione, e in qualsiasi altra attività, con vantaggio reciproco. Però tutto questo non fa parte del diritto ad immigrare, ma semmai del processo di accoglienza e di integrazione. In generale, quindi, la tendenza finora prevalente di limitare la concessione del diritto ad immigrare comporta la sistematica esasperazione della violazione dei diritti umani degli immigranti potenziali, con il rischio che il mondo stia assistendo ad una esplosione di situazioni in cui molte persone che vivono in paesi ove il loro diritto allo sviluppo è fortemente compromesso, vengano frequentemente private della possibilità di esercitare quel diritto attraverso l’emigrazione.

Non tutte le violazioni dei diritti umani dei migranti avvengono nei paesi d’origine

Le misure per limitare l’accesso all’immigrazione non solo permettono la perpetuazione della violazione dei diritti umani di coloro che emigrano, ma spesso sono fonti di ulteriori violazioni dei diritti umani. Gli emigranti sono vittime di abusi durante il loro viaggio,[73] anche prima di arrivare al confine (vedi quanto abbiamo illustrato nella Parte II e nella Parte V di questo saggio), ma anche dopo il loro arrivo, se le politiche di contenimento rendono l’accoglienza difficile o le misure di integrazione per gli immigranti sono completamente carenti. In altre parole, le restrizioni all’immigrazione possono intrappolare gli emigranti in processi di esclusione sistematica dallo sviluppo economico e sociale.

Molte violazioni di diritti umani nei paesi d’origine hanno radici negli stessi paesi d’immigrazione.  La criminalità diffusa in molti stati centroamericani si è sviluppata con la crescita del traffico della droga con gli Stati Uniti, ove trova spesso origine come uno dei maggiori paesi consumatori di stupefacenti. La banda centro-americana nota come Barrio 18 che infierisce senza pietà in paesi come El Salvador e Honduras, è nata a Los Angeles in California, attorno allo spaccio di droga. Le grandi catastrofi legate a cambiamenti climatici, che provocano flussi crescenti di migranti, trovano nel comportamento irresponsabile dei paei a maggiore consumo di energia le radici dell’accelerazione di fenomeni come il riscaldamento globale. Il fenomeno di ‘land grabbing’ (accaparramento delle terre più fertili) che colpisce molti paesi in via di sviluppo (per esempio in Africa) ed è fonte di impoverimento di grandi strati della popolazione e causa primaria di emigrazione, è spesso consequenza di comportamenti predatori di alcune imprese multinazionali in collusione con potentati locali. Questo non vuol dire che l’emigrazione sia indotta da violazioni dei diritti umani dei paesi d’immigrazione, ma esiste tuttavia una frequente corresponsabilità in molti casi, mentre le misure restrittive all’immigrazione non fanno che esasperare, anche involontariamente, la persistente violazione dei diritti umani rilevate nei paesi d’origine.[74]

Questa scarsa attenzione ai diritti umani degli emigranti ha tuttavia importanti eccezioni: nel caso in cui gli immigranti siano dei rifugiati, che fuggono da persecuzioni, o persone che possono beneficiare della protezione secondaria perché fuggono a causa di guerre, torture o simili, essi possono godere del diritto ad immigrare, perché i paesi d’accoglienza presteranno speciale attenzione al rispetto dei loro diritti umani.  Le violazioni dei loro diritti umani sono oggetto di attenta valutazione per vagliare l’idoneità per godere di questo trattamento speciale.  Queste eccezioni, tuttavia, non giusficano l’esclusione sistematica di tutti gli altri, come se le violazione di diritti umani sofferte da questi ultimi non contassero. Parliamo in particolare di tutte le violazioni dei diritti economici, sociali e culturali, che pure hanno – per lo meno sulla carta – lo stesso valore degli altri diritti civili e politici come diritti umani universali e sono formalmente riconosciuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Parliamo anche del diritto allo sviluppo, che è il diritto umano che li riassume tutti. La sistematica esclusione dalla concessione del diritto ad immigrare a persone che sono vittime di violazioni di questi diritti introduce una cronica mancanza di tutela per coloro che non hanno altro modo per tutelarsi se non scegliendo la strada dell’emigrazione. Tutto ciò mette in dubbio il valore stesso di quei diritti umani, il cui riconoscimento a livello universale sembra non aver generato alcuna preoccupazione da parte della comunità internazionale per una più liberale concessione del diritto ad immigrare

Significa questo che gli emigranti, non ricevendo alcuna garanzia di poter esercitare il loro diritto ad immigrare, si trovino abbandonati a se stessi, senza alcuna garanzia per la tutela dei loro diritti umani? Se il riconosciuto diritto ad emigrare nell’art. 13 della Dichiarazione Universale è funzionale per l’esercizio degli altri diritti umani, che senso ha riconoscere quel diritto se non accettiamo anche lo stretto legame tra mobilità internazionale e la protezione dell’emigrante dalle violazioni dei diritti umani di cui egli sia eventualmente vittima?  Sono gli individui che vedono i propri diritti umani non esercitabili nel proprio paese esclusi sistematicamente dal poterli esercitare anche altrove, se viene vietato loro l’accesso al diritto alla mobilità internazionale? A quel punto, che significa tutelare l’esercizio di quei diritti per gli emigranti, se neghiamo loro questa opzione di esercitarli cambiando paese?

A quel punto, tutta una serie di altre domande appaiono sul nostro schermo. Quali sono i diritti umani che l’emigrante può reclamare? O ci sono alcuni diritti umani da cui l’emigrante è escluso? Si applicano i diritti umani a tutti gli individui, residenti o in viaggio o migranti, oppure la piena titolarità di quei diritti appartiene solamente a chi risiede nei confini territoriali dello stato di cui è cittadino? Quali sono i diritti umani che si applicano agli stranieri che viaggiano, agli stranieri che emigrano, agli stranieri che sono già immigrati in un certo paese, agli stranieri che ormai risiedeno stabilmente in un certo paese? Quali sono i criteri di differenziazione nell’applicabilità dei diritti umani a diverse categorie di persone a seconda del loro stato migratorio? In che misura l’accettazione o il rifiuto del diritto alla mobilità internazionale influenza la protezione dei diritti umani per gli emigranti?

 Queste inquietanti domande pongono una questione di fondo: è la tutela dei diritti umani offerta soltanto a chi la persegue nello stato di cui è cittadino?  Eppure non abbiamo mai letto, nella Dichiarazione Universale o in altro documento che riconosce diritti umani, che la protezione di quei diritti si applichi soltanto a chi “risiede nel proprio stato”. La DIchiarazione Universale dei Diritti Umani e gli altri documenti ufficiali che riconoscono diritti umani non fanno distinzioni tra gruppi di individui, e non fanno riferimento al concetto di cittadinanza o di residenza, ma parlano solo di persone umane e di universale validità di questi diritti per chiunque. Sembra che ci sia un vuoto nel diritto internazionale, perché non ci sono norme universalemente riconosciute che definiscano in modo specifico quali diritti appartengano in modo inequivocabile agli emigranti.

Un tentativo per riempire questo vuoto è rappresentato dallo schema per la protezione dei diritti dei migranti messo a punto dalle Nazioni Unite e noto come Convenzione Internazionale per la Protezione dei Diritti di Tutti I Lavoratori Emingranti e Membri delle loro Famiglie (International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of Their Families, ICPRMW). Si tratta di una convenzione complessa, che include ben 93 articoli, che copre una grande varietà di tematiche. La Convenzione fu adottata nel 1990 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ed entrò in vigore soltanto il 1 luglio del 2003.  Anche se questo può apparire come un primo passo per proporre un quadro generale di diritto internazionale per la protezione degli emigranti, il suo interesse è fortemente ridotto perché solo un numero limitato di paesi ha aderito a questa Convenzione (inizialmente ratificata solo da venti paesi, attualmente è sottoscritta da 54 stati), e nessuno di essi appartiene alla lista dei grandi paesi d’immigrazione. Ciò ha privato la Convenzione del suo valore effettivo, in quanto le norme proposte non riflettono la volontà dei governi dei paesi d’immigrazione, in mancanza della quale non vi è alcuna base per una normativa multilaterale sui diritti degli emigranti.

Non riuscendo a collegare la concessione del diritto alla mobilità internazionale alla protezione dei diritti umani, l’intera tutela dei diritti umani viene limitata all’ambito esclusivo dei confini territoriali di ciascun paese, in quando non viene riconosciuta la possibilità di ricorrere all’emigrazione per tutelare le vittime di violazioni di questi diritti. Pertanto, nonostante la Dichiarazione Universale e altre fonti di diritto internazionale riconoscano diritti fondamentali quali il diritto a trovare un lavoro decente e il diritto a ricercare migliori condizioni di vita, e proclamino la tutela di coloro che sono vittime di sistematici manifestazioni di esclusione sociale e di discriminazione, non è offerta loro alcuna garanzia che chi che subisca queste violazioni abbia diritto a esercitare questi diritti anche al di fuori dei confini del paese in cui è cittadino, perché il diritto ad immigrare non gli è garantito universalmente.

Sembra che questa tutela sia garantita solamente se l’individuo resta nel proprio paese. In tal caso potrà reclamare qualsiasi infrazione compiuta dal governo, da pubblici ufficiali, da altri gruppi sociali opprimenti o da singoli individui, mentre contemplare la possibilità di proteggere quegli stessi diritti semplicemente cambiando residenza in un altro paese non è previsto come forma di tutela dei propri diritti. Poiché il mondo è molto diversificato, e la misura in cui i diritti umani sono garantiti e protetti varia considerevolmente da un paese all’altro, l’aver escluso alcun diritto alla mobilità internazionale equivale ad ammettere che esiste una distribuzione iniqua della protezione dei diritti umani, ove ci sono individui che sono più protetti perché vivono in alcuni paesi ed altri meno protetti perché vivono in altri paesi.  Il mancato riconoscimento universale del diritto ad immigrare equivale ad ammettere che il criterio di uguaglianza e di equità che è alla base dei diritti umani è disatteso proprio per la non uniforme distribuzione della protezione degli individui dalle violazioni di quei diritti e la mancanza di libera circolazione.  Per verificare come l’iniqua distribuzione della protezione dei diritti umani si manifesti tra i vari paesi, basta osservare l’ubicazione dei paesi da cui provengano gli emigranti che lasciano il proprio paese a causa di uno “stato assoluto ed obiettivo di necessità”.  Quello stato di necessità non è altro che una condizione di violazione di diritti umani fondamentali di cui l’emigrante è vittima. Naturalmente diritti umani possono essere violati ovunque. Tuttavia, le direzioni dei flussi migratori motivati da stati oggettivi di necessità rivelano ove ci siano concentrazioni di queste violazioni, rispetto ad aree geografiche ove la tutela di quei diritti è maggiormente garantita, sia per una maggiore protezione legale, sia per un più elevato livello di sviluppo economico, sia per un più elevato sviluppo delle strutture democratiche, più bilanciate strutture sociali, e via di seguito. Nessun paese può considerarsi immune da violazioni dei diritti umani, ma la diversa distribuzione di quelle violazioni è una realtà confermata.

Un simile quadro presenta una evidente discriminazione sistematica ai danni degli emigranti che provengono dal sud del mondo rispetto a qualsiasi essere umano per quanto riguarda la tutela dei diritti umani e contraddice l’universalità di quei diritti, oltre a violare qualsiasi criterio di uguaglianza. Questa discriminazione può essere interpretata come dipendente anche da un certo modo di inquadrare la protezione dei diritti umani, così come è garantita dalla Dichiarazione Universale, che non verrebbe assicurata in modo equo e trasversale tra tutti i paesi, indipendentemente dallo stato di cui la persona è cittadino o residente permanente, ma sarebbe legata a questa differenziata condizione come cittadino, residente, immigrato o anche semplicemente viaggiatore. Questa interpretazione vincolerebbe la protezione dei diritti umani alla delega concessa alla sovranità nazionale di ogni stato, responsabile di garantire la tutela di quei diritti ai suoi cittadini, cristallizzando in tal modo il trattamento differenziato dei cittadini di tutto il mondo rispetto alla protezione dei loro diritti umani: alcuni stati proteggeranno di più i loro cittadini, altri di meno. La solidarietà internazionale per la tutela di quei diritti, spesso sostenuta nella Dichiarazione Universale, resterebbe limitata a possibili iniziative di cooperazione internazionale, salvo per che per la fuga da persecuzioni previsto dall’art 14 (per cui sono previsti accessi privilegiati al diritto ad immigrare) o casi analoghi (ad es. protezione secondaria) ed in generale per le vittime di violazioni dei diritti politici. In ogni altro caso, ogni persona viene considerata come un cittadino che si muove nell’ambito del proprio stato-nazione. L’utilizzazione dell’emigrazione per risolvere violazioni dei diritti umani verrebbe riconosciuto solo nei casi estremi, legati a violazioni dei diritti prevalentemente politici, e configurabili nel quadro di emergenze umanitarie e movimenti internazionali di rifugiati. Per tutti gli altri, l’emigrazione sarebbe solo un trasferimento volontario e che non richiederebbe alcuna garanzia, tanto meno un diritto ad immigrare.

Questa nostra analisi non ci permette di concludere che il diritto alla mobilità internazionale sia un diritto umano esplicitamente riconosciuto come tale. Vi è senz’altro un “vuoto” normativo in termini di diritto internazionale che rende lo statuto giuridico del diritto alla mobilità internazionale molto debole. Tuttavia, considerando quel diritto come funzionale per l’esercizio di molti altri diritti umani, il diritto alla mobilità internazionale acquisisce il valore sostanziale di diritto umano alla stessa stregua del diritto ad emigrare (formalmente riconosciuto nella Dichiarazione Universale), perché solo il suo riconoscimento de facto, se non formale, garantisce la tutela complessiva dei diritti umani a tutti i popoli del mondo, senza discriminazione, applicando criteri di equità e di universalità. In un mondo caratterizzato da profonde disuguaglianze internazionali e dirampanti processi di globalizzazione, rendere effettivo il diritto alla mobilità internazionale equivale a riconoscere a chiunque la libertà di scegliere dove andare a vivere, recandosi dove sono disponibili posti di lavoro, dove ci sono maggiori opportunità di crescere come persona, dove ci si aspetta di creare migliori condizioni di vita per sé e per la propria famiglia, promuovendo l’esercizio del diritto allo sviluppo. Altrimenti, non possiamo convalidare il principio di universalità dei diritti umani, se l’accesso alla protezione di quei diritti è geograficamente discriminato.

  1. Estendere il “diritto alla mobilità internazionale”: potenzialità, ostacoli e percorsi realistici

Il punto centrale

Riscoprendo nella Parte VI di questo saggio chi veramente siano gli emigranti dal sud del mondo, analizzando le loro motivazioni di fondo, le realtà complesse da cui provengono, situazioni con squilibri profondi, spesso ignorate nelle politiche di contenimento dei paesi d’immigrazione, siamo arrivati a giustificare le ipotesi dell’autonomia dell’emigrazione e dell’inevitabilità dell’immigrazione, da cui siamo partiti in questa Parte VII. Quelle ipotesi, estremamente realiste, riassumono le spinte pressanti degli emigranti che bussano alle porte dei paesi d’immigrazione e che chiedono di aver accesso al diritto alla mobilità internazionale per entrare in quei paesi. Partendo da quelle pressioni, abbiano esplorato le caratterische di un ipotetico modello dell’emigrazione senza frontiere (MWB), che presenta un orizzonte molto diverso dalla situazione che emerge dalle politiche correnti, preoccupate di contenere i flussi migratori. Ciò ci ha offerto la possibilità di sondare il terreno per vedere cosa accadrebbe se cominciassimo ad aprire le frontiere. Si tratta di una realtà molto più attuale di quanto le nostre politiche restrittive ci facciano supporre, che ci apre una prospettiva nuova. Questa prospettiva a volte ci è preclusa dall’ottusità con cui viene vista tutta la problematica dell’immigrazione, affrontata soltanto in termini difensivi, ma la realtà è che l’immigrazione continua.  Per questo è stato interessante esaminare le dinamiche che si mettono in moto quando perseguiamo politiche alternative più aperte all’ammissione degli immigranti, una vera inversione di marcia rispetto alle tendenze recenti, ma rispondenti a certe realtà sotto i nostri occhi.  Per presentare queste politiche alternative ad un pubblico attento alla reale dinamica dei flussi migratori (e non solo alle politiche attuali), è necessario suggerire una motivazione politica profonda per giustificare un simile cambiamento radicale. Una simile motivazione, a mio modo di vedere, non può essere altro che una motivazione sostenuta da una più che buona giustificazione etica che renda un tale cambio di direzione non solo plausibile, ma fortemente auspicabile. Solo una forte giustificazione etica sarebbe in grado di esercitare sufficiente forza per generare un cambiamento di tale dimensione.  Abbiamo cercato una giustificazione etica nell’analisi del modello MWB, inizialmente seguendo il solito approccio della massimizzazione del benessere sociale, ma i risultati cui siamo pervenuti non sono stati molto soddisfacenti.  Abbiamo cercato altrove, trovando una forte base etica per introdurre cambiamenti così innovativi nello stretto legame tra la concessione del diritto alla mobilità internazionale e la protezione dei diritti umani degli immigranti.  Questo ha richiesto un primo mutamento del centro della nostra analisi, non più concentrata sui tentativi di proteggere la sicurezza nazionale e la difesa degli interessi de cittadini residenti, ma interessata a verificare in primo luogo le condizioni effettive in cui i soggetti principali del processo d’immigrazione, gli immigranti stessi, si trovano.  Attraverso l’analisi delle motivazioni di fondo dei migranti, abbiamo trovato un fortissimo legame tra queste motivazioni, i diritti umani degli emigranti, le violazioni di quei diritti di cui sono vittime, e le spinte che determinano una crescente domanda per un più esteso diritto alla mobilità internazionale. E sono proprio partendo dalle violazioni dei diritti umani subite dagli immigranti che abbiamo trovato la base etica per introdurre il cambiamento desiderato nelle politiche migratorie.  Tuttavia resta la sfida di come “vendere” questo nuovo paradigm al mondo politico, per motivarlo a muoversi lungo queste nuove direzioni.  Abbiamo infatti identificato profonde contraddizioni tra la tutela dei diritti umani degli immigranti, spesso ignorata dai governanti, e il rilascio del diritto di ammissione nei paesi d’immigrazione, fortemente richiesto dai migranti e finora ostacolato dai governi. Queste contraddizioni stanno esplodendo sotto i nostri occhi, come possiamo constatare nelle immagini drammatiche che ci propongono i media in continuazione, giustificando una pressione continua a promuovere un atteggiamento più aperto verso una concessione più liberale del diritto alla mobilità internazionale.

Aprire o non aprire: il costante dilemma

È su questa base che abbiamo registrato come il tema dei diritti umani sia stato messo sul tappeto del dibattito internazionale in materia migratoria con sempre maggiore insistenza, proprio perché le violazioni dei diritti degli immigranti non solo non sono passate inosservate, ma sono state riconosciute sempre più come politicamente inaccettabili, mettendo in discussione gli orientamenti delle politiche correnti.  Ormai da settant’anni il tema dei diritti umani è entrato nei dibatti internazionali, sin dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Quel tema si è avvantaggiato dei continui contributi di conferenze, dichiarazioni e piattaformi internazionali emerse negli ultimi trent’anni, che hanno arricchito e diversificato le argomentazioni per la difesa dei diritti umani, confermando una volontà collettiva dei paesi del nostro pianeta a sostegno della loro protezione a livello universale. Tutto ciò senz’altro denota una sensibilità crescente sia dei governi che del pubblico sui diritti umani, sulle loro violazioni, anche quando le vittime sono gli immigranti. Tuttavia, questa maggiore sensibilità probabilmente non è stata sufficiente a creare una spinta politica tale da portare ad ammettere la necessità imprescindibile di riconoscere formalmente il diritto alla mobilità internazione come diritto umano, adottando una norma di diritto internazionale che lo sancisca definitivamente come tale, come fu fatto per il diritto ad emigrare nel 1948. Gli scrupoli affinché sia sempre la sovranità nazinale a mantenere con mano sicura il controllo delle chiave di accesso all’ingresso nei paesi d’immigrazione hanno sempre prevalso sul desiderio di aprire alle concessioni sul diritto ad immigrare. Pur con questa limitazione, l’accresciuta sensibilità per le violazioni frequenti dei diritti umani degli immigrati ha aperto la strada per considerare, se non per introdurre, nuove prassi operative ove il diritto alla mobilità internazionale non sia più un’ipotesi assurda, ma una plausibile opzione da mettere sul tappeto delle discussioni internazionali e dei negoziati multilaterali, con la dovuta cautela, con gradualità e flessibilità, per poter così rispondere al grido di protesta che, con sempre maggiore insistenza, richiede di tutelare gli immigranti dalle violazioni dei loro diritti umani di cui sono stati vittime.

Questa inversione di tendenza è stata spesso ignorata dai governi e ancora non la vediamo riflessa nei dibatti politici, anche se sempre più pressante è la domanda per una revisione delle politiche migratorie. Queste nuove sensibilità aperturistiche, pur offrendo una maggiore considerazione delle violazioni dei diritti umani degli immigranti, non sono andate nella direzione di richiedere l’introduzione di un diritto alla mobilità internazionale attraverso la sua piena ufficializzazione con una norma di diritto internazionale.  Una simile ufficializzazione avrebbe significato l’accettazione piena del modello MWB come modalità operativa dominante, ma non stiamo assistendo a movimenti in quella direzione. A dire il vero assistiamo ad una tendenza a resistere alla concessione del diritto ad immigrare con una varietà di misure che centellinano la concessione di questo diritto con ostacoli, divieti e regolamenti.

Tuttavia esiste una parallela tendenza sotterranea che va in tutt’altra direzione, sotto le pressioni crescenti legate a una domanda significativa di lavoro immigrato, a movimenti d’opinione aperti all’immigrazione, a processi di globalizzazione che impongono un mondo più integrato che superi le barriere nazionali, e ad altre forze possenti legate alle aspirazioni degli immigranti, che premono ai confini dei paesi d’immigrazione con notevole insistenza. Queste pressioni operano affinché i governi prendano atto della realtà dell’immigrazione, gridando ad alta voce che non c’è più tempo da perdere, che i problemi dell’immigrazione richiedono nuove soluzioni, e che occorre guardare all’immigazione nella sua reale dimensione e nelle sue potenzialità.  Queste pressioni, congiuntamente con la presa di coscienza che l’immigrazione è inevitabile, obbligano le forze politiche a dover ammettere la necessità di superare la pura difesa dei confini nazionali imposta da un’ottica identitaria, per adottare politiche che mettano a fuoco le condizioni degli immigranti e le loro necessità, la protezione dei loro diritti umani, tenendo conto delle costrizioni da cui gli immigranti hanno disperatamente cercare di fuggire. 

Continua perciò un costante dilemma tra queste pressioni e fattori che operano in senso opposto, che includono da un lato la mancanza di un forte statuto giuridico internazionale che garantisca la mobilità geografica dei migranti da un paese all’altro come principio sovranazionale e, dall’altro, la riluttanza, ancora molto diffusa tra i governi attuali, a condizionare la sovranità nazionale adottando accordi internazionali che ammettano esplicitamente una condivisione di corresposabilità e di obblighi tra stati per offrire solidarietà e assistenza ai migranti che provengono dal sud. Ne risulta uno stato confusionario nel modo in cui vengono gestiti processi per la concessione del diritto di ingresso, con rifiuti all’emissione di visti d’ingresso a molti richiedenti provenienti dal sud che si mescolano con frequenti rilasci di permessi di soggiorno che farebbero presagire tendenze più aperte alla libera circolazione.

Alcune tendenze in atto

Tuttavia, c’è una speranza che qualche cosa stia cambiando. Mentre da un lato i governi continuano a trattare in termini restrittivi la difesa dei loro territori dall’immigrazione, l’insoddisfazione per i risultati finora raggiunti e l’esplosione delle tragedie umanitarie che sono sotto gli occhi di tutti premono per la ricerca di un nuovo approccio in materia di politica migratoria, che potrebbe aprire nuovi tavoli negoziali. Problemi non risolti diventano sempre più gravi, e l’urgenza di cambiare direzione non può più tollerare ritardi. Assistiamo così all’esempio dell’Unione Europea, con una crisi migratoria che è paralizzata dall’impasse in cui i paesi europei si trovano, incastrati in disaccordi continui sui modi di applicare o modificare gli accordi di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti asilo, mentre si manifestano crescenti le inquietudini in seno al nuovo eletto Parlamento Europeo per le conseguenze negative degli accordi di Dublino per le frequenti violazioni dei diritti umani degli immigranti.[75]  Queste inquietudini fanno presagire nuove discussioni in sede europea anche sull’adeguatezza e sulla sostenibilità dei modelli di accoglienza adottati dall’Unione e sui sistemi di protezione dei diritti degli immigranti. 

Negli Stati Uniti, c’è forse poca speranza che l’amministrazione Trump voglia ripensare la sua politica migratoria, che anzi sta subendo recentemente una esasperata tendenza repressiva, che si estende addirittura all’accoglienza dei rifugiati.  Ma sappiamo che un’eventuale vittoria democratica alle elezioni presidenziali del 2020 (possibile anche se ancora incerta) aprirebbe un dibatto su di una possibile riforma dell’immigrazione, da troppo tempo rinviata perché rifiutata dal Congresso americano per anni. Le decisioni più concrete che aprirono le maglie della rete migratoria risalgono agli anni 80 ai tempi della presidenza Reagan, e da allora c’è stato uno stallo completo al Congresso americano sull’immigrazione, a causa del rifiuto delle varie maggioranze repubblicane che si sono succedute in legislazioni successive, che hanno bloccato l’introduzione di qualsiasi riforma, sotto l’influenza dominante del c.d. “caucus” repubblicano ispirato dal movimento del Tea Party degli anni 90, fortemente ostile a qualsiasi apertura all’immigrazione irregolare.  Se ci sarà un’inversione di politica oltreoceano a partire del gennaio 2021, si aprirà la sfida di identificare nuovi paradigmi con cui interpretare il ruolo dell’immigrazione nello sviluppo di quel paese. Ma è difficile prevedere l’evoluzione in modo specifico.

In Italia, finita la parentesi del ministro dell’interno Salvini al governo, l’avvento del secondo governo Conte (sto scrivendo queste righe il 5 settembre 2019) può aprire le porte a svolte significative nella politica migratoria, con l’avvento del neo-ministro dell’interno Luciana Lamorgese ed il Partito Democratico che ha preannunciato una nuova legge sull’immigrazione in sostituzione della Bossi-Fini. Ma le controverse interne allo stesso Partito Democratico sulla politica migratoria (in breve, tra le posizioni alla Marco Minniti, ex ministro all’interno del governo Gentiloni, e quelle alla Matteo Orfini). [76] Parimenti, la politica migratoria del M5S è molto controversa, vista la sua passata tolleranza per la linea Salvini, fortemente opposta dai pentastellari vicini al Presidente della Camera Roberto Fico.  Questi esempi ci suggeriscono che in un futuro non molto lontano, pur in un’altalena di tendenze, sarà possibile che la concessione del diritto ad immigrare tornerà ad essere all’ordine del giorno di molti tavoli politici, forse non esattamente nei termini posti dal modello MWB, ma di sicuro con un’attenzione maggiore ai diritti degli immigranti. Le pressioni per aprire questo dibattito dovrannno fare i conti anche con la forte resistenza di chi è ostile all’apertura delle frontiere, per cui è inimmagible che si possa arrivare ad un’ammissione esplicita del diritto alla mobilità internazionale come diritto umano. Al momento, non esiste alcun paese disposto ad accettare una concessione indiscriminata di tale diritto (ad eccezione dell’Argentina)[77]. È però possibile che riforme parziali, per l’introduzione graduale e flessibile di una maggiore libertà di movimento possano essere contemplate, partendo dall’accettazione della situazione de facto della realtà politica dell’immigrazione, realizzando ufficiosamente modalità concrete che diano ragione ad una semplice verità: l’inevitabilità dell’immigrazione.

Possibili proposte pragmatiche

Personalmente credo che l’insieme dei paesi d’immigrazione si stia predisponendo, ma con estrema lentezza, all’avvio di discussioni concrete su queste tematiche, aprendosi a nuove strade per introdurre soluzioni innovative in materia di concessione del diritto ad immigrare. Ciò potrà avvenire nei contesti geopolitici prima menzionati, o a seguito della implementazione del Glogal Compact on Migration delle Nazioni Unite. Proposte di procedure verranno suggerite, forme di immigrazione regolata verranno introdotte, modalità per espandere la concessione del diritto ad immigrare saranno sperimentate. Accordi multilaterali e bilaterali verranno tentati a livello regionale o tra gruppi di paesi che includano sia paesi d’origine che paesi d’immigrazione. Forse non saranno accordi globali e riguarderanno inizialmente solamente alcune categorie di migranti, o quelli provenienti da alcuni paesi. Saranno tentati in concomitanza con il lancio di alcuni programmi di cooperazione allo sviluppo nei paesi d’origine, tentando di rafforzare operazioni di rimpatrio volontario e corridori umanitarie. Ma non potranno esimersi dall’affrontare l’annoso tema dell’accesso al diritto ad immigrare. Non includeranno la negoziazione del riconoscimento del diritto alla mobilità internazionale come diritto umano, perché i governi non vorranno perdere il controllo sulla concessione di tale diritto, e vorranno tener a bada vasti settori dell’opinione pubblica ostili all’immigrazione. Prevarranno sforzi per introdurre forme graduali di estensione del diritto ad immigrare, deliminate da “paletti” e vincoli che terranno conto degli attuali limiti nella concessione dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno.  I regimi legislativi non cambieranno completamente da un giorno all’altro. Il cambiamento a 180o visto nella sezione precedente dedicata ai diritti umani, non sarà confermato per le procedure legali e amministrative, che conderanno visti di ingresso e permessi di soggiorno in modo ristretto, o per lo meno sarà così per il momento.  

Probabilmente, alcune innovazioni seguiranno le linee che anticipammo nella sezione su L’ipotesi della “emigrazione senza frontiere”, ma le nuove procedure non saranno così radicali, in quanto si limiteranno a modificare soltanto in parte gli attuali sistemi di controllo per permettere solo una maggiore flessibilità verso gli immigranti, con un’attenzione maggiore alla difesa dei loro diritti. L’estensione del diritto ad immigrare sarà ancora vincolata ad una serie di costrizioni, ed in particolare alla verifica di tre condizioni basilari:

(a)      che si riesca a dimostrare che l’immigrazione produce benefici per i paesi d’immigrazione, senza generare effetti negativi sul mercato del lavoro, sul funzionamento dello stato sociale e sulla cultura e sulle tradizioni del paese d’immigrazione (altrimenti è probabile che posizioni difensive anti-migratorie prenderanno il sopravvento nel dibatto politico);

(b)      che si riesca a superare l’ostacolo di diffuse prevenzioni psicologiche, basate su percezioni e pregiudizi ostili all’immigrazione e paure (ma anche atteggiamenti xenofobi, spesso con eccessi razzisti di non scarsa rilevanza), che rendono ogni discussione sul diritto ad immigare conflittuale;

(c)      che l’estensione del diritto alla mobilità internazionale adotti soluzioni graduali e timide (ma capaci di produrre risultati duraturi e concreti), con cauti programmi innovativi che tengano  conto delle resistenze politiche e tensioni elettorali, in modo da facilitare realisticamente l’espansione limitata della libertà di mobilità internazionale, evitando che questi cambiamenti generino rigetti traumatici.

Affronterò le prime due condizioni rispettivamente nella Parte VIII e nella Parte IX di questo saggio, mentre la terza condizione potrà essere esplorata più in dettaglio nella Parte X, ove delineerò le potenzialità di soluzioni pragmatiche che permettano un nuovo approccio all’accoglienza.

Il diritto alla mobilità internazionale come diritto negoziato

Il diritto ad immigrare forse non sarà declamato come diritto umano, ma sarà risultato di un processo negoziale, di un contratto, e riconosciuto come diritto negoziato su di una base geografica vasta, ma non universale, un diritto aquisito o contrattato. Sarà il risultato di una negoziazione tra stati, come lo sono il libero commercio o la libera circolazione dei capitali, o – a livello nazionale – la contrattazione dei livelli salariali o delle condizioni di trattamento non salariale dei lavoratori, che sono risultati di processi negoziali e non sono considerati diritti naturali. I governi esigeranno probabilmente che il patto includa un meccanismo di monitoraggio: cooperazione e monitoraggio saranno componenti essenziali degli accordi.[78] Il monitoraggio includerà la verifica che gli interessi dei gruppi e individui coinvolti nel processo migratorio non siano danneggiati dalla libera circolazione della manodopera.

L’aver rinunciato al riconoscimento formale del diritto alla mobilità internazionale non ne riduce il valore etico, in quanto il negoziato multilaterale o bilaterale potrebbe essere ancora concentrato sulla ricerca di una maggiore protezione dei diritti degli immigranti e sulla loro dignità umana. I processi migratori hanno una dimensione umana in ogni caso, che li rende eticamente superiori ai trasferimenti di cose e di mezzi finanziari.  Anche se sarà un bene pubblico internazionale, perché declassato a risultato di un processo negoziale, il suo perseguimento coinvolgerà aspetti cruciali della dignità umana e delle aspirazioni più profonde dell’immigrante. Qquesta potrebbe essere una tappa intermedia di un processo per arrrivare al pieno riconoscimento della sua natura di diritto umano, mentre interrompe la tradizione secolare che ha sistematicamente ignorato la protezione dei diritti degli immigranti. Questo approccio negoziale potrebbe essere l’alternativa pragmatica e più realistica ad una applicazione letterale del modello MWB, che chiameremo nella Parte X migrazione regolamentata o gestita, per il superamento progressivo delle restrizioni ostili all’immigrazione attraverso un processo concordato.

Migrazione regolamentata

La gradualità di questo approccio si manifestarà nella concessione di una serie di diritti particolari, definiti nell’accordo sottoscritto, che prefigureranno il pieno diritto ad immigrare. Questi diritti particolare potrebbero consistere in una serie di visti e permessi rilasciati con modalità più agili, estesi a gruppi sempre più diversificati di immigranti, con vari stati di necessità, che sostituiranno formulazioni più restrittive fin qui prevalenti. Le nuove procedure si rifaranno a princìpi di flessibilità e di accoglienza. Disposizioni transitorie verranno adottate.  Obblighi burocratici saranno ancora richiesti per usufruire delle nuove agevolazioni. La libera circolazione non avverrà dall’oggi al domani senza tappe intermedie. Parliamo solamente di immigrazione regolamentata, fase interlocutoria per la graduale introduzione di un diritto universale ad immigrare.  La grande sfida starà nel coinvolgere le autorità a concordare questi diritti particolari su nuove basi, rispetto ai sistemi restrittivi preesistenti, focalizzandosi sui diritti (e sulle condizioni e sulle necessità) degli immigranti. In mancanza di regolamenti internazionali o di una norma universale, sarà il negoziato multilaterale o bilaterale a specificare i diritti particolari, e le legislazioni nazionali offriranno la base legale per darne forza esecutiva. In assenza di questi accordi internazionali, singoli paesi d’immigrazione potranno introdurre unilateralmente, se non altro a livello sperimentale, innovazioni procedurali per estendere i diritti di accesso, riferendosi a princìpi sia nazionali (princìpi costituzionali, legge o dichiarazione nationale) che internazionali (es. la Dichiarazione Universale) in modo che, in uno stato di diritto, i governi si sentano obbligati ad applicarli. Le legislazioni nazionali individueranno aspetti delle procedure correnti da modificare, delineando il quadro giuridico ed evitare interpretazioni arbitrarie lasciate a decisioni discrezionali di chi gestisce i controlli sull’immigrazione.

Approccio pragmatico e costi di esclusione

L’approccio pragmatico potrà interessare anche governi sensibili a timori elettorali, ditubanti a intraprendere riforme migratorie perché temono che le riforme possano compromettere il ruolo primario della sovranità nazionale e l’obiettivo primario di massimizzare il benessere sociale dei paesi destinatari, anche se mostreranno maggiore sensibilità per le popolazioni sofferenti provenienti dal sud. I governi saranno attenti alle opinioni ostili all’immigrazione, che hanno influenzato politiche migratorie. I politici saranno interessati a opzioni “vendibili” al proprio elettorato più che a soluzioni eticamente superiori. L’approccio terrà conto dei benefici dell’immigrazione per il paese ricevente, e dei costi dell’immigrazione. Tra questi, ci sono i costi di esclusione, per il contenimento e il respingimento (l’esclusione dei migranti).  Un vantaggio dell’approccio pragmatico è che riduce i costi di esclusione, mentre migliora l’immagine internazionale del paese, mostrando solidarietà, superamento di discriminazioni e di situazioni di ingiustiza e di disuguaglianza economica e sociale di cui gli immigranti sono vittime.

La sfida dell’ “Utopia”

La sfida che l’introduzione di questi nuovi schemi, pur limitati, comporta non va sottostimata. Occorre sostituire sistemi giuridici che regolano l’immigrazione in termini di pura difesa del territorio nazionale, per proteggere i cittadini residenti dagli attacchi di stranieri che invadono le nostre strade, con approcci giuridici che per la prima volta mettano la protezione degli interessi degli immigranti in primo piano. L'attenzione sarà verso la protezione di stranieri che fuggono dalla fame, da sfruttamenti, da violenze, da violazioni dei propri diritti umani fondamentali, da catastrofi naturali, ridefinendo lo statuto giuridico degli immigranti per rafforzarne la protezione dei diritti come persona. La disciplina normativa della prima accoglienza dovrà essere profondamente rivista, e non più soltanto con riferimento alle emergenze umanitarie.[79] La sfida richiede il superamento di visioni nazionalistiche di un mondo frazionato in cellule chiuse, per inquadrare la disciplina dell’immigrazione in un ampio panorama di interazione globale, ove non ci sia più un paese che si consideri più grande o importante di un altro, non più una etnia che si consideri superiore ad un altra, non più un gruppo di lavoratori di una certa nazionalità che debba avere più privilegi di altri, o certe imprese che dovranno essere favorite rispetto ad altre, o generazioni o persone di un certo genere che debbano godere di posizioni preminenti di potere. La sfida consisterà nel riuscire a convincere un pubblico molto vasto, in parte ostile, in parte scettico, e solamente in parte disponibile, a considerare un approccio in parte “utopico”, che consideri il libero accesso agli immigranti come preferibile dal punto di visto etico per il maggiore rispetto per i diritti umani dei migranti.[80] La spinta motrice di queste innovazioni intenderà proporre una visione alternativa all’impostazione sovranista dell’immigrazione sostituendola con una concezione dell’umanità fondata su valori profondi sintetizzati nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che vede popoli, imprese e istituzioni come strutture interdipendenti accomunate e informate da princìpi di libertà e di solidarietà. La concezione opposta è stata causa ed è ancora causa di guerre che hanno dilaniato la storia dell’umanità per millenni. Le riforme confermeranno una presa di coscienza che il momento è venuto per instaurare un clima di tolleranza e di rispetto reciproco, ispirato da una visione di interdipendenza globale. Il mondo ha bisogno di beneficarsi degli apporti di persone, di capitali, di tecnologie, di conoscenze provenienti da tutti gli angoli del pianeta. Il PIL di un paese non è solo cil prodotto di un gruppo isolato di cittadini di un territorio isolato, ma il risultato di una interazione di tanti fattori dipendenti da scambi proficui di merci e di risorse di ogni paese con il resto del mondo.

In questa concezione, la mobilità migratoria è una componente essenziale, ed un contributo allo sfruttamento di potenzialità produttive e sociali tanto dei paesi d’immigrazione così come dei paesi d’origine. Non c’è più un diritto assoluto di priorità di chi è arrivato prima rispetto a chi è arrivato dopo. Non ci sono più posti di lavoro “riservati” ai lavoratori nazionali distinti da quelli per gli immigrati, ma strutture produttive, nazionali o estere, che interagiscono per creare lavoro e offrire opportunità, in una dinamica aperta ai contributi più diverso.  Questa è l’Utopia che ispira queste innovazioni.

L’introduzione graduale del diritto ad immigrare attraverso queste forme di immigrazione regolamentata è una occasione per fare un passo in avanti nella direzione di questa visione utopica, pur restando ancorata al realismo delle situazioni concrete.

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N O T  E

[1] Come affermato dal Parlamento Europeo nella sua risoluzione del 28 settembre 2006 sulla politica europea per l’immigrazione, “l’immigrazione di massa è il risultato di economie in crisi, di impoverimento della popolazione, delle violazioni dei diritti umani, di degradazione dell’ambiente, delle differenze sembre maggiori tra paesi ricchi e poveri, della guerra civile, delle guerre per il controllo delle risorse naturali, delle persecuzioni politiche, dell’instabilità politica e della corruzione e della dittatura in molti paesi d’origine”, citato in A.G. Chueca Sancho, “Ius migrandi y el derecho humano al desarrollo”, intervento alle giornate su “Codesarrollo y migraciones. El papel de la cooperación” organizzato dall’Instituto de Estudios para la Paz nel novembre del 2006 (www.universidadabierta.org).

[2] Visti potranno essere rilasciati a chi riesce a produrre un’offerta di lavoro da parte di un’impresa nazionale, o a immigranti che siano stati vittime di crimini nel territorio nazionale del paese d’immigrazione (come i visti U negli Stati Uniti).

[3] Viste le resistenze incontrate, l’emigrante adatterà le sue scelte per tener conto delle circostanze mutevoli di ammissione, modificando piani e rotte, cambiando ritmi, tempi di arrivo e canali di intermediazione, sostituendo una destinazione con un’altra, ma non demorderà: ed appena la guardia si abbasserà nei paesi prescelti come destinazione finale, cercherà di entrare.

[4] A. Pécoud e P. de Guchteneire (a cura di), “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples”, UNESCO Publishing/Berghahn Books, Social Science Studies series, Paris/New York/ London, 2007, pag. 26.

[5] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere”, in “IL TRAFFICO DI IMMIGRANTI – Diritti, tutele e discriminazioni” a cura di V. Militello e A. Spena, G. Chiappichelli Editore, Torino, 2015, pag. 71.

[6] Tentativi di arrivare alla definizione di un diritto alla mobilità internazionale precedono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ad esempio, l’Institut de Droit Internazional (IDI) tentò di lanciare l’idea di un simile diritto in una riunione tenutasi a Copenaghen nel lontano 1897, in cui affrontò il tema dell’emigrazione dal punto di vista giuridico, suggerendo una serie di princìpi per una possibile convenzione. L’art. 1 di questa proposta di convenzione affermava: “Gli Stati partecipanti riconoscono la libertà di emigrare e di immigrare degli indidui, individualmente o in gruppo, senza distinzione di nazionalità. Questa libertà non può essere ristretta salvo per decisioni dovutamente pubblicate dai governi e dentro gli stretti limiti delle necessità di ordine sociale e politico”. Citazione presa da A.G. Chueca Sancho, “Ius migrandi y el derecho humano al desarrollo”, cit.

[7] Mia traduzione dal testo originale in inglese: 

“1. Everyone has the right to freedom of movement and residence within the borders of each State. 

  1. Everyone has the right to leave any country, including his own, and to return to his country”.

[8] Vedi F. Falcón y Tella (2007), “Hacia un nuevo orden mundial: El fenómeno de la globalización”, Anuario de Derechos Humanos, Nueva Época, Vol. 8. 2007 (115-129), in particolare pag.126.

[9] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere” cit., pag. 69. È proprio questa deborezza che ha permesso una forte differenziazione di questo diritto di libera circolazione tra residenti e stranieri, ritenendo che sia perfettamente applicabile per un cittadino all’interno del “suo” stato, mentre agli “stranieri” è stato possibile applicare qualsiasi forma di discriminazione, anche per la sua circolazione all’interno di uno stesso stato (di cui, ovviamente, non ha la cittadinanza).  Vedi ibidem pag. 70.

[10] Nei sIstemi feudali, il feudatario aveva il diritto sulle persone che vivevano nel feudo, perché erano fonte del reddito per il feudatario, fattore della produzione locale e fonte delle poche entrate fiscali, nonché input essenziali per il reclutamento coatto delle truppe necessarie alla difesa del feudo o dell’impero. La libertà di uscita era concessa solo come privilegio, ad eccezione degli esiliati, che venivano cacciati (in via permanente o temporanea) con divieto a rimpatriare. Anche il diritto di transito era concesso in modo molto arbitrario.

[11] Il laissez passer è il modo in cui ancor’oggi si chiama il passaporto delle Nazioni Unite rilasciato ai suoi funzionari.

[12] Oggi giorno bastano pochi giorni per ottenere il passaporto in molti paesi occidentali, ma ciò non vale sempre in altri paesi. Chi ha un po’ di capelli bianchi ricorderà i requisiti burocratici e i lunghi tempi necessari richiesti in passato anche in Italia per ottenere un passaporto.

[13] Nei sistemi con dittature repressive la concessione dei passaporti o visti di uscita è rara, ostacolata e soggetta a stretti controlli restrittivi, se non attraverso il pagamento di laute prebende a funzionari corrotti.

[14] Vedi al riguardo M. Pifferi (2009), “La doppia negazione dello ius migrandi tra Otto e Novecento”, in O. M. GIOLO e M. PIFFERI (a cura di), “Diritto contro. Meccanismi giuridici di esclusione dello straniero”, Torino, Giappichelli.

[15] A. Pécoud e P. de Guchteneire (a cura di), “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples”, cit. pag. 11.

[16] Questo non significa che non ci debbano essere limiti a questo diritto ad emigrare. Limitare la concessione del diritto di uscita (concessione del passaporto) nel caso in cui una persona abbia pendenze con la legge per crimini di cui è sospettato o accusato, può essere più che giustificato. O nel caso il potenziale emigrante rischi di essere un potenziale evasore fiscale o commetta altra frode finanziaria. O se l’emigrazione è soltanto un espediente per sottrarsi da certi obblighi giuridici (pagamento di imposte, provvedere al sostentamento della propria familia o al pagamento degli emolumenti al coniuge divorziato).  Ai vecchi tempi, si doveva presentare copia di un certificato penale, di un certificato dei carichi pendenti ed un certificato di buona condotta in Italia per ottenere il passaporto, oggi giorno sostituito da un’autodichiarazione e la possibilità di fare controlli incrociati grazie ai sistemi computerizzati di informazione della nostra pubblica amministrazione. In ogni caso, limitare l’accesso al diritto di emigrazione a chi fugge per reati sembra più che giustificato, salvo il possibile abuso di questa giustificazione fatto da regimi politici autoritari che accusano di crimini comuni anche oppositori politici, fabbricando false accuse giudiziarie.  

[17]Il diritto alla circolazione non può che essere un ‘diritto incompiuto’, che si realizza unicamente mediante il diritto di uscire da un territorio”. Vedi D. Profili, (2017) “Lo ‘ius migrandi’ ed i provvedimenti di allontamento dal territorio dello Stato tra esigenze nazionali e necessità di rispetto dei principi universali in materia dei diritti umani” in Giustizia Militare, 2017, Numero 6, consultabile in  https://www.difesa.it/Giustizia_Militare/rassegna/Bimestrale/2017/Documents/Numero6_2017/PROFILI_lo_ius_migrandi.pdf 

[18] Vedi M. Pifferi (2009), “La doppia negazione dello ius migrandi tra Otto e Novecento” cit., pag. 52.

[19] Una curiosità storica può essere il richiamo al riconoscimento di uno ius humanitatis sin dal secolo XVI, affermato dal teologo giurista spagnolo Francisco De Vitoria, che sosteneva che ogni persona abbia il diritto alla libera circozione e di trasferirsi in qualsiasi altro stato diverso dal suo, perché questo è un patrimonio dell’umanità, quindi universale.  Stranamente questo concetto è stato raramente colto in anni successivi. Eppure, la Costituzione Spagnola del 1869, nel suo art. 25 affermava che “ogni straniero potrà trasferirsi liberamente in territorio spagnolo, esercitare in esso la sua attività, o dedicarsi a qualsiasi professione per il cui svolgimento non siano richieste per legge titoli di capacità rilasciati dalle Autorità spagnole.” Testo citato da A.G. Chueca Sancho in  “Ius migrandi y el derecho humano al desarrollo”, cit. Una simile affermazione la troviamo oggigiorno soltanto nella legislazione argentina (vedi nota 24) in questa Parte VII.

[20] Negli Stati Uniti, la prima forma di resistenza all’immigrazione si manifestò nel 1882 nei confronti dell’immigrazione dalla Cina, dopo che ben 123.000 immigrati cinesi erano immigrati negli anni 1870 (ma altri 105.000 erano entrati anche tra il 1850 ed il 1870 a seguito delle condizioni di instabilità che prevalevano in Cina in quel periodo, ma ancor più per la forte domanda di manodopera per la costruzione delle ferrovie negli Stati Uniti, e l’attrazione della Gold Rush che aveva portato immigranti da tutto il mondo a cercare fortuna in California).  Nel 1882 fu varata la prima legge di “esclusione” di un gruppo di immigranti, per far fronte al “pericolo giallo” (quindi con una motivazione sostanzialmente razzista). L’esclusione aveva una durata di dieci anni, ma fu rinnovata nei decenni successivi, pur con varianti. Solo nel 1943, con il convolgimento amercicano a sostegno della Cina nel secondo conflitto mondiale, quell’esclusione fu abolita, anche se l’immigrazione cinese su larga scala verso gli Stati Uniti non riprese se non dopo il 1965. Su questi aspetti, si veda M. Pifferi (2009), “La doppia negazione dello ius migrandi tra Otto e Novecento”, cit., capitolo 1, “Controllare la partenza, negare l’arrivo”.

[21] Ibidem. Nei primi cento anni di vita della nuova repubblica americana, la politica delle porte aperte aveva trovato fondamento nei princìpi di libertà e di ricerca di una “felicità” agognata, su cui gli Stati Uniti avevano posto le proprie basi, come sancito nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, che aveva espresso questo principio nel “perseguimento della felicità”, con cui Thomas Jefferson aveva sintetizzato un diritto inalienabile dell’uomo, fondato su princìpi di uguaglianza e di giustizia, su cui la nuova nazione si fondava. Meraviglia, perciò, che le restrizioni successive imposte da quel paese all’immigrazione comportassero non solo una riduzione quantitativa del numero di immigrati ammessi, ma adducessero motivazioni di natura economica, razziale e culturale, accompagnate a restrizioni qualitative dei diritti goduti dagli immigranti, che contraddicevano quei princìpi di libertà e di uguaglianza.

[22] Vedi queste alterne tendenze dell’emigrazione internazionale in queste varie fasi storiche nella Parte V di questo saggio, su ESTERNALIZZAZIONE DEI CONFINI EUROPEI NEL MEDITERRANEO, sezione “Alcuni dati quantitativi”.

[23] Con l’adozione nel 1965 dell’Hart-Celler Act (Immigration and Nationality Acti Amernment), gli Stati Uniti eliminerono restrizioni all’immigrazione basati sul sistema di quote a seconda del paese d’origine, ma allo stesso tempo imposero limitazioni a tutte le immigrazioni sia di provenienza dall’occidente che dall’oriente, introducendo una preferenza per l’immigrazione di personale qualificato, per i rifugiati e per i ricongiungimenti familiari.

[24] Un’eccezione degna di essere segnalata è quella dell’Argentina, che nel 2004 adottò una legge sull’immigazione (legge 25.871 del gennaio 2004) che sostituì la precedente legge 22.439 del 1981 (che fu però un riflesso del periodo della dittatura militare). La nuova legge afferma a chiare lettere che l’immigrazione è un diritto umano, un principio mai dichiarato da alcun paese d’immigrazione, né da alcuna convenzione internazionale. Quella legge garantisce tutti i diritti costituzionali e la protezione dei diritti umani assicurati ai cittadini argentini a tutti gli immigranti che sono arrivati in quel paese, senza alcuna distinzione, indipendentement dal loro stato legale. Il diritto ad immigrare si estende anche alla affermazione che gli immigranti hanno diritto a difendersi da quasiasi forma di discriminazione, ed hanno diritto all’accesso ai servizi educativi, medici e sociali previsti per i cittadini argentini. Nonostante l’adozione di questa importante legge, non ho notizie se, dopo anni dalla sua approvazione, il governo argentino abbia anche promulgato il relativo regolamento di applicazione, in mancanza del quale gran parte dell’innovazione legislativa manca di efficacia operativa. Ciò nonostante, in un panorama internazionale generalizzato in cui il diritto ad immigrare non ha mai ricevuto questo riconoscimento ufficiale come diritto umano, si tratta di un risultato assolutamente sorprendente per lo sviluppo delle legislazioni anche in altri paesi in materia migratoria. Vedi B. Hines, “The Right to Migrate as a Human Right: The Current Argentine Immigration Law”. Cornell International Law Journal, Volume 43, Issue 3, Fall 2010.

[25] Nel corso degli anni 80 del secolo XIX, gli Stati Uniti confermarono con leggi apposite (vedi l’Expatriation Act del 27 luglio del 1868) il diritto all’espatrio come un diritto naturale di uno stato sovrano, confermato con sentenza della Corte Suprema. Era il periodo in cui negli Stati Uniti si dibatteva l’apertura o la chiusura delle frontiere all’immigrazione cinese, che aveva avuto dimensioni di massa nel corso di quegli anni, in concomitanza con la costruzione delle ferrovie, ma avvenuta nelle circostanze più controverse e sottoposta a ogni forma di sfruttamento e di discriminazione. Vedi sopra nota 20. Si consulti al riguardo M. Pifferi (2009), “La doppia negazione dello ius migrandi tra Otto e Novecento”, cit. pag. 50 (nota 7).

[26]  A. Pécoud e P. de Guchteneire (a cura di), “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples”, cit.

[27] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere” cit., pag. 72.

[28] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere” cit., pag. 74.

[29] Ad esempio, detentori di avanzati titoli di studio a livello accademico con comprovate qualifiche accademiche ed eccezionali esperience professionali dimostrate in attività scientifiche, artistiche, economiche o educative; dirigenti di imprese di livello multinazionale. Non sono molti gli immigranti che vengono dai paesi in via di sviluppo che appartengono a queste categorie (salvo il caso della fuga dei cervelli o l’emigrazione di individui appartenenti a élite privilegiate di quei paesi). 

[30] Per rendersi conto della varietà di requisiti richiesti ad un potenziale immigrante, basta guardare il portale dell’Unione Europea per l’immigrazione, ove è possibile trovare un’ampia informazione, per ciascun paese membro dell’Unione, sui requisiti richiesti per immigrare sia come lavoratore ad elevata qualificazione o ad altro livello di qualifica, sia come come lavoratore già impiegato in un’impresa o istituzione che intenda lavorare in Europa, sia come altro tipo di lavoratore dipendente, o come ricercatore, o come lavoratore autonomo, o per immigrare per un ricongiungimento familiare, o come studente. Vedi https://ec.europa.eu/immigration/node_en

[31] Quest’ultima distinzione si applica particolarmente a paesi come gli Stati Uniti, Australia, e Canada.

[32]  Vedi D.K. Goodwin, “Team of Rivals – The Political Genius of Abraham Lincoln”, Simn & Schuster, New York, 2005, pag.180-181 (edizione paperback 2006). 

[33]  Ibidem, pag. 537.

[34] Vedi l’ottimo articolo di Concetto Vecchio, dal titolo “Quando ci dicevano ‘Prima gli svizzeri’” apparso su La Repubblica il 26 maggio 2019 (giorno delle votazioni per il Parlamento Europeo), che racconta una storia personale molto significativa di come l’autore abbia vissuto in Svizzera da bambino lo stesso trattamento che oggi giorno i sovranisti propongono in Italia con l’approccio “Prima gli italiani”. Sembra che c’è sempre qualcuno che voglia vantare un diritto di prelazione: “prima io”.  Sembra come una corsa ad occupare i banchi di scuola il primo giorno dell’anno scolastico: “sono arrivato prima io, tu vai in fondo”.  Tutto ciò è semplicistico, e in qualche modo corrisponde alla legge del più forte, e non di certo ad un criterio di giustizia e di equità.

[35] Vedi S. Castles, H. De Haas & M.J.Miller (2014), “The Age of Migration – International Population Movements in the Modern World”, Palgrave Macmillan, London (quinta edizione), cit. nella Parte VI di questo saggio, in particolare il Capitolo 10 “The State and International Migration: the Quest for Control” e la sua sezione finale,Conclusions: a quixotic or credible quest for control?”, pag. 238.

[36] Le generazioni precedenti di immigranti appartengono a sotto-gruppi diversi che, in un modo o nell’altro, sono riusciti ad entrare nei paesi ambiti. Si tratta di persone che immigrarono in passato con profili molto diversificati, che includevano lavoratori specializzati, manovali, piccoli imprenditori o commercianti, minorenni non accompagnati, donne con o senza figli, spesso immigranti irregolari, con varie capacità lavorative. Nel tempo, essi sono riusciti in qualche misura a regolarizzare la propria posizione legale nel paese, integrandosi nella società, e a volte a prendere la cittadinanza (se non loro, i loro discendenti). Problemi di integrazione possono persistere in alcuni paesi, lì ove si creino enclave chiuse, culturalmente isolate dal resto della popolazione nazionale.

[37] Per un esame esteso delle condizioni di controllo dell’immigrazione nelle più diverse parti del mondo, si veda l’ampia analisi contenuta in J.F. Hollifield, P.L. Martin, e P.M. Orrenius (a cura di) (2014), “Controlling Immigration – A Global Perspective”, Stanford University Press, Stanford (California), terza edizione.  

[38] Vedi M. Huemer (2010) Is There a Right to Immigrate?” in Social Theory and Practice, Vol. 36, No. 3, pagg. 429-461.

[39] Si veda ad esempio la pubblicazione dell’UNESCO già citata in precedenza a cura di A. Pécoud e P. de Guchteneire  “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples”, UNESCO Publishing/Berghahn Books, Social Science Studies series, Paris/New York/ London, 2007.

[40] La migrazione circolare si manifesta con crescente frequenza e consiste in fenomeni in cui i flussi migratori non interessano soltanto trasferimenti da un paese all’altro ma seguono percorsi complessi, compresi i ritorni temporanei nel paese natio, ma particolarmente perseguono itinerari circolari imprevedibili, con sequenze successive, ove il paese d’immigrazione iniziale non è necessariamente la destinazione finale, perché sostituibile con un’altra che la segue.

[41] C’è un’abbondante letteratura specialistica sullo “ius migrandi” nella storia dell’antica Roma. Per chi è interessato, si vedano ad esempio, Stefano Barbati, “Gli studi sulla cittadinanza romana prima e dopo le ricerche di Giorgio Luraschi”, Rivista di Diritto Romano, XII, 2012; Armando Torrent, “IUS LATII Y LEX IRNITANA”, Revista Internacional de Derecho Romano, Abril 2009.  

[42] Vedi A. Pécoud e P. de Guchteneire  “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples” cit., Capitolo 1, “Introduction: the migration without borders scenario”, pag. 2.

[43] Vedi T. Golash-Boza e C. Menjı´var (2012), “Causes and consequences of international migration: sociological evidence for the right to mobility”, The International Journal of Human Rights, Routledge – Taylor & Francis Group, Vol. 16, No. 8, December 2012, pag. 1221-1222.

[44] Una simile versione si baserebbe sull’introduzione di una serie di “paletti” che introducono il diritto ad immigrare solo a certe condizioni ed entro limiti considerati accettabili, ma pur sempre più ampi di quelli finora previsti.

[45] Vedi A. Pécoud e P. de Guchteneire, “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples” cit., Capitolo 1, “Introduction: the migration without borders scenario”, pag. 2.

[46] Vedi quelli citati da Nigel Harris, in “The economics and politics of free movement of people”, capitolo 2 del volume già citato a cura di A. Pécoud e P. de Guchteneire, “MIGRATION WITHOUT BORDERS – ecc.”.

[47] Si veda sull’argomento M. Ughur, “The ethics, economics and governance of free movement”, capitolo 4 del volume già citato a cura di A. Pécoud e P. de Guchteneire, “MIGRATION WITHOUT BORDERS – ecc.”.

[48] Non è realistico concepire progressi sull’estensione del diritto alla mobilità internazionale come decisione unilaterale di un paese, mentre altri paesi continuino a mantenere un controllo sistematico dei limiti al diritto ad immigrare. Rischierebbe di divenire il porto di arrivo di tanti immigranti rifiutati da altri paesi. Vedi A. Pécoud e P. de Guchteneire,  “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples” cit., pag. 21.

[49] Questa impostazione libertaria “di destra” si oppone ad una concezione egualitaria della distribuzione della ricchezza e delle risorse naturali o a qualsiasi misura di controllo su tale distribuzione. La distribuzione della ricchezza è infatti accettata acriticamente come determinata dal libero funzionamento delle forze del mercato (laissez-faire), che dovrebbero essere lasciate incontrollate, seguendo un approccio che potremme chiamare capitalismo anarchico.

[50] Salvo in società primitive ove prevale la proprietà comunitaria e società (in via di estinsione) ove la proprietà privata è negata a vantaggio della proprietà collettiva, nei sistemi economici ad economia di mercato la distribuzione della ricchezza, e quindi il controllo sulle risorse economiche e naturali, sono quello che sono, ed accettati come un dato di fatto su cui solo marginalmente le politiche economiche intervengono, con misure fiscali volte a produrre modesti effetti redistributivi. Ma queste misure fiscali non alterano la struttura fondamentale della distribuzione delle risorse, secondo i diritti di proprietà privata già costituiti.

[51] Negli Stati Uniti, in un passato non molto remoto troviamo espressioni di questo tipo di libertarianismo conservatore nelle posizioni di Barry Goldwater (già senatore per l’Arizona) e di Ron Paul (già rappresentante per il Texas). Il figlio di quest’ultimo, attuale senatore Rand Paul, si può considerare in parte erede di quella impostazione, pur con qualche contraddizione.

[52] Questa impostazione – imbevuta di ispirazioni “nativiste” già ricordate – sostiene quindi una specie di “sovranismo individuale” dei residenti sulle risorse del paese, minacciati dall’immigrazione. Gli “individui sovranisti” si comportano come i soci di un “circolo” esclusivo, ove gli immigranti sono gli estranei non “omogenei” che fanno domanda di ammissione al club. Le politiche restrittive all’immigrazione sarebbero le restrizioni poste all’ingresso di nuovi soci al club. L’ammissione di nuovi soci dipende dalla “omogeneità” (like-mindedness) degli immigranti con i soci del club (i residenti): hanno gli immigranti gli stessi valori, la stessa estrazione sociale, la stessa cultura dei residenti? Gli “individui sovranisti” non sono necessariamente “nativisti”, chiusi a qualsiasi forma di immigrazione, ma limitano le loro aperture all’immigrazione di individui che siano “omogenei” con i residenti. La libertà di associazione dà il diritto ai residenti di decidere le regole dello statuto del club, decidendo quali siano i criteri di ammissibilità per aver accesso al paese, criteri normalmente basati su discriminazione di natura economica, culturale, etnica, geografica e sociale. Vedi M. Huemer (2010) Is There a Right to Immigrate?” in Social Theory and Practice, cit.  Capitolo 1, “The Immigration Question”.

[53] Vedi le posizioni espresse dalla Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale della Santa Sede, guidata personalmente da Papa Francesco. Si vedano anche iniziative come Warm Up della Caritas Italiana e a favore di Corridori Umanitari (si consulti ad esempio l’opuscolo “Oltre Il Mare – Primo rapporto sui Corridori Umanitari in Italia e altre vie legali e sicure d’ingresso” curato da Caritas Italiana).

[54] Ibidem, pag. 79.

[55] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere” cit., pag. 71.

[56] Vedi ad esempio M. Huemer (2010) “Is There a Right to Immigrate?” in Social Theory and Practice, cit

[57] Questa norma non può essere applicata (vedi il comma successivo dello stesso articolo) nel caso in cui una persona sia perseguitata per crimini non politici o per atti contrari ai princìpi delle Nazioni Unite. Se questa esclusione fosse utilizzata solamente per escludere criminali o terroristi non ci sarebbe molto da dire. In pratica, però, sappiamo che questa esclusione è stata interpretata anche per essere applicata a tutti coloro che sono considerati “migranti economici”, e questa interpretazione pone molti problemi sull’esclusione dall’accesso al diritto ad immigrare per molti emigranti che pure sono vittimie di violazioni di diritti umani, ma non quelli cui riferisce l’art. 14.

[58] Vedi M. Huemer (2010) “Is There a Right to Immigrate?” in Social Theory and Practice, cit.  Capitolo 2, “Immigration Restrictions as a Prima Facie Violation of Rights”.

[59] I tribunali o le commissioni per l’immigrazione chiedono prove a volte difficili da produrre per dimostrare queste violazioni prima di concedere il diritto ad un permesso di soggiorno. Ma la Dichiarazione Universale sancisce questi diritti senza aggiungere la condizione “sempre che sia possibile provarlo con prove o testimonianze inconfutabili”. Dobbiamo esigere a chi scappa da queste situazioni di portarsi appresso le prove delle angherie, delle discriminazioni, delle marginalizzazioni per riconoscer loro questi diritti? Perché è lasciato al migrante l’obbligo di dimostrare che ha questi diritti? Non dovremmo avere un approccio attivo che cerchi di garantire la libertà dalla paura senza condizioni? Se riconoscessimo il diritto alla mobilità tutta questa problematica probatoria non esisterebbe. Una persona emigrerebbe (ed immigrerebbe) soltanto perché ne ha diritto e questo basterebbe.

[60] Tuttavia le giurisprudenze non sono molto unanimi nel come considerare i trattamenti inumani degradanti che pure sono menzionati nello stesso art. 5, ma che evidentemente possono dar adito a vari livelli di sofferenza. Quali sono i livell di sofferenza richiesti per concedere l’asilo? Queste sofferenze, anche se non producono danni fisici macroscopici, sono tuttavia sono sufficienti per motivare un emigrante a cercare soluzioni fuggendo dal proprio paese.  Il modo in cui i tribunali o le commissioni per l’immigrazione vagliano la severità di queste sofferenze solleva tuttavia qualche dubbio per l’eccessiva discrezionalità con cui queste violazioni di diritti umani vengono valutate.

[61] Tra i diritti politici che sono tutelati ricordiamo la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 18), la libertà di espressione delle proprie opinioni (art. 19), la libertà di associazione (art. 20), il diritto a partecipare alla vita politica del paese, diritto ad aver accesso ai suoi servizi pubblici, e il riconoscimento della necessità di un sistema elettorale a suffragio universale (art. 21).

[62] Nella Parte VI abbiamo sottolineato che l’emigrazione non è un fenomeno individuale, ma di gruppo, appunto riferito al nucleo familiare.

[63] Queste situazioni hanno avuto manifestazioni particolarmente acute in paesi come gli Stati Uniti ma anche in Europa.

[64] Vedi A. Sen (1999), “Development as Freedom”, New York, Alfred A. Knopf.

[65] Si tratta di un diritto composito, che si basa sulla premessa che la persona umana è al centro del processo di sviluppo, il quale è visto nella sua complessità, nelle sue varie componenti economiche, sociali, culturali e politiche. Il miglioramento del benessere di ogni individuo e dell’intera popolazione mondiale e la loro significativa e libera partecipazione attiva al processo di sviluppo è al centro di questo diritto allo sviluppo, insieme un’equa distribuzione dei suoi benefici. La considerazione del diritto allo sviluppo parte dalla preoccupazione dei severi ostacoli allo sviluppo che rendono difficile a molte pesone realizzarsi come esseri umani, e la non realizzazione del diritto allo sviluppo è visto come un risvolto della violazione di diritti civili, politici, economic, sociali e culturali, tutelati, tra l’altro, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

[66] I suoi elementi principali sono impliciti in molti diritti umani indicati nella Dichiarazione. L’art. 29 della Dichiarazione Universale, ad esempio, garantisce a chiunque il diritto alla libertà e al pieno sviluppo della propria personalità, e al perseguimento del benessere generale per una società. Si tratta di un’affermazione che include la riaffermazione di tutta una serie di diritti economici, sociali e culturali indicati esplicitamente in articoli precedenti della Dichiarazione Universale, affermati come diritti umani fondamentali. Questo significa ammettere che la società globale si impegna a tutelarli con una serie di obbligazioni per rendere queste libertà di fondo raggiungibili.  La Dichiarazione Universale non esita a dichiarare che “chiunque (…) ha diritto alla realizzazione (…) dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili per la sua dignità ed il libero sviluppo della sua personalità” (art. 22). Allo stesso tempo, la stessa Dichiarazione Universale afferma a chiare lettere che “ogni individuo ha diritto ad un livello di vita adeguato per gli assicuri salute e benessere per sé e la propria famigia, includendo cibo, vestiario, abitazione, assistenza medica, e necessari servizi sociali, e diritto a sicurezza in caso di disoccupazione, infermità, invalidità, vedovanza, vecchiaia, o altri casi di Perdita di mezzi di sostentamento per cause indipendenti dalla propria volontà. (art. 25) Anche se la Dichiarazione Universale non ha un meccanismo coercitivo per sanzionare chicchessia che violi tali diritti, l’art. 30 offre un monito severo a chiunque (stato, gruppo o persona) agisca in modo da vanificare le libertà e i diritti indicate nella testo della Dichiarazione.

[67] A.G. Chueca Sancho, “Ius migrandi y el derecho humano al desarrollo”, cit.

[68] Chiaramente, avendo identificato un diritto a non emigrare, nel contesto del diritto allo sviluppo, è implicito appellarsi ai governi dei paesi d’origine degli emigranti affinché promuovano politiche per avviare processi equilibrati di sviluppo che rimuovano quegli squilibri strutturali che spesso dilaniano le loro società e che sono alla base della decisione di emigrare. Ed è un invito agli stessi paesi di portare avanti queste politiche anche in collaborazione con altri paesi e istituzioni internazionali nell’ambito di programmi di cooperazione allo sviluppo. È anche un richiamo affinché si facciano sforzi per rendere questi programmi di cooperazione più efficaci in modo da poter affrontare i problemi economici e sociali producendo un maggiore impatto a favore delle popolazioni interessate. 

[69] Vedi ad esempio M. Huemer (2010) “Is There a Right to Immigrate?” in Social Theory and Practice, cit

[70] Il danno prodotto dalle violenze prodotte alle persone nel paese di provenienza o da catastrofi naturali da cui l’immigrante fugge o da altri possibili danni da cui l’immigrante cerca di sottrarsi cambiando paese, è avvenuto altrove, e non nel paese d’immigrazione. Quest’ultimo non ha una resposabilità diretta su quei danni, se non quello di aver favorito il ritorno in quella realtà ove quei danni si erano inizialmente prodotti. Sicuramente il paese d’immigrazione non ha alcun obbligo giuridico a risolvere i problemi prodotti altrove e nessun individuo ha un diritto naturale ad essere assistito da un governo di un altro paese per risolvere violazioni dei diritti umani che ha subìto nel proprio paese.

[71] Vedi sesto comma del preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

[72] Se l’immigrante era una giovane ragazza dell’Honduras o di El Salvador, fuggita dalle maglie delle maras locali, il rifiuto dell’asilo negli Stati Uniti ed un suo rimpatrio obbligato potrebbe equivalere ad una sentenza di morte. Quanti profughi dell’Africa orientale sono stati arrestati dai governi locali appena rimpatriati forzosamente? Altro che protezione internazionale per i rifugiati.

[73] Vedi T. Golash-Boza e C. Menjı´var (2012), “Causes and consequences of international migration: sociological evidence for the right to mobility”, cit. pag. 1218.

[74] Ibidem, pag. 1215.

[75] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere” cit., pag. 76.

[76] Vedi Parte V sulle politiche varate dal ex ministro all’interno Marco Minniti durante il governo Gentiloni, specialmente per quanto rriguarda l’immigrazione dalla Libia e i controlli nel Mediterraneo. Naturalmente le condizioni in Libia sono cambiate da allora, e anche le posizioni di Minniti riguardo agli accordi presi a suo tempo con la Libia sono cambiate. Resta, comunque, una grande attenzione nelle sue posizioni nel binomio sicurezza-assistenza umanitaria, mentre nelle posizioni alla Orsini l’attenzione all’approccio umanitario prevale. In ogni caso, il contenuto del dibattito sulla materia migratoria nel Partito Democratico appare ancora non completamente definito nei suoi dettagli, e potrebbe essere ancora di grandi controversie. Sarà utile seguire le discussioni che accompagneranno la preparazione della proposta di legge dell’immigrazione annunciata con l’avvento del secondo governo Conte, per comprendere meglio le direzioni future delle linee politiche in materia migratoria, vista l’influenza che potrà avere sugli orientamenti governativi in materia.

[77]  Vedi nota 24 in questa Parte VII.

[78] Vedi A. Pécoud e P. de Guchteneire  “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples” cit., pag. 22.

[79] Vedi E. Cavasino, “Ius migrandi e controllo delle frontiere” cit., pag. 73.

[80] Vedi A. Pécoud e P. de Guchteneire  “MIGRATION WITHOUT BORDERS – Essays on the free movement of peoples” cit., Capitolo 1, “Introduction: the migration without borders scenario”, pag. 2 e M. Huemer (2010) Is There a Right to Immigrate?” in Social Theory and Practice, Vol. 36, No. 3, cit. Capitolo 1.

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