LA MARCIA DI MARTIN LUTHER KING 50 ANNI DOPO.

MA CHI CI PARTECIPA NEGLI USA DI OGGI?

di Gisella Evangelisti

Gli afroamericani erano arrivati in 250mila da tutte le parti del Paese. Avevano viaggiato in bus, in treno, in auto e avevano raggiunto Washington, il cuore del potere, quel 28 di agosto 1963, sfidando le autorità. S'erano vestiti a festa, come il Reverendo Martin Luther King aveva raccomandato di fare. Chiedevano un lavoro dignitoso e la libertà: "Jobs and Freedom" era scritto nei loro grandi cartelli. Ma come era possibile che una donna guadagnasse solo 5 dollari a settimana per le pulizie in casa di una famiglia che guadagnava almeno 100mila dollari l'anno? Arrivano i comunisti! Uffici pubblici e alberghi sprangarono le porte e 4000 militari della base aeronavale, della polizia locale, più agenti dell'FBI e del controspionaggio dell'esercito, travestiti da contadini, erano in stato di allerta in attesa che arrivassero i manifestanti.

Si prevedeva che avvenissero incidenti come già era avvenuto ad Harlem, Newark, Watts o Detroit. John Lewis, il Presidente del Comitato di Coordinamento degli Studenti Non-violenti  (l'SNCC), aveva preparato un infiammato discorso con il quale si chiedeva a gran voce LIBERTA' SUBITO!, dovette rassegnarsi ad abbassare i toni.  Il poliziotto John Collins, che oggi ha 78 anni, aveva il compito di accompagnare al podio Martin Luther King, l'ultimo ad intervenire quel giorno. "Mi resi subito conto-ricorda Collins- di che tipo di persona si trattasse: comprensivo ed onesto. Questo mi tranquillizzò". Martin Luther King iniziò il suo discorso con la famosa frase: "I have a dream". "Sogno un mondo dove bianchi e neri si diano la mano, dove i miei figli possano avere un futuro migliore. Un mondo senza povertà, senza razzismo, senza guerra..." Molti si asciugarono una lacrima: Il poliziotto Collins pensò: "Ma perché non può essere così tutto il mondo? Perché non possiamo credere tutti alla non-violenza e all'amore?". Dopo il discorso, bianchi e neri si diedero la mano e cantarono We Shall Overcome! Vinceremo un giorno. Non si verificarono incidenti; nemmeno l'ombra. "Una farsa, un circo", così definì la manifestazione Malcolm X, il leader delle Pantere Nere, che predicava invece una rivoluzione più radicale contro il sistema capitalista. Era un'epoca dura, l'organizzazione razzista KKK (Ku Klux Klan) aggrediva e uccideva quelli che con disprezzo chiamavano niggers (negri): due mesi dopo la marcia, John Kennedy fu assassinato, e cinque anni più tardi, dopo l'uccisione di Martin Luther King, si verificarono rivolte in più di cento città. Toccò al nuovo Presidente, B. Lyndon Johnson firmare a denti stretti le Leggi contro il Segregazionismo. Fimrò anche, e soprattutto, il Voting Rights Act, che facilitava l'ottenimento del diritto di voto da parte della popolazione nera. La guerra in Vietnam terminò nel 1973 con la ritirata dell'esercito statunitense, e un totale di 58.000 morti, 300.000 feriti, e centinaia di migliaia di reduci narco-dipendenti e con problemi di adattamento alla vita civile. Nell'altro campo, i Vietnamiti contavano dai 3,8 ai 5,7 milioni di vittime, soprattutto civili, perché gli statunitensi avevano scaricato su quella piccola nazione più bombe che in tutta la Seconda Guerra Mondiale. Non avevano nemmeno risparmiato l'uso di potenti agenti chimici come il Napalm. John Kerry, un tenente dalla folta capigliatura, oggi Capo della Diplomazia statunitense, partecipò a quella guerra e ne testimoniò gli orrori. Orrori che non terminarono con la sconfitta degli Stati Uniti. Pol Pot, leader maoista della vicina Cambogia, si rese responsabile di almeno 200mila esecuzioni di intellettuali e della morte per denutrizione o a causa dei lavori forzati di un quarto (quasi due milioni) di suoi concittadini.

 

Ma tutto questo doveva ancora avvenire quando gli afroamericani decisero di marciare su Washington, vestiti a festa, cantando gospels e inni di speranza. "Sono nata grazie a questa storica marcia", racconta al Washington Post, Dana Milbank, la figlia di due studenti ventenni che si conobbero e si innamorarono di fronte al Lincoln Memorial, il 28 agosto 1963.

La ragazza era cresciuta ascoltando le canzoni di Joan Baez e Bob Dylan. In casa aveva un poster que diceva: "La guerra non fa bene ai bambini e ad altre cose viventi". Ricorda anche il boicottaggio contro la Nestlè colpevole di fomentare l'uso di latte in polvere nei Paesi poveri (con conseguenze disastrose per la salute dei bambini privi degli anticorpi materni e spesso infettati per l'impossibilità di bollire l'acqua), e le grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam. "Era queste le lotte della generazione dei miei genitori. Anche la mia generazione, quella dei nati alla fine degli anni '60, ha avuto le sue nobili cause, come la lotta contro la discriminazione degli omosessuali, oppure la difesa dell'ambiente, ma nessuna ci ha coinvolto tanto o ha chiesto lo stesso sacrificio di quanto fu invece necessario per la mobilitazione in favore dei diritti civili, negli anni '60. La stessa minaccia della guerra fredda era per noi solo una cosa teorica. Poi cadde l'URSS e, in realtà, siamo cresciuti senza minacce, senza sfide e grandi aspirazioni. Quando le Torri Gemelle furono attaccate l'11 settembre 2010, eravamo pronti a difendere la nazione, ma il Presidente Bush ci disse di andarcene a spasso a far compere", sostiene Dana.

Sono passati cinquant'anni da questo indimenticabile agosto del '63. Per celebrarlo, venti giorni fa, il 24 agosto del 2013, di fronte al Lincoln Memorial di Washington, si sono riuniti almeno centomila persone, la maggioranza erano afroamericani. Innalzavano cartelli di associazioni, università, movimenti gay. C'erano gruppi musicali di giovani e anche alcune pittoresche nonne, abbigliate con grandi cappelli con fiori, le "nonne indignate", che cantavano canzoni di lotta contro la schiavitù. Società di gazzose e acqua minerale distribuivano bottiglie gratuitamente. Era un giorno caldo e festivo. La gente, come allora, si rinfrescava i piedi nel grande specchio d'acqua di fronte al Lincoln Memorial.

La società statunitense, intanto è cambiata. Non c'è più la velenosa dualità bianchi-neri degli anni '60; al suo posto un caleidoscopio di colori. I latini hanno superato gli afroamericani e gli asiatici sono entrati con forza: nel 2012 la metà circa dei bambini minori di cinque anni erano non-bianchi, pertanto si prevede che l'importanza dei repubblicani, tradizionalmente bianchi, fortemente legati al territorio e spesso provenienti dal settore rurale, diminuirà. Nel mondo, la Cina ha superato gli Stati Uniti nella produzione manufatturiera, e sta allestendo una flotta di gran cabotaggio per la navigazione oceanica. Nel frattempo, nel frattempo quanto è cambiata la vita degli afroamericani grazie a un Presidente mulatto, figlio di un keniota e di una statunitense bianca? Perché che cosa lottano oggi gli afroamericani? Lo domandiamo a qualcuno dei manifestanti.

"Certo, alcuni di noi neri hanno ottenuto posti di responsabilità sia nelle amministrazioni pubbliche che in quelle private, ma la maggioranza della popolazione nera è ancora in situazione di svantaggio, come lo stesso Presidente Obama riconosce", spiega Jacob Presley, un manifestante del progressive Labor Party. "A noi neri toccano le peggiori scuole, perciò siamo condannati al lavoro precario e al sottoimpiego. Il problema è il capitalismo neoliberale che, invece di migliorare la vita della popolazione nera e portarla allo stesso livello di quella bianca, è riuscita addirittura a peggiorare la vita della classe media bianca. Infatti, la crisi provocata dalla speculazione finanziaria e la riduzione dei profitti da impresa, stanno ormai erodendo irreversibilmente i salari. I redditi dei 400 più ricchi miliardari sono diventati stratosferici, mentre noi continuiamo a lavorare in un qualsiasi Mc Donald's o Burger Kings, senza né sicurezza né contratto..."

Ma le cose stanno ancora peggio: "Viviamo in quartieri superaffollati e violenti. La maggior parte degli omicidi sono perpetrati da neri e la maggior parte delle loro vittime sono neri. La maggior parte dei detenuti in carcere sono neri", aggiunge David Wallace, un informatico con un gran cartello contro l'isolamento nelle prigioni e un sistema punitivo disumano e disperante. "Abbiamo un sistema giudiziario assurdo. Puoi finre in carcere per una stupidaggine, come farti trovare con qualche grammo di droga in più del consentito, e se nella tua storia risulta che sei stato condannato per qualche delitto anche piccolo, come aver risposto con aggressività a un poliziotto, o fatto a botte con un vicino, possono metterti in carcere per una vita. Sì, hai sentito bene, a vita. Isolandoti per tutto il tempo che vogliono loro. L'industria carceraria è un affare, gestito da società che di programmi di reabilitazione ne hanno assai pochi".

Recentemente sono avvenute cose che hanno indignato l'opinione pubblica. Il 26 febbraio del 2012, a Sanford, Florida, Trayvon Martin, un ragazzo afroamericano che camminava disarmato  indossando una polo con un cappuccio, fu inseguito da un vigile di quartiere che, sceso dalla sua macchina concluse l'inseguimento uccidendolo. Un anno dopo, il vigile, George Zimmerman fu dichiarato innocente: "Ho pensato che si trattasse di un delinquente, da come era vestito", si giustificò. Invece, Marissa Alexander, una giovane afroamericana di Jaksonville, Florida, per difendersi dal marito (un violentatore abituale che stava sul punto di accoltellarla), era riuscita a impossessarsi della della sua pistola e aveva sparato un colpo in alto, senza nemmeno ferirlo. Ebbene, fu condannata nel 2010 a vent'anni di prigione. Una condanna che tra l'altro la separa dai suoi tre figli.

Obama, in un primo momento, commentando il tagico episodio di Trayvon, dichiarò che le sentenze dei giudici vanno rispettate. Però, dopo una settimana di sit in e di proteste di gruppi afroamericani in cento città, ci pensò su meglio e riusc' a commuovere i suoi concittadini dicendo: "Anch'io da giovane, avrei potuto essere Trayvon. Chi di noi, nati con la pelle scura, non ha dovuto subire sguardi ostili o magari, si son trovati in ascensore con una signora che temendo di essere derubata, si stringesse nervosa la sua borsa al petto per difenderla" . Anche se non è cresciuto in quartieri di neri ma in  Indonesia e alle Hawaii in una famiglia multiculturale e con dei nonni bianchi, Obama da giovane aveva frequentato i quartieri più problematici di Chicago per appoggiare l'organizzazione comunitaria.

Oggi, molta gente o è esplicitamente delusa dall'azione di Obama come Presidente o lo giustifica perché "insomma, una sola persona non può cambiare l'intero sistema". O meglio, pensano che sia necessario cambiare il sistema. In questi ultimi anni tre grandi temi politici sono stati all'ordine del giorno: la riforma sanitaria, la nuova Legge sull'emigrazione, e una Legge per contenere l'uso delle armi. Obama ha ottenuto risultati assai scarsi per tutti e tre i problemi, senza contare lo smacco subìto per l'aumento del salario minimo, dovuto all'ostruzionismo del Congresso dominato dai repubblicani. Questo è quello che lui stesso denunciò nel suo discorso ufficiale alla commemorazione di Martin Luther King, il 28 agosto 2013. Qualsiasi tentativo di riforma per questi che sono problemi cruciali, è destinato, dopo mesi di discussioni, a fare un passo avanti e due dietro.

La cosa peggiore in tutto questo, specialmente perché stiamo parlando della democrazia più importante del mondo, è il mancato rispetto, nella pratica, del diritto al voto di quei poveri, sia latini che afroamericani, che non si possono permettere, per mancanza di tempo o di denaro, una tessera di identità, che è poi il documento essenziale per poter votare. E' questa la nuova norma che si sta attuando in alcuni stati del Sud a seguito di una sentenza della Corte Suprema: una trappola dei repubblicani per togliere voti ai democratici.

"Il sistema politico statunitense è sclerotico, perché bloccato da due partiti politici, democratico e repubblicano, che hanno di fatto la stessa forza", commenta Pilar Weiss, una giovane analista politica che ha appoggiato la campagna di Obama e lavora aiutando varie associazioni a lavorare nel campo della formazione civile.

"I democratici sono favorevoli all'estensione della riforma sanitaria, affinché uno non debba morire per la strada come un cane, se non può pagarsi le spese astronomiche dell'ospedale perché non può permettersi una costosa assicurazione medica. Sono più sensibili al tema dei diritti umani e al fatto che quanta più gente possa possedere una casa e almeno  un lavoro decente. Invece i repubblicani vogliono uno Stato ridotto al minimo, e al quale non si debbano pagare tasse. Per loro i ricchi sono quelli che hanno trionfato perché hanno la mentalità dei 'vincenti': gli altri, quelli che protestano o esigono più diritti, sono solo i 'perdenti'. Quello che essenzialmente è il compito dello Stato è mantenere un esercito forte che assicuri agli Stati Uniti il controllo del mondo. Ho una vicina molto gentile", racconta Pilar, "si chiama Cheril. E' sempre pronta ad aiutarmi quando arrivo a casa carica di spesa, o quando mi serve un limone. Però il suo modo di ragionare mi provoca i brividi. E' membro del Tea Party, il gruppo dei repubblicani radicali.

"Lei pensa così: ma perché bisogna dare medicine e assistenza a queste negre,madri single, che fanno figli con un uomo dopo l'altro? Meglio aiutare direttamente qualcuno che conosciamo, per esempio una donna che frequenta fedelmente la nostra Chiesa, come Catherine, che soffre di leucemia ? Noi preferiamo fare donazioni alle nostre Chiese, come fanno i nostri politici. (Però Cheryl non dice che le loro campagne elettorali sono finanziate dalle compagnie petrolifere, farmaceutiche, alimentari e dai fabbricanti di armi, che cercano ovviamente delle Leggi favorevoli ai loro interessi particolari). Noi -prosegue Cheryl- dopo li ringraziamo votandoli, e la Chiesa potrà aiutare la signora Catherine, che tutti conosciamo. Almeno sappiamo dove vanno i nostri soldi. Povera Cheryl, se almeno vedesse che fine farebbe quell'aiuto che dovrebbe arrivare alla povera Catherine, se i fabbricanti di armi, le società farmaceutiche, ecc., i deputati, le Chiese e i loro fedeli invece di svegliarsi generosi e con la voglia di fare 'la carità', si svegliassero senza nessuna intenzione di dare il loro aiuto: fatti tuoi, cara Catherine, tu e la tua leucemia. Non ti rimane che pregare.

Ovviamente, Cheryl, si considera una buona patriota perché crede che gli Stati Uniti devono continuare a fare i poliziotti del mondo. Le nostre guerre, secondo lei,sono sempre state 'giuste', non solo quando si trattò di fermare Hitler, ma anche quando servirono per far cadere governi democratici e imporre dittatori crudeli, in regioni importanti per i nostri affari, o fornite di abbondante petrolio. Lei si commuove durante le sfilate nel 'Giorno del Veterano di Guerra', quando arrivano a migliaia i nostri ragazzi, i reduci, che percorrono i grandi viali di Washington, guidando potenti Harley Davidson, salutati dalla folla. Arrivano ultracoperti dalle loro decorazioni, abbigliati allo stile 'macho', con tatuaggi e catene, e fazzoletti da pirata in testa. La mia vicina Cheryl impazzisce per loro. Lei crede che possono difendere l'America non solo dai comunisti, ma anche dagli alieni, comunisti e no. Insomma...

Nemmeno dovremmo essere molto orgogliosi -prosegue Pilar- del culto per le armi che esiste nel nostro Paese, dove non si fanno quasi mai films senza qualcuno che spari o uccida come se fosse una cosa normale.

Vedi queste grandi case con i loro bellissimi giardini aperti? Ti sorprenderà che non ci siano né cancelli né vigili di guardia, come invece succede in America Latina. Non hanno paura delle aggressioni? No. Prova ad avvicinarti più del dovuto e ti scaricheranno addosso un intero arsenale. 'Ellen ha la sua arma' si legge in un manifesto pubblicitario, 'Obama gliela vuole togliere'. Cioè, quel cattivo di Obama starebbe promuovendo una Legge per ridurre l'uso delle armi, togliendo alla povera Ellen della pubblicità (una giovane donna dall'aria di impeccabile professionista) il piacere di partecipare a una salutare ed emozionante sparatoria, con vero spargimento di sangue e non con salsa di pomodoro come nei films.

Però -conclude Pilar- qualcosa sta cambiando nella pubblica opinione. Obama è stato eletto, tra l'altro, per la sua promessa di mettere fine a un decennio di guerre (sebbene quella in Afghanistan continui, Guantanamo sia ancora in funzione, i droni scorazzino, e con la scusa del terrorismo tutti veniamo regolarmente spiati...), perché i problemi del Paese non mancano. Dopo tante uccisioni di bambini e di adolescenti dovuti a squilibrati mentali, si sta finalmente formando un movimento di madri che vogliono sensibilizzare l'opinione pubblica contro l'uso eccessivo di armi da fuoco. Speriamo che l'iniziativa prenda piede e si consolidi. Purtroppo i repubblicani hanno la lista completa di tutti quelli che posseggono armi e, in poche ore possono fare più di quattromila telefonate per fare pressione sui politici affinché non tocchino il loro sacro diritto di possedere armi."

Sì, c'è una mobilitazione nel Paese, anche se ancora non si è riusciti a creare un grande movimento nazionale come quello degli anni '60. Questo è quello che sostiene John Lewis, l'antico leader degli Studenti Non Violenti che, nel '63, esigeva: Libertà Subito!. Allora chiedere il rispetto dei diritti civili significava rischiare la vita. Per esempio i giovani del 'Dream Defenders' della Florida, per la maggior parte di colore, hanno occupato il Campidoglio chiedendo che si ponga fine alle perquisizioni e alle incarcerazioni di massa che continuamente vengono fatte dalla polizia. Nello stesso tempo, però, il famoso movimento contro la speculazione finanziaria, 'Occupy Wall Street', lo si è fatto rapidamente sgomberare dalle piazze e dai marciapiedi col pretesto che occupavano abusivamente suolo pubblico.

Le manifestazioni sindacali, con i loro obbiettivi e i loro risultati, sono delle messe in scena programmate. Gli attivisti sono arrestati per due o tre ore e perquisiti, d'accordo con la polizia, in un vero e proprio gioco dei ruoli. L'importante è che ne parlino i giornali.

John Lewis ebbe il cranio rotto da alcuni poliziotti nel '65. Ha continuato a lottare con uno spirito non-violento, come deputato democratico, pronunciandosi contro il NAFTA (il Trattato di 'Libero Commercio' tra alcuni Paesi Latinoamericani), contro la guerra in Iraq e a favore dei diritti degli omosessuali.

Che succede oggi con gli immigrati? Un altro tema scottante negli Stati Uniti è quello della riforma che disciplina l'immigrazione. Noam Chomsky ricorda che fino al 1994 la circolazione tra Messico e Stati Uniti era quasi libera. Ma la firma del NAFTA, penalizzò i contadini messicani per privilegiare le multinazionali statunitensi. Questo fece prevedere una forte ondata immigratoria e Bill Clinton ordinò di militarizzare la frontiera. Ora, i repubblicani cercano d'impauriore l'opinione pubblica con l'idea che se si regolarizzano gli immigrati clandestini con una nuova riforma, arriverà negli Stati Uniti, una valanga di messicani che abbasseranno i salari. Eppure è da circa un decennio che il flusso di lavoratori che ritornano in Messico supera quello di coloro che entrano, perché le opportunità di educazione e di lavoro sono migliorate in quel Paese. Inoltre, legalizzare i lavoratori stranieri obbligherebbe le imprese a dar loro dei salari decenti, mettendoli in condizione di contribuire all'economia nazionale pagando le tasse. Tutti ne trarrebbero vantaggi. Secondo il 'Center of American Progress', la legalizzazione degli undici milioni di clandestini che attualmente vivono negli Stati Uniti, aggiungerebbe all'economia dei prossimi dieci anni ,1,5 miliardi di dollari. Senza contare l'enorme contributo che i talenti stranieri offrono alle società nordamericane che li impiegano. Giusto qualche esempio: il cofondatore di Google era russo, il fondatore di eBay è figlio di un iraniano, il cofondatore di Yahoo è un immigrato da Taiwan. Secondo alcuni sondaggi, anche l'opinione pubblica sarebbe favorevole alla creazione di procedimenti che consentano la legalizzazione di tanti milioni di immigranti che adesso vivono nell'incertezza. Ma come si è visto, la battaglia politica nel Campidoglio non è ancora stata vinta.

E' notte. Di fronte alla Casa Bianca brillano delle candele. C'è un sit in con canti e preghiere per dire 'No!' alla guerra in Siria. La settimana scorsa, nel pieno della tensione provocata dagli avvenimenti, a Obama, che aveva annunciato la sua intenzione di attaccare ad ogni costo 'per dare una lezione ad Assad' (finendo così, di distruggere un paese già distrutto dalla guerra civile, e un popolo tiranneggiato senza sua colpa), era giunta una lettera, quasi un messaggio in una bottiglia galleggiante, scritta da un reduce di guerra: "Il Paese è stanco di guerre'.

Sì, il Paese e il mondo sono stanche di guerre, possiamo confermarlo, signor Presidente. E forse, chi lo sa, anche la bellicosa Cheryl ci sta pensando su, visto che molti repubblicani si dicono contrari a questa guerra. Ma perché scoppi la pace, molte e molte candele devono continuare a brillare nella notte.

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