ATTENZIONE!

Storia di un elemento pericoloso per  la sicurezza degi italiani

di Gisella Evangelisti 

Salve! Sono una dei 5 milioni di persone venute in Italia da lontano,  radicate qua anni fa, che  hanno imparato a dire  “Mannaggia” e a mangiare spaghetti arrotolandoli educatamente, non  abbuffandomi come facevano Totó o Alberto Sordi nei simpatici film del dopoguerra.  Mi chiamo Pilar Cespedes, parlo italiano, quechua e spagnolo,  so cos'é la gioia e so cos'é il dolore, come molti di voi. Se mi chiedete di riassumere in una sola parola la mia vita, me ne viene a mente una: sgobbare. 

Vengo dal Perú,  da uno di quei paesaggi mozzafiato simili a Machu Picchu, con le antiche terrazze costruite dagli agricoltori incas per coltivare campi ripidissimi, e strade serpeggianti fra i canyon, con un fiume luccicante lá in fondo, dove spesso finiscono bus sgangherati. Noi andini dell' Apurimac siamo gente discendente dal popolo Chanca, che era stato sconfitto dagli Incas, gente dalle gambe forti per tanto salire e scendere sui dirupi, coltivando o pascolando animali. Peró la nostra regione ha ancora troppi bambini denutriti  e lasciamo perdere la qualitá della scuola.

Io  nacqui in una casetta di una cittadina,  Andahuaylas, sui tremila metri di altezza, tra campi di mais, cereali e anice. Ho pochi ricordi di quella casetta, se non che aveva due stanze, una delle quali era la cucina, e l'altra la camera con il letto dei miei genitori, e, separati da un armadio, i lettini di noi bambini, che aumentavamo di un'unitá ogni due o tre anni, fino a diventare un gruppetto di sei figli. Mio padre aveva in giro per il paese qualche altro figlio che poi conobbi da adulta. Ma trovare tutta insieme la famiglia era un'impresa, perché mio padre, muratore, si assentava a lungo per lavoro, e mia madre, che si era sposata per amore o per forza a quindici anni, analfabeta, con quest'uomo di vent'anni piú  grande di lei, era di poche parole e ancora meno coccole. Spesso spariva per giorni o settimane con qualche scusa e noi bambini non sapevamo che fare. Vendeva sale e zucchero ai paesani delle montagne a cambio di patate e quinua, poi scoprii. Ricordo la scena di una mia sorellina che inseguí disperata fino a perdere il fiato, nel polverone della strada, il furgone dove si era imbarcata mia madre.

Dopodiché, per noi bambini  mettere qualcosa in tavola diventava un'impresa.  Certo, lí vicino si aprivano strade di campagna con vari alberi da frutta,  bastava salirci e riempirci la pancia di quel che trovavamo, albicocche, lucuma, nespoli eccetera. Una volta mi arrampicai in alto e caddi in un canale lí sotto, riempiendomi di lividi. O se no, quando la fame ci strizzava le budella, cercavamo rifugio da una madrina che abitava a tre o quattro chilometri da casa nostra,  e quando eravamo in difficoltá ci allungava qualche buon bicchiere di latte tiepido. ( Ancora oggi un bicchiere di latte riesce  a tirarmi su quando sono triste, perché mi ricorda il suo sorriso).  Ma  di certo non era qualcosa che potevamo fare tutti i giorni. Poi c'erano i nonni, anche loro brava gente, che vivevano a una giornata di bus di distanza.

Un giorno sparí la mia sorella piú vicina con cui giocavo sempre, dov'é andata Lola? Mia madre non rispondeva, io tenevo quel vuoto dentro. Poi sparí anche un fratello,  Esteban, anche lui senza spiegazioni, Tempo dopo venimmo a sapere che Lola era andata dai nonni, perché qualcuno doveva occuparsi di loro, che stavano invecchiando, e pascolare  le vacche, mentre il ragazzino era stato portato da uno zio per aiutarlo. La loro vita sarebbe finita nel silenzio di quei monti,  ogni giorno sempre uguale. Non era quello che sognavo. Io amavo la scuola, ero attenta e curiosa e non volevo perdermi  su quegli altopiani fuori del mondo.  Cosí, il giorno che vidi mia nonna e mia madre parlottare sottovoce tra loro, e sentii che la nonna diceva a mia madre, “Tu sparisci senza farti vedere e lascia Pilar qui”, io capii che anch'io avrei fatto la fine di Lola e Esteban,  e zitta zitta, di nascosto seguii mia madre che tornava a casa. La raggiunsi davanti alla porta del bus, e lei mi prese a schiaffi perché le avevo disubbidito. Ma i passeggeri del bus mi difesero. “Tratti cosí tua figlia?” 

Quali i miei momenti felici? Per me erano quando andavamo a lavare al fiume, sbattendo i panni sulle rocce e poi giocando a nascondino fra gli alberi. A sette anni giá badavo al bambino di una venditrice al mercato, lo caricavo sulla schiena con la manta, lo cambiavo, gli davo il biberon, a cambio di qualche moneta, mentre a 11 lavavo al fiume i panni di qualche famiglia per aiutare a mettere qualcosa in tavola. 

Il mio percorso scolastico fu accidentato perché quando avevo 12 anni e la mia sorella piú piccola appena due, mio padre morí di cirrosi. Aveva bevuto troppo per affogare qualche tristezza antica, a cui si erano aggiunte via via di nuove. Ma la mia famiglia era giá dispersa, come ho giá detto. Non ricordo se soffrii molto per lui, forse piú per aver dovuto lasciare la scuola: gli altri bimbi continuavano e io no.  Sicuramente  il momento migliore che avevo vissuto con mio padre fu quando per qualche mese, quando poté contare su un contratto di lavoro, mi portó a vivere  in una pensione dove tutti i giorni ci preparavano colazione, pranzo e cena, un lusso smodato. 

Un giorno arrivó un'amica che era stata a Lima a lavorare come domestica, e mi incoraggió a emigrare. Lima é una cittá enorme, rumorosa e piena di pericoli,  con un cielo senza stelle perché per molti mesi all'anno immersa in una triste nebbiolina grigia che viene dall'oceano e si rifrange sulle pendici delle Ande, creando un microclima. Tutt'altra cosa dalla luce abbagliante e meravigliosa della nostra cordigliera. Ma tanto, si doveva andare a testa bassa, tra lavoro e studio, chi aveva il tempo di perdersi a contare le stelle!  E quindi  scesi col bus che serpeggiava dalle montagne alla costa, per strade scoscese. Avevo due pannocchie di mais in tasca, e gli occhi sgranati per l'emozione. Arrivata a  Lima, un po' stordita in mezzo a tutto quel traffico, andai a casa di una compaesana che stava studiando in cittá. Secondo il nostro accordo, io avrei dovuto cucinare, lavare, e tenere  in ordine il suo appartamento. La mia buona madrina aveva firmato un contratto a nome mio, perché ero ancora minorenne, specificando i miei compiti. Ma quale non fu la mia sorpresa quando gli altri familiari, (un totale di undici persone!), mi portarono la loro roba sporca da lavare a mano. Una montagna di roba. Di notte mi accorsi che mi sanguivano le mani da tanto strofinare. E poi il giorno dopo dovetti andare anche da un'altra famiglia di parenti di parenti, a cui secondo loro dovevo i miei servizi. Cose da pazzi... Per fortuna mi ricordai di aver portato in fondo al mio bagaglio  il numero di telefono di una lontana zia, da avvisare in caso di bisogno. Per cui un giorno mi feci coraggio e andai a un telefono pubblico, per chiamarla, sperando in un colpo di fortuna. Che ci fu, grazie al cielo. La buona donna mi aiutó a denunciare quella famiglia abusiva alla polizia, che non credette alle loro calunnie (dicevano che avevo rubato i loro gioielli), ma la mia faccetta ingenua evidentemente li commosse, e la cosa fini lí. Che sollievo! Quindi cominciai a studiare e lavorare come aiuto domestico  in una famiglia italiana, dove restai per anni con reciproca soddisfazione, anzi, con grande affetto.

 

Quando io e Catalina, la sorella minore anche lei emigrata a Lima, ci sentivamo ormai di casa in quella caotica cittá, invitammo nostra madre a venirci a trovare. Erano gli anni '80, tempi sconvolti dalla guerriglia di Sendero Luminoso,  un gruppo marxista che aspirava un giorno a prendere il potere e portare un futuro di giustizia in Perú. Intanto sui giornali apparivano ogni giorno orribili foto di massacri sulle Ande, da parte dell'esercito che cercava senderisti, o di senderisti che sgozzavano autoritá o quanti si opponessero alle loro dure regole. La capitale era sconvolta da frequenti black out perché i senderisti dinamitavano le torri che fornivano l'elettricitá. Ma nonostante tutto la gente cercava di vivere piú normalmente possibile, nelle casupole arrampicate sulle colline del deserto, o nei grandi viali tra ville e giardini.

Nostra madre arrivó in bus dall'Apurimac, con la sua gonna pesante di lana ormai scolorita, ma felice di vederci. Finalmente un po' piú rilassata e affettuosa, forse perché  libera dal fardello dei figli, unico destino, che lo volessero o no, per le donne di quel tempo e luogo. Fu un bel momento. La riempimmo di regalini e la accompagnammo di nuovo al bus che la riportava sulle Ande. Ma ancora una volta sparí senza lasciar traccia. La mamma non é mai arrivata a casa, ci avvisó dopo giorni un fratello. Ma come? Dove puó essere andata, cosa puó essere successo? Non c'era stato nessun incidente lungo la strada. Passarono mesi in cui queste domande ci risuonavano dentro, senza risposta. Poi un giorno si seppe che il corpo di una donna anziana era stato trovato fra i sassi di un fiume, ne era stata data notizia per radio, e nel giro di qualche tempo  la notizia era arrivata alle orecchie di mio fratello. La donna era stata seppellita in fretta e furia nel paese piú vicino. Era nostra madre, con tutta probabilitá. Forse si era persa nella notte, in una sosta per andare al bagno, forse era scivolata da un dirupo, forse il bus era ripartito senza controllare se c'erano tutti. Forse. 

La vita continuó. Un giorno in una festa musicale conobbi un giovane anche lui venuto dalla provincia, che mi riempí  di parole dolci,  ma dopo avermi messa incinta, si dileguó.  Una scena anche troppo comune, raccontavano le mie amiche. Cosí la mia bambina, Lourdes, crebbe in casa della famiglia italiana, dove c'era anche un pappagallo molto chiacchierone con cui la bimba si divertiva a dialogare nei suoi primi balbettii. Tempo dopo riapparve il mio fidanzato, ...vabbbé, lo perdonai e  ci sposammo in un matrimonio di massa (quelle cerimonie organizzate dai sindaci dei quartieri  popolari, che mettevano insieme decine di coppie  per far risparmiare loro il costo delle nozze). Ci nacque un altro figlio e tirammo avanti, sperando un giorno di poter comprare una lavatrice.  

Intanto lo ero diventata io, una macchina del lavoro. Di giorno passavo in varie case facendo le pulizie, di notte per tornare a casa prendevo vari bus affollati, dove a volte mi assopivo per la stanchezza, e una volta a casa, in periferia, mi aspettava l'ultimo lavoro, quello di rifinire le cuciture degli indumenti che mio marito produceva con alcune macchine industriali. Tante volte vedevo spuntare l'alba mentre cucivo gli  ultimi pezzi. E mai un lamento: noi andini siamo abituati cosí, senza tante storie. Gli anni passarono, e di nuovo la tragedia si affacció nella nostra famiglia, stavolta quando la nostra amata Lourdes, ormai quindicenne, uscita con un'amica per comprare i biglietti di un concerto, fu travolta da uno di quei minibus che fanno il servizio di trasporto in cittá, chiamati dalla gente, non a caso, “combi assassini”. Perché i loro autisti non seguono le piú elementari regole del traffico, a volte perché non hanno mai preso la patente, o perché qualche funzionario corrotto gliel'ha passata sotto banco. Cosí fu stroncata la vita della nostra dolce  Lourdes, che sognava un giorno di conoscere la Spagna e imparare il flamenco. E invece il giorno del suo funerale,  quella che doveva essere la sua festa di compleanno, con torte e palloncini, fu celebrata in un cimitero pieno di fiori, tra le lacrime dei compagni.  Ormai passare tutti i giorni su quella strada dove era stata uccisa la mia bimba mi straziava. Dovevo andarmene. 

Un giorno sognai che avrei conosciuto Venezia, e mi vidi lavorando vicino al duomo di Milano, che mi affascinava con le sue strane guglie. Qualche tempo dopo ero lí per davvero, col naso in aria, contemplando quella bellezza: sará sorprendente, la vita? Mia sorella Catalina, un' infermiera che giá lavorava in Italia, mi aveva aiutato a trovare un contratto di lavoro, per me e mio marito. Io ero partita prima di lui, e pochi giorni dopo avevo cominciato a lavorare, in attesa del suo arrivo. Che non ci fu mai. Perché prima mi disse che si era rotto un polso, poi una caviglia. Una fragilitá ossea improvvisa. A farla breve, non si decise a partire per terre lontane perchè aveva scoperto che una vicina, gli era diventata molto vicina. Anche troppo, per i miei gusti.  Ma mi permisi di piangere solo di notte, perché di giorno dovevo rimboccarmi le maniche. Ed eccomi sola a Milano, nell'appartamento (altrui) giá sognato, di dove si godeva una splendida vista del Duomo. In strada, non mancavano deliziosi bar con deliziosi cappuccini. Il mio datore di lavoro era un imprenditore benestante, ma curiosamente, controllava con videocamere che non prendessi neanche un grissino dalla cucina  e dovevo insistere per farmi rimborsare il biglietto del treno che prendevo per andare periodicamente a pulire una sua villa in un'altra cittá. Ci mise anni a firmarmi un regolare contratto di lavoro.  Insomma, un taccagno a cinque stelle.

Quali sono i miei sogni? Mi piacerebbe prima o poi cambiare lavoro, magari con un orario meno pesante, e contare su qualche giorno di ferie in piú, per poter conoscere finalmente qualcosa di questo Bel Paese, e godermi qualche amicizia: adesso strappare qualche giorno di ferie a Natale o in estate é come un insulto per il mio datore di lavoro. Ho dovuto imparare regole e diritti se no finivo come a Lima, che se non reclami se ne approfittano alla grande di te.

Sogno di avere un tetto mio in testa o anche solo una stanza tutta mia. Lo diceva anche Virginia Wolf, mi dicono, una importante femminista del primo Novecento, quanto é importante uno spazio proprio, per pensare e rilassarsi.  Adesso devo condividere una stanza in affitto con un’altra persona che non sempre é gentile.  Anche tra noi migranti si trova di tutto, come in ogni gruppo umano,  ci sono le persone  generose e quelle amareggiate e invidiose, che cercano di sfogare sugli altri le proprie  frustazioni. Ma in questi anni mi pare di aver imparato tantissimo, osservando le persone, Ho capito di chi fidarmi e di chi no, quali organizzazioni o persone cercare in caso di necessitá, di come cavarmela in situazioni impreviste. Per esempio, una notte uscendo per depositare la spazzatura nei cassonetti vicino alla villa fuori cittá che ero incaricata di pulire, in un attimo di distrazione o di stanchezza si chiuse la pesante porta blindata dietro di me. E le mie chiavi e il cellulare erano rimasti dentro!!  Il mio datore di lavoro era a Milano e sarebbe stato inutile chiamarlo. Mi trovavo in un luogo dove non conoscevo nessuno, tremando dal freddo perché impreparata a passare piú di pochi minuti in quella notte gelata. Accidenti, che potevo fare? Mi venne in mente di andare in ospedale, e chiedere ai responsabili del Pronto Soccorso un angolo dove dormire, non avrei disturbato nessuno. Ci crederete che una dottoressa me lo trovó, mentre una coppia straniera si inventó che ero venuta a rubare? Cose che succedono, in questo strano mondo. 

Tirando le somme di questi anni, so che non saró sempre in forze per lavorare tanto,  non ho ancora la cittadinanza, dopo 10 anni che sono qui, e quindi sono ancora sospesa. Non molto tempo fa, un vostro ministro tuttofare (sí, quello che ama travestirsi da Rambo o da pastore sardo, e passa da una sagra della salsiccia a una del tartufo) ha deciso che noi stranieri siamo un pericolo per voi, portiamo malattie e delinquenza, quindi ha cercato di metterci i bastoni fra le ruote, allungando all'infinito gli anni in cui aspettiamo ci venga concessa la cittadinanza, tassando gli invii di denaro ai nostri familiari in qualche paese lontano, mettendoci  ostacoli burocratici di tutti i tipi in modo che prima o poi ci arrendiamo e ci leviamo dai piedi. Ma poi succederebbe che i cittadini e cittadine italiane dovrebbero tornare a occuparsi degli anziani, a raccogliere pomodori e olive e cosi via..., non so se ci guadagnereste, ma andiamo avanti.  I miei sogni e progetti soprattutto dopo il Covid si perdono in una nebbia di incertezza. Ma non posso lamentarmi, di fronte ai drammi di tante famiglie, finché ho la salute. Anzi, ho imparato a godere di piú con meno. A gioire delle piccole cose, di una passeggiata in un parco, di un cappuccino con disegnato un cuore.

Cosa dire agli italiani? Come voi quando emigrate non dimenticate mai l'Italia, io non dimentico  mai il Perú. Il cuore mi batte forte  quando posso partecipare (prima del Covid) a qualche festa di gruppi folclorici o gastronomici del mio paese. Ma non me la sento di tornare indietro, a quelle strade dove ho visto mia figlia straziata.  Recentemente nelle cittá del Perú la gente, e soprattutto i giovani, sono scesi in strada a protestare pacificamente contro la corruzione, e sono stati uccisi dalla polizia due ventenni. Corruzione e razzismo, e danni ambientali soprattutto in Amazzonia per le attivitá petrolifere e minerarie, sono vecchi mali del paese, ma i giovani giustamente non si sono rassegnati. Il mio cuore batte per loro, tocca a loro cercare di migliorare il paese. Coi miei sudati risparmi ho fatto studiare mio figlio, e spero si faccia la sua strada. Ma adesso, amo anche Milano e l'Italia.  State sicuri che non ho mai preso un grissino o un cucchiaio di farina che non mi spettava, e lavoro al massimo delle mia capacitá.  A volte ho sentito attorno a me un sottile disprezzo, in tram o in un negozio, per i miei tratti andini, i capelli lisci e neri, gli occhi leggermente all'insú. Ma a guardar bene, pago le tasse come tutti i cittadini, ed essendo arrivata da adulta in Italia non ho pesato sullo stato per la mia istruzione, né ho avuto bisogno di trattamenti ospedalieri. Compro quel che mi serve nel vicinato.  Alla fine, per l'Italia costituisco un guadagno netto. Non vi pare? 

Vorrei svegliarmi un giorno, in un mondo dove tutti ci sentiamo cittadini, con gli stessi diritti e doveri. Dove tutti ci rispettiamo fra noi e dove usiamo con rispetto la Madre Terra. Noi la chiamiamo Pachamama. É splendida, non vi pare?, con laghi e mari e fiumi e cascate e boschi che ci danno vita, in tutti i paralleli. Ed é l'unica che abbiamo. Hasta luego, amigas y amigos.

DESIGN BY WEB-KOMP