CONVENZIONE SUI DIRITTI DEI BAMBINI

CELEBRARE CHE COSA ?

di Paolo Basurto

Il 20 novembre scorso di 25 anni fa l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la Convenzione sui Diritti del Bambino. Fatto unico nella storia delle relazioni internazionali, la firma e l'entrata in vigore in quasi tutti i Paesi del Mondo (solo pochi ne restarono fuori, anche se alcuni di peso, come gli USA, altri per pura inesistenza dello Stato come la Somalia), avvenne in tempi brevissimi. L'Unicef, protagonista principale della spinta decisiva che riuscì a mobilitare in modo inarrestabile l'opinione pubblica mondiale, riuscì a dare all'avvenimento un risalto mediatico eccezionale, riuscendo a mettere assieme grandissima parte dei Capi di Stato firmatari della Convenzione riunendo in questo evento amici e nemici. Non ero a New York per godermi il successo in diretta perché ero allora responsabile dei programmi dell'UNICEF in Perù e in Paraguay, ma tutto lo Staff dell'Ufficio volle celebrare con me lo storico evento, ben coscienti del vero significato che quella Convenzione rivestiva per noi e il nostro lavoro.

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Ci sono sempre stati due modi di valutare la Convenzione. Uno ufficiale e abbastanza tradizionale, che vede la Convenzione come uno strumento giuridico e morale di grande trascendenza per la salute e lo sviluppo del bambino in ogni Paese del mondo.

L'altro che vede soprattutto il valore politico di un tale strumento destinato a contribuire efficacemente alla lotta per la promozione della giustizia sociale. Lotta nella quale la problematica infantile è un emblema, una bandiera, o, se si vuole, un pretesto per un ampio spettro di azioni miranti al miglioramento della qualità della vita della collettività nella sua globalità.

Una buona metà dei funzionari Unicef, tra i quali lo stesso Direttore Esecutivo Jim Grant, era convinto dell'importanza prioritaria del secondo aspetto. L'altra metà considerava pericolosi la valorizzazione e l'utilizzo del potenziale di intervento politico della Convenzione. Coincidendo in questo con la posizione della maggioranza degli alti e medi funzionari delle altre Organizzazioni del Sistema ONU. I funzionari ONU non fanno politica nei paesi nei quali sono inviati ed accettati per operare e attuare programmi di sviluppo. Nel caso dell'Unicef, questi programmi sono teoricamente preparati e realizzati dai Governi, e l'Unicef li finanzia, sotto la supervisione dei suoi funzionari e dopo l'approvazione del suo Consiglio di Amministrazione. Se questi funzionari esorbitassero dalle loro specifiche funzioni, i Governi potrebbero dichiararli persona non grata ed espellerli.

Per quanto fosse formalmente vero tutto ciò, la realtà imponeva una scelta da un lato tra la visione strettamente burocratica che portava puntualmente all'insuccesso o alla distorsione degli obbiettivi programmati ed approvati per orientarli al soddisfacimento di esigenze più vicine agli interessi di chi detenesse il potere, e dall'altro la necessità di un'azione politica in senso stretto per fronteggiare un potere spesso abusivo o incapace, o anche tutt'e due le cose. Del resto l'equazione era abbastanza facile da risolvere. Se i bambini soffrono in una Società è perché qualcosa non funziona in quella Società. E cambiare quel qualcosa e farla funzionare vuol dire in modo inequivocabile, fare politica.

Grazie alla visione e alla complicità di Jim Grant, la parte più politicizzata dei funzionari Unicef riuscì sempre ad avere la meglio, durante la sua direzione. L'era di Grant verrà ricordata come una fase straordinaria della vita di questa organizzazione che pur essendo di modeste dimensioni finanziarie e organizzative e pur portandosi dietro una storia di assistenzialismo filantropico e paternalistico,riuscì invece a trovare l'audacia di mobilitare l'opinione pubblica mondiale. I suoi Rappresentanti scavalcavano ogni protocollo e osavano incontrare e importunare Presidenti e Capi di Stato, fare approvare leggi e progetti in settori chiave dello sviluppo sociale, smuovendo risorse umane e finanziarie che altrimenti sarebbero rimaste strettamente ipotecate dai poteri forti. La Rivoluzione in favore dell'Infanzia, trasformava ogni obbiettivo specifico, dalla vaccinazione universale alla riduzione della mortalità materna o alla disponibilità per tutti di acqua potabile e di un tetto dignitoso, in un'occasione irrinunciabile di azione politica per la promozione sociale, dando spazio decisionale agli emarginati e ai più sfavoriti.

La Convenzione sui Diritti del Bambino costituì la vetta di questa parabola, che avrebbe potuto continuare a salire sancendo per la prima volta un ruolo sovranazionale efficace, che, riconosciuto sia pure a una sola organizzazione del Sistema, avrebbe potuto aprire il cammino ad una trasformazione e rinnovamento della stessa natura della funzione delle Nazioni Unite.

La morte di Grant fece calare il sipario su questo scenario che i fatti avevano dimostrato non essere utopico.

A me piace ricordare così l'approvazione della Convenzione. Gli studi drammatici con i quali è stata celebrata finora, insistendo sui tanti mali che ancora affliggono l'infanzia nel mondo (e ciò, nonostante i molti indubitabili progressi), non fanno che tarpare le ali a questo strumento il cui vero valore è quello politico prima ancora che giuridico.

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Commenti

Agop H.: Questa Convenzione è frutto di una visione e di una cultura quasi esclusivamente occidentale. Non tiene conto né dei valori di altre culture come quella islamica o indù né di altre tradizioni, come quelle contadine in America Latina. Il suo fallimento come strumento giuridico e ancor di più politico era prevedibile. [trad. dall'inglese]


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