La condizione della donna

Afghanistan: la sfida dei processi di cambiamento

di Massimo D’Angelo{jcomments on}

Era uno degli ultimi giorni della mia prima visita a Kabul.  Un pomeriggio d’estate, con un caldo  afoso ma secco, tipico di questo paese semidesertico. Stavo lì per occuparmi di sviluppo economico, anzi agricolo, ed in particolare di nuovi strumenti di programmazione.  Però, non potevo mancare di indagare su temi che vanno al di là del mio orticello quotidiano, visto che lo “sviluppo” non può essere limitato alla crescita economica ma investe dimensioni sociali ben più ampie. Come ho osservato nelle mie impressioni già apparse in questo sito (vedi Donna in Afghanistan—Appunti di viaggio, 18 aprile), non potevo evitare di rimarcare la dimensione eclatante della condizione costrittiva in cui si trova la donna in quel paese.

Decisi così di chiedere un appuntamento col consigliere per questioni femminili del Ministero dell’agricoltura.  Si

trattava di un' esperta indiana, che aveva trascorso già diversi anni come consulente del Ministro afghano dell’agricultura su questioni attinenti alla condizione della donna.  Non mi aspettavo però di trovarmi davanti una giovane signora, in stato avanzato di gravidanza.  Stanca e sudata, muovendosi a disagio sulla sua sedia, si scusò di non potersi alzare per salutarmi.  Erano gli ultimi giorni di lavoro prima dell’interruzione pre-parto del suo lavoro.

Cominciò dapprima a farmi tutta una serie di domande, come per misurare con chi avesse a che fare, cercando di indagare le mie intenzioni e capire la mia posizione sul problema della donna nello sviluppo. Mi ascoltò con attenzione, con cipiglio serio, che a me sembrava inizialmente scettico, quasi incredulo. Poi cominciò a sciogliersi, e a parlare con passione del suo lavoro e dei risultati del suo impegno a favove della condizione femminile in Afghanistan, specialmente nel mondo rurale.

Certo questo paese ha tanti altri drammi, asserì la giovane donna, tra i più seri che si possano immaginare in una realtà come questa: dopo decenni di guerre atroci, l’Afghanistan esce dall’oppressione talebana che durò più o meno dal 1996 al 2001, e sono passati solo dieci anni da quell’incubo. In alcune regioni la presenza talebana aveva acquisito forza politica rilevante per lo meno dal 1994 se non prima. Purtroppo, l’influenza talebana ancora persiste in alcune province, anche se in modo complesso e contrastato. È un paese che ha affrontato enormi difficoltà politiche, ambientali, sociali ed economiche, e che ha avviato un nuovo approccio alla gestione pubblica della società a partire dall’installazione del nuovo governo e delle nuove istituzioni soltanto dopo l’intervento militare straniero che stroncò il regime talebano.

Eppure, la interrompo, ho la netta sensazione che la condizione della donna in Afghanistan, così come si sta manifestando adesso e come si sta evolvendo a partire da come era durante il periodo talebano sia il problema più serio del paese. La mia interlocutrice indiana concorda con me.  Altri problemi (sicurezza, difficile decollo economico, incertezza alimentare, ruolo della produzione e del traffico della droga) sembrano tutto sommato secondari rispetto alla questione della donna, che durante il periodo talebano aveva assunto toni così drammatici, che ancora perdurano, in una certa misura, presentando aspetti di difficile soluzione.

Rapidamente, la consulente indiana mi descrive i termini gravi della condizione femminile in Afghanistan (vedi il mio intervento È possibile soffrire la fame solo perché sei donna?” del 24 maggio  sulla malnutrizione della donna) per entrare in modo più approfondito sulla questione che ancora considerocome un tema quasi impossibile: si può migliorare significativamente la condizione femminile in Afghanistan attraverso una sua maggiore partecipazione alla vita sociale? Qual è il ruolo degli interventi pubblici e della cooperazione internazionale?

Più parlo con questa donna e più mi rendo conto che ha una visione molto realistica dei problemi che va al di là dei metri frequentementi utilizzati da noi occidentali, sempre interessati a risultati immediati e totali.  Lei sa che cambiamenti nella condizione della donna qui si produrranno solo lentamente, e che non possiamo distruggere il background culturale di questa gente soltanto perché ci sentiamo superiori. Nonostante gli sforzi eroici fatti dal governo, dagli organismi internazionali, dalle ONG straniere e nazionali e in generale dalla società civile negli ultimi dieci anni, aggiunge la giovane esperta, dieci anni rappresentano un periodo troppo breve per giudicare cambiamenti che si confrontano con condizionamenti che hanno influito sulla condizione femminile lungo una storia pluri-millenaria. La storia non si cancella di botto con una spugna.

Detto questo, non mancano dimostrazioni evidenti che le cose stanno cambiando.  Mi riempie di statistiche, di documenti, di nuovi programmi e di politiche varate negli ultimi anni.  Lei stessa ha collaborato a formulare una politica per il miglioramento della condizione femminile che è stata poi varata dalle autorità ufficiali che ne hanno fatto una priorità assoluta per lo sviluppo sociale. Riconosce che  c’è molta retorica nelle dichiarazioni ufficiali del governo. In ogni caso si dovrà riconoscere – soggiunge lei – che, al di là delle dichirazioni enfatiche, era impensabile che il miglioramento della condizione femminile potesse essere dichiarata priorità politica da un governo talebano, visto che aveva fatto della repressione femminile uno dei suoi vanti.. Mi vengono in mente gli ultimi attentati terroristici. Hanno perfino cercato di avvelenare l’acqua destinata alle allieve delle scuole in alcune località periferiche scoraggiandone così il desiderio di dedicarsi agli studi. Penso allora che l’incubo ancora non è finito.

Mi parla del piano d’azione nazionale per le donne, più noto da queste parti con la sigla NAPWA, che è parte integrante, anzi ne è l’applicazione, della strategia di genere adottata dal governo con il  piano pluriennale di sviluppo nazionale.

Al di là delle politiche e dei programmi, sostiene con vigore, i fatti parlano da soli: gli effetti più evidenti di questa nuova politica è il ritorno delle donne ad una vita pubblica da cui erano state sistematicamente escluse, anche nelle sue forme più elementari. Le donne possono finalmente uscire di casa per far la spesa senza essere accompagnate dai mariti. Lavorano in uffici o in negozi. Partecipano, pur con difficoltà, alla vita politica. Sono tornate a scuola o all’università, sia come alunne che come insegnanti.  Le donne esprimono una gioia particolare per questi cambiamenti, e lo si vede nei sorrisi dei volti che ho incontrato per strada e negli uffici. E ciò avviene nonostante le costrizioni che ancora persistono, e che ne limitano lo sviluppo.

Sul piano istituzionale, mi dice la mia interlocutrice indiana, è stato creato un Ministero per gli affari della donna, anche se chiaramente si tratta del risultato di pressioni da parte della cooperazione internazionale, e in ogni caso è un dicastero piccolo e relativamente debole.

Mentre mi parla, penso ai ministeri delle pari oppportunità che anche nei paesi occidentali, ove esistono, hanno un valore spesso soltanto teorico o marginale. Perciò, aggiungo io, sinceramente non è l’esistenza di un Ministero per gli affari femminili a fare molta differenza sulla condizione della donna. Ovunque abbia trovato dicasteri di questo tipo, non ho potuto evitare di constatarne la scarsa influenza politica rispetto ai poteri ben più rilevanti di dicasteri come quelli della finanza o dell’economia, ma anche di ministeri  operativi come quelli delle costruzioni, dell’agricoltura, dell’industria, della sanità e dell’istruzione, ove donne in posizioni apicali sono rare come mosche bianche.

Questo è vero, conferma la consulente . Eppure è solo attraverso l’esistenza di quel Ministero che una politica per la donna è stata lanciata, e sono stati lanciati alcuni strumenti concreti per realizzarla. Il successo maggiore di quel Ministero, aggiunge, è quello di aver creato in ogni Ministero un “punto focale” per la condizione femminile, facilitando quel fenomeno che è stato chiamato “gender mainstreaming”.

A quel punto mi guarda interessata e mi chiede: lei ha familiarità con il concetto di “gender mainstreaming”?   La tranquillizzo, sorridendo tra me e me, pensando a quante volte ho incontrato quell’espressione inglese nel corso della mia carriera, per lo meno a partire dal 1996, quando il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite l’adottò come criterio di fondo per gli interventi per il miglioramento della condizione femminile. Si tratta sostanzialmente di superare certe impostazioni tradizionali che cercavano di inserire correttivi nella condizione della donna attraverso programmi specializzati destinati solamente a gruppi sociali femminili cercando invece spazi nuovi per il miglioramento della condizione femminile in qualsiasi politica o programma di sviluppo sociale ed economico del paese in cui si sta operando.

Certo, reitero da parte mia, l’utilizzo di questo nuovo approccio è un segno di progresso.  Però dobbiamo anche ammetterlo: l’espressione “gender mainstreaming” negli ultimi anni è stata strausata nel gergo degli organismi internazionali ed è spesso di difficile interpretazione. Sta di fatto che il concetto, anche se molto attraente sul piano teorico, non è di facile applicazione sul piano pratico.

Come è stato applicato in Afghanistan? La paziente consulente indiana, nonostante l’afa e il cattivo funzionamento dell’aria condizionata che rende difficile la conversazione, continua la sua illustrazione. A livello istituzionale, gender mainstreaming in Afghanistan si è tradotto nella sensibilizzazione di tutte le istituzioni pubbliche su tematiche di “genere”, creando programmi di capacitazione che promuovono personale femminile, introducendo politiche di reclutamento che danno spazio particolare all’occupazione femminile, appoggiando quelle istituzioni che espandono l’accesso alle risorse, o incidendo sugli orientamenti dei bilanci di spesa di quelle stesse istituzioni, in modo che meglio rispondano alle esigenze della condizione femminile con appositi criteri di allocazione dei mezzi finanziari.  Fondamentale in tutti questi programmi è l’inseriemento di un criterio di base per lo sviluppo afghano: la capacitazione del personale femminile, ovunque essa abbia luogo.

Un altro filone che ha materializzato il concetto di “gender mainstreaming” in Afghanistan è stato la creazione di nuove competenze a livello comunitario, in modo che queste comunità possano essere messe in grado di apprezzare il vero valore delle barriere che si oppongono alla partecipazione sociale delle donne e siano perciò messe in condizioni di assicurare una più equa distribuzione dei benefici dei processi di svilupppo sociale a favore delle donne. Fanno parte di queste iniziative quelle che promuovono la solidarietà tra donne attraverso campagne di informazione e di sensibilizzazione, tante iniziative di “capacity building” e promozione di capacità imprenditoriali tra gruppi femminili.

Infine, conclude la mia interlocutrice, un terzo livello degli interventi di “gender mainstreaming” è rappresentato da quelli che intendono trasformare qualsiasi programma di sviluppo in modo da renderlo più sensibile alla variabile “genere”, assicurando che le donne siano incluse tra i beneficiari con uguale titolo di altri partecipanti.

A conclusione del nostro incontro, la giovane esperta indiana concorda con me che in pratica, in una situazione complessa come quella afghana, l’applicazione della nozione di “gender mainstreamining” può non bastare, visti i condizionamenti enormi che ostacolano l’accesso delle donne alle risorse ed ai processi di sviluppo nazionali.  Per questo mi consiglia di guardare alla varietà di interventi promossi sia dalla cooperazione internazionale che dall’attuale governo e anche dalla società civile, interventi che hanno promosso la condizione femminile non solo in modo indiretto (gender mainstreaminng) ma anche continuandone il perseguimento attraverso interventi più specifici a favore delle donne, con iniziative ove gruppi femminili sono identificati come destinatari prioritari se non unici delle azioni promosse.

La domanda che resta nella mia mente, dopo questo colloquio cordiale, è: fino a che punto programmi dei due tipi hanno prodotto risultati concreti migliorando la partecipazione della donna allo sviluppo del paese?  Scorrono nella mia mente immagini diverse che si sovrappongono, immagini di tanti progetti di sviluppo da me visitati in questo e in altri paesi o di cui ho sentito parlare da colleghi.  Vedo visi di giovani donne e di donne anziane, impegnate a superare difficoltà enormi, che si dibattono nell’ambito delle loro famiglie e delle loro comunità locali, che imparano nuovi mestieri, nuove tecnologie, nuovi linguaggi lavorativi. Penso a quante hanno perso tutto in questa loro lotta, oppresse da pregiudizi e da violenze, e quante invece stanno lentamente guadagnando terreno. Ma questo sarà il tema di un altro articolo.

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