{jcomments on}RIO MENO VENTI

Al di lá dei governi

di Gisella Evangelisti

Non si aspettavano molto, i 5000 partecipanti alla Conferenza dei Popoli, parallela a quella delle Nazioni Unite svoltasi a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno, e dedicata allo Sviluppo Sostenibile, (la Rio + Venti), dal documento finale che ne sarebbe uscito. Giá nelle faticose trattative preparatorie della Conferenza, durate mesi, fra i paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli che lo sviluppo lo vedono solo in fotografia, si era capito che trovare un accordo globale per cambiare il modello di sviluppo che ha portato il pianeta al disastro ambientale sarebbe stato facile come per un cammello entrare nella cruna di un ago.

Eppure venti anni fa, la prima Conferenza delle Nazioni Unite sulla Terra a Rio  aveva riconosciuto la responsabilitá

storica dei paesi industrializzati nel deterioramento ambientale del pianeta e la necessitá di un impegno diversificato, insieme ai paesi del Sud del mondo, per affrontarlo. E aveva dato il via a ben tre accordi (uno sulla Biodiversitá, uno sul Cambio Climatico e uno sulla Desertificazione), e costituito un fondo per progetti ambientali (GEF). Erano comparsi per la prima volta nelle sale ufficiali, con le loro piume e tatuaggi, i rappresentanti dei  popoli indigeni, affermando davanti al mondo il loro ruolo, cruciale nella conservazione della natura.

 

Nonostante che in questi ultimi venti anni il cambiamento climatico abbia provocato siccitá addirittura in Amazzonia, sciolto gran parte dei ghiacciai e dei poli, aumentato le tempeste tropicali, innalzato il livello del mare e acidificato gli oceani, tutto questo preview di Apocalisse  non ha meritato che qualche frase di circostanza  nel pesticciato documento finale della Rio+ Venti: solo 3 paragrafi su 283.

Quanto agli impegni da prendere per frenarla, USA, Canada e Unione Europea  hanno fatto a gara a porre veti a proposte sensate, come quella emersa dai paesi del sud del mondo piú la Cina, di creare un fondo di 30 mila milioni di dollari per palliare i danni subiti dai paesi piú colpiti, offrendo alternative di sviluppo sostenibile. Forse per i paesi del Nord in crisi finanziaria questi pacchetti di milioni di dollari da sborsare, sono troppi? Eppure se ne trovano miliardi, sull’unghia, per salvare banche fraudolente, e si continuano a sussidiare le fonti di combustibili fossili (carbone, petrolio e gas), responsabili di buona parte delle emissioni di CO2, per non parlare delle spese per gli armamenti, fiorenti come non mai.

Viene da chiedersi come sia possibile, mentre aumentano le lotte di indigeni o contadini in tutto il mondo per difendere fiumi, boschi e terre dalla costruzione di dighe faraoniche, dall’espansione delle piantagioni,  o dallo sfruttamento di miniere che inquinano le sorgenti d’acqua e riducono la disponibilitá idrica delle comunitá,  che i governi guardino dall’altra parte, e non facciano lo sforzo di prendere sul serio il destino del pianeta e delle future generazioni.

Qualche pista ci viene da quanto successe dieci anni fa a Johannesburg , nella Conferenza Rio+10. 100 managers e 700 delegati di imprese fecero sentire con forza la loro voce. Le imprese devono preoccuparsi delle comunitá e dell’ambiente in cui operano, non badare solo ai bilanci aziendali, dissero. Ottimo. Ecco quindi diventare di moda il tema della “responsabilitá sociale delle imprese”,  fino a quando qualche fratello ( o sorella) piú furba di Sherlock Holmes si rese conto che regalare palloni e magliette con la divisa dell’impresa ai ragazzini delle Ande mentre gli riempivi il sangue di piombo, (inquinandogli le fonti d’acqua) non era stata una gran trovata. O meglio, era stata una trovata efficace per le imprese, un alibi per sfuggire con la “buona volontá” a leggi ambientali piú severe.

In quegli anni il discorso egemonico, proclamato dal Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, (WTO) ha insistito sul fatto che lo Sviluppo Sostenibile sará frutto di investimenti privati diretti nel sud del mondo, della liberalizzazione del commercio, della ricerca di una crescita economica costante. Anche se ben quarant’anni fa il Club di Roma aveva segnalato i limiti delle risorse naturali del pianeta. (Solo da poco peró  sta cominciando a diffondersi in alcuni ambienti il tema della necessaria “decrescita” dell’economia, come vedremo in un altro momento).

Sviluppo legato all’investimento privato, si diceva: da qui la rapida espansione delle piantagioni di soya in Brasile, Argentina e Paraguay, o della palma africana in Malesia,  la corsa all’accaparramento di terre e di  minerali in Africa e America Latina. Lo strapotere di un pugno di multinazionali che controllano il commercio dei semi transgenici ha portato, secondo varie fonti, alla destituzione in Paraguay del presidente Lugo, per favorire l’entrata nel paese di tali semi. Invece di cercare di diminuire le emissioni di CO2, le imprese fanno compravendita dei “diritti di emissione”, col risultato che tali  emissioni non hanno smesso di aumentare.

Insomma, che le leggi del mercato, interessato a “estrarre, estrarre, accumulare, accumulare”  facciano a pugni con la difesa dell’ambiente, lo ha ammesso a Rio + Venti  anche il direttore del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (PNUMA), il tedesco Achim Steiner, d’accordo con le organizzazioni  della Conferenza dei Popoli.

“Se il tonno dalle pinne azzurre adesso vale migliaia di dollari, le imprese di pesca daranno la caccia fino all’ultimo esemplare”, ha affermato. Peró le soluzioni che propone l’Economia Verde, l’ultima tendenza emersa nel Rio+ Venti, é l’ennesimo escamotage delle imprese, avvisano le Ong. Non solo perché si favorisce lo sviluppo dei trasgenici, ma anche perché si ammette la mercantilizzazione di beni comuni come l’acqua, col risultato che se ne ridurrá l’accesso ai piú poveri.

L’alternativa, secondo le organizzazioni indigene e campesine,  é un’economia che rimetta gli esseri umani al centro, e non il semplice profitto, che é cieco e sordo.

Se l’iniziativa non verrá dai governi, ormai chiaramente latitanti nel tema ambientale, dovrá venire dalla pressione della base, dalla gente, dagli enti locali, dai ricercatori.

Una é quella di 40 metropoli del mondo (tra cui Buenos Aires e Lima) che si sono associate per favorire la diffusione del trasporto pubblico per ridurre l’inquinamento;  un’altra é quella di mettere a punto e diffondere autoveicoli non inquinanti, come l’auto ad aria compressa che  sta producendo il consorzio  MDI (belga) con la Tata (il principale gruppo di imprese indiane produttrici di motori ), e che dovrebbe circolare in Italia nel 2013. Un’auto che potrebbe fare 100 km al costo di un caffé, dicono.  E perché le auto non potrebbero essere costruite con materiale biologico di scarto, ma molto resistente, invece di usare materiale plastico? Ci stanno provando i brasiliani.

Insomma, non sono pochi quelli che cercano soluzioni intelligenti e creative per migliorare la vita delle comunitá e degli individui, non limitandosi alla denuncia, ma associandosi, mettendosi in rete, organizzando campagne a favore dei diritti civili,  diffondendo idee e invenzioni. Dallo slow food e  chilometro zero  alle cittá sostenibili, (smart city) alle case ecologiche. La posta in gioco é alta: lasciare un pianeta vivibile ai nostri nipotini. E il tempo vola. E quindi, gambe in spalla, gente.

DESIGN BY WEB-KOMP