{jcomments on}A cura di Andreina Russo

cinema

 

Il rosso e il blu (Italia, 2011)

di Giuseppe Piccioni con Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Roberto Herlitzka, Lucia Mascino, Elena Lietti, Nina Torresi, Alexandru Bindea, Ionut Paun, Davide Giordano, Marco Casazza, Gene Gnocchi

Riflessione quasi a caldo, dopo una notte che, come si sa, porta consiglio. Non ho voluto leggere né recensioni giornalistiche, né i commenti degli spettatori come quelli del sito MyMovies.it, dove potrete trovare un quadro più ampio delle discordanti reazioni a questo ennesimo film sulla scuola. Come i miei amici sanno, in genere  non vado a vedere i film che trattano del mio lavoro, perché vederli mi fa soffrire, sia che dipingano realisticamente i problemi in cui tutti noi che viviamo in quest’ambiente  ci dibattiamo quotidianamente, sia, ancora di più, se dipingono situazioni fasulle o fittizie, che non corrispondono a verità. Dunque il film che ho visto ieri, pressata dalle richieste affettuose di amici che non fanno parte della scuola e che, avendo formulato giudizi contrastanti,

chiedevano il mio parere, ha il merito di aver provocato in me entrambi i tipi di sofferenza. Poiché infatti si basa su uno scritto di Marco Lodoli, docente in servizio, descrive perfettamente lo squallore della struttura materiale che ci accoglie ogni mattina, i bagni fatiscenti, i pavimenti sconnessi, il proiettore che non funziona, le fotocopie da richiedere quasi su carta bollata o a nostro carico, fino alla scenetta della sedia contesa tra due insegnanti, che all’ esterno può apparire davvero paradossale, ma  cui ho assistito diverse volte. Altrettanto realistica è l’atmosfera generale che si respira tra la gente che vi lavora, non tanto il personale non insegnante (qui appena sfiorato), quanto i professori e la preside: un misto di frustrazione e di rabbia, di rassegnazione e chiusura o di timidi tentativi, con i pochi mezzi a disposizione, di rinnovare i contenuti, di interessare i ragazzi, di stabilire con  loro un rapporto che, ben lungi dal cameratismo post-sessantottino di cui il “tu” al docente era il manifesto più evidente, vada al di là della pura didattica e si prenda cura anche delle problematiche private  dei ragazzi. Il quadro che ne esce è desolante, e, seduta nella mia ultracomoda poltrona rosso-fiamma del cinema Alcazar, vengo presa dalla stessa sottile, sotterranea  angoscia che provo ogni mattina. Comincio a chiedermi, come altre volte, ma perché sono qui, perché un bellissimo tiepido sabato sera di fine estate devo ancora vedere ‘sta roba che mi opprime tutta la settimana, invece di perdermi nella stradine di Trastevere piene di luci e di vita, appena fuori della porta di questa sala? Ma il disagio si fa sofferenza pura quando il film dipana le sue trame parallele: la Dirigente Scolastica (mi raccomando le maiuscole!) nevrotica e volenterosa, che si porta nella borsa la carta igienica per gli alunni (una scena da commuovere le pietre: peccato che se questo avvenisse in un istituto di medie dimensioni la gentile signora dovrebbe ogni giorno arrivare a scuola con un furgoncino…) e vive nel terrore di ricorsi e denunce, la ragazza ribelle (che alla fine tanto ribelle non si rivela), di cui assurdamente né compagni né professori hanno modo di accertare, fino alla fine del film, se la madre sia morta davvero, il giovane supplente che ci porta a pensare che quelli che intraprendono la carriera di insegnante siano tutti complessati/imbranati (la storia della penna da restituire è sconvolgente nella sua idiozia), ma al contempo anche gli unici di tutto il corpo docente desiderosi e capaci di stabilire un rapporto profondo con i ragazzi e di interessarli anche alle discipline più ostiche. Il suo contrario è il vecchio professore, una figura portata, come le altre, all’eccesso per le qualità che lo contraddistinguono, a cominciare dall’eccessiva decrepitezza del bravissimo Herlitzka, una vecchiezza che oggi non esiste più tra i banchi, dove i sessantacinquenni rappresentano l’estrema età  e spesso sono molto più pimpanti e impegnati degli sparuti trentenni che riescono a entrare, naturalmente da eterni, malinconici  precari, in questo lavoro che la crisi economica ha reso di nuovo ambìto, nonostante le paghe da fame e le frustrazioni di cui sopra. La sensazione generale è dunque che gli autori abbiano creato più che personaggi in carne ed ossa delle maschere (che poi nel filone dei film sulla scuola sono fisse, esattamente come quelle della Commedia dell’arte) caratterizzate in modo eccessivamente “caricato”, in modo da essere leggibili, e quindi godibili, da parte di un pubblico generalista, che vuole ridere e commuoversi. Necessità di spettacolo, dunque, per tanti versi  comprensibile.

Ma questo film ha anche dei meriti, che non vanno passati sotto silenzio: Piccioni ha un tocco delicato che sfiora con rispetto problemi e rapporti umani, non cerca gli effetti strappalacrime neppure in situazioni che glieli offrirebbero su un piatto d’argento (la ragazza veramente orfana, il ragazzo ammalato e solo, il bravo figlio rumeno che spara al padre), riesce a far risaltare, nelle numerose scene in classe, quello che, al di là di tutte le nostre frustrazioni, è la vera meraviglia del nostro lavoro: la bellezza delle facce di tanti adolescenti che interagiscono tra di loro, con noi insegnanti, con i contenuti profondi ed ardui che affrontano ogni giorno, il lavorio dei loro cervelli, l’esplodere delle loro emozioni, positive o negative che siano, la loro fondamentale innocenza, il loro fresco aprirsi al mondo senza ancora essere intaccati da delusioni o scetticismo. I primi piani su volti ancora bambini e già consapevoli, i dialoghi fulminanti, le allegre risate corali, lo sfottò reciproco senza cattiveria, gli sguardi precocemente consapevoli che corrono tra di loro o si rivolgono muti agli insegnanti, soprattutto quando questi tradiscono emozioni e insicurezze, lo schizzar fuori dai banchi al suono della campanella verso la libertà della strada, tutto concorre all’effetto poetico che rende la visione di questo film gradevole, al di là dei suoi limiti.

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