U.S.A. DOPO LE ELEZIONI

di Massimo D’Angelo

Son trascorsi diversi giorni dal 6 novembre, quando Barack Obama fu confermato Presidente degli Stati Uniti. Le polemiche elettorali non si sono placate e continuano i dibattiti per capire cosa sia successo.

6 novembre: attendendo i risultati

Ricordo ancora con ansia le ore di tensione passate incollato davanti al monitor televisivo la sera del 6 novembre, mentre da casa, qui a Charlotte (North Carolina) ove risiedo da anni, ero in attesa del risultato elettorale. Cambiavo continuamente canale, passando dalla CNN alla MS-NBC, occasionalmente dando un’occhiata alla repubblicana

FOX News, mentre mia moglie ed io controllavamo i nostri laptops.

 

Dopo quindici giorni, nonostante il perdurare delle polemiche e dellle incertezze, ci sentiamo più rilassati: sappiamo di poter contare sulla presidenza americana in mano ad Obama per i prossimi quattro anni.  Ma quella sera, il 6 novembre, questo risultato era tutt’altro che scontato.

L’inizio della serata era cominciato con i risultati parziali degli stati a prevalenza repubblicana, e vedere il tabellone degli “electors” che ribadiva numeri a favore di Romney non faceva che aggravare la tensione. Finalmente, arrivarono i primi “exit polls” dal “mid-west”, i famosi “swing states”, che secondo le previsioni avrebbero deciso il risultato finale, come effettivamente, alla prova dei fatti, è successo.

Lo shock dei repubblicani

Alla fine, la CNN interruppe la trasmissione e sciolse le riserve.  Le previsioni più attendibili davano Obama per rieletto.  Da quel momento in poi, una valanga di dati non fece che  confermare le previsioni della CNN.  Dalla sala del GOP[1], inizialmente piena di entusiasmi per i risultati parziali, si vedevano facce attonite e silenziose, di chi non credeva ai propri occhi. Il “concession speech” da parte di Romney, con cui tradizionalmente il perdente ammette la propria sconfitta, tardò a venire, sintomo di reticenza ad accettare i risultati provvisori, sperando forse in un miracolo statistico dell’ultimo momento. Ma il “miracolo” non avvenne. Le previsioni di Nate Silver del New York Times, che aveva dato Obama vincente con il 90,2 percento di probabilità il giorno prima delle elezioni, si erano avverate.  E così pure erano state confermate le previsioni dei “bookmakers”, che avevano dato Obama come favorito.

I risultati finali: una sintesi

Fiumi di parole hanno commentato il significato di questa scelta elettorale, accompagnata da un lieve miglioramento della posizione dei democratici al Senato, ma anche da una riconferma del controllo repubblicano alla Camera dei Rappresentanti.  In termini di voti “elettorali” (cioè calcolati per stati, come richiesto dalla Costituzione americana), il risultato è stato netto: 332 voti elettorali per Obama contro i 206 per Romney.  Anche se costituzionalmente irrilevante, il voto popolare (il semplice calcolo del numero totale dei voti dei singoli cittadini su base nazionale) dà ancora un vantaggio ad Obama con 62.610.717 voti (il 51%) rispetto a 59.136.717 voti per Mitt Romeny (il 48%), un risultato abbastanza chiaro per scartare qualsiasi dubbio sulla legittimità del mandato. Tuttavia, se vogliamo, si tratta di un successo di stretta di misura, in termini di “voto popolare”, e questo dimostra che l’elettorato americano è fondamentalmente diviso.

Una strana cartina geografica

Sin da quel giorno, ho guardato spesso la cartina elettorale, a volte rappresentata negli schermi televisivi con una mappa a due colori, con gli stati a prevalenza repubblicana in rosso e quelli democratici in blu.  Ne esce fuori un’immagine che fa venire qualche brivido a chi ha familiarià con la storia americana: sembra una cartina dei tempi della guerra civile americana del 1860-65, con gli  stati “confederali” tutti in rosso, salvo la Florida[2], e quelli dell’ “Unione” tutti in blu. Naturalmente, la cartina non coincide proprio con quella storica, se non altro perché alcuni territori dell’occidente americano nel 1860 ancora non avevano la condizione di “stato membro” dell’Unione. Ma il colpo d’occhio è proprio quello dell’Unione di Abraham Lincoln contro la Confederazione di Jefferson Davis.

Solo uno scherzo ottico? Veramente non proprio. Anche se non ha rilevanza politica, non è un caso che alcuni cittadini, profondamente “offesi” dalla vittoria di Obama, abbiano richiesto di avviare la “secessione” dei loro stati dall’Unione federale, proprio come avvenne nel 1860 quando la South Carolina avviò la serie di eventi che portò alla sanguinosissima guerra civile americana.  La notizia di queste iniziative individuali di secessione avviata da privati cittadini ha destato qualche curiosità ma non è stata presa troppo sul serio sul piano politico.

Esiste un problema razziale?

Più seri però sono i dati raccolti dalle “exit polls” sull’appartenenza etnica dei votanti. C’era da aspettarsi che la stragrande maggioranza della popolazione afro-americana votasse per Obama (ben il 93%), visto che l’affinità etnica ha un potere emotivo in quel caso anche ideale. C’era perciò da aspettarsi una diversa percentuale per gli altri gruppi etnici. Infatti, questa percentuale scende al 73% per la popolazione che si definisce di origine asiatica ed al 71% per quella di origine latino-americana, mentre il 26% dei votanti “asiatici” ed il 27% dei cosiddetti “Hispanic” hanno votato per Romney.

Tuttavia, visto il favore di cui gode Obama tra gli europei, meraviglia che solo il 39% della popolazione “bianca” (o caucasica, come dicono da queste parti) abbia votato per Obama, contro il 59% che ha voltato per Romney.

C’è una valenza razzista dietro questi dati? Si tratta forse di una replica della divisione che nel 1860 separava gli Stati Uniti in due fronti su tematiche come la schiavitù? È possibile che nel 2012 ci sia ancora gente che non accetti l’idea di un Presidente “di colore” solamente per pregiudizi razziali?

Non sono domande facili da fare da queste parti in modo così esplicito, specialmente nei dibattiti politici.  Resta comunque il fatto che solo il 45% degli uomini abbia votato per Obama, mentre il 55% delle donne lo ha scelto.  Quindi che non è completamente implausibile che ci sia una parte significativa dei maschi “bianchi” che sia ancora influenzato da stereotipi razzisti, anche se nessuno potrà mai dimostrarlo.  È anche vero che durante la campagna elettorale non sono mancati riferimenti spesso espliciti a fattori razziali. Lo stesso Romney ha spesso accalorato le folle dei suoi sostenitori sottolineando che lui era un “vero” americano, e che non aveva bisogno di dimostrarlo con un certificato di nascita (i simpatizzanti deliranti seguivano l’affermazione con applausi e risate). Pochi giorni prima delle votazioni, il miliardario Donald Trump offrì a Obama, in una sua comparsa televisa, una somma di ben 5 milioni di dollari, da devolvere a qualsiasi forma di beneficienza, se il Presidente avesse accettato di documentare i suoi studi universitari, mostrando copia della sua domanda di richiesta del suo passaporto, avvalorando la sua posizione a sostegno dei “birthers”, coloro che sostengono che Obama non è nato nelle Hawai ma in Kenya, e che il suo certificato di nascita è un falso.

Questi episodi hanno stimolato reazioni emotive più irrazionali tra le persone che condividono convinzioni razziste. Con questi espedienti, è stato possibile assicurarsi la loro fedeltà elettorale e il loro appoggio entusiasta, con un possibile effetto divulgativo tra la gente meno colta e più influenzabile da pregiudizi di tal genere. Si fa di tutto pur di avere un voto in più.  Dietro queste tattiche c’è un’ipotesi molto semplice:  “Chissà quanta gente normale ancora pensa negli Stati Uniti che un Presidente non-bianco, specialmente un Presidente negro, sia semplicemente inaccettabile.”

Ovviamente nei dibattiti politici queste argomentazioni non sono mai emerse. Nella maggioranza dei casi, i sostenitori di Romney hanno giustificato le proprie scelte senza menzionare motivi razziali. Sarebbe stato “politically incorrect”.  Resta però il sospetto che questo fattore sia ancora importante. La cartina geografica ancora appare come se la guerra civile non sia mai finita. Dopo tutto, solo negli anni 1960 fu eliminata la segregazione razziale in quegli stati con l’introduzione delle leggi sui “diritti civili”.

Due visioni e due Americhe

Alcuni repubblicani moderati si stanno accorgendo di questo paradosso, ed hanno dato l’allarme al loro partito: il GOP sta perdendo la possibilità di vincere in qualsiasi altra elezione presidenziale futura se non riuscirà ad attrarre il voto di “minoranze” etniche. Il partito repubblicano non potrà più essere il “grande vecchio partito” di Lincoln se non riuscirà a dialogare con una demografia che sta cambiando, ove la “maggioranza” etnica bianca sarà sempre di meno rispetto ad altri gruppi etnici.

Ma le elezioni americane non possono essere viste solo in chiave puramente razziale. Negli Stati Uniti ci sono per lo meno due visioni diverse della società, due Americhe che non dialogano facilmente, che interpretano in modo completamente opposto ciò che è lo Stato (quello che qui chiamano Government): la funzione dell’amministrazione pubblica e il rapporto tra l’individuo e la sua forma di vita collettiva organizzata come Stato (sia federale che stato membro dell’Unione).

Da una parte c’è un’America aperta al cambiamento, alla solidarietà reciproca, alla protezione dell’ambiente; sensibile ai problemi della sanità pubblica, della ricerca, dell’istruzione; rispettosa dei diritti delle donne e degli orientamenti sessuali della gente.  Questa è la gente che ha votato per Obama, che è preoccupata sì di trovare lavoro, se non ce l’ha, ma che ha fiducia nella capacità della presente amministrazione di poter accompagnare una ripresa economica, in parte già cominciata, e che non ha remore nel considerare lo strumento della politica fiscale per produrre questi risultati.  È un’America prevalentemente giovane (il 60% dei votanti che hanno tra i 18 ed i 30 anni ha votato per Obama), anche se non mancano simpatizzanti in tutte le fasce di età, ma in misura decrescente con l’avanzare degli anni.  Stranamente è un’America che include i meno istruiti (il 51% dei votanti senza laurea hanno votato per Obama, rispetto al 47% per Romney) e quelli più istruiti (ben il 55% dei votanti con più livelli di laurea, quelli che potremmo chiamare “classe intellettuale”, hanno votato per Obama, rispetto al 42% che ha preferito il candidato repubblicano). Altrettanto stranamente, il gruppo che ha preferito Romney è rappresentato più che altro da coloro che hanno un livello d’istruzione media, una laurea al primo livello (il Bachelor Degree), che per il 51% gli ha dato la preferenza, rispetto al 47% che ha scelto Obama.

Il livello culturale quindi sembra che influenzi la scelta del Presidente solo se è molto elevato, altrimenti, è la variabile economica ad avere un fattore determinante: le classi meno abbienti hanno massicciamente votato per Obama (63% di coloro che guadagnano meno di 30.000 dollari l’anno, e 57% di coloro che hanno un reddito tra i 30.000 ed i 50.000 lo hanno scelto). I più abbienti hanno preferito Romney (53% se il reddito è superiore ai 50.000 dollari; 54% se calcoliamo quelli con reddito superiore ai 100.000 dollari).

Dall’altra parte c’è un’altra America, che centra tutta l’analisi della performance del Presidente Obama su due considerazioni principali: (a) una valutazione negativa della sua riforma sanitaria, la cosiddetta “Obamacare”, voluta nel 2009 e considerata da questo gruppo come un insulto al sistema assicurativo volontaristico sinora prevalente (quello stesso sistema che ha impedito finora a molti lavoratori di avere qualsiasi forma di assistenza medica, caso unico tra i paesi ad economia avanzata); e (b) una sfiducia totale sulla capacità di Obama di gestire la politica economica, sfiducia rivolta in primo luogo ai timidi tentativi di stimolo dell’economia, basati sui bassi tassi d’interesse della Riserva Federale e sulle proposte del Presidente di varare modesti programmi di spesa d’ispirazione keynesiana per creare occupazione, accompagnandoli eventualmente con lievi aumenti dell’imposizione fiscale per i più abbienti (coloro che guadagnano più di 250.000 dollari l’anno).  Questa seconda America si fa forte dei valori più tradizionali di una certa forma di cultura nazionale: il credo assoluto nell’iniziativa privata ed individuale; una fede assoluta sui benefici del libero mercato; una sfiducia completa negli interventi pubblici, quindi nella spesa pubblica e nella tassazione di qualsiasi forma.  Crede nel valore mitico del “piccolo stato” (poche spese, quindi poche tasse), che si ricollega ideologicamente ad una visione immaginaria di un’economia forse esistente nel periodo pionieristico della storia americana, ove l’imposizione fiscale sul reddito era minima, e tutto sommato marginale era il ruolo della spesa pubblica come stimolo all’economia.

Naturalmente, la divisione tra queste due Americhe è ben più complessa.  Obama ha sostenuto, come parte del suo programma politico, la necessità di rafforzare i controlli sui mercati finanziari, che sono stati la causa prima della crisi finanziaria del 2008, mentre Romney, coerente con la sua impostazione fondata sul ‘laissez-faire’, ha richiesto un alleggerimento dei controlli sui mercati finanziari, ed in generale su tutti i mercati, perché secondo lui, più i mercati sono lasciati a se stessi, più sviluppo e crescita dell’occupazione si crea.  La visione repubblicana crede nel valore “magico” dell’abbassamento dell’imposizione fiscale, a tutti i livelli di reddito, come unica soluzione per promuovere sviluppo economico. Secondo questa visione, non c’è carenza di domanda aggregata nella presente crisi economica ma un basso livello di risparmi dovuto ad un’eccessiva pressione fiscale (e spesa pubblica). Questa è una visione tipicamente “pre-keynesiana” (alla Pigou, per dirla con John Maynard Keynes).

Ci sono visioni diverse anche su altri fronti. Per esempio sui fattori ambientali: Obama è sensibile alla difesa dell’ambiente, al superamento della dipendenza dal petrolio, alla ricerca di fonte energetiche alternative, alla protezione dai danni del “global warming”, mentre Romney è scettico sulla base scientifica del surriscaldamento del pianeta ed è favorevole all’esplorazione illimitata di nuovi giacimenti petroliferi sul territorio nazionale pur di raggiungere l’autosufficienza nella produzione energetica, anche a costo di compromettere patrimoni ambientali preziosi quanto rari.

Su altre problematiche sociali, Obama si definisce “pro-choice”, cioè protegge il diritto della donna di scegliere sull’eventuale interruzione della gravidanza, mentre Romney è molto ambiguo sull’argomento, avendo sostenuto idee opposte in diversi momenti della sua carriera (ma anche in diversi momenti della sua campagna elettorale), a seconda del pubblico di ascoltatori che gli stava di fronte, facendogli guadagnare il nomignolo di “flip-flopper” (“voltagabbana”). Probabilmente, tuttavia, un Presidente come Romney avrebbe scelto futuri membri della Corte Suprema con criteri che avrebbero favorito posizioni “pro-life”, se non altro perché questa è la posizione attuale del GOP.

Diverse versioni del candidato Romney: dalle primarie ai dibattiti televisi

Preoccupato di vincere contro rivali ben più conservatori, l’immagine che Romney diede di sé durante la sua campagna per le primarie era quella di un grande sostenitore dei valori più tradizionali del suo partito: laissez-faire nell’economia, riduzione di spesa pubblica, riduzione generalizzata di “tutte” le imposte sul reddito (anche per i più ricchi), difesa di posizioni “pro-life” in materia di aborto, contrario alla legittimazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, e fortemente a favore dell’abolizione del nuovo sistema sanitario chiamato spesso “Obamacare” (che stranamente è identico al sistema varato da Romney nel Massachusetts, quando lui era governatore di quello stato).

Una volta avuta la nomina a candidato del suo partito, però, Romney ha mostrato un’immagine più conciliabile al pubblico televisivo, pur di guadagnare il sostegno degli incerti (i cosiddetti indipendenti), una ridotta percentuale dell’elettorato americano che spesso è decisivo per il risultato finale.  È così che si è presentato nei tre dibattiti televisivi presidenziali in cui si è confrontato direttamente con Obama.  Ne è emersa un’immagine di un personaggio moderato, flessibile ed accomodante, il cui messaggio essenziale era molto semplice. “C’è una disoccupazione di gran lunga superiore rispetto a quella di quattro anni fa; l’economia stenta a crescere [nonostante i dati più recenti confermino una tendenza alla ripresa]; io sono un uomo di affari di grande successo, e per questo so come far migliorare l’economia.” La conclusione di Romney era inevitabile, secondo lui: “Obama ci ha provato, non ci è riuscito, è tempo di cambiare. Datemi la fiducia, vi abbasserò le tasse, e i maggiori risparmi si tradurranno automaticamente in maggiore reddito e maggiore occupazione.” Classica “trickledown economics”, mentre i repubblicani accusavano Obama di “trickledown government”.

Dopo lo smarrimento del primo dibattito, in cui Obama, a detta anche dei suoi stessi sostenitori, è sembrato quasi assente, ed incapace (o apparentemente non interessato) a contrattaccare il suo avversario, Obama è però riuscito a convincere la maggioranza degli americani che la ricetta di Romney non era credibile.  Dietro la semplicità apparente della proposta repubblicana di politica economica c’era solo la prospettiva di una esplosione dell’indebitamento pubblico da baratro, che sarebbe stata contenuta solo a costo di grossi sacrifici sociali, possibili unicamente con tagli radicali ai servizi sociali essenziali.  Conseguenze inevitabili della proposta di Romney, secondo Obama, sarebbe stato un impoverimento massiccio dell’economia, una depressione generalizzata, un peggioramento totale della condizione di benessere sociale delle classi medie e basse, con un aumento a dismisura del divario di reddito fra classe media e classe ricca, divario già emerso in modo vergognoso in questi ultimi decenni.

Le ‘gaffe’ più gravi del candidato Romney

Che Obama sia riuscito a convincere anche gli incerti per vincere le elezioni non c’è dubbio.  La diffusione di un video non autorizzato, anche prima dei dibattiti televisi, che riprendeva Romney in un incontro ristretto con i suoi finanziatori, ove dichiarava in modo plateale che il 47% della popolazione (quella che avrebbe votato per Obama) è sostanzialmente parassita, perché dipendente dalla spesa pubblica (assistenza medica gratuita, prestiti agevolati per l’istruzione, sussidi di disoccupazione, esenzioni fiscali per i redditi minori), aveva già  preparato la reazione della classe media, che si è sentita colpita nella sua dignità più profonda. Inoltre, Romney ha anche commesso alcuni errori madornali negli ultimi giorni prima del voto, come quando ha divulgato notizie false, quale la decisione della Chrisler e della General Motors di distruggere posti di lavoro nell’industria automobilistica americana portandoli in Cina, attribuendo questo alla politica di Obama nei confronti del settore automobilistico. Le aziende chiamate in causa lo hanno immediatamente contraddetto ed i lavoratori del settore, specialmente quelli residenti in Stati chiave come l’Ohio e il Colorado, ove ci sono molte fabbriche legate all’industria automobilistica, hanno riconosciuto immediatamente il “bluff” del candidato repubblicano, e Romney si è fatto la fama del “bugiardo”, che si è aggiunta a quella del “voltabandiera”.

Il GOP ha anche cercato di sfruttare l’attentato al consolato di Bengasi a scopi elettorali, che dimostrerebbe una mancanza di leadership da parte di Obama, ma gli elettori non ci hanno creduto. In ogni caso, la politica estera non è stata mai molto rilevante negli Stati Uniti per sperare di guadagnare favori elettorali su quel fronte. Semmai, gli accenni fatti da Romney durante la campagna elettorale alla necessità di una maggiore aggressività americana contro l’Iran, la Siria, la Russia e la Cina, hanno spaventato più che convinto il pubblico per le prospettive di una politica estera guidata da un’eventuale amministrazione repubblicana.

Alla ricerca delle cause della sconfitta repubblicana

Dopo il risultato elettorale, la sfida sarà per Obama quella di governare un paese così diviso, con un Senato ove la maggioranza democratica non ha ancora raggiunto la soglia di 60 senatori necessari per evitare l’ostruzionismo che il regolamento senatoriale permette alla minoranza, mentre la Camera dei Rappresentanti, a maggioranza repubblicana e con molti rappresentanti GOP ispirati dal gruppo di ultra-conservatori del “Tea Party”, non permette un simile ostruzionismo alla minoranza democratica.

Il partito repubblicano è sotto shock per l’insuccesso elettorale, e ancora non è cominciata la caccia ai colpevoli. I moderati repubblicani, sempre più distanti dal partito, a volte astenuti al momento del voto o addirittura in aperto appoggio ad Obama, dichiarano apertamente che il GOP è stato preso in ostaggio dall’ala più conservatrice ed estremista, e se le cose non cambiano, il GOP sarà destinato a perdere qualsiasi elezione futura, avendo perso contatto con i settori della popolazione americana che cresceranno sempre di più in termini numerici e che quindi avranno una crescente influenza politica (i giovani, i figli dei latino-americani e degli asiatici, la classe medio-bassa in generale, la popolazione urbana).

Tuttavia il gruppo al potere nel partito repubblicano non sembra di questo stesso avviso: semmai, pensa che il messaggio conservatore non sia stato spiegato bene al grande pubblico perché aveva un messaggero sbagliato (Romney), poco adatto, poco convinto, troppo impegnato a giustificare la sua biografia (figlio di papà, ha fatto i miliardi con attività speculative e investimenti nei paradisi fiscali, poca trasparenza sul suo passato fiscale).  Alla Camera dei Rappresentanti, lo speaker repubblicano Boehner ha sfidato il Presidente Obama a mettersi d’accordo per affrontare il problema più urgente, quello del “fiscal cliff” (baratro fiscale)[3], dichiarandosi forte del “mandato” elettorale ricevuto dalla maggioranza repubblicana alla Camera per difendere il “sacro” concetto che le aliquote fiscali non si toccano, neanche per i redditi più elevati (stessa formula sostenuta da Romney).

Le sfide più immediate: veri e falsi ostacoli

Obama per ora ha alzato il tono. Anche lui fa riferimento al mandato elettorale che ha appena ricevuto dal popolo americano, che ha preferito il suo approccio rispetto a quello di Romney: sostiene l’urgenza di garantire una bassa pressione fiscale per i redditi medi e bassi, e per le imprese che creano occupazione, ma ritiene doveroso chiedere un maggiore contributo fiscale alle classi più abbienti per avviare la riduzione del debito pubblico.  Il Presidente è flessibile sulle modalità, ma non sulla sostanza.

Per ora, la lotta può sembrare un vero “muro contro muro”.  Obama ha chiesto l’appoggio dell’opinione pubblica, ed è probabile che, grazie al suo diritto di veto sui provvidamenti legislativi, potrà avere qualche probabilità di far leva sul Congresso per il risultato finale, a meno che i repubblicani non decidano di fare gli oltranzisti fino in fondo, rischiando di punire tutte le classi sociali pur di difendere gli interessi dei più ricchi: questo sarebbe un biglietto da visita quasi automatico per perdere le elezioni parziali che ci saranno nel 2014, quando una parte del Congresso verrà rinnovata, con il rischio di perdere il controllo anche della Camera.

Mentre scrivo, i leader della Camera dei Rappresentanti, sia democratici che repubblicani, si sono incontrati con il Presidente Obama per aprire la trattativa sul “fiscal cliff”: si è parlato di un incontro “costruttivo”, ma il superamento dello scoglio ideologico dei repubblicani che hanno rifiutato sinora di prendere in considerazione qualsiasi aumento delle aliquote fiscali per i redditi più alti non sarà facile.  Lo scambio di pochi giorni fa tra il Presidente e rappresentanti del mondo degli affari ha mostrato che l’imprenditoria americana è meno preoccupata da questi aumenti di aliquote fiscali di quanto non lo siano i repubblicani, confermando ancor più la fragilità delle teorie economiche su cui le posizioni repubblicane si fondano: il mondo delle imprese si è mostrato molto più ottimista con Obama, specialmente se continueranno a confermarsi i segnali di ripresa per l’economia e si affermerà un quadro più certo delle decisioni di politica economica, superando le incertezze finora prevalse nell’ambito della competizione elettorale.

Opposizione ad oltranza o dialogo costruttivo?

Ma i giochi politici sono molti. I repubblicani hanno cominciato ad attaccare di nuovo Obama sulla faccenda di Bengasi, in previsione della possibile sostituzione di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato (il ministero degli affari esteri americano), cercando di impedire la candidatura di Susan Rice, attuale ambasciatore americano alle Nazioni Unite.  I toni sono duri.  Non si sa bene se la faida scemerà col tempo o assumerà toni più aspri. Simultaneamente i senatori democratici stanno pensando alla possibilità di modificare il regolamento del Senato, per eliminare una volta per tutte gli inconvenienti dell’ostruzionismo della minoranza repubblicana, o per lo meno per ridurne l’importanza. Una simile modifica, però, potrebbe essere presa come una dichiarazione di guerra dai repubblicani, ed i democratici si riservano di ricorrervi solo in caso disperato di rottura completa del dialogo con il GOP.  A pochi giorni dalle elezioni, è più probabile però che le due parti si studino in cagnesco, come all’inizio di una partita a scacchi.

Comunque, i toni usati finora non sono così duri come nel 2008, quando Obama ricevette il primo mandato. Allora, I repubblicani avevano promesso il massimo impegno per impedire al Presidente una vita facile, ed in parte ci riuscirono, impedendo ad esempio che Obama potesse varare un vero stimolo economico con un programma di spesa pubblica decisivo e ad ampio respiro. Il suo progetto di stimolo è rimasto a stagnare nelle aule della Camera dei Rappresentanti, ove i democratici sono in minoranza.  Succederà altrettanto anche questa volta? Finora Obama sembra più baldanzoso e pieno di fiducia, anche perché può contare sull’esperienza del passato e su un forte appoggio dell’opinione pubblica. Così pure i Rappresentanti democratici al Congresso (i corrispondenti dei nostri deputati), che si erano mostrati più timidi nel 2009, timorosi in molti casi di perdere il consenso nelle elezioni parziali del 2010, sembrano ora ben più decisi nel sostenere gli sforzi del Presidente Obama con maggiore solidarietà.  Le incertezze del 2009 e del 2010 si mostrarono fatali alle elezioni parziali, quando i democratici persero il controllo della Camera, mentre l’ettorato degli “indipendenti” fu in parte influenzato dall’ondata di apparente novità del “Tea Party”.

Oggigiorno la situazione appare diversa: il “Tea Party” non attrae più gli elettori indipendenti come nel passato, che ne hanno nel frattempo riconosciuto il volto “conservatore” ed “estremista”. Il movimento “Tea Party” continua ad avere un seguito soltanto con il suo elettorato “naturale”, non tra gli indipendenti ma nelle frange estreme dell’elettorato più conservatore, non più tanto numerose come si temeva nel 2009.

La difficoltà di formulare previsioni

Molti sono i fattori che potranno determinare l’effetto finale delle elezioni presidenziali negli anni a venire.  La congiuntura economica internazionale e le tensioni politiche nel medio oriente senz’altro avranno un ruolo centrale. Sul piano interno, molto dipenderà dalla dinamica reciproca delle due Americhe che si contrappongono, che potrà evolversi secondo direzioni difficilmente previsibili, anche se l’andamento dell’economia nei prossimi due anni darà la risposta definitiva sul vero vincitore della contesa elettorale di questo novembre.

Per il 2014, i repubblicani temono che la dimostrazione di resistenza data dai democratici alle ultime elezioni, nonostante che la crisi economica degli ultimi anni giustificasse un risultato opposto, possa essere presagio di un ulteriore crollo di consenso verso il GOP.  Non sono pochi a temere tra di loro che se la ripresa economica si manifesterà in modo più netto nel 2013 e nel 2014, sarà ancor più difficile per il GOP recuperare i consensi perduti.

Come reagirà il GOP di fronte ad una simile situazione? Ci sarà una rivoluzione al suo interno? E chi potrebbe condurre questa rivoluzione e con quale risultato?  I moderati repubblicani, che potrebbero avere interesse ad una trasformazione profonda del loro partito, forse possono contare con l’appoggio di una parte consistente degli elettori repubblicani (ma questa è solo una congettura), ma di certo non hanno sufficiente voce in capitolo nelle strutture del partito, dominate dai conservatori più oltranzisti, con visioni radicali.  Questi ultimi, d’altronde, stentano ad allargare la loro base di consensi, anche se spesso mostrano un’apparente sicurezza e spavalderia.

In ogni caso, la faida tra queste due componenti dell’anima repubblicana non è neanche cominciata, e nessuno può dire se mai scoppierà.  Per ora l’area moderata dei repubblicani è marginalizzata e impotente nel partito.

Anche tra i democratici, tuttavia, ci sono possibili voci alternative che per il momento sono assopite dalla necessità di far fronte comune contro il pericolo “conservatore”. Non c’è dubbio tuttavia che ci possano essere visioni diverse sui tempi delle riforme sociali da realizzare, sulla modulazione e sull’intensità delle politiche di stimolo economico e sulla stessa definizione degli obiettivi di politica sociale. Visioni diverse potranno eventualmente apparire in futuro anche su tematiche di politica estera, specialmente se il quadro delle tensioni mediorientali si dovesse complicare. Se si dovessero creare in future divergenze significative fra i democratici, ne potrebbero scaturire conseguenze finora imprevedibili.

Per il momento, tuttavia, il Presidente Obama è riuscito ad effettuare un’operazione di sintesi, arginando divergenze interne al partito, abilmente ampliando il margine di convergenza di tutti i democratici su di un numero vasto e crescente di obiettivi di grande interesse sociale ed economico.

Ma le manovre politiche dei prossimi mesi potrebbero dimostrarsi piene di trappole insidiose, dando luogo a tatticismi di breve periodo che poco hanno a che vedere con le speranze di fondo del pubblico americano. Le speranze degli americani sono legate ad aspettative di lungo periodo in tutta una serie di settori fondamentali. Se non saranno soddisfatte, porteranno ad una naturale reazione contraria, che inciderà sulle elezioni del 2014. Solo progressi sostanziali e sostenibili nei problemi più vitali della classe media e quella meno abbiente potranno evitare questo rischio e la sostenibilità di quei progressi dipenderà in grande misura dall’avvio di una solida ripresa economica, finora troppo stentata e timida.

Questi successi, al tempo stesso, dipenderanno dalla capacità del paese di saper superare le divisioni nette all’interno della società statunitense, spesso di valenza ideologica, per trovare una nuova sintesi. Molte dinamiche sono in atto nella demografia del paese. Nuovi gruppi sociali si affacciano allo scenario nazionale con ruoli sempre più importanti da svolgere. Le incertezze del partito repubblicano e la capacità con cui interagirà con questi gruppi rappresenta una delle incognite maggiori dei prossimi anni.  Cambieranno queste dinamiche l’immagine della cartina geo-politica degli Stati Uniti, sostituendo la divisione dualistica e storicamente obsoleta fatta di Stati blu e di Stati rossi con una scacchiera molto più complessa, ove nuove gruppi sociali cominceranno a controllare i propri destini anche lì ove per secoli avevano avuto un ruolo marginale?  È difficile, se non impossibile, fare previsioni, ma è evidente che dovremo continuare a monitorare queste dinamiche con attenzione, anche per le implicazioni che ne deriveranno per il resto del mondo.{jcomments on}


[1] GOP significa Grand Old Party, sigla usata per indicare il Partito Repubblicano statunitense.

[2] L’eccezione della Florida è solo parziale: nelle contee ove c’è stata immigrazione recente dal nord (pensionati) o dall’America Latina, la maggioranza è stata per Obama, ma nelle altre contee, i risultati sono ancora come quelli del resto del “profondo sud”, a prevalenza repubblicana.

[3] Se non ci saranno innovazioni legislative prima della fine di dicembre, dall’inizio di gennaio scatteranno automaticamente, secondo la legislazione vigente, aumenti di imposizione fiscale e tagli di spesa pubblica sostanziali che, mentre sulla carta dovrebbero migliorare la situazione del disavanzo di bilancio (che è uno dei problemi economici sul tappeto), probabilmente avrebbero un effetto depressivo sull’economia di entità disastrosa, vanificando anche i benefici sulla gestione del debito.

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