La teoria liberista è la vera vincitrice della Guerra Fredda. Ma questa vittoria segna la fine del sogno di un Europa unita e solidale

QUALE EUROPA ?

IV

di Marco Borsotti

Le immagini della crisi.

I notiziari televisivi, i quotidiani e le pagine web di quasi tutti gli organi d'informazione, mentre scrivo, stanno mostrando immagini di protesta che a volte degenera in violenza. Gli scenari sono molto diversi, vanno dalle gelide piazze dell'Ucraina in mano ad una imponente protesta popolare anti-governativa, alle strade di molte città italiane assediate dai “forconi”, gruppi non facilmente catalogabili, che di fatto stanno paralizzandole. Non si vedono più immagini di proteste in Grecia, Portogallo o Spagna, né scene angosciose di uomini e di donne che con qualunque mezzo tentano di coronare il loro sogno di riuscire a sbarcare in Europa, non perché questi eventi abbiano cessato d'esistere, ma più semplicemente perché, nella frenetica mentalità giornalistica di attirare l'interesse degli utenti con sempre nuove vicende, la tragedia dell'immigrazione o la disperazione di chi ha visto la propria vita portata via per volere di poteri lontani, non fa più notizia, non interessa più il pubblico ormai abituato ad essere stupito dal susseguirsi d'immagini sempre nuove, ma che quasi mai é aiutato a capirne il contenuto e il significato.

 

La protesta in Ucraina.

Nelle piazze Ucraine, decine di migliaia, forse anche centinaia di migliaia di persone protestano perché il loro Parlamento ha deciso a maggioranza di non siglare gli accordi con la Unione Europea nel recente Summit di Vilnius. Avendone la possibilità ho ascoltato servizi giornalistici trasmessi da emittenti in lingua russa dove si chiedeva a persone prese a caso tra la folla il perché della protesta. La risposta era sempre abbastanza simile: tutti avrebbero voluto la firma del pre-accordo con l'UE ed erano quindi indignati con le autorità per aver deciso di non adempiere a quella che sino ai primi di novembre sembrava dovesse essere la decisione dell'esecutivo. Alla domanda che seguiva sempre per capire le ragioni di tanta indignazione, tutti rispondevano che quella firma avrebbe aperto le porte dell'Europa per Kiev, permettendo un rapido ingresso dell'Ucraina nell'Unione Europea. Finalmente, alla domanda sul perché di tanta ansia d'essere parte dell'Europa Unita, nuovamente la risposta era generalmente univoca: per poter andare in Europa senza dover ottenere prima un visto d'ingresso e trovare così un buon lavoro. A questo punto, molti giornalisti obiettavano che la firma degli accordi non prevedeva esattamente quello e che un'eventuale ingresso, ancora tutto da definire, avrebbe richiesto lunghe negoziazioni e molti anni per non parlare poi del fatto che per poter parlare di libera circolazione delle persone sarebbero dovute passare sicuramente decadi. Tutti gli intervistati accusavano a quel punto i giornalisti di essere dei provocatori al soldo della Russia visto che loro avevano letto con i propri occhi quanto asserivano sarebbe invece successo e non volevano privare sé stessi ed i loro figli di quella opportunità. Non ho mai visto che cosa la gente dicesse aver letto con i propri occhi, ma so per certo che i giornalisti avevano ragione, le aspettative erano certamente esagerate ed in molti casi erronee. L'unica cosa certa sarebbe stata la completa apertura del mercato nazionale ai prodotti europei, senza una sicurezza di reciprocità a meno che i prodotti ucraini avessero corrisposto alle rigide condizioni delle certificazioni ISO. Per la libera circolazione delle persone e nelle facilitazioni per ottenere visti e permessi di lavoro, ci sarebbero voluti molti anni e nulla era garantito. Sono comunque certo che tutti coloro che rispondevano avevano ascoltato più che letto qualcuno che gli dava ad intendere quello che volevano sentire. Spesso gli imbonitori, perché di questo si tratta, erano figure di spicco della Commissione Europea, sempre sorridenti, sempre ammiccanti, sempre impegnati a descrivere, senza troppi dettagli qualitativi e temporali, l'annessione come il traguardo che questo primo atto avrebbe reso praticamente ineluttabile.

I Forconi in Italia.

Pur essendo lettore assiduo delle notizie nazionali, confesso aver sottostimato il fenomeno della protesta dei forconi, almeno sino a quando era rimasto confinato in Sicilia dove era nato. Per certo, quanto sta succedendo in varie città d'Italia a partire dalla sera dell'Immacolata, richiede invece maggiore attenzione. In alcune zone come a Torino e Provincia, ma lo stesso starebbe succedendo in Liguria, Veneto, Puglia, un numero abbastanza ridotto di dimostranti ha di fatto paralizzato la vita cittadina con blocchi stradali che sono in continuo movimento, rendendoli micidiali per il traffico, accompagnati da vere e proprie forme d'intimidazione contro quei commercianti che non avessero voluto ottemperare alla richiesta di chiudere le loro attività. Nei grandi centri vi sono stati anche scontri con le forze dell'ordine, ma nelle cittadine e fuori dai centri urbani non vi é stata presenza delle forze di sicurezza con il risultato che gli aderenti al movimento dei forconi hanno avuto gioco facile nel bloccare il movimento dei veicoli giungendo alla quasi totale paralisi del traffico.

L'aspetto interessante delle protesta dei forconi é l'estraneità, almeno così sembrerebbe, di tutte le sigle politiche e sindacali tradizionali, ma anche dei classici gruppi di protesta, lavoratori sindacalizzati, studenti medi, superiori ed universitari, militanti di raggruppamenti politici. In piazza vi sono molti giovani che sembrerebbero appartenere a quel 42% che non riesce a trovare impiego, piccoli artigiani soprattutto occupati nel trasporto e nei lavori di costruzione, essendo proprietari di camion e macchine per il movimento terra. In alcune zone, a loro si sono aggiunti gruppi dell'estrema destra, ma anche gruppi dell'estrema sinistra insurrezionalista. Non sembrerebbe che abbiano una direzione strategica, ma é certamente vero che operano attraverso collegamenti telefonici ed in linea, seguendo la prassi utilizzata dai recenti movimenti di rivolta nei paesi arabi. I dimostranti asseriscono che non ci sia direzione strategica e tutto sia spontaneo ed improvvisato, cosa difficile d'accettare se si guarda alla complessità logistica di quanto stanno mettendo in atto.

Anche le rivendicazioni sono generiche. Si parla di voler mandare a casa chi sta al potere. Si protesta contro l'eccessiva tassazione. Si fa appello a simboli nazionali come la bandiera o l'inno di Mameli. Si afferma che, stando così le cose, la vita é divenuta impossibile e non presenta prospettive per il futuro. Di questo stato di cose si responsabilizza genericamente chi al potere, ma senza una chiara proposta sul che fare qualora le autorità accedessero alla loro richiesta e si dimettessero in massa. Anche il riferimento all'Europa nei loro scarni messaggi non va oltre generiche affermazioni che reclamano il pieno recupero della sovranità nazionale, ma é certo che molti di coloro che hanno aderito o anche solo simpatizzano con questa forma di lotta sono vittime innocenti dell'austerità che Bruxelles ha imposto ovunque. Resta quindi da chiedersi quanto ci vorrà prima che qualcuno all'interno della protesta o tra le forze che stanno cercando conquistarne il favore, i corteggiatori sono molti ed alcuni destano certamente preoccupazione, riescano ad imporre tra le parole d'ordine della proteste anche proposte come l'uscita dall'Euro o l'imposizione di dazi sulle merci che entrino in Italia. In Trentino e nel Veneto, già dalla scorsa settimana, l'entrata di merci in Italia era stata rallentata sino a quasi bloccarla con la pretesa di proteggere la qualità di prodotti gastronomici nazionali minacciati da merci importate che ne falsificavano la qualità e la provenienza.

Le fughe in avanti dell'Europa si rivelano controproducenti.

Dopo la crisi del 2007, l'Europa sta attraversando un periodo di turbolenza con vari paesi sia all'interno dell'Unione, che nella sua periferia, sconvolti da proteste di piazza ed in grave crisi economica e politica.

Le basi per l'UE erano state il desiderio di sradicare il rischio di guerre tra Nazioni europee che doveva portare alla progressiva abolizione delle frontiere nazionali per permettere la libera circolazione di beni, persone e capitale in tutto il vecchio continente. Quell'obiettivo sensato e agognato da gran parte della popolazione del Continente, qualunque fosse stata la loro nazionalità, lingua o religione é oggi uno stato di fatto. Viaggiando dalla Penisola Iberica sino ai confini con la Russia non si debbono più affrontare procedure doganali o di controllo dei passaporti, al massimo attraversando le zone di frontiera si deve ridurre la velocità nel caso che uno degli agenti  che a volte li presidiano volesse effettuare un controllo. L'Europa come zona di libera circolazione e scambio é oggi una realtà.

La grande accettazione per questo successo della diplomazia europea tra gli abitanti del vecchio continente ha permesso di coltivare l'ideale di consolidare quanto fatto sul piano della libertà di transito sino al punto di gettare le basi per l'integrazione degli Stati nazionali in una Unione che rendesse l'Europa con i suoi milioni di chilometri quadrati di territorio e centinaia di milioni di cittadini una sorta di Federazione. Personalmente considero questo disegno politico una necessità per tutti gli abitanti dell'Europa. Infatti, l'Europa come insieme di paesi é ancora oggi il mercato più grande del pianeta, ma non avendo una visione comune non riesce ad esercitare l'influenza che gli spetterebbe nel contesto internazionale. Per farlo é indispensabile che esista omogeneità nelle decisioni di politica estera, di politica economica, di difesa dei confini e di politiche sociali e per le infrastrutture. In altre parole, l'Europa ha bisogno di una governance federale comune a tutti al di sopra dei poteri di ogni singolo Stato. Come spiegato precedentemente, gli accordi di Maastricht, di Roma ed il recente accordo di Lisbona vorrebbero ottenere proprio quello, ma nel farlo ci si é dimenticati che ogni Stato, ogni aggregazione politica é sempre il frutto di un patto tra i cittadini che ne accettano la costituzione. A mio giudizio, é questo che manca o, almeno, che é quanto meno insufficiente per garantire solidità alle istituzioni che si stanno edificando. Cercherò di spiegarne il perché.

Prima della caduta del muro di Berlino.

L'idea di una Europa senza frontiere nasce dalle due Guerre Mondiali del secolo scorso, ma nell'opera di realizzarla fin dai suoi inizi, i sei Stati fondatori, dovettero confrontarsi con la realtà della guerra fredda che contrapponeva gli Stati Uniti ed i suoi alleati della NATO contro l'Unione Sovietica ed i suoi alleati del Patto di Varsavia. Il Continente Europeo nella sua parte centrale era diviso da una cortina di ferro che lo separava in due parti contrapposte. I sei Stati che per primi decisero d'avviare questo percorso appartenevano al fronte occidentale alleato con gli Stati Uniti ed in quel contesto non aveva senso prefigurare politiche indipendenti senza sovvertire totalmente gli equilibri e rendere vulnerabile la Germania che dei sei era una componente strategica. A questo si doveva aggiungere che la difesa di tutto il blocco occidentale era assicurata dalla NATO che dipendeva dall'apparato militare statunitense. La Francia aveva assunto una posizione autonoma, soprattutto per la diffidenza nutrita dal Generale De Gaulle verso l'alleato americano che nella seconda guerra mondiale lo aveva snobbato, ma questo non alterava la sostanza degli equilibri visto che la potenza militare dei paesi dell'est poteva essere contenuta soltanto con la forza della presenza militare americana. Il Mercato Comune Europeo, che presto si estese ad altri paesi del fronte occidentale, crebbe in un contesto che riconosceva alla Germania, allora paese di confine con il blocco contrapposto, un ruolo centrale e alla Russia, invece, la posizione di antagonista principale.

Per completare il quadro, é necessario considerare che in tutti i paesi dell'Europa occidentale agivano forze politiche che erano o venivano considerate vicine alle ideologie  promosse dai paesi dell'Est d'Europa. Partiti comunisti erano legalmente presenti nella maggior parte degli Stati del Mercato Comune Europeo e con loro forti organizzazioni sindacali che auspicavano maggiori diritti per i lavoratori del settore manifatturiero e di altre aree dell'economia dei vari paesi. Spesso queste organizzazioni avevano assunto un ruolo centrale nella lotta di resistenza contro il fascismo ed il nazismo prima della Seconda Guerra Mondiale e durante il suo triste svolgimento, fatto questo che legittimava la loro presenza ed avvalorava la loro visione ideologica. Per questa ragione, molti paesi europei adottarono politiche sociali socialdemocratiche nell'intento, tra l'altro, di contenere la forza attrattive che idee d'ispirazione socialista e comunista potessero avere sulla popolazione. Il forte progresso dell'Europa della solidarietà sociale e dei diritti dei lavoratori si andò consolidando in quegli anni ed a sua volta condizionò l'approccio verso le politiche sociali nell'ambito della nascente Europa Unita. L'idea d'Europa crebbe con una visione che attribuiva al benessere sociale diffuso un ruolo centrale nelle scelte di politica economica e sociale.

Riassumendo, sino alla fine degli anni ottanta del secolo scorso l'Europa crebbe attorno ad una serie di principi: in primo luogo, la necessità d'abolire le frontiere per facilitare la circolazione di beni, servizi, capitali e persone nel Continente; in secondo luogo, l'importanza di proteggere la Germania e sostenere la sua aspirazione alla riunificazione con quella parte del suo territorio che si trovava dall'altro lato della cortina di ferro; in terzo luogo, l'identificazione nella Russia sovietica del maggior fattore di rischio e del nemico da contenere e possibilmente sconfiggere; infine, nell'importanza di assicurare la pace sociale interna attraverso l'adozione di misure economiche e sociali disegnate ad assicurare un livello adeguato di benessere per le classi lavoratrici caricando le spese per il mantenimento di questo sistema allo Stato.

La caduta del muro di Berlino e le sue conseguenze.

Dopo un'estate turbolenta, ai primi di novembre 1989 cadde il muro di Berlino che fu letteralmente smantellato a picconate dai manifestanti provenienti dalle due parti con la Stasi, terribile polizia della Germania Democratica, impossibilitata ad intervenire. In poco tempo, l'intero apparato dei paesi del Patto di Varsavia iniziò a scricchiolare e, uno ad uno, i regimi in carica dovettero piegarsi alla necessità d'indire elezioni aperte a più partiti, segnando così la fine dell'era comunista in Europa. Due anni dopo, la stessa Unione Sovietica veniva dissolta e dalle sue ceneri nascevano 15 repubbliche indipendenti che però lasciavano alla Russia il controllo della fetta maggiore del territorio della defunta USSR.

Questi eventi ebbero ripercussioni ovunque nel pianeta, ma non vi sono dubbi che l'impatto maggiore si ebbe in Europa. La Germania poté coronare la sua massima aspirazione dando inizio al processo d'unificazione delle due Germanie. Uno dei maggiori contenziosi della guerra fredda si risolse pacificamente anche se il conto dell'unificazione risultò piuttosto salato viste le disparità esistenti tra le due componenti del nuovo Stato. La minaccia sovietica che aveva caratterizzato le relazioni tra le Nazioni in tutti i Continenti svanì come d'incanto. Per un momento si ebbe tutti la percezione che non ci fossero più nemici da temere e combattere. Il crollo del modello sovietico screditò anche tutte le teorie socialiste, comprese quelle socialdemocratiche, che proponevano modelli di società basati su di una grande presenza pubblica nella vita produttiva e sociale del paese. A questo punto, tutti gli obiettivi dell'Europa erano stati raggiunti: meccanismi giuridici assicuravano piena libertà di circolazione all'interno  dei paesi associati, la Germania era una, la Russia non rappresentava più una minaccia, non esistevano più rischi che formazioni politiche all'interno dell'Europa, se fossero riuscite a prevalere nel loro paese, potessero aspirare a portarlo fuori dalla sfera d'influenza occidentale.

Nei primi anni novanta, in molto pochi obiettavano che tutto quanto fosse successo non fosse dovuto alle scelte di politica interna ed esterna promosse dal modello neo-conservatore e liberista proposto negli Stati Uniti da Roland Reagan e successivamente da H. W. Bush ed in Inghilterra da Margaret Thatcher. Costoro erano i vincitori della guerra fredda, coloro che erano stati in grado di forzare il gigante d'argilla sovietico ad autodistruggersi quasi senza colpo ferire. Il costo sociale per i cittadini di quella che era stata la seconda super potenza mondiale erano stati gravissimi, ma i vincitori non ne avevano sentito le conseguenze, anzi si erano potuti avvantaggiare dalla spartizione delle spoglie del nemico vinto.

Forse con eccessiva semplificazione, situo a questo punto nella storia recente il momento in cui le divergenze ideologiche tra conservatori e socialdemocratici in Europa iniziarono a scomparire. Logorata da un lungo periodo al comando del paese, la signora Thatcher dovette cedere il posto a John Major del suo stesso partito che poi perse le elezioni contro Tony Blair del partito laburista britannico. Dopo dodici anni al potere, anche i repubblicani in America furono sconfitti dal democratico Bill Clinton. Ma in entrambi i casi, il cambio di colore politico non rappresentò un vero cambiamento nelle grandi linee politiche dei due paesi. Laburisti e Democratici continuarono attuando in grandi linee le stesse politiche sociali ed economiche dei loro predecessori. Il grande vincitore di quegli anni fu la teoria liberista che attribuiva al mercato la capacità di trovare ogni volta in forma autonoma le soluzioni migliori per tutti e che reclamava una sostanziale riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato in tutti i risvolti dell'economia del paese.

La costruzione dell'apparato di governo europeo.

In questo contesto ideologico, l'Europa si trovò a dover progettare come proseguire il cammino che da unione economica la portasse verso una integrazione anche politica tra gli Stati. Non mi pare sia un caso che prevalse la concezione che per facilitare l'integrazione tra Nazioni anche molto diverse e con tradizioni ataviche di lotte cruente con tutti i vicini il modo migliore fosse quello d'introdurre come veicolo di coesione l'adozione di una moneta unica. Nella visione liberista del mondo é infatti la moneta lo strumento privilegiato di economia politica, il solo che usato in modo avveduto, così recita la teoria, che permetta di tenere sotto controllo l'inflazione dei prezzi e assicuri la realizzazione di periodi quasi ininterrotti di crescita economica che a loro volta generano impiego e sostengono l'aumento costante dei consumi, condizione necessaria per assicurare la continuità degli investimenti privati nell'economia. In un contesto a dir poco carente di strutture di governo europeo, si decise di accelerare i passi per giungere all'adozione dell'Euro.

In parallelo, si procedette anche con l'istituzione del Parlamento Europeo eletto a suffragio universale e non più nominato da rappresentative dei vari Parlamenti nazionali e con il rafforzamento della Commissione Europea i cui commissari erano una sorta di Ministri dell'Europa per il portafoglio di loro responsabilità affiancati però dal Consiglio dove sedevano le loro controparti a livello nazionale. Ma mentre la moneta unica fu introdotta nel 1999 come unità di riferimento monetario e, a partire dal 2002, rimpiazzò completamente tutte le monete nazionali, prima in dodici paesi, poi successivamente aumentati sino al numero attuale di 17 Stati membri della zona Euro, il processo di trasferimento di poteri e responsabilità verso le altre istituzioni centrali, il Parlamento e la Commissione, sta ancora avvenendo e il processo è assai lento e poco lineare, rendendo l'autonomia e l'efficacia di questi organi di potere legislativo ed esecutivo labile.

Ormai da 11 anni, l'Euro é la moneta di riferimento per i paesi che in Europa rivestono il maggior ruolo nell'economia del Continente, con l'eccezione dell'Inghilterra che sin dagli inizi del dibattito sulla moneta unica decise restarne fuori. Mi pare che sia questo il motivo che spinge molti ad associare l'Euro, che dovrebbe essere soltanto uno strumento tecnico, con tutte le scelte politiche che appartengono all'Europa Unita che invece sono il risultato di decisioni prese molte volte non dagli organi esecutivi e legislativi dell'Europa Unita, ma dai governanti degli Stati membri che ancora oggi detengono il vero potere di decisione sulle direttive europee in ogni settore. Ovviamente, il peso degli Stati membri non é equanime e sono soprattutto i paesi più grandi nei termini del valore del Prodotto Interno Lordo delle loro economie e del numero dei loro abitanti quelli che alla fine dettano l'agenda per tutti. Al momento attuale, il paese di maggior rilevanza é senza ombra di dubbio la Germania, prima economia in Europa, paese con la maggiore popolazione, paese  cui si ispirano un gruppo di Nazioni confinanti la cui situazione economica generale é molto simile a quella tedesca. Per questo, l'Euro e la Germania sono ormai considerati a torto o a ragione responsabili di quanto succede in Europa. {jcomments on}

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