La Crimea e l'autodeterminazione dei popoli

HA VINTO STALIN

di Paolo Basurto

Il 16 marzo scorso un referendum, svoltosi su iniziativa unilaterale del Parlamento autonomo della Crimea, dava come risultato l'annessione di questa regione alla Russia. Dal 1954 la Crimea era parte integrante del territorio dell'Ucraina. Ha votato l'85% della popolazione e più del 90% si è dichiarata in favore dell'annessione. Si è detto che le votazioni si sono svolte regolarmente (1) anche se tutti sanno che la Russia aveva già invaso l'intero territorio presidiandolo massicciamente con carri armati e con migliaia di militari. La comunità cosiddetta occidentale, ha finora reagito timidamente per paura di favorire uno scontro armato che potrebbe provocare conseguenze imprevedibili su scala internazionale (non mancano quelli che parlano apertamente di possibilità di una terza guerra mondiale). Ma a questa paura se ne è aggiunta un'altra altrettanto forte e molto più realistica: quella di una guerra economica capace di far retrocedere il pianeta ai tempi più duri della guerra fredda. Poiché i paesi occidentali seguono tutti il verbo del liberismo capitalista, il dio-denaro sarà probabilmente capace di prevalere sull'imperativo strategico di provvedere alla difesa dei diritti dell'Ucraina.Ma quello che è più sorprendente è che la vicenda non manca di essere strumentalizzata anche a fini di politica interna, consentendo ai filosecessionisti ormai presenti in molti Paesi europei, di sfoderare con stupefacente supponenza, il diritto dei popoli all'autodeterminazione. Persino Grillo, che da quando ha deciso di succhiare voti alla Lega in disfacimento è salito sul cavallo della frantumazione dell'unità nazionale, ha dichiarato in televisione, aprendo la sua personale campagna elettorale per le europee (2) , che lui rispetta il risultato del referendum della Crimea e che nella piazza di Maidàn a Kiev a sparare non erano i russi ma gli americani (sic!). Il cinismo elettorale non ha limiti, né a destra né a sinistra, ma spiace molto vederne i chiari segni anche in chi si era detto paladino della partecipazione democratica oltre gli schemi dell'usuale manipolazione che i leader di ogni partito hanno da sempre fatto della verità, usando e abusando delle tribune in loro possesso o delle capacità naturali proprie di ogni buon demagogo. Il principio dell'autodeterminazione dei popoli, scritto nella  Carta delle Nazioni Unite, è un diritto sancito in tutti i documenti internazionali che contano (3).

Ma come molti diritti umani, viene richiamato a gran voce solo quando fa comodo e citato spesso a sproposito e più spesso ancora con evidenti intenzioni manipolatorie. Se lo si depura della retorica che puntualmente accompagna le citazioni fatte dai politici, si tratta di un principio rivoluzionario che si proietta in un futuro sicuramente auspicabile ma, altrettanto sicuramente, non prossimo. Le sue origini più illustri si rifanno alla guerra di indipendenza americana, alla Carta dei Diritti dell'Uomo di Robespierre, e già lo menzionava lo Statuto della Società delle Nazioni. La Carta delle Nazioni Unite lo riprende, e così pure la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo. Gli Americani ne furono i più grandi sostenitori e la cosa si spiega bene con il fatto che fu questa la bandiera fatta sventolare ogni volta che acquistavano l'indipendenza Paesi inglobati nel vecchio sistema coloniale. Sistema al quale gli Stati Uniti non erano interessati preferendo i mercati aperti a quelli chiusi e la superiorità economica e commerciale come strumenti di dipendenza e di dominio.

Il periodo della decolonizzazione vide l'affermazione di questo principio e nello stesso tempo l'emersione dei suoi numerosi limiti e gravi rischi applicativi. Anche se il diritto all'autodeterminazione dei popoli viene ribadito e precisato (ma solo apparentemente e, comunque, insufficientemente) in altri documenti internazionali, alcuni addirittura con maggiore valore giuridico dal punto di vista formale, il contesto nel quale può verificarsi la sua piena applicabilità è spesso inquinato dai forti interessi politici ed economici sempre esistenti e da alcuni problemi interpretativi non marginali. Non mancano coloro che lo considerano più una fonte di conflitti che uno strumento di pacificazione come invece dovrebbero essere tutti i diritti umani riconosciuti e ratificati dagli Stati.

L'autodeterminazione è, tra tutti, il diritto che più chiaramente pone in luce la grande contraddizione della nostra epoca, costituita da un'evidente riduzione del potere statale a fronte di un vuoto incolmabile nella governance mondiale. Una delle ragioni principali per impedire fino ad oggi che la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo si trasformi in una Convenzione vera e propria, ratificata da ogni Stato sovrano che dovrebbe erigersene a difensore, è che la stessa concezione che giustifica l'esistenza di diritti assoluti propri dell'uomo, uomo in quanto individuo e non in quanto soggetto sottoposto a un complesso di leggi positive statuali, supera l'idea di Stato, dalla quale si rende autonoma, anzi, nei confronti della quale si fa prioritaria e cogente. Una concezione quindi, quasi religiosa che ripropone il vecchio dibattito sul diritto naturale e quello relativo e che nasconde male l'invidia del vecchio idealismo massonico per una pretesa morale laica universale e immutabile. E' ovvio che, oggi come oggi, gli Stati, anche se fortemente indeboliti da tutti i fenomeni trasnazionali che sempre più li condizionano, sono e rimangono i protagonisti nelle relazioni internazionali. E, in mancanza di un potere sovranazionale riconosciuto e dotato della forza sufficiente, sarà solo la loro convenienza e la loro capacità impositiva a determinare l'applicabilità dei diritti umani in funzione di una loro corretta interpretazione. Basti considerare quanto contenuto nella Risoluzione ONU n° 25 del 24 ottobre 1970 la quale afferma che “Nulla… è inteso ad incoraggiare o legittimare azioni volte allo smembramento totale o parziale dell’integrità territoriale o dell’unità politica di Stati indipendenti e sovrani che rispettino i princìpi dell’eguaglianza e dell’autodeterminazione dei popoli e dotati di un Governo rappresentativo di tutta la popolazione appartenente al territorio, senza distinzioni di razza, religione o di colore”.

E, a proposito di interpretazione, l'altro punto dolente del principio dell'autodeterminazione è la definizione di 'popolo'. Quando si è un popolo? Quando si giustifica la pretesa all'autodeterminazione? Non mancano esercitazioni interessanti e anche documenti internazionali (4) che, pur non avendo valore giuridico formale si sforzano di fornire elementi e indicatori razionali. Ma al di là della difficoltà obbiettiva di una simile definizione si scorge senza troppa fatica la resistenza degli Stati a riconoscere in astratto un profilo giuridico che potrebbe sconvolgere il loro assetto territoriale ed economico e produrre guerre civili assai difficili da controllare. Basti pensare al caso delle minoranze e alla forza dirompente e alle reazioni a catena che potrebbe comportare l'automatico riconoscimento di 'popolo' a una qualsiasi minoranza linguistica, religiosa e, paradossalmente, persino sportiva.

Raramente gli studiosi di diritto internazionale si trovano tutti d'accordo, tranne nell'affermare che senza un'effettiva Autorità sovranazionale la questione del diritto all'autodeterminazione rimane una pura prospettiva, auspicabile ma da agitarsi con prudenza in considerazione dei danni imprevedibili che può produrre.

Il caso della Crimea e del suo referendum secessionista e, in più, di annessione ad un altro Stato, confinante e militarmente invasore, è un caso gravissimo da non trattare con battute e slogans alla Grillo. L'invasione della Crimea è l'invasione dell'Ucraina e non c'è possibilità alcuna che il Diritto all'autodeterminazione giustifichi i carri armati di Putin o di chicchessia. Inoltre andrebbe doverosamente ricordato che l'Ucraina perse dai 3 ai 5 milioni di persone, specialmente bambini, quando Stalin, nei suoi anni verdi tra il 1929 e il 1933 decise di affamare il popolo ucraino compiendo una strage che è stata internazionalmente riconosciuta (5) come un vero e proprio crimine contro l'umanità (a chi volesse leggere una testimonianza toccante riferita a quel periodo terribile suggerisco l'intervista che Gisella Evangelisti ha fatto ad una cittadina ucraina residente in Italia e pubblicata su partecipagire.net). I Tartari, che hanno dato il nome alla Crimea e ne hanno costituito per lungo tempo l'etnia più numerosa, furono decimati dal governo sovietico che ha in seguito attuato una robusta politica di russificazione, cosa che spiega come oggi, in quel territorio i russoparlanti siano la maggioranza (una maggioranza conquistata, a dir poco, in modo ignominioso e che spiega anche i risultati del referendum). Kruscev decise nel 1954 di annettere la Crimea all'Ucraina, motivando la sua iniziativa con ragioni risibili (affermò ufficialmente che si trattava di un segno di riconoscimento per celebrare il trecentesimo anniversario dell'alleanza tra i cosacchi ucraini e la Russia), ma nel 1956, in un discorso che rimase memorabile, fu il primo statista russo a denunciare le nefandezze di Stalin ammettendo esplicitamente la necessità di una riparazione. Dopo l'invasione della Georgia, l'Anschluss della Crimea in favore della Russia toglie ogni garanzia di non aggressione all'Ucraina e a tutti quei Paesi baltici con minoranze russoparlanti. Non vedere quanto questo sia rischioso e quanto sia più che mai necessario che l'Europa prosegua nel suo cammino di integrazione politica (leggi in proposito l'articolo di Marco Borsotti, 'Quale Europa?' su partecipagire.net) e inizi al più presto anche quello dell'integrazione militare significa peccare ancora di troppa miopia. E questa volta il disastro potrebbe essere senza rimedio. Non c'è spazio per la satira che si trasforma in politica incosciente. Stalin sorriderà soddisfatto, vendicato dal suo furbo e pericoloso emulo Putin.

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(1) 135 osservatori provenienti da 23 nazioni hanno dichiarato la regolarità della consultazione.

(2) Intervista di Mentana su La7 del 21 marzo.

(3) Il “principio” di autodeterminazione dei popoli è sancito dagli articoli 1, par. 2, 55 e 76 della Carta delle Nazioni Unite. Questo “principio” è divenuto “diritto umano”, formalmente riconosciuto a tutti i popoli, in virtù dell’identico articolo l dei due Patti internazionali sui diritti umani del l966.

(4) Per il concetto di popolo bisogna pertanto riferirsi a documenti ufficiali o semi-ufficiali privi di carattere giuridico. Un Rapporto dell’Unesco (Doc. SHS- 89/CONF. 602/7, Parigi, 22.02.1990) definisce il popolo come:

  • un gruppo di esseri umani che hanno in comune numerose o la totalità delle seguenti caratteristiche: a. una tradizione storica comune; b. una identità razziale o etnica; c. una omogeneità culturale; d. una identità linguistica; e. affinità religiose o ideologiche; f. legami territoriali; g. una vita economica comune;
  • il gruppo, senza bisogno che sia numericamente considerevole (per es., popolazione dei micro stati), deve essere più che una semplice associazione di individui in seno ad uno stato;
  • il gruppo in quanto tale deve desiderare di essere identificato come un popolo o avere coscienza di essere un popolo -restando inteso che gruppi o membri di questi gruppi, pur condividendo le caratteristiche sopra indicate, possono non avere questa volontà o questa coscienza;
  • il gruppo deve avere istituzioni o altri mezzi per esprimere le proprie caratteristiche comuni e il suo desiderio di identità”.

(5) Tra il 2003 e il 2008 praticamente tutte le principali Organizzazioni internazionali hanno riconosciuto lo sterminio degli anni tra il '30 e il '32, come frutto non di calamità naturali ma di un vero e proprio progetto criminale. In alcuni di questi riconoscimenti l'accaduto viene definito come crimine contro l'umanità o, peggio ancora, genocidio.

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