IL MISTERO DEL TTIP

La bulimia del criceto

ovvero

l'insaziabile desiderio di crescita del Partenariato per il Commercio e gli Investimenti

(IV )

di Marco Borsotti

Tutti o quanto meno quasi tutti conosciamo il criceto, questo roditore dal pelo morbido e la fame insaziabile. Questa piccola furtiva bestiola, spesso tenuta in casa come animale domestico prigioniera della sua gabbietta, si distingue per alcune caratteristiche peculiari oltre alla tenera morbidezza del pelo, infatti é animale prolifico, la femmina é ricettiva già alla sesta settimana dalla nascita e può partorire la prima nidiata meno di tre settimane dopo, ma é anche animale famelico, capace di fagocitare grandi quantità di cibo, dotato dalla natura di due borse guanciali che gli permettono il facile trasporto di alimenti nella tana visto che, essendo in natura propenso ad andare in letargo nei mesi invernali, accumula riserve di granaglie nelle sue gallerie. Osservazioni fatte dimostrano che le riserve di un solo animale, il criceto infatti lontano dai periodi di estro vive isolato dai suoi simili, possono raggiungere più di sessanta chili di materiale vegetale, quantità esorbitante se si pensa che il peso medio di questi animali in genere non supera i cinquanta grammi. Sin dalla nascita quando pesa pochi grammi, questo roditore é condizionato dall'imperativo categorico della necessità di crescere velocemente perché le sue probabilità di diventare adulto e riprodursi sono legate alla capacità del suo metabolismo d'incamerare grandi quantità di cibo per permettergli di svilupparsi, riprodursi rapidamente e sopravvivere il più a lungo possibile. Quasi tutti i roditori hanno abitudini simili a quelle del criceto, ma quest'animaletto a differenza di certi suoi cugini che possono provocare il panico non solo tra gli elefanti, é generalmente ben accetto tra gli esseri umani che non lo considerano quasi mai come un parassita e quindi mi é parso perfetto per lo scopo d'introdurre alcune nuove considerazioni sul TTIP, Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, l'accordo che quasi in segreto il governo degli Stati Uniti e la Commissione Europea stanno negoziando dalla primavera del 2013. Infatti, a parte la ristretta cerchia degli addetti ai lavori, nessuno conosce quanto sia scritto nelle bozze di quest'accordo, che quindi, come i criceti, ama vivere lontano dalla notorietà, ma che é anche motivato nelle sue scelte da un desiderio irrefrenabile di crescita. Infatti, le scarne informazioni date al pubblico sulla natura delle negoziazioni, reperibili sul sito ufficiale della Commissione europea, prospettano tra i principali risultati attesi dopo la conclusione e firma del trattato un grande sviluppo degli scambi e degli investimenti che a loro volta si tradurrebbero in una crescita annuale del Prodotto Interno Lordo europeo, PIL, che alcuni studi resi noti dalla Commissione stessa stimano potrebbe crescere su base annua sino ad un massimo di € 119 miliardi. In tre articoli pubblicati in precedenza ho già illustrato con alcune considerazioni i dubbi che queste promesse sollevano, adesso però voglio invece guardare al problema da un altro punto di vista, non mettendo in discussione le promesse della Commissione, anzi accettandole in toto senza obiezioni, ma discutendone l'opportunità, la razionalità ed i possibili benefici non per alcuni pochi, ma per la maggioranza dei cittadini.

 

Europa 2020

Pur se amministrata da persone fermamente convinte della necessità di applicare i principi del liberismo economico alla gestione delle vicende dell'Unione europea, non di meno l'EU non si sottrae alla pratica di formulare obiettivi di corto e medio periodo che possano orientare i governi dei suoi 28 paesi membri. Per questo, la Commissione ha elaborato ed il Consiglio approvato cinque obiettivi strategici da raggiungersi per il 2020:

* almeno il 75% dei cittadini compresi tra i 20 ed i 64 anni d'età devono avere un impiego;

* almeno il 3% del GDP (Prodotto Interno Lordo) europeo deve essere speso in ricerca e sviluppo;

* nell'ambito dell'ambiente

a) le emissioni di ossido di carbonio devono essere ridotte di almeno il 20% in relazione a quanto erano nel 1990 e, se le condizioni lo permetteranno anche del 30%,

b) il 20% dell'energia consumata deve essere il prodotto di tecnologie rinnovabili,

c) si deve avere un incremento del 20% nell'efficienza d'uso dell'energia;

* nell'ambito dell'educazione

a) si deve ridurre il tasso di abbandono precoce della scuola sotto il 10% e

b) almeno il 40% degli adulti tra i 30 e 34 anni d'età devono aver completato il terzo livello d'istruzione;

* per ultimo, almeno 20 milioni di europei devono essersi emancipati dal rischio di vivere sotto il livello di povertà e di esclusione sociale.

Gli obiettivi in sé non sono ambiziosi, ma tenendo conto delle difficoltà del momento non mi pare che aver formulato mete più ambiziose sarebbe servito a molto visto che, almeno per il caso italiano, non sarà agevole ottenere quasi nessuno dei risultati previsti. Per raggiungere le mete proposte, l'Unione si affida a tre linee guida che devono ispirare iniziative sia da parte della Commissione che dei singoli governi nazionali. Queste direttive prevedono: una crescita intelligente fatta perseguendo in primo luogo l'agenda digitale per l'Europa, in secondo luogo stimolando la creazione di spazi favorevoli all'innovazione e, per ultimo, investendo sui giovani in particolare permettendo ad almeno 400,000 di loro di poter ottenere borse di studio per l'estero; una crescita sostenibile che si basi su di uno sviluppo che richieda minor utilizzazione d'energia prodotta con l'uso d'idrocarburi, maggior rispetto per l'ambiente in tutti i settori dell'economia grazie all'impiego d'innovazioni tecnologiche, ma anche uno sviluppo che mantenga al centro la crescita del prodotto industriale del continente perché l'Europa continui ad essere tra i maggiori produttori di manufatti nel mondo; una crescita equa che sappia generare impiego (al rispetto il documento elenca come misure atte allo scopo l'introduzione di maggiore flessibilità del lavoro, formazione professionale, migliori condizioni ambientali per i lavoratori, ma anche incentivi per gli imprenditori per la creazione di posti di lavoro) e lottare contro la povertà con una serie di generiche proposte di politica sociale, tutte consultabili sul sito della Commissione europea sotto la voce Europa 2020.

Ma come é la realtà nei fatti?

L'agenda Europa 2020 fu approvata dal Consiglio europeo nel giugno 2010, siamo quindi a circa metà del percorso. Come richiesto dalle procedure che regolano i rapporti tra la Commissione ed il Parlamento europeo, anche quest'anno la Commissione ha presentato una relazione  sui progressi realizzati a livello di paese e le raccomandazioni che Brusselles  considera essenziali affinché i governo dei 28 paesi membri mettano in atto misure tali d'assicurare il raggiungimento degli obiettivi nella data stabilita (vedi qui). Il documento inizia affermando che la crisi, a livello europeo é superata e ci si deve ormai considerare nella fase di recupero, fase delicata perché la crescita sarebbe ancora fragile, ma sufficiente a permettere ottimismo per il futuro. Purtroppo per l'ufficio studi della Commissione, i dati d'agosto smentiscono già le previsioni indicando come la ripresa fosse molto più fragile di quanto pensato visto che persino l'economia tedesca ha registrato un valore negativo alla fine del secondo trimestre. Per questo, le previsioni dovranno essere riviste al ribasso rimandando quanto meno all'anno che viene l'avvio di quella ripresa che, secondo quanto scritto dalla Commissione, dovrebbe risultare dalla messa in atto a livello degli Stati membri delle raccomandazioni prescritte.

Non é mia intenzione riportare a questo punto un sunto dettagliato del contenuto del documento, mi limiterò soltanto a segnalare che la Commissione si dimostra preoccupata con la questione della riforma del sistema fiscale a livello europeo, raccomandando quando possibile una riduzione della pressione fiscale sull'impiego di mano d'opera, appoggiando anche l'adozione di riforme del mercato del lavoro che lo rendano più elastico, cambiamenti del sistema pensionistico che renda il sistema a loro intendere “più sostenibile”, raccomandando poi di rimuovere quei sussidi pubblici che risultino dannosi per l'ambiente, di continuare a promuovere il mercato del credito bancario per la piccola e media impresa e lottare contro la disoccupazione vista come la causa maggiore dell'esistenza di sacche di povertà relativa ed assoluta tra la popolazione e soprattutto tra i giovani. Nel proporre queste misure, la Commissione si premura ricordare che tutto deve svolgersi nel rispetto dei parametri concordati per contenere il debito pubblico che non deve oltrepassare il 3% di deficit su base annua ed il 60% del PIL in valore accumulato. Il documento si conclude affermando che seguendo queste indicazioni, la Commissione é certa che l'Unione europea raggiungerà gli obiettivi previsti dal programma Europa 2020. Come già indicato, gli obiettivi Europa 2020 non sono particolarmente audaci, fatto questo consono con le difficoltà dell'attuale congiuntura sia per l'Europa che per il resto dei paesi del mondo. Mentre nell'ambito dell'ambiente e dell'educazione i risultati sin qua ottenuti indicano che gli obiettivi saranno certamente raggiunti e probabilmente superati anche molto prima del 2020, la situazione risulta molto più incerta per quanto riguarda la questione degli investimenti in ricerca e sviluppo dal momento che molti paesi dell'Unione, come l'Italia, sono chiaramente in ritardo. Sulla questione della disoccupazione, l'obiettivo sembrerebbe invece raggiungibile anche se i valori della disoccupazione, soprattutto giovanile rimangono molto elevati. Diverso e più complesso, infine, il discorso sulla riduzione del numero assoluto dei poveri che la Commissione ha quantificato in 20 milioni in meno tra il 2010 ed il 2020 e questo fatto merita un approfondimento.

La questione della povertà in Europa

Parlare di povertà in Europa é cosa difficile perché le disparità tra i 28 paesi sono tali da rendere la questione particolarmente complessa. Iniziamo con il chiarire che si considerano a rischio povertà tutti coloro che si trovino a vivere con un reddito inferiore al 40% della mediana. Per chiarirci, la mediana é quella misura che divide in due parti uguali il campione in osservazione. Nel caso del reddito pro capite, la mediana separa il 50% di coloro che guadagnano di più di questo valore dal 50% che invece guadagna di meno. Si considera quindi che il 40% di questi ultimi sono a rischio povertà ed esclusione sociale. Si considerano poi come poveri in termini assoluti tutti coloro che  abbiano un reddito inferiore al 20% della mediana. Il problema, però, inizia confrontando i valori della mediana del reddito per capita nell'Unione. Guardando soltanto ai paesi dell'area Euro dove la presenza della stessa moneta rende più semplici le comparazioni, si nota l'esistenza di 3 gruppi di paesi, un gruppo con mediana vicino ai € 20.000, tra questi includo anche l'Italia anche se la mediana per il nostro paese é di poco superiore ai € 16.000. Un secondo gruppo che invece ruota attorno ai € 10,500 ed infine un piccolo gruppo con valori vicino ai € 6,000. Informazioni dettagliate su questi dati sono riportate in uno studio della Commissione del luglio 2014 intitolato “Statistiche sugli Standard di vita”. I dati riportati si riferiscono tutti al 2011.

Non é difficile capire che comparando i risultati, emerga che persone che vivano in Slovacchia, per esempio, pur avendo un reddito superiore alla mediana del loro paese, sarebbero considerate a rischio povertà o persino povere in Lussemburgo dove la mediana é la maggiore in Europa. Ma questo varrebbe anche per paesi molto meno privilegiati, come l'Italia, dal momento che la soglia di rischio povertà è nel nostro paese il 40% di € 16.000, ossia € 6.400, cifra che metterebbe più della metà della popolazione estone al di sotto dei parametri italiani di povertà. Ovviamente, questi parametri da soli non riescono a misurare il rischio povertà perché il costo della vita nei vari paesi é ancora molto differente, ma di certo aiuta a capire le ragioni di quelle centinaia di migliaia  di cittadini europei che decidono di immigrare dal loro paese natale verso altri paesi dell'Unione dove sanno che potranno guadagnare cifre per loro impensabili nei posti dove vivono.  Eurostat, il servizio europeo di statistica, pubblica che nel 2012 il totale della popolazione europea a rischio di povertà od esclusione sociale era  maggiore di 124 milioni di persone, una cifra molto maggiore di quella che, sono certo, molti pensavano di trovare nella ricca Europa. Costoro sono il 24,8% del totale della popolazione dell'Unione, un cittadino su quattro é quindi a rischio povertà. L'Europa della zona Euro é leggermente migliore dal momento che soltanto il 23,4% di coloro che utilizzano questa moneta sarebbero a rischio, poco più di 77 milioni. (Tutti i dati citati sono riportati da Eurostat e sono stati aggiornati nel mese d'agosto 2014).  Questi dati accoppiati a quelli che descrivono la profonda divergenza che tuttora esiste tra i livelli di PPS (Purchasing Power Standard) per capita (questo indicatore, usando una sola valuta di riferimento, permette di eliminare le differenze nei livelli dei prezzi tra paesi rendendo possibile una comparazione tra i dati così ottenuti) dimostrano che l'Unione europea ha al suo interno grandi disparità nel tenore di vita della sua popolazione a cui si aggiunge la presenza di una larga parte della sua popolazione che vive in condizioni di povertà. La questione da chiedersi é capire se le politiche della Commissione che sono state approvate dal Consiglio europeo e l'eventuale approvazione di TTIP stiano portando ad una convergenza tra paesi con il fine che nelle prossime decadi si annullino le divergenze tra paesi e si riducano significativamente le disparità sociali esistenti. Questa, a mio giudizio, é la domanda chiave da porsi per capire se l'approvazione del TTIP sia a vantaggio dei cittadini europei o meno. Per questo é necessario analizzare più a fondo il problema dell'ineguaglianza sociale e capire se ci si stia muovendo nella direzione di ridurre il divario tra poveri e ricchi o se, invece, questa divergenza stia crescendo e, se questo fosse il caso, quale ne sarebbero le ragioni.

Come sta evolvendo la disparità sociale nel mondo?

Uno studio pubblicato da Oxfam, la conosciuta NGO britannica, dal titolo evocativo “Lavorando a favore dei pochi” dimostra in maniera direi agghiacciante come le cose non stiano evolvendosi nella direzione sperata dalla Commissione né nel mondo in generale, ma neppure nell'ambito dei 28 paesi membri. Le statistiche sulla disuguaglianza e sulla concentrazione della ricchezza raccontano un'altra storia, una storia dove la divisione tra i pochi che possiedono fortune smisurate e le masse che continuano a vedere eroso il loro benessere continua a crescere. La forbice tra i ricchi ed i poveri continua ad aprirsi. Recentemente, é stato scritto che dieci italiani hanno un reddito superiore a quello di mezzo milione di lavoratori dell'industria, il reddito di 50.000 famiglie per il reddito di una sola, sempre ammettendo che quella persona abbia dichiarato al servizio per le entrate tutti i suoi redditi senza occultarne una parte come purtroppo sappiamo sia pratica comune in Italia. Ugualmente, i primi 85 della lista Forbes delle persone più ricche del pianeta posseggono una ricchezza equivalente a quella di circa la metà degli abitanti della Terra. Vediamo alcuni di questi numeri perché trattando di questi temi, spesso, le cifre si prestano meglio a svelare quello che le parole troverebbero difficoltà ad esprimere con il rischio, poi, che le parole potrebbero essere accusate d'essere ideologizzate, di parte, mentre risulta più difficile squalificare come prevenute o partigiane tabelle numeriche con dati raccolti da enti terzi come l'ISTAT o Eurostat dove si confrontano le cifre per quello che sono dal momento che spesso non richiedono commento.

Il rapporto di Oxfam si trova sul sito dell'organizzazione e la sua consultazione é libera. Il titolo della ricerca é: Working for the Few. Political Capture and Economic Inequality, 20 gennaio 2014. Il rapporto non é molto lungo ed una sua lettura, anche per non specialisti del tema, risulta facile, sempre se il lettore padroneggia l'inglese, perché scritto in un linguaggio di facile comprensione. Rimando quindi, chi volesse farlo al testo originale, per un approfondimento dell'argomento dal momento che per sostenere la mia tesi mi limito, in questo caso, a riportare alcune considerazioni che giudico particolarmente significative ed una breve tabella estratta da uno studio del Credito Svizzero dal titolo molto evocativo: Ricchezza globale, Rapporto 2013 pubblicato nell'ottobre 2013 ed anch' esso accessibile gratuitamente in rete. Anche questo rapporto, scritto da un'ente certamente non sospettabile di particolare sensibilità sociale,, é molto interessante per i dati che contiene e riporta, non ovviamente per smascherare l'iniqua distribuzione della ricchezza, ma per spiegarne la collocazione per regioni, gruppi di reddito ed altre classificazioni.  Lo studio di Oxfam dimostra la sua tesi con una serie di dati che, come spiegato, derivano da documenti ufficiali redatti da entità pienamente attendibili come corporazioni bancarie, organismi internazionali o reputati centri di ricerca. Informazioni sulle fonti si trovano sia all'interno del rapporto che nell'indice delle fonti. Riporto ad esempio, alcuni di questi dati:

  1. Circa il 50% della ricchezza totale é posseduta dall'un per cento della popolazione del mondo. Questa é anche la tesi del movimento Occupy Wall Street che nell'autunno 2011 giunse alla notorietà occupando per circa due mesi il Parco Zuccotti che si trova nelle prossimità della via resa famosa perché sede del Mercato delle Azioni di New York.
  2. Il valore accumulato dei beni dall' un percento dei più ricchi ha un valore di circa 110 trilioni di dollari e questo equivale a 65 volte il patrimonio posseduto dal 50% più povero.
  3. Nel mondo, sette persone su dieci vivono in un paese dove la sperequazione sociale é cresciuta negli ultimi anni.
  4. Mentre in 24 dei 26 paesi più sviluppati, quasi tutti in Europa, l'un percento più ricco ha visto crescere la quota di ricchezza che controlla nel periodo che va dal 1980 al 2012.
  5. La ricchezza dei dieci europei di maggior reddito é maggiore dello stimolo di 200 miliardi di Euro che la Commissione europea ha stanziato per favorire la crescita nel continente.

Queste considerazioni da sole sarebbero sufficienti per dimostrare che nel mondo non esiste un qualche cosa che potremmo definire come crescita equa. Ma per ulteriormente convalidare questa affermazione voglio citare quella che il Credito Svizzero chiama la piramide del reddito.

Livello di Reddito in US $

% della popolazione

% della ricchezza controllata

< 10.000

68,70%

3,00%

10.000 – 100.000

22,9

13,70%

100.000 -1.000.000

7,70%

42,30%

>1.000.000

0,70%

41,00%

100,00%

100,00%

(Global Wealth Report 2013, Credit Suisse)

I dati appena riportati dimostrano che la crescita, quando esiste, non é di certo equa nella distribuzione della ricchezza, come dimostrato nel rapporto di Oxfam e del Credito Svizzero. Ma guardiamo anche alle altre direttrici guida, iniziamo cercando dati sull'impiego dei giovani dove consultando i dati Eurostat troviamo che nell'Europa dei 28 la disoccupazione per il gruppo d'età 15-29 era nel 2005 di 8.116.000. Nel periodo sino al 2008 era diminuita di quasi il 25% per poi impennarsi nuovamente continuando a crescere senza sosta per assestarsi nel 2013, ultimo dato disponibile, al valore di 9.420.000, un milione trecentomila giovani senza lavoro in più di quanti c'erano nel 2005.

Nel campo dell'appoggio alla ricerca, i dati dicono che la media dei 28 paesi destinava soltanto il 2,07% del PIL per finanziare programmi di ricerca ed innovazione, con solo tre paesi nordici in linea con gli obiettivi della Commissione. La situazione potrebbe migliorare nel tempo, ma di certo saranno richiesti sforzi non indifferenti per aumentare di quasi un terzo le spese in questo settore prima del 2020. Interessante notare che sempre per lo stesso gruppo di paesi,cioè l'Europa dei 28, le spese militari assommavano nel 2012 al 5,11% del bilancio statale ben al di sopra quindi di quanto speso per la ricerca e l'innovazione dagli stessi Stati europei che invece assegnavano soltanto 1,41% del bilancio a questi fini. Per correttezza devo menzionare che le spese militari sono diminuite nel periodo 2009-2012 da 8,37% a 5,11% con un aumento però di oltre lo 0,5% tra il 2011 e il 2012.

Non ho trovato dati sui progressi realizzati nell'implementazione dell'agenda digitale europea, quindi non ho elementi per commentare al rispetto. Migliori i risultati ottenuti nel settore energetico dove si può considerare raggiunto l'obiettivo minimo e quindi potrebbe essere ragionevole aspettarsi che prima della conclusione del periodo si raggiungano anche gli obiettivi massimi. Sul ruolo della produzione industriale, l'Europa pur scrivendone nella narrativa dell'agenda 2020, non ha definito obiettivi quantificabili e mete, quindi é difficile valutare i progressi fatti o i ritardi o il peggioramento del settore. I dati che sono riuscito a consultare sia cercando sul sito della Banca Mondiale,  del Fondo Monetario , dell'ONUDI o dell'OECD danno soltanto informazioni indicizzate per paese, che impediscono confronti tra paesi e quindi anche tra regioni dal momento che non sono riuscito a trovare indicatori che esprimessero il valore della produzione accomunato in un unico indicatore, rendendo impossibile verificare se la meta di conservare la quota europea della produzione di beni manifatturieri sia raggiungibile o meno. Infine, nel campo dell'educazione progressi sono stati ottenuti in entrambi i campi scelti e sembra ragionevole assumere che i risultati verranno raggiunti e forse anche superati.

In conclusione, per quanto sono riuscito a dimostrare sembrerebbe che l'Europa dei 28 non sia in linea con gli obiettivi di realizzare una società dove esistano minori discriminazioni economiche tra i suoi membri dal momento che le sperequazioni di reddito sono aumentate con una concentrazione sempre più alta di ricchezza in un numero sempre più ridotto di persone. Spiegando i vantaggi del TTIP, la Commissione europea allude alla possibile crescita del PIL di €119 miliardi nello scenario più ottimistico, ma i dati sin qui presentati dimostrano che se anche questo si dovesse realizzare, a beneficiarne non sarebbero i cittadini, ma i pochi privilegiati che appartengono al ristretto gruppo dell'un percento della popolazione. Per favorirli, i cittadini europei dovrebbero rinunciare alla propria sovranità riconoscendo a soggetti terzi come le imprese multi-nazionali il diritto di mettere sotto accusa presso un tribunale d'arbitrato le leggi di qualunque paese dell'Unione, avendo il potere, se l'arbitrato si risolvesse a loro favore di ottenere la cancellazione di leggi approvate dai vari Parlamenti nazionali o il pagamento di penali. Nulla di questo sarebbe fatto per ridurre la disoccupazione, creare lavoro, migliorare l'ambiente o elevare il tenore di vita, ma esclusivamente per permettere ad interessi privati di migliorare la propria posizione ed aumentare così i propri profitti, tutto questo senza consultare nessuno, senza coinvolgere i Parlamenti Nazionali o quello europeo, ma neppure senza consultare i vari governi nazionali. Si tratterebbe di una decisione presa in segreto tra rappresentanti del governo degli Stati Uniti e della Commissione europea. Francamente non vedo in tutto ciò nulla di democratico in linea con i valori che dovrebbero guidare la costruzione dell'Unione europea. Il TTIP, se verrà firmato ed entrerà in vigore, non riuscirà ad ottenere i benefici per il largo pubblico che promette, contribuendo invece ad accentuare le iniquità sociali ed economiche che stanno da tempo penalizzando i ceti più deboli della società europea.

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