Recensione di Andreina Russo

cinema

FUOCOAMMARE

di Gianfranco Rosi (2016)

Questo film non è un documentario. Non spiega, non analizza, non riporta date né dati statistici, storici o geopolitici. Non vuole parlare al nostro cervello razionale ma a quello emozionale. Non vuole informarci perché l’informazione diluviale che piove ogni giorno su di noi ci ha reso immuni, ha creato assuefazione e indifferenza. Questo occhio fisso, puntato da vicino su uno dei luoghi simbolo di una catastrofe planetaria, vuole risvegliare in noi, per vie sotterranee, occulte, l’antica pietas che sembra averci abbandonato, il sentimento profondo di appartenere ad una comune, dolente umanità. Questo film ha la spoglia poesia del migliore cinema iraniano. Rosi, regista senza fretta, senza ansie da prestazione, lascia parlare le immagini, i volti silenziosi, la terra riarsa di sale e di vento di Lampedusa, gli interni umili o tragici, i sacchi chiusi che celano giovani corpi derubati del futuro, la vecchia isolana che rifà il letto nuziale con la sacralità di un rito infinitamente ripetuto, i bambini che inventano giochi dal niente, il pescatore solitario.

E poi i rumori: il fruscio inquieto delle fronde spazzate dalla burrasca, il monotono tonfo della risacca, il motore dell’elicottero in decollo, lo scoppiettio impazzito del motore del barcone che affonda, il rimbombo dei tuoni dietro i vetri, il risucchio della bocca del bambino che ingurgita gli spaghetti, il vocìo indistinto del Centro profughi. Parole, poche. A che servono le parole, quando quello che vedi, tra un cielo e un mare sempre grigi di un inverno impietoso, ti tiene lo stomaco serrato, il respiro sospeso, le lacrime sull’orlo delle ciglia, sempre lì lì per sgorgare?
Le navi militari si confondono grigie con le acque ora calme ora furenti, gli elicotteri frugano il mare con i loro fasci di luce, mille uomini si affaticano sulle motovedette, nelle torri di controllo, sui grandi gommoni del soccorso. Non ne vedi i volti, non ne senti le voci, ma vedi i loro gesti, il chinarsi per tirar su un corpo senza sapere, ancora, sé è di un morto o di un vivo, il prendere in braccio un bambino girandosi indietro per vedere se la madre è lì, lo segue e non lo perde nel caos dello sbarco. Si distribuiscono i sottili teli dorati che crepitano nel vento, e i neri uomini venuti dal mare vi si drappeggiano intirizziti, trasformandosi d’un tratto in antichi, barcollanti re, sbarcati dai mondi del mito alla spiaggia brutale della realtà.
Intrecciata senza mai toccarsi con l’epopea tragica si svolge la vita di Samuele, ragazzino di Lampedusa, figlio e nipote terragno di razze di pescatori. E’ lui che ci apre lo scenario dell’isola. Nella prima sequenza si arrampica su un immenso albero nano, articolato in rami contorti modellati dalle tempeste, un groviglio così fitto e tortuoso che pensi subito sia stato scelto da Rosi per simboleggiare questa vicenda estrema, in cui i destini di migliaia di uomini si intersecano in un nodo inestricabile e fatale.
Ma qui non ci sono i forti e i deboli, ci sono solo uomini immersi ogni giorno e ogni notte nell’immane fatica di vivere, guardati attraverso un obiettivo che vuole essere neutrale e comunica invece una sconfinata pietà.

Due soli personaggi, autentici, rappresentano ed esprimono a parole il dolore universale: da una parte il ragazzo nero che, sullo sfondo di una nenia africana cantata dai compagni, dà sfogo all’ angoscia rievocando le tappe del calvario attraverso il deserto e il mare, dall’altra il medico-eroe, il vecchio medico di Lampedusa che ha accolto e visitato un enorme numero di migranti, e accanto alla contentezza provata per ogni vita salvata, racconta l’orrore della morte, gli incubi che lo ossessionano ogni notte per quello che gli tocca vedere ogni giorno. “Non ci si abitua, no, non ci sia abitua mai davanti a un bambino che muore.”
Le donne tacciono: nel chiuso delle povere case dell’isola in cui hanno saputo creare per i loro uomini piccole, modeste oasi di pace e di conforto, o nel ventre delle navi di soccorso, sedute una accanto all’altra, infagottate nelle vesti inzuppate, abbracciate ad asciugare lacrime amare di quelle che piangono in un silenzio desolato, senza luce.

Sul grande albero storpiato dai venti Samuele si diverte solitamente a colpire con la fionda gli uccellini nei nidi nascosti, ma nell’ultima scena è lui, ancora una volta, ad accompagnarci fuori, verso la nostra vita di ogni giorno, regalandoci come viatico un piccolo segno di speranza: rinunciando alla fionda, il bambino lancia il solito richiamo all’uccellino solo per localizzarlo, avvicinarlo, intessere con lui un misterioso , tenero dialogo. Un messaggio? Un suggerimento?

Il linguaggio cinematografico di Rosi è sobrio, intenso, tutto giocato su una fotografia che tende a fissare e quindi a trasformare in vere e proprie icone, immagini semanticamente fortissime, nonostante, o forse proprio a causa, della loro apparente nuda semplicità. Uno stile ed una sensibilità che ci riportano prepotentemente alle scarne, indimenticabili sequenze del miglior neorealismo italiano.

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