LA MORTE APPARENTE DEL GLOBALISMO, di A.Placido

La competitività senza esclusione di colpi raggiunge e supera facilmente le soglie della criminalità.

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Capitolo  1              Otika
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Bene, o male?
 Otika, 10 ottobre 1987, 5,45 del mattino
 
Cos’è stato?
Apre gli occhi di colpo, decifrando nel buio, in alto, il nodo chiaro della zanzariera. Il sole non è ancora riuscito a vincere la sua battaglia con la notte. Un silenzioso velo di nebbia continua a coprire le capanne di Otika. Solo una striscia di rosa si staglia nel blu profondo del cielo, dalla parte del fiume.
Ecco di nuovo quel suono misterioso, come se qualcosa o qualcuno scavasse nella parete di canne della capanna, dietro la sua testa. Non sará il guacamayo da sempre appollaiato sul ramo dell’albero di mango, che adesso si pulisce il becco? No, non l’ha mai fatto a quest’ora. O non sará, piuttosto, un topo che cerca di entrare nella cisterna, e finisce con l’affogarci, come quello dell’altra notte? Ma no, è qualcos’altro…. cosa?
Silenzio. Eccolo, lo sente di nuovo. Peró adesso non è solo un rumore. Qualcosa di duro e freddo le sfiora la nuca. Metallo. La canna di una mitragliatrice è riuscita a penetrare in una fessura della parete, le fruga tra i capelli, gela il suo sudore, annienta i suoi pensieri.
Ora, un calcio tremendo spalanca la porta. FUORI!!!! Grida una voce, subito sovrastata da altre voci.
Le voci entrano, invadono il buio, circondano la zanzariera. Cade una sedia. Un’imprecazione. Lei trattiene il respiro, mentre sette mitragliatrici la spintonano verso il centro del letto.
Ah, era questo il sogno di Matias. É toccato a me, allora. Una fitta lancinante al costato.
Sono usciti dall’incubo e sono diventati veri, i terrucos. Irrompono nel buio, e si fanno chiamare Sendero Luminoso. Da anni scendono giú dalle montagne, a piccoli gruppi, a rompicollo. Riuniscono la gente delle comunitá, diffondono il loro verbo rivoluzionario con canti e bandiere, e poi finiscono la cerimonia sgozzando qualche autorità corrotta. Cosí, almeno, dicono. Di sicuro c`é bisogno di pulizia, da queste parti. Come no. La gente finisce con l’applaudire le esecuzioni. Qualcuno si nasconde per vomitare, qualche altro deve tirare il collo alle galline, per rifocillare i giustizieri. Senza dubbio, sanno farsi ubbidire, i terrucos.
Ma qui, come sono potuti arrivare? Tutti si passano la voce, nel fiume, quando si avvista un’imbarcazione estranea che scende giú dalle gole dell’Ene, per continuare nelle curve del Tambo. E ieri non c´è stata nessuna voce rotta dall’ansia e dalla fretta, che lasciasse volare nell’aria il terribile avviso: “Arrivano i terrucos!” Eppure sono qui. Piombati all’alba in questa remota comunità situata al centro del tumultuoso Tambo, nel cuore del territorio indigeno ashaninka. Solo 500 km. lo separano da Lima. Ma la capitale, come diceva l’esploratore tedesco Von Humboldt, è piú lontana dalla selva che la stessa Amburgo.
Il tono delle voci va crescendo. “La gringa sfruttatrice del popolo, dev’essere giustiziata!”. Adesso è un coro, scomposto e violento, che l’avvolge nell’ombra.
E lei si sente assalire da una rabbia lucida, cristallina.
-Vengo, vengo!…un momento, che prendo le sigarette- risponde con una calma aspra, infilandosi i pantaloni. La borsa di tela rossa la tiene in fondo al letto. Sí, quella con la sua riserva di pacchetti per tutto il mese. L’afferra rapidamente e se la mette al collo, prima che qualcuno glielo impedisca.
-Andiamo al centro sanitario, gringa sfruttatrice del popolo!- vociferano adesso le ombre. Quattro braccia dure la trascinano fuori della capanna. Il soffio fresco della mattina la saluta con una carezza improvvisa sulle guance brucianti. Un’altra striscia arancione si è aggiunta a quella rosa che sovrasta il profilo scuro della selva.
-Per di lá! - Due giovani la trascinano verso il centro sanitario, al fondo del grande prato verde che di sera si trasforma in un campo da calcio. Gli altri terrucos li seguono gridando slogans. Indossano pantaloni scuri e magliette consunte. E un passamontagna di lana nera, in testa. Sulle pareti del centro sanitario, una grande scritta irregolare, ancora fresca di pittura, proclama: “Viva il presidente Gonzalo! Viva la lotta armata!”
-Sará il popolo a processare la gringa!- grida il giovane che sembra il comandante. E´ un ventenne dai lineamenti marcati e dagli occhi scuri e piccoli, penetranti.
- Svelti, andate a riunire il popolo che dovrá giudicarla!
I giovani armati si spargono di corsa nei sentieri che portano al fiume, dove si affacciano alcune capanne. Uno di loro si piazza al lato del comandante.
Ma del popolo asháninka non c’é traccia. Le capanne sono deserte. Nei viottoli verso il fiume, neanche un’anima. Solo, dal sentiero che viene dalla selva stanno scendendo tranquillamente due paesani, con la loro cushma d’un marrone rossiccio, e due pernici in una cesta. Quando sono a un centinaio di metri di distanza, Marianna li riconosce. Sono Ivan e Sebastiano, padre e figlio, due cacciatori che vivono a vari chilometri dalla comunitá, in una capanna isolata su un’altura, dove la selva è piú fitta. Compaiono a Otika di tanto in tanto, per scambiare la loro cacciagione con un po´ di yuca. Hanno pochissimi contatti col mondo estraneo che ribolle al di lá del fiume. Perché mai dovrebbero averlo, pensano, se la loro abilitá di cacciatori gli permette di vivere liberi e ben nutriti? Parlano solo la loro lingua, e dello spagnolo dei meticci conoscono solo due parole striminzite ed essenziali: “sí”, e “no”. Quando s’incrociano con lei, ad Otika, si scambiano sempre qualche battuta scherzosa in asháninka: mai, piú di due o tre frasi alla volta. Ma adesso, sono loro a dover giudicare la gringa-sfruttatrice di popoli. “Processo?” “Gringa?” Non hanno mai sentito queste parole. Cosa vorranno dire? Ivan e Sebastiano si scambiano un’occhiata spaventata. Ma non è il momento di far domande. Le canne delle mitragliatrici li dirigono a spintoni verso il centro sanitario. Il linguaggio delle armi, quello sí che è chiarissimo.
Mezz’ora dopo, i sette senderisti danno il via al “processo del secolo” contro la “sfruttatrice del popolo” Marianna Dori in Weiser, di nazionalitá italo-tedesca e residenza peruviana, laureata a Cambridge con una tesi sulla poesia di Shakespeare, e con due figli e sei lingue nel suo curricolo: ma per loro, solo una generica “gringa” con una frangetta sudata, sotto la stretta vigilanza di una mitragliatrice al fianco sinistro, e di un fucile al fianco destro. All’orizzonte continuano a non apparire popoli infuriati.
Di fronte alle armi, sono solo sette i paesani che, dei 150 abitanti della comunità di Otika, i senderisti son riusciti a mettere insieme a forza di botte e spintoni, e adesso sono lí in piedi, aspettando immobili l'inizio del processo, zitti come topi. Meno un neonato che piagnucola infastidito.
Dei presenti, solo due sono gli Asháninka: gli altri sono meticci che lavorano nel progetto educativo-sanitario che opera nelle 22 comunitá del Tambo: un sociologo di Huaraz, un maestro d’origine giapponese, un guardiano di Iquitos. Di donne asháninka, neanche una.
-Compagni!- Il comandante politico comincia la sua predica, col passamontagna calato sulla fronte. Il sole che ha dissolto la nebbia, adesso si sta facendo feroce.
-…Compagni, l’ora della liberazione è arrivata, sotto la guida della quinta spada della rivoluzione mondiale, il nostro gran presidente Gonzalo, che segue il sentiero luminoso di José Carlos Mariategui. Una lotta di liberazione che andrá dalla campagna alla cittá, spazzando via nel suo cammino le sanguisughe che sfruttano il popolo, le autoritá corrotte che vivono alle loro spalle, per rubargli, e ingrassarsi alle sue spalle, e arricchirsi…! Eccone qua una.
-Kaypy tiyani. Sono qua- Marianna prende la parola in quechua, la lingua parlata dai senderisti andini, senza che nessuno gliela dia. Con una e tanta rabbia lucida, che potrebbe riempire il cielo.
Che mi ammazzino, se vogliono. Marianna Weiser si mantiene eretta di fronte a queste fredde canne di metallo.
-Kay hatuspi tyani. Vivo in quella capanna, come la gente di qua. Ho lavorato anche nelle Ande, perché i bambini di comunitá povere e remote come questa, possano ricevere un’educazione che si possa dir tale. La mia maggiore ricchezza è poter condividere la vita con questi che considero fratelli, gli Asháninka. Che siano loro a giudicarmi.
-Giusto, siamo qui per questo- ribadisce il comandante.-Si facciano avanti gli Asháninka che devono dare il loro verdetto!
Due giovani armati spingono in avanti Ivan e Sebastiano.
-Allora, come vi sta trattando la gringa? Bene o male?
La domanda cade, nitida e oscura, davanti agli occhi spaventati dei due cacciatori.
Il silenzio si diffonde tutt’intorno, immobilizzando volti, alberi e fiume.
-BENE O MALE?- ripete piú forte il comandante.
Ancora silenzio. Tutti trattengono il respiro. Sebastiano e Ivan sembrano aver perso la parola. Stanno guardando in basso intimiditi, con la fronte aggrottata.
-“Bene” sará “kametza”, o “tekametza”?- sussurra Ivan a Sebastiano.
Marianna gli osserva le labbra e capisce cosa si stanno dicendo. E di colpo di rende conto, atterrita, che i due cacciatori monolingue asháninka non conoscono in spagnolo il significato di “bene” e “male”.
La sua vita adesso pende, come un filo, dalla parola di una lingua sconosciuta che due indigeni pronunceranno. Forse a caso, forse tirando a indovinare.
Cosa diranno questi due asháninka appena arrivati da una notte di caccia, piú abili nel decifrare il linguaggio degli animali che lo strano idioma dei meticci: a favore o contro la gringa venuta da cittá lontane, con fontane zampillanti e lucide biblioteche?
Nonne dai capelli rosa, amori e lacrime, e poi, in questa parte del mondo, gente, fiumi e altipiani assolati..., la sua vita così intensa, che adesso è diventata disperatamente bella, può sfumare entro pochi minuti in un devastante, vertiginoso niente.
Marianna chiude gli occhi. Vengono a lei paesaggi, momenti, volti intensamente amati. Markus..., Umberto..., Amadeus.... Parma, Milano, Innsbruck, Berlino, Iribamba, Puno. E selva, selva, selva. Li rivisita, li ripercorre, li assapora tutti. Vengono, prima che cada sulla sua testa la parola di condanna o salvezza.
Se Ivan e Feliciano ricordano giusto, giusto in questo momento, la parola che traduce per loro kametza.
Sará “bene”, o “male”? 

 

farfalle1Capitolo  2.     Camminando sul filo dell’abisso
Sono scesi a piedi dalle Ande fino alla selva e la costa, portando slogans e fucili, questi ragazzi dai capelli corti e spinosi. Camminano di notte, silenziosi, stagliandosi come un rosario nero in movimento, contro il cielo rosso e viola del tramonto, fino a confondersi con le montagne scure, sotto lo sguardo gelato delle stelle.
Sotto quelle stesse stelle, una fila di indios saliva, anni fa, sui fianchi scoscesi dell’Ausangate, nell’antica festa del Koyllur R’iti, o Stella della Neve.
Confusa fra di loro, io vivevo un’iniziazione.
“Siete pronti? Bene! E ricordatevi che piú che una festa, il Qoyllur R’iti è un durissimo pellegrinaggio, che esige condizioni fisiche ottimali e una fede a tutta prova.”
Il nostro professore di quechua sta dando le ultime raccomandazioni a un gruppo selezionato di alunni, riunito in un piccolo hotel di Cuzco, deciso a seguirlo nell’impresa. Hilario ha un viso dai lineamenti nettamente andini, con zigomi pronunciati e occhi nerissimi. Mancano poche settimane al mio ritorno a Berlino (Berlino? Ah giá, vivo a Berlino). Per essere sinceri, non credo di essere in perfetta forma fisica, né di avere una fede incrollabile, come suggerisce Hilario, anche se, questo sí, sono testarda come un mulo (potrá servire?). Ma prima di poterci ripensare, mi infilo silenziosamente nel fiume di gente che sale sudando sui sentieri ripidi dell’Ausangate. Sará un sacrificio per espiare i loro peccati? Mi chiedo. Forse sí, ma non solo. Nelle falde della montagna, i pellegrini solleveranno alcune pietre, le trasporteranno piú in alto, e in uno spiazzo battuto dai venti, le useranno per disegnare quello che piú gli importa nella vita: formarsi una famiglia, possedere una casa o un negozio, comprare un camion o una camionetta, arrivare ad essere un buon professionista.
-Perché la cerimonia si realizza proprio in questa montagna?-chiediamo a Hilario mentre cominciamo a salire.
-Perché in quello spiazzo d’erba dura si crea uno spazio simbolico in cui ognuno si apre alla dimensione del sacro, e giura a se stesso e a Dio di impegnarsi a fondo per realizzare i suoi sogni. In quel luogo c’é una pietra che consideriamo sacra, con un’immagine cristianizzata che chiamiamo il Signore di Kollur R’iti., o Stella della Neve.
Ma la tradizione del pellegrinaggio è ancestrale. La montagna, come ricorderete, è simbolo di comunicazione fra dei e mortali, fin dai miti di Babilonia, Persia, Liberia, India e Caucaso. Il monte Ararat per Noé, il monte Sinai per Moisés, Il Tabor e il Golgota per Gesú, furono luoghi di trasfigurazione e conoscenza mistica. Nell’Ausangate, nelle notti piú limpide la neve riflette le stelle, e in questo brillio puoi decifrare la tua missione nella vita. Guardando dentro di te, camminando, pentendoti dei tuoi errori, entrando in uno spazio interno di estasi, poco a poco la tua missione diventerá chiara e limpida. Come quelle stelle”, conclude Hilario.
I suoi ascoltatori, tutti studenti giovani, si scambiano qualche sguardo incerto.
Ed io? Ho anch’io una missione? Non me lo sono mai chiesto, per la veritá. Anzi, questo linguaggio mi sembra altisonante ed eccessivo: non amo parlare di me con toni messianici. In questo momento, sento solo che devo fare un’esperienza anonima e solitaria, in mezzo a un fiume di gente che spera con tutta l’anima che la sua vita migliori. Ma a mio ritmo.
Davanti ai miei occhi si sta sgranando una lunga fila di contadini, con ponchos e berretti colorati, candele e tamburi, che si inerpicano con passo rapido sulla montagna. Io li seguo piú lentamente. La scena poco a poco va acquisendo toni epici. E mi vengono in mente le immagini di migliaia di marce che hanno sollevato la polvere di tanti sentieri nel mondo, lungo i secoli… quanti eserciti si sono aperti il cammino in pianure sconfinate, o ripiegato sconfitti lasciando dietro di sé cumuli di cadaveri... quanti ebrei marciando verso lo sterminio, quanti schiavi sfuggendo alle loro catene nelle selve, e pionieri coi loro carri cigolanti nelle praterie, e immigranti ansimando sfiniti nei deserti, alla ricerca di lontani miraggi…e nomadi ondeggiando sui cammelli, e pellegrini con gli occhi ardenti puntati verso la Mecca,... e alpinisti conquistatori di tutte le cime, di tutti gli eureka!
Mi unisco alle marce del mondo, alla sua storia di sogni e sconfitte, marciando tra le candele tremolanti dei quechua. In alto. Piú in alto.
Passo dopo passo, vedo poco a poco che la base si allontana, il panorama si fa piú grande, l’aria piú fina. Il sole incendia il tramonto e poi si lascia inghiottire dalla montagna. Qua e lá sulla terra secca compaiono le prime macchie di neve, dura, bianca, azzurrina. Le candele si accendono gialle, nel blu intenso della notte. I tamburi tacciono. Tacciono gli uomini, tace l’universo. Mi fermo un momento, per assorbire questo frammento di straordinaria bellezza, in un silenzio magico. E poi riprendo la marcia, in alto, sempre piú in alto, sentendo solo il mio respiro che bagna ritmicamente la sciarpa. Piú in alto, piú in alto, passo dopo passo. Lá sopra, nel freddo, mi aspettano solo stelle e neve.
Quattromila metri.
Ora mi trovo a camminare sul filo di un precipizio ghiacciato, dove altri passi hanno aperto un piccolo sentiero scivoloso. Lá in fondo, lontano, oltre l’oceano e la nebbia, in una pianura piena di case e industrie, a migliaia di km di distanza, mi sta aspettando la mia famiglia. Se penso a Markus e ai miei figli, immagino la loro disapprovazione. Dove sei andata a finire, mamma? Rischiare la vita per cosa? Non pensi a noi? Mi sgrida Elisa. Marianna, sei impazzita? Mi rimprovera Markus. Io mi sento tremare e vacillo, sentendomi chiamare da quel vuoto immenso e affascinante, lá sotto. Sí, sono arrivata fin qui, appena sotto queste stelle gelate, cosí brillanti che quasi le posso toccare con la mano. E non posso far altro che avanzare.
Tacete tutti, vi dico. Tutti chi? Risponde solo il silenzio della neve. Se non c’é nessuno… É la mia mente, allora, che crea fantasmi. Shhh, Marianna, va tutto bene, respira. La mente si calma. E al calmarla, sento una forza tranquilla che mi fa avanzare, un passo dietro l’altro, fissando lo sguardo su una stella lá sopra, come guida, invece che sull’oscuritá insidiosa del vuoto, lá sotto.
“Qualcuno é caduto qualche ora fa, da questo sentiero”, sento che mormorano alcuni pellegrini. “Certo. Qualcuno deve sacrificarsi per la montagna”, ripetono in quechua.
“No, é caduto chi non aveva abbastanza fede”, ribattono altri.
Com’é ancora forte nelle Ande, penso, questo tema del sacrificio. Gli Incas nei periodi di calamitá offrivano alle montagne una o piú ragazze nobili, fiori teneri della loro gente, per placare le forze oscure della natura e salvare tutti gli altri. Non solo nelle Ande, peró. Nel cattolicesimo, la figura di Cristo é quella che soffre in carne propria la crudeltá del potere terreno, e si carica delle colpe di tutta l’umanitá per salvarla. L’agnello di Dio, che si sacrifica in croce, è un simbolo che non deve risultare estraneo alla mentalitá andina.
Scendo in silenzio, riflettendo. Desideri, stelle. E una quota di sacrificio, nel mezzo. Quanto saró capace di sopportare, per raggiungere la mia stella?

 

farfalle1Capitolo 3.   Farfalle rosse
È stato un pomeriggio di dodici anni fa quello che, senza che me ne rendessi conto, dette una svolta al mio destino. Il giorno in cui ebbi un incontro sorprendente: piú che con una persona, con un mondo. Quello che da sette anni è il mio mondo, e adesso è diventata la mia trappola: la selva. Sono finita nella tana del lupo, come un insetto dentro uno splendido fiore carnivoro.
Si avvicina a grandi passi il mio viaggio di ritorno a Berlino. Mancano solo 18 giorni, un soffio. E oggi, sulla strada che scende serpeggiando verso il bassopiano amazzonico, vedo una scritta su un camion: Rio San Francisco. Parte fra un quarto d’ora, mi dicono. Va alla selva. La selva! Questa foresta smisurata, cosí pericolosa e magica nei racconti (sicuramente esagerati) dei pochi che ne hanno conosciuto qualche frammento. Devo andare, fosse solo per un’ora, fosse solo dall’alto, a vederla.
Ritorno in fretta nella casa decrepita di don Lucho, attraverso di corsa il cortile dove agonizza una pianta di fichi, tolgo il chiavistello dalla mia stanza dove sono ammassati un letto monumentale che ha visto gioie e dolori di almeno cinque generazioni, un armadio dalle ante cigolanti, e un comó dai cassetti per lo piú irrimediabilmente incastrati….Prendo il mio zaino, apro impaziente i due cassetti ancora funzionanti, e tiro fuori un po’ di biancheria alla rinfusa (sicuramente i calzini sono spaiati, ma non ho tempo di sceglierli), ah, la pila dove l’ho messa? Quella è indispensabile. La trovo in fondo all’armadio, sotto un cumulo di coperte, e poi schizzo in cucina a prendere una scatola di fiammiferi e un coltello, alcune patate disidratate, e… giá, mi serve il dentifricio!…quindi faccio dietrofront, riattraverso correndo il cortile, prendo la via del portico dribblando fra sacchi di cemento, per arrivare a un bagno di recente costruzione, con le piastrelle ancora malferme… prendo in volata spazzolino e dentifricio, mi sembra che ci sia tutto, o quasi,… e allora via col vento! …Don Lucho, dalla sua poltrona di cuoio di Castiglia mi fa segno con la mano di fermarmi-ascoltarlo- perché deve-sconsigliarmi, ma io gli grido che VADO ALLA SELVA e sparisco di corsa dalla sua vista prima che possa aprir bocca.
Sulla curva per fortuna, uff, il camion c´è ancora! col motore acceso, e l’autista che suona impaziente il clacson per richiamare gli ultimi ritardatari. I campesinos arrivano correndo, coi sacchi di patate che gli ballonzolano sulle spalle, mentre le mamitas si si stringono al petto le loro borse dove custodiscono un paio di galline spaventate, dal becco legato. Tutti quanti saliamo sul rimorchio, accomodiamo alla bell’e meglio sacchi e galline, e diamo un’occhiata al cielo con poche nuvole. Speriamo in bene! Alcuni si fanno il segno della croce, me lo faccio anch’io, non si sa mai, e via, verso il fiume San Francisco! Verso l’Amazzonia di selve e popoli misteriosi, foreste impenetrabili e serpenti giganteschi. Mi aspetta un paradiso o un inferno verde?
Il camion comincia ad avanzare sobbalzando sulle buche di una strada sterrata (abbassate la testa per evitare i rami!) sfiorando una vegetazione che si va facendo sempre piú esuberante, di un verde sempre piú intenso. Qua e lá, le improvvise pennellate lilla, gialle e rosa delle orchidee.
-E queste piante come si chiamano? (cacao), e queste? (caffè) –chiedo ai miei silenziosi compagni di viaggio. Finalmente sto arrivando all’Amazzonia sognata dalla mia bisnonna Elisa Pallavicino, penso chiudendo un attimo i miei occhi ubriachi di verde. Ogni tanto il camion rallenta, raccoglie un paio di passeggeri, ne scarica altri due o tre, carica un bidone di gasolio o un sacco di cemento, scambia due parole con un poliziotto o un commerciante, e arranca di nuovo, sollevando un polverone.
Ma, poco prima di far sosta nella comunitá meticcia di San Francisco, il veicolo sussulta un attimo e poi s’inchioda nel fango. Fine del viaggio, ci dice seccamente l’autista, buttando lontano con rabbia una lattina vuota.
-Giú tutti quanti! La strada é interrotta, l’avete capito sí o no?- ci avvisa. I campesinos ubbidiscono senza fare commenti, scaricando fagotti, galline e patate, per sparire chissà dove. Io rimango lí sul rimorchio, come se non avessi sentito. Non è possibile che finisca tutto, prima ancora di cominciare. Accidenti.
-Ehi, signora, deve scendere! Come glielo devo dire? –mi sgrida l’autista. – Ci sono SEDICI frane lungo il corso del San Francisco, non si puó proseguire. Mi sono spiegato?
- E…quanto tempo ci vorrá per sbloccarle? – chiedo sconcertata, guardando con poco entusiasmo, lá in fondo, alcuni tetti di alluminio che sbucano nella vegetazione che costeggia il fiume. L’autista fa un gesto vago.
-Se riescono a spazzar via una frana al giorno, occorreranno un quindici giorni almeno -decreta dopo aver fatto i conti.
Raccolgo lo zaino rassegnata e mi avvio camminando verso il fiume San Francisco. Che ci faccio adesso, bloccata per due lunghissime settimane in questo buco in fondo al mondo? Mancano solo diciotto giorni al mio viaggio di ritorno a Berlino. Posso perdere il biglietto per un nonnulla.
Questa proprio non ci voleva, brontolo fra me e me. Il paesucolo di capanne di legno che si sgranano sul fiume, mi si presenta ora davanti agli occhi in tutto il suo squallore. Le case sono costruite con pezzi di legno raccolti chissà come e chissà dove. Panni stesi qua e lá, copertoni di camion buttati lí in disordine, cani giallognoli in vena di poche amicizie. Mamma mia. Dovró passare questi quindici giorni in una stanzuccia soffocante presa in affitto, ammazzando noia e zanzare? Dicono che le motonavi che scendono lentamente sul San Francisco arrivano a Iquitos in tre settimane... troppo tempo. Non posso correre altri rischi, cambiando itinerario. Insomma, sono impantanata qui, che lo voglia o no.
L’unica è scendere un attimo a rinfrescarmi nelle acque scure del fiume, chissà che non mi venga qualche idea geniale per scappare via. Il fiume scorre, silenzioso e indifferente. Il fondo è soffice e fangoso, e inghiottisce subito la visione dei miei piedi scalzi. Smuovo le dita per ricordarmi dove li tengo. All’improvviso, sento delle voci che provengono dall’altra riva. Richiami, risposte. Allora, si potrá…?
-Sí, signora, il fiume si puó attraversare, questo sí. Peró dall’altra parte é territorio asháninka, non mi dica poi che non l’ho avvisata- mi fa sapere il padrone di “Oli lubrificanti Alvaro”, un magazzino dal pavimento di un nero grasso e scivoloso, piantato sul bordo della riva, mentre si scaccia una mosca dal naso.
- E allora?
- Allora niente, io gliel’ho detto. Faccia lei.
- Beh, grazie. Io voglio andarci.
Mi guardo intorno, ma non vedo un’anima viva con cui condividere il viaggio all’altra riva. Però è appena comparsa da dietro la curva un traghettatore. Un meticcio magro, dalla pelle accartocciata dal sole come quella di un coccodrillo, sta aspettando sul fiume, forse da tempi immemorabili, che qualcuno salga sulla sua zattera.
-Andiamo, su!- mi invita il Coccodrillo prendendomi energicamente la mano.- La porto io.
Mi sento vagamente inquieta. Non solo per queste acque agitate. Sono l’unica passeggera sulla zattera. Via, basta farneticare, Marianna, mi dico mettendo piede su quest’imbarcazione minimalista, che comincia a zigzagare fra i mulinelli. Non volevi conoscere l’Amazzonia? Eccola… ma adesso devo concentrami per mantenermi in equilibrio su questi quattro tronchi di legno leggero che sfidano i capricci della corrente.
-Adiós- Mi saluta brevemente il traghettatore-Coccodrillo, dopo aver accostato la zattera alla riva. Anzi, l’ha giá girata e fa per andarsene.
-Ehi, ehi! Ma adesso dove devo andare? -protesto.
-Sempre a dritto, per là.- Mi risponde vagamente l’uomo.- camminando svelta arriverà in mezz’ ora, più o meno.
-ARRIVERO’ DOVE?- gli grido da lontano. Ma il traghettatore è giá fuori tiro. Ehi, che fretta. Neanche avesse una fila di gente ad aspettarlo. Me la devo cavare da sola, insomma. Adesso devo arrampicarmi su un dirupo di fango, e una volta sopra, imboccare un sentierino che si apre in mezzo alla vegetazione. E poi, camminare una mezz’ora, almeno è quello che ho capito. Una mezz’ora non è la fine del mondo, coraggio.
Invece, dietro la prima curva, sento una voce che mi intima ALT!. Due uomini sbucano adesso dagli arbusti puntandomi addosso arco e frecce. Indossano una tunica marrone-rossiccio e mi guardano ostili.
-È armata?- mi chiedono in uno spagnolo sforzato.
-Chi, io?…- rispondo. Mi verrebbe da ridere, ma non è il caso. Mi metto a frugare nello zaino, e tiro fuori il pacchetto delle mie patate disidratate.
-Armi non ne ho, ho queste. Ne volete?
Un po’ di gentilezza non guasta mai. O almeno.
-Va bene, andiamo, -rispondono brevemente gli uomini, precedendomi sul sentierino, col pacchetto di patate in mano. Adesso sono loro ospite, suppongo. Salvo sorprese. È la prima comunitá asháninka che ho la fortuna di conoscere. Sono un po’ emozionata, non lo nego. Ma non immagino che la scena che mi aspetta mi possa lasciare senza parole.
La luce dorata del pomeriggio avvolge una folta vegetazione che si riflette sull’acqua calma, rotta a momenti dagli schizzi allegri dei bambini che vi saltano nudi. Da una collina scendono le donne sostenendo con una corda vegetale legata alla fronte il loro carico di yuca. Non sembrano troppo affaticate. Dalla foresta o dal fiume, arrivano gli uomini scherzando fra di loro sulla selvaggina catturata. Tutto pare fluire senza ostacoli, in un’atmosfera rarefatta. Dio, sono finita in un film? Mi chiedo. Tre o quattro capanne di legno, con tetto di foglie di palma, si affacciano su un grande spiazzo verde.
Mi fanno sedere su una panca di fronte a una delle case. Mentre le osservo, mi si avvicina una donna dalla tunica marrone, e i capelli lunghi e neri, porgendomi una ciotola di masato, a mo’ di benvenuto. È la bevanda di yuca fermentata che alle donne costa giornate intere di preparazione. La offrono ai loro mariti e agli ospiti, per dissetarli, nutrirli e rallegrarli. Io la trovo di sapore sgradevole, ma devo berla sorridendo, per dimostrare che accetto il loro invito. Dopo qualche minuto, la donna torna a ritirarmi la ciotola da cui ho bevuto. Sulla pelle tersa e liscia del suo viso vedo disegnate due farfalle rosse. Il rosso é prodotto dal seme di achiote, una pianta selvatica con proprietà coloranti. Resto un attimo in silenzio, rendendo omaggio a quell’immagine d’inconsapevole bellezza.
-Belli i tuoi disegni- commento semplicemente. Lei mi guarda timida, poi si sfila dalla testa la sua collana di semi e me la pone al collo, con un sorriso senza tempo. È come un’illuminazione. È possibile, allora, vivere con meno cose e piú serenitá, scopro meravigliata.
Questo sorriso mi verrá a mente, molte volte, nel viaggio di ritorno, mentre cammino nel fango delle frane... Un giorno, non so come e non so quando, devo tornare qui. Devo tornare qui. Anche solo per un’ora.
Don Lucho, preoccupato per la mia sparizione, quando ricompaio a Iribamba con gli stivali infangati e piena di graffi (avevamo dovuto aggirare la carrozzabile bloccata dalle frane con percorsi alternativi in mezzo alla vegetazione) festeggia il mio ritorno alla civiltà rispolverando per farmi festa l’ultima bottiglia di un’orribile malvasia, ormai inacidita. Ma tant’è, devo sorridere. Di dove mai sarà spuntata quella bottiglia? Evviva, evviva. Alzo il bicchiere e vado a sputare di nascosto su un cespuglio nel portico quel liquido letale. Due giorni dopo mi tocca riprendere l’aereo per tornare in Germania. La mia ricerca é finita, e devo consegnare all’universitá i risultati. A Berlino mi aspetta un’altra festa dove familiari e amici   mi ricevono con champagne e caviale. Ma con meno entusiasmo.
-Sei diventata una comunista sfegatata, adesso? - mi rimprovera Markus, gettando acqua sul fuoco dei miei appassionati racconti andini.
-Sei stata anche fra i selvaaaaggi, quella gente vestita solo di piume?- mi chiedono le altre mogli di dirigenti, senza aspettare la risposta, occupate come sono a parlare del prossimo concerto o dell’ultimo modello di lucidatrice.
Io mi sento un’altra. E per la prima volta, stranamente fuori luogo in questa foto di gruppo che finora é stata la mia vita. È la foto che si sta ingiallendo, o sono io ad essermi sfocata? A volte, nella Potsdammer Platz, mi scopro a ricordare con nostalgia il profumo di eucaliptus, e i fuochi accesi sotto le stelle.
Con Markus, sembra sempre piú difficile capirsi. Sia quando parliamo di ció che agita il mondo, o del piccolo e agitatissimo mondo della nostra relazione. Sará sesso, amore o Edipo con sua mamma o sua nonna, sono stufa del Comitato di Dame della sua agenda, di questo esserci e non esserci, delle sue sparizioni dopo cena, senza una parola. Ma per fortuna, per fortuna! ho i miei giovani amici: Ingrid, Claudia, Dieter, Amadeus, con cui posso parlare di tutti i temi del mondo. Sí, almeno ho loro. Ma mi manca il piú importante. Lui.

 

farfalle1Capitolo 4.    Un treno per Innsbruck
Markus. Magia, sorpresa, follia. Capelli biondi ondulati, occhi verdi, labbra piene. Uno splendido esemplare di razza ariana, maledizione. Con che clamore sei entrato nella mia vita, in un bosco pieno di neve. Un bosco di fate.
È terminata la lunga quaresima della guerra.
Un treno corre come la mia impazienza, fra pianure gelate e cittá in rovina. Parma, Modena, Milano. Salgono e scendono facce, berretti, valigie, parole, risa, sguardi.
Panini, caffè caldo!
Mancano cinque ore, il biglietto prego…Guardo l’orologio: quattro ore. Guardo ancora l’orologio: tre ore. Ormai, quasi ci siamo.
Il treno prosegue tra le montagne. Boschi e neve. Bolzano-Bozen, Ingang. Entrano parole, saluti, sciarpe. Ausgang. Scendono cappelli, facce, berretti. Manca solo un’ora.
Giornali, parole, silenzio.
Guardo di nuovo l’orologio: mezz´ora. Wasser, danke. Dieci minuti. Arrivati!!
Tiro giú dalla rete la mia valigetta. Mi affaccio al finestrino: ancora boschi e neve.
Saranno le mie prime vacanze dopo la guerra, e dopo altri quattro severi anni di studio nella nebbia di Cambridge, scivolando fra silenziose biblioteche.
Uno stridio di freni. Il grande orologio della stazione di Innsbruck segna le dodici esatte del 20 gennaio del 1950.
Qualcuno mi sta aspettando sotto la pensilina. Saranno giá arrivati, spero. Dio mio, non li vedo. Tanta, troppa gente.
All’improvviso, qualcuno salta fuori da dietro un carretto pieno di valigie, lanciando per aria un capello.
-Hi! May I introduce myself, bella Marianna? – mi chiede.
Lo guardo confusa. E questo chi è? Come sa il mio nome?
Il giovane si sprofonda in un inchino teatrale e si rimette in testa il cappello.
-I am Markus Weiser, prince of Turingia and Saxonia!- Declama con eleganza. Principe? Ma di quale Turingia e Sassonia? Mai sentito, questo titolo. Non so cosa pensare. Guardo da un’altra parte, leggermente imbarazzata.
Ah eccoli finalmente! Ilse e suo fratello Stefan arrivano ad abbracciarmi ridendo.
-Pronta per le vacanze, tesoro mio?- esclama- Ti trovo splendida, Maria! E adesso non perdere tempo a ringraziarmi, questa vacanza te la sei più che meritata, se penso quanto mi hai aiutato nel corso di letteratura inglese a Cambridge. Ti ho preparato anche una sorpresa...- mi sussurra complice abbassando la voce.
- Ti voglio presentare il nostro amico Markus di Berlino, futuro genio della Chimica …
Markus solleva di nuovo il cappello, mandandomi un bacio in un soffio.
-Ah, ma forse vi siete giá presentati!- ride Ilse.- Beh, non è un principe, ma è un tipo fuori serie, lo vedrai.
Per Markus, invece, io non sono una sorpresa. Sapeva giá che gli avrebbero fatto conoscere un’italiana spettacolare, bella, colta, gentile, addirittura con antenati nobili, che voleva di piú?
-Esagerati! Non sará una balla? Magari volete rifilarmi una secchiona con occhiali da venti diottrie…-aveva protestato lui- badate che in questo caso prendo il largo zitto zitto e mi rivedrete a Pasqua!
Ma non c’é nessun bisogno che prenda il largo, il fantomatico principe di Turingia e Sassonia. Anzi, rimane piantato lí a osservarmi, per qualche infinito secondo. Vedo il suo sguardo scivolare con sospettosa lentezza sulle curve che il cappotto nero mi disegna il corpo, sorridendo burlone, mentre le mie guance s’infiammano. Speriamo che non si accorga delle maniche consumate, prego in silenzio.
This girl is absolutely adorable.“Semplicemente, magnifica”. L’occhiata di Markus esprime un verdetto di decisa ammirazione. Io distolgo lo sguardo, per non perdermi in quella laguna verde che manda barbagli di luce.
-Via, di corsa!! -grida Ilse, rompendo l’incanto.- La notte cade presto in questa stagione!
Abbiamo infatti pochi minuti per prendere al volo un bus diretto a una vicina stazione sciistica, dove lasciamo in fretta le borse in una pensioncina, per correre nel bosco, prima che faccia buio, e giocare a tirarci pallate di neve, come se fosse il primo o ultimo gioco che ci conceda la vita.
Finita la sarabanda, torniamo lentamente al villaggio, esausti, mentre si accendono le prime stelle.
La notte, ci sediamo al lato di una stufa di porcellana, per asciugare i capelli ancora umidi. Sorbiamo birra, ridiamo e conversiamo fino all’alba. Markus non sa l’italiano, né io il tedesco, e quindi non ci resta che l’inglese, per comunicare.
Markus mi racconta che la sua famiglia ha posseduto una fabbrica chimica in Baviera, poi distrutta in un bombardamento angloamericano. Suo fratello Franz, il suo idolo, é finito congelato in Russia, a diciotto anni, sacrificando la sua vita per la gran patria tedesca... ossia per la gran merda tedesca, scusa questo linguaggio, Marianna. Franz aveva cercato di fare di Markus un uomo, chiudendolo per ore in uno stanzino umido, o lasciandolo appeso a una corda sul muro di casa, in genere per piú tempo di quanto lui riuscisse a sopportare, ma cercava di non deludere il suo eroe.
I genitori?
-Mio padre é morto quando avevo dodici anni. La mamma sí ce l’ho ancora, ma non mi ha mai stordito di chiacchiere o di coccole, come fanno le vostre mamme italiane... È severa e riservata, e non la vedo molto.
-Hmm, povero Markus...-Il mio sguardo si fa velluto mentre segue il movimento delle sue labbra ben disegnate, dei suoi occhi verdi pieni di punti esclamativi. Bello da morire, accidenti.
- I nostri genitori hanno costruito molto e distrutto tutto. Adesso tocca a noi rifarlo. E rifarlo meglio, per Dio. -Markus stringe il pugno.- In Germania si coltivano ancora patate e cavoli in parchi e giardini, si tagliano gli alberi dalle strade per farne legna da ardere, perché c’è pochissimo combustibile. Le donne hanno raccolto chilometri di rovine, cosí, con le mani nude e screpolate dal freddo, mentre gli uomini stanno ricostruendo le fabbriche, fra le piú moderne d’Europa. Per alcuni generali americani, era meglio lasciarci morire di fame, a noi maledetti tedeschi: per altri, invece, meglio farci riprendere per costituire un baluardo contro il comunismo. Come sai, hanno vinto i secondi, e ci sta arrivando il piano Marshall. E adesso, mi racconta, dal mare di rovine che ricoprono il centro di Berlino, stanno sorgendo uno dietro l’altro nuovi edifici moderni, dalla grandi vetrate. Ma in mezzo a loro è stata lasciata la torre sopravvissuta al bombardamento di una chiesa. Intatta e solitaria come un faro, ricorda al mondo fin dove puó arrivare la follia.
Anche in Italia la guerra ha castigato severamente l’incauto Bel Paese, e i suoi fallaci sogni di gloria, ricordo a Markus.
Mio padre ha sofferto la prigionia in un campo di concentramento nazista, con pochi alti ufficiali che non hanno voluto seguire Mussolini e Hitler nei loro piani di conquista. Io ero un’adolescente, in quegli anni, e vivevo a Parma, la cittá dove i miei antenati erano stati duchi.
Intanto avevano cominciato a piovere bombe, dopo l’urlo lacerante delle sirene. Bombe amiche, si direbbe adesso. Venivano a liberarci dal Duce. Ma le bombe piovevano su fascisti e repubblicani, su monarchici e repubblichini, senza far preferenze. Appena erano state sgombrate fra grida e lacrime le prime rovine, portati via i corpi, ecco di nuovo l’urlo della sirena, e via a correre nei rifugi, col cuore in tumulto. Stavolta sarebbe toccata a noi?
E un giorno, trovandomi davanti decine di occhi spaventati di bambini e anziani, mi venne in mente di intonare una canzoncina famosa, che potesse essere cantate in coro, per distrarli dalla paura. Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna, e bada ben che non si bagna, che lo voglio regalare....al mio moretto, questa sera quando vien... BOOOMM...(La parete tremava per una bomba caduta poco lontano, dev'essere stato a un cinque strade di distanza...). All’inizio fu solo un sussurro incerto, alla fine un vero coro che si elevó altissimo, per coprire il frastuono della bomba.
E BADA BEN CHE NON SI BAGNA CHE LO VOGLIO REEEEGALAR...Ma forse ti staró annoiando, Markus, con queste sciocchezze.
-No no, continua- mi dicono gli occhi sorridenti di Markus.
-Beh, un giorno provai a tirare fuori un altro asso dalla manica. Poesie d’amore. Una piccola dose dei miei poeti preferiti, che stavo studiando al liceo. Catullo e Saffo, soprattutto.
"Miser Catulle desinas ineptire, et quod vides perisse, perditum ducas", recitavo con aria di mistero, facendo seguire alle parole un significativo silenzio.
I ragazzi macilenti, e le signore dalle guance scavate di Parma continuavano a pendere dalle mie labbra. E cioé? , mi chiedevano.
- “E´finita Catullo, smettila di rimuginare. Quel che é perso, dallo per perso, una buona volta”... dice Catullo a se stesso. Catullo, un sensibile poeta della Verona del Primo secolo, é triste perché la sua bella Lesbia, che aveva riempito di sole le sue giornate, adesso non ne vuol piú sapere di lui. E allora? Catullo deve rasserenarsi, e andare avanti, continuando a vivere. Capire tutto ció, e dirlo in poche parole, non vi sembra geniale, il nostro Catullo?
-Sí sí, -annuivano le signore smunte, dimenticando per un momento che la farina era introvabile e le uova si vendevano a peso d’oro. Ancora una volta, bisognava accontentarsi di patate rugose.
Piú tardi, continuavo con Saffo, (alzando la voce per coprire il frastuono di una bomba, ancora piú vicina. Questa, a solo due strade...).
"Deduke men e seline... é tramontata la luna in cielo, sono svanite le Pleiadi, e io dormo sola."
Dietro il flauto magico delle parole, i rifugiati si perdevano in una notte stellata, con il suono ritmico delle onde, nel sussurro del vento che sfiorava le ginestre. In quest’isola greca di seicento anni prima di Cristo, la guerra sembrava lontana.
-Conosci queste poesie, Markus?
C´è un momento di silenzio. Ha cominciato a nevicare. La luce giallognola del lampione, lá fuori, illumina i fiocchi di neve che turbinano inquieti. Ilse e Stefan sono giá andati a dormire. La stufa di porcellana emana barbagli rossicci.
-No, queste no. Ma non é necessario conoscerle tutte.-Markus abbassa la voce e mi si avvicina.
–Perché io la so creare, la poesia, -mi dice passandomi un dito sulle labbra, con una carezza a sorpresa.
Ma non c´è tempo per altre poesie. Deve partire presto il giorno dopo, per andare a iscriversi alla facoltá di Chimica Industriale dell’Universitá di Monaco di Baviera, continuando una tradizione di famiglia. Auf wiedersen, arrivederci. Si dice sempre, e poi, chissà quando. O mai. Due baci frettolosi sulla guancia, qualche parola scherzosa, e vedo il suo cappello scomparire fra gli alberi carichi di neve. Un breve sospiro, e con Ilse e Stefan proseguo le mie vacanze nella stazione sciistica.
Scendiamo dal sogno, mi dico.
E invece no.
Tre giorni dopo, compare all’improvviso tra gli alberi dai rami carichi di neve. Vedo la sua figura avanzare di lontano con passi ondulanti, come quelli di un cow boy.
Markus!! Gli grido, sentendo il cuore che mi salta impazzito. Ma abbasso la voce, che diamine, quando si avvicina.
-Sei tornato per prendere un documento dimenticato? Chiedo con voce quasi normale.
Markus non risponde. Mi guarda, mi solleva per farmi girare e il mondo comincia a ruotare intorno a me, in un turbinio di luce. Alla fine, cadiamo uno sopra l’altro sulla neve, a riempirci di baci furiosi.
Un respiro lungo, e poi:
- Will you wait for me, Marianna? Puoi aspettare che finisca gli studi, e ci sposiamo?
-Cheeeee?- Gli alberi ci guardano, ammantati di neve, silenziosi. I passeri nascosti fra i rami, muti sotto il cielo bianco. Markus stará scherzando, come alla stazione?
I suoi occhi di laguna verde hanno barbagli impazienti.
-Io, waiting for you?
-Sì, tu mi devi aspettare- insiste.
Giá, perché no, se aspettare si coniuga al femminile.... Aspettava Lili Marlene, nella canzone tedesca, che un bacio sotto un fanale la salvasse dall’orrore della guerra. Mia madre aveva aspettato per anni il ritorno del marito dal lager. Le ragazze aspettavano il Fidanzato che le avrebbe rese Donne. Senza l’Uomo che modellasse l’argilla della loro identitá, da sole non erano che un ectoplasma indefinito. Ma come, non hai ancora uno straccio di fidanzato?
Aspettare, per una donna é normale. Perché no?
Poi un brivido improvviso. In qualche angolo dell’essere, vedo una valanga che viene giú dalla cima di una montagna: all’inizio leggera e bianca, e poi sempre piú minacciosa e pesante, fino a un rovinoso finale. Scaccio l'immagine. É solo un gioco della mente, mi dico. A che serve la mente, in questo bosco di fate? E rispondo:
-I will. Ti aspetteró.

 

farfalle1Capitolo 5.    La tovaglia ricamata coi pappagalli
Guardo i rigogliosi alberi di mango che circondano la mia capanna. Nel pomeriggio sono punto d’arrivo di decine di uccelli che conversano instancabili, come le signore ai tavoli di un bar in una piazza di provincia la domenica. Non sono ancora arrivati. Certo. Sono solo le otto o le nove di una mattinata afosa. La piú lunga della mia vita. Cosa si racconteranno questo pomeriggio gli uccellini che arriveranno? Cosa commenteranno, stanotte, quando tutto sará finito?
Grandi e belli come questi alberi di mango, erano i tigli profumati del giardino di una villa nella campagna di Parma: territorio di felici scoperte, nei miei anni di bambina.
È uno dei tanti splendidi giorni estivi dei miei nove o dieci anni, con un sole abbagliante profumato dall’ombra dei tigli.
-Vieni qui, Mimmina, lascia stare quei selvaggi!...-. Dall'alto di un ramo frondoso sento la voce della nonna Emma che, lá in basso, mi chiama con insistenza:
Fingo di non sentire, per un po’, ma la voce ripete.
-VIENI QUA, TI HO DETTO!
-Vengoooo…- rispondo rassegnata. Il mio vestito bianco sgualcito, e le mie trecce sfatte nell’arrampicata su un albero, provano quanto è stata dura la conquista di un bottino di ventitré cicale, catturate per essere sacrificate alla scienza. Dovranno finire in un barattolo pieno di alcool, a far compagnia a quattro rane acchiappate in un fossato, ieri notte, mentre tutti dormivano, shhhh! Bisogna dire che le cavie migliori sono le lucertole, quando gli viene tagliata la coda e la vediamo agitarsi da sola per un po’. Peró oggi, peccato, non si vede una lucertola che sia una in circolazione. Forse si sono passate la voce che ci sono in giro i tremendi Gaspare, Baldassarre, e Melchiorre, terrore degli animali di ogni specie che zampettano, saltano o strisciano nel vicinato. Non si tratta dei re magi, ma dei miei tre fratelli che, come se non bastasse il loro nome solenne, ne hanno ricevuti altri quattro ciascuno, in onore agli antenati dai baffi arricciolati e le gorgiere inamidate.
"Vengoooooo....", rispondo, lasciando di malavoglia i re magi a spanciarsi dalle risate e le cicale a sputare alcool. La nonna mi aspetta impaziente leggendo un giornale nella sua poltrona di vimini. Sulla tavola coperta da una tovaglia bianca, ci aspetta una caraffa d’aranciata e una bella torta di mele.
Mia nonna Emma, dai capelli candidi raccolti in alto con un fermaglio di madreperla, una collana di ametiste su un vestito di seta cruda, portatole dall’India da un amico esploratore, ha uno sguardo vivo, autorevole e brillante anche quando scherza. A volte prende uno dei grossi sigari del nonno, ne tira qualche boccata e tosse clamorosamente.
Tutti sanno peró che la marchesa Emma Malaspina se ne infischia altamente di seguire le regole vigenti nella nobiltà di provincia nell’Italietta di fine anni ‘30.
Nei loro tè coi biscotti, le signore delle famiglie bene di Parma se la godono a spettegolare sui suoi stravaganti amici, come quegli avventurieri che tornano impolverati da paesi impossibili da trovare nelle mappe civilizzate, o quella tal Rosina, dirigente di una cellula comunista clandestina. Comunista, avete sentito bene! E i ventagli delle signore si agitano piú nervosamente.
Sí, tutti sanno che la marchesa Malaspina se ne infischia altamente dei titoli. Fin da bambina montava a cavallo e lo lanciava a gran carriera finché non si riempiva di schiuma, e tornava a casa sporca e felice. Aveva scoperto che anche la vita é meglio affrontarla al galoppo, senza guardarsi troppo intorno. A diciotto anni, quando conobbe un bell’ingegnere senza una goccia di sangue blu, lo conquistó in un ballo e stracció davanti ai suoi occhi allibiti un fazzolettino di batista ricamato con le iniziali E.M e la corona dei Malaspina, per dimostrargli che non era schiava dei blasoni. E se lo portó all'altare, prima che la parentela potesse dire ba.
 
Quando morí l’ingegnere innamorato, quarant’anni dopo, gli fu trovato nel portafoglio, religiosamente conservato lungo tutto quel tempo, il famoso fazzolettino con le iniziali ricamate. Grandi Amori scivolavano come intrusi fra i rami contorti degli Alberi genealogici.
Quando invece morí Emma, la famigerata Rosina, Comunista-Mangiabambini, rivolgendosi durante il funerale alle signore dai cappelli velati, fece un commento che molte di loro ricordarono. “Se i ricchi fossero tutti umani come la mia amica Emma, noi non avremmo piú bisogno di fare la rivoluzione!”
Tutto ció doveva ancora succedere, quando io giocavo con le cicale del giardino di Parma. Ma c’era giá, negli occhi scuri e allegri della nonna. Forse il futuro c’é giá, in qualche angolo di noi.
-Solo a te racconteró la storia della famiglia, sai?- Mi rivela la nonna invitandomi una fetta di torta con uno sguardo complice. – Ci sono mille storie, nella nostra famiglia, che aspettano di essere raccontate. Come in tutte le famiglia, anche nella nostra ci sono stati santi e malandrini, chi ha costruito patrimoni e chi li ha mandati in rovina, i visionari e gli svergognati … Tra i visionari, ci fu chi ospitó nel suo castello Dante Alighieri, quando era il poeta maledetto cacciato dai signori di Firenze, o chi partecipó nella spedizione dei Mille garibaldini per liberare la Sicilia dai Borboni e unire l’Italia…Fra gli svergognati, uff, ce n’é da scegliere… Ma stavolta voglio parlarti di una donna originale e generosa, che non hai potuto conoscere perché è morta quando avevi solo un anno. A volte la si vedeva coi capelli azzurri, a volte rosa. Era la tua nonna Elisa Pallavicino.
-Parli sul serio? Come poteva avere i capelli azzurri o rosa, la nonna Elisa?
Ricordo due vecchie foto di Elisa, appese nello studio di mio padre, suo figlio. Nel primo si vede una ragazza dalla lunga capigliatura bionda, lo sguardo innocente, un vitino di vespa accentuata dal vestito fine secolo, mentre nel secondo appare una matura signora dagli occhi pesantemente truccati, e i capelli chiari cortissimi, con un ventaglio di piume e un vestito stile charleston. Sembra un’altra persona. Cosa le era successo? Mi chiedevo.
- Ti svelo il mistero-, mi risponde la nonna. -Elisa Pallavicino era una di quelle donne che quando entravano in un salone, tutti ammutolivano contemplandola incantati. Anche i Pallavicino erano nobili, con tanto di blasone e altre ferraglie. Anzi, per un certo tempo erano stati a carico del ducato di Parma, che dovettero “passare” poi ai Farnese. Devi sapere, cocca della tua nonna, che quando dico che una famiglia nobile “passava” a un’altra il suo dominio, c’erano solo due o tre maniere. O una disgraziata giovanetta della famiglia A si sposava per amore o per forza (diciamo pure, per forza) con un tipo panzuto, con quattro peli in testa e un alito pessimo, della famiglia B, o un disgraziato giovanotto della famiglia A si sposava con una signorina racchia e bacchettona della famiglia B, pur di ampliare i suoi beni. La maggior parte delle volte doveva vincere i suoi rivali con duelli, avvelenamenti, o accoltellamenti nei corridoi bui dei palazzi signorili. Nei casi peggiori fra le due signorie si poteva scatenare una vera e propria guerra, in cui si assoldavano per qualche moneta d'oro, i disoccupati, disperati e avventurieri dell’epoca. Dopo un buon numero di corpi fatti a pezzi, teste che rotolavano al suolo, petti infilzati dalle spade, intestini sbuzzati, si definiva il nuovo padrone della signoria: in genere, un altro nobile svergognato che aveva osservato da lontano l’infuriare della battaglia.
…Ma continuiamo con la storia della tua nonna, la duchessa Elisa Pallavicino, che avevo cominciato a raccontarti.
Elisa crebbe e visse in un antico palazzo, che fu tutto ció che le lasciarono in eredità i Pallavicino dopo secoli di pace e guerra. Come si possono perdere immensi patrimoni, come quello accumulato nel tempo dai Pallavicino? Mi chiederai. Semplice. Basta avere un patrigno con il vizio del gioco, e che riesca a perdere sistematicamente, un giorno una tenuta, un altro giorno un castello, fino a far fuori tutto. E alla fine, si sfumó anche lui nelle nebbie della pianura padana, e chi s’é visto s’é visto. Forse per espiare gli eccessi della famiglia, la sorella di Elisa si fece suora di clausura, consumandosi a soli venticinque anni tra preghiere e penitenze, lasciando alla sua morte un profumo di rose nella stanza. Dev’essere quello che si chiama “odore di santitá”. Ma per espiare gli eccessi devozionali della sorella santa, Elisa decise che invece che cercare la felicitá nell’al di lá, avrebbe vissuto a piene mani i piaceri terreni. Fallaci, ma pur sempre piaceri. Adorava i negligés di seta, i film di Rodolfo Valentino e le storie d’amore romantiche, meglio ancora se con un finale tragico. Come quella di Rodolfo, l’erede al trono dell’impero austro-ungarico, che si suicidó con la sua giovane amante in un castello vicino a Vienna. Nelle botteghe e mercati dell’epoca non si parlava d’altro, come se quell’esagerato principe abitasse lí in via Mazzini. Una fetta di torta, Mimmina? Neanche Elisa, ti stavo dicendo, poté evitare la sua quota di tragedia.
Povera Elisa…come sua madre, anche lei rimase vedova giovanissima e con due figli a carico: il tuo futuro papá, e una figlia che crescendo, per una strana malattia divenne gobba. La gente pensava che la povera ragazza portasse iella, e cominció a evitarla. Non si fece vivo nessuno a chiederla in moglie, o cercarla come amica. E cosí, quando tuo padre si sposó, le due donne rimasero sole, in quell’enorme palazzo freddo che si riempiva lentamente di crepe come le loro illusioni. Alle pareti pendevano ancora i quadri di famiglia, con dame languide e cavalieri imparruccati che vagavano nei boschi. Elisa non s’interessó mai a questioni venali, come guadagnare il necessario per pagare le sue bollette, o riscaldare quei saloni gelati, e spendeva il suo scarso denaro in vestaglie adornate di piume di cigno, o in preziosi ventagli ricamati, come quelli che si vedevano nei film di Rodolfo Valentino. Quando le vennero i capelli bianchi, se li tingeva una volta di rosa, una volta di azzurro, come le dame dei suoi quadri.
"Questa signora non ha tutte le rotelle a posto", commentava la verduraia dell'angolo con cui Elisa aveva sempre conti arretrati. Peró suo figlio, tuo padre, adorava quella madre stravagante e faceva i salti mortali, col suo stipendio non eccelso di ufficiale, per pagare le sue bollette in modo che non fosse costretta a impegnare i candelabri d’argento al Monte di Pietá. Ma avvenne un dramma ancora piú grande, in quel freddo palazzo.
La prima moglie di tuo padre morí di scarlattina nel suo settimo mese di gravidanza. I medici tentarono disperatamente di estrarle il feto dal corpo. Uno scarabocchio, un topolino, commentarono, impossibile che sopravviva! Sentenziarono. Eppure il testardo topolino sopravvisse, grazie alle cure incredibili di tua nonna Elisa e della zia gobba.
Quando tuo padre si risposó, voleva portarsi il figlio a casa, ma dovette assistere a una scena da film muto, in diretta. Madre e zia salirono sulla finestra, minacciando di buttarsi di sotto se non le lasciavano il bimbo. Se no, avrebbero avuto due funerali! Per fortuna, prevalse il buon senso.
Dopo quella scena da feuilleton, Elisa abbracció suo figlio, bació sollevata il nipotino, e sedendosi sulla sua poltrona rococò, riprese in mano quel ricamo che da una vita sfidava la sua pazienza.
E adesso guarda qui, Mimmina- mi dice mostrandomi un gran pacco avvolto in una carta lucida e verde, e chiuso ai quattro lati da sigilli rossi di ceralacca.
-Aprilo - mi ordina.
-Chi, io, questa cosa importante?
-Sí, tu.
Rompo emozionata i sigilli rossi, (come i messaggi di Marco Polo, penso) sciolgo i nodi del nastro che avvolge il pacco, comincio ad aprirlo e vedo qualcosa che mi lascia a bocca aperta… è una splendida tovaglia ricamata, dove decine di pappagalli colorati sembrano spiccare il volo in mezzo a un fogliame scuro.
-É magnifica…-sussurro intimidita.
-Sí. E´ la tovaglia che Elisa cominciò a ricamare poco dopo le nozze, e terminó poco prima di morire, quando non ci vedeva quasi piú. Per questo in un angolo c´è un pezzetto piú confuso. A quei tempi, sai, i pappagalli erano simbolo della felicitá assoluta che si credeva esistesse nei paesi tropicali... E adesso guarda il rovescio del ricamo, Mimmina. Cosa vedi?
- Molti nodi, e fili incrociati.
- Come nel labirinto della vita, tesoro mio- commenta pensierosa la nonna.
- Sempre, nelle vicende di noi umani, c'é un dritto e un rovescio. Ma é il rovescio che fa la storia di uno: tutto ció che resta nascosto, inconfessato, misterioso. I nodi e gli errori. E sai chi erediterá il magnifico ricamo? Non te lo puoi immaginare...
Spalanco gli occhi, in attesa.
-Tu! "La tovaglia piú bella, il mio capolavoro, andrá a Mimmina, quando compirá 20 anni", mi disse Elisa in punto di morte. "Non vedró crescere la mia unica nipote. Ma le auguro che vada piú lontano di me, e che la sua vita sia anche piú ammirevole di questo bel ricamo..."
Resto in silenzio, impressionata. Davvero a me questa bellissima tovaglia?
- Grazie, grazie. Ma dove vivono i pappagalli, nonna?
-Lontano, molto lontano.
-Dopo Milano?
-Ancora di piú, di piú. Dopo il fiume, dopo il mare, e dopo l’oceano.
-Ma dove, si puó sapere?
Dal fondo del giardino arriva la voce della domestica. "Le lasagne son pronte, signora marchesa!"
Le cicale, frenetiche, cantando.

 

farfalle1Capitolo 6.    Odissea nella taiga
Vedo il volto severo di mio padre, le sue sopracciglia folte…e le rughe che gli segnano la fronte, mentre ripete piantando un pugno sul tavolo che mai e poi mai dará il consenso alle mie nozze con Markus, “l’hai capito o no, Marianna? Anzi, lo faró volare dalla finestra, a quel giovanottello biondo, se si azzarda a farsi vedere dalle nostre parti!”. Mio padre è un generale alto un metro e novantaquattro, tornato da poco dalla guerra, con trenta chili di meno e la stessa attitudine al comando venutagli coi geni.
-Ma insomma, perché no, papá?
-Perché non mi convince. Molto fumo, e poco arrosto.
Io alzo gli occhi al cielo, santa pazienza! E continuo col mio indistruttibile amore.
Certo, il generale Dori ha motivi da vendere per odiare i nazisti, e con un po’ di esagerazione, tutti i tedeschi, peró cosa c’entra col suo dramma il mio Markus, figlio dei nuovi tempi?
Ricordo gli occhi scavati, la faccia ossuta e la schiena curva di mio padre al ritorno dal lager nazista. Difficile riconoscere in questo “Ecce homo” il brillante ufficiale in uniforme dai bottoni dorati che era stato il mio orgoglio di bambina. Solo mesi dopo il generale riuscì a raccontare alla famiglia, riunendo le parole con sforzo, l’odissea che mi restó impressa nella memoria, come dentro un blocco di ghiaccio. Un filo indivisibile la unisce al mio presente.      
Gennaio 1945. Nel campo di concentramento polacco, dove i tedeschi tengono prigionieri venti alti ufficiali italiani ribellatisi a Mussolini e Hitler, fottuti traditori, le SS discutono nervose. Oggi il termometro segna diciotto gradi sotto zero.
Il campo sembra paralizzato come dentro un cristallo trasparente, di un nitore insopportabile. Ogni tavolaccio puzzolente, ogni figura tremolante nel suo pigiama a righe, ogni sguardo perso nel vuoto, produce un impatto visivo eccessivo.
-Smontate immediatamente il campo!- ordina un capitano ai suoi subordinati... gli angloamericani ci stanno arrivando addosso! Dobbiamo arrivare alla frontiera tedesca correndo come pazzi. Sono cento km. Questi italiani di merda ci possono servire come merce di scambio con i nemici. Uccideteli, solo se non ce la fanno a marciare, con un tiro esatto. Kaput. Non bisogna perdere munizioni. Svelti!
“Porca miseria! Giusto adesso che mi toccherebbe il processo”, pensa mio padre. Quei cento km di strada gelata possono essere solo una tortura in piú, prima del tiro di grazia. Salvo un miracolo. Lizzani, un colonnello dai baffetti affilati, Borghini, un capitano ferito a una gamba, e Carli, un generale tarchiato che sapeva tirar fuori una buona barzelletta quando il morale della truppa era sotto terra, sono giá stati ultimati per strada. Adesso di lontano si vedono spuntare le case dell’ultimo villaggio, prima della frontiera tedesca. Forse sará l’ultima notte della mia vita, se non mi scoppiano prima i polmoni dallo sforzo.
È giá notte quando le SS circondano un casolare, gridando ai suoi abitanti di ospitare tutto il gruppo fino alla mattina seguente. Si accende un lume, due lumi. Qualcuno esce di malavoglia, ma i fucili puntati sono piú convincenti dei discorsi, e vengono aperte le porte.
-Italiano?- Chiede un contadino polacco al generale, avvicinandolo di nascosto. –
-Io, a sant’Antonio da Padova...- sussurra mentre cerca di raccontargli qualcosa, estraendo con fatica dalla sua memoria qualche parola italica imparata chissá dove.
-Che ti ha fatto sant’Antonio da Padova? - s’informa Umberto, anche se preferirebbe una buona minestra calda a confuse storie di santi.
-Gamba, occhio, vita nuova! -risponde il contadino, disegnando fra gesti e parole uno strano episodio, senza riuscire a completarlo. Sant’Antonio da Padova gli aveva guarito la gamba che avrebbero dovuto tagliargli, quando...boh? e soprattutto l’occhio, quando invece...mah?
I dettagli scivolano via in un fiume di incomprensibili parole polacche. Allora il generale estrae dalla tasca un santino stropicciato di sant’Antonio, suo protettore nelle tempeste della vita, e la regala al contadino.
-Grazie, mi chiamo Ryszard, risponde lui.
L’uomo lo ringrazia calorosamente sotto quelle stelle gelate, e lo guida verso un granaio dove il generale e un altro compagno possono nascondersi ai tedeschi. Ma con un’avvertenza: devono mettersi gli scarponi alla rovescia, perché la mattina dopo le SS si confondano cercandoli.
Contadino, cervello fino. E bravo! pensa Umberto. La mattina dopo, come previsto, le SS si accorgono della sparizione dei due prigionieri, Arshloch! ma devono scappare a gambe levate, perché giá si sente un ruggito di carri armati in lontananza. Stanno arrivando i russi, e con loro, la speranza di potersi sedere un giorno alla tavola imbandita da Margherita e Mimmina, e godersi un bel piatto di spaghetti fumanti... Il giorno in cui quel fottuto vento di guerra smetta di fischiare. Ma adesso, maledizione! i russi gli stanno puntando i fucili sulla nuca. Perché loro indossano divise tedesche, stramaledizione!... se n’erano quasi dimenticati.
…Gli puntano i fucili addosso, come ora a me. Un momento che copre con un manto di silenzio e di assoluto i mille insignificanti frammenti di una vita.
Ma loro lo rompono gridando: NIET! Noi siamo tovarich! Compagni italiani!
E alzano le mani in segno di resa, per non finire di nuovo kaput.
Ryszard, mescolando polacco e russo, cerca di spiegare ai russi sconcertati che si tratta di valorosi ufficiali. Si sono ribellati a Mussolini per liberare l’Italia! Deve ripetergli questa storia una, due, tre volte. I russi si consultano un attimo fra loro…, poi abbassano i fucili, gli danno vigorose pacche sulle spalle, e finalmente tirano fuori dallo zaino una bottiglia di vodka. Mai furono benedetti abbastanza quei sorsi di fuoco, dopo tanti giorni e notti passate sottozero. Una primavera tiepida e fiorita poteva arrivare, magica e imprevista, anche in mezzo a quella campagna desolata.
-La nostra casa... la nostra famiglia (i nostri spaghetti) ci stanno aspettando lontano...- tentano di avvisare, con gli occhi umidi, i due italiani. -Spaciba tovarich, grazie mille compagni, ma noi adesso dobbiamo andare!
-Niet, niet-, replicano i russi. -Voi non andare ad ovest. Ancora guerra, lá. Se andare soli, kaput. Voi andare a est, con noi. Venire dal generale supremo Zukov, che sará orgoglioso di conoscervi .
Certo, come rifiutare quell’onore? E quindi bisogna intraprendere un viaggio estenuante, per seguirli fino al benedetto generale Zukow, comandante supremo dell’armata russa. Piacere, piacere. Ma adesso stanno esagerando, i tovarich. Il generale Zukow a sua volta vuole presentarli a Stalin in persona, e il generale Dori non ne ha nessuna voglia.
-Troppo onore, davvero: troppo lontano, tovarich. Noi preferiremmo che...”
Ma ai russi non importano un accidente le loro preferenze, e quindi il sogno degli spaghetti fumanti si allontana definitivamente nella nebbia di un viaggio interminabile in treno, poi in camion, e infine a piedi, fra boschi e pianure sempre piú sconosciute. Gli ufficiali che li hanno accompagnati nella prima tappa vengono sostituiti da altri, e questi da altri ancora, fino a che si perde del tutto la nozione di chi sono questi due stranieri fantasma, né dove vanno. Neppure loro lo sanno.
La confusione tra lingue e uniformi, in questo Far East, é totale. E alla fine, un giorno mio padre si accascia sfinito sulla neve della taiga. Per qualche giorno si sente fluttuare in una nebbia lattiginosa dove appaiono e scompaiono facce familiari... o si vede da bambino dondolandosi sul cavalluccio di legno che aveva regalato a Mimmina..., ma poi tutto viene inghiottito da alghe giganti.
Quando si risveglia, in uno sconosciuto ospedale di campo in mezzo al niente, con sconosciute scritte cirilliche sulla porta, Umberto incontra lo sguardo di due occhi grigi, incorniciati da un paio di lenti con montatura metallica. E sente una mano che stringe la sua. “Italia”, sospira sfinito, a mo’ di presentazione.
Miser Catulle, desinas ineptire...”, risponde con un sorriso il dottore. E si lancia a declamare anche l’inizio del “De bello gallico”: Cesar et legiones eius Galliam conquirit.
“Devo essere nell’al di lá”, pensa confusamente il malato. Dove gli angeli, dal sesso e dalla lingua incerti, forse cantano in latino. Ma la stretta di mano che gli dá il medico é assolutamente terrena. Si vis salutem, manduca, gli ripete, mettendogli in bocca un cucchiaio di indefinibili verdure. E mio padre le inghiottisce religiosamente.
Insomma, questo misterioso dottore che gli appare spesso davanti, parla latino come un segretario del papa. “Dove mai l’avrá imparato…”.si chiede Umberto.   Forse in un seminario ortodosso, prima che arrivassero i Figli del Demonio? Ma alla fine, questa stranezza ha molto meno importanza del fatto che gli stia vicino, cercando di tirarlo su. E si danno un nomignolo: “Catullus” mio padre, “Brutus” il medico, per informarsi in quel solenne idioma se il generale ha espulso tutto il catarro o le sue feci sono ancora verdognole. E poi, dopo aver terminato con grande sforzo un paragrafo, medico e paziente si guardano un attimo, e scoppiano a ridere. La loro risata vola su quei letti di dolore, si contagia e moltiplica, finché i due si asciugano gli occhi, ricomponendosi.
Lá fuori, anche il paesaggio sta assumendo tinte surreali.
-Ambiente: una taiga infinita, color verde scuro, sotto un tappeto di teneri cirri che navigano instancabili.
-Paralleli e meridiani: imprecisati.
-Epoca: un momento in cui rifare confini, paesi, identitá.
-L’insieme: un caos drammaticamente creativo.
Anche i personaggi possono ridefinirsi. Un italiano altissimo e magro, con uniforme e identitá piuttosto stinte, in questo momento rappresenta un poeta elegante del Primo Secolo, mentre un dottore russo dalle lenti grigie, basso e cordiale, rappresenta provvisoriamente il figlio ingrato che aveva assassinato a pugnalate il potente Cesare, un paio di millenni prima.
Tra di loro una lingua morta, il latino, come il cappello di un mago da cui estrarre a fatica, consultando mentalmente quaderni ingialliti, i conigli di alfabeti differenti. Che li fanno ridere insieme, complici come vecchi amanti.
Questo puzzle surreale puó regalare anche gioie improvvise. Come quando mio padre, salendo su un’altura, si sazia un giorno la vista con un paesaggio infinito, fino a perdere i limiti del proprio io. Una sensazione che non aveva mai vissuto nei paesaggi italiani da cartolina, dalla bellezza piú concentrata, che aveva percorso indossando la sua divisa inamidata.
“M’illumino d’immenso”: cosí l’aveva espressa Ungaretti. A mio padre tocca sperimentarla adesso, in una sconosciuta taiga russa, scollegato dalla sua identitá e decorazioni, come un centurione romano perduto nei sentieri dello spazio e del tempo. È quest’orribile guerra a regalare a mio padre un barlume d’infinito. E a mia madre un soffio d’identitá, per aver dimostrato a se stessa di saper far sopravvivere i figli anche senza l’appoggio del marito: lei, che non aveva potuto studiare perché donna, quindi inferiore.
Il rovescio, il dritto.
Quando finalmente arriva la notizia della liberazione d’Italia, il 25 aprile 1945, il generale Dori puó intraprendere il ritorno, salendo su un treno diretto in Iugoslavia. Ancora una volta deve ringraziare quel sant’Antonio benedetto che lo aveva protetto in tante occasioni. Lo ringrazia un po’ meno quando si rende conto che si tratta di un carro bestiame, con vacche e buoi che sprigionano un fetore insopportabile. Meno ancora, quando vede che é stata piantata una tavola a metá vagone, perché possano entrare piú animali, e a lui tocca comprimere i suoi quasi due metri di spina dorsale in un metro di spazio. Cosí, quando scende, si sente come l’uomo di Neanderthal che camminava curvo, e solo dopo una settimana riesce a tornare un homo erectus. Peró è arrivato dalla Russia con una preziosa icona, regalatagli da dei contadini, con cui era riuscito a fare un’amicizia senza parole: né antiche né moderne, perché non ce n’era bisogno. Era entrato in guerra con un’immaginetta di Sant’Antonio, era tornato con una preziosa icona. Perdendo trenta chili per strada.
E finalmente arriva il momento di sedersi davanti al piatto di spaghetti che la sua Penelope-Elisa gli ha preparato, con tutto l’affetto del mondo. Li vomita subito.
“Che ha fatto!” Le rimprovera il dottor Rivalta. Non sa che ai denutriti bisogna alimentarli piano piano, con una minestrina, finché non si riadattano al cibo? Altrimenti riuscirá in quello che non hanno potuto fargli i tedeschi: ammazzarlo!
“Ho capito, ho capito!”, brontola mia madre, impermalita, mentre prepara il letto con le migliori coperte, perché il marito possa riposare tranquillo. Ma lui si stende sul pavimento, con l’icona sotto la testa, come si era abituato nella taiga. La prima notte, va bene. La seconda, anche. Ma passano tre lunghi mesi prima che il generale si decida a dormire fra le lenzuola. A volte mia madre gli si avvicina pe ascoltare cosa mormora in sogno… “Tu quoque Brute fili mi...” sta rimproverando a qualcuno il generale. Ma con un sorriso. Spaciba, grazie, Russia.
Separata dalla mia identitá. Da titoli e diplomi. Come mio padre, mi sento vagare nello spazio di una taiga senza definizioni. Nuda.
Chi sei adesso, Marianna?
Una lumaca avanza lentissima nell’erba, avvicinandosi ai miei piedi, caricando la sua casa rotonda.
Come la chiocciola di quella lunga scala di marmo che portava a una piccola porta, lassú fra i tetti.
 
 
farfalle1Capitolo 7.    Angelo azzurro
Qualcuno suona impaziente il campanello della mia soffitta, a Milano.
È passato giá un anno da quelle splendide vacanze a Innsbruck. Mi risveglio assonnata (è mezzanotte!), accendo la lampadina dell’abat jour, e poso a terra cautamente i miei piedi avvolti in calzettoni di lana ruvida, che la mia tata ha fatto a maglia per me. Chi sará mai a quest’ora? Il barbaglio di un lampo illumina improvvisamente la finestrina che dá sui tetti.
La stanza è freddissima, come sempre in questi crudi inverni del dopoguerra. Ho il naso gelato. Per cui mi avvolgo nello scialle nero lasciatomi dalla nonna Emma, che mi dá un’aria da tisica Violetta, e muovo alcuni passi sul pavimento di legno scricchiolante, per andare ad aprire la porta. No, aprire no, a quest’ora. Tolgo con prudenza la catenella e chiedo: Chi è?
Giusto, forse è mio fratello che doveva venire a visitarmi in questi giorni. Ma non si è mai presentato a mezzanotte! E poi, le signorine perbene non ricevono visite a quest’ora…
-Dai, aprimi Marianna!
Sentire quella voce ed aprire, senza pensarci un secondo, è tutt’uno.
Due occhi verdi, allucinati come fari, invadono la porta. Markus mi appare come un naufrago, senza cappotto, coi capelli inzuppati che gocciolano su un vecchio maglione grigio. Un temporale imperversa su Milano, e dalle grondaie scrosciano violenti getti d’acqua.  
-Maaaarkus! Stai battendo i denti…. Dove hai messo il cappotto?
E lo riempio di baci per riscaldarlo, questo pazzo amore mio.
-Era piú importante il biglietto- mi dice misteriosamente fregandosi i capelli con l’asciugamano che gli porgo. E poi scoppia in una gran risata, davanti al bicchiere di un buon cabernet, che tengo di riserva per le grandi occasioni.
-Cosa?
Non posso crederlo. Markus ha venduto il suo cappotto per comprare un biglietto per Milano, attraversare mille e cinquecento chilometri di freddo inverno, per arrivare a sorpresa con un prezioso regalo di fidanzamento. Dovrebbe essere un anello, in tempi normali. Ma siamo ancora in epoca di vacche magre, e bisogna essere creativi.
-Ecco la sorpresa, damigella!
Tatan!
Markus si contorce in una piroetta teatrale, frugando nel fondo di una tasca nel fondo dei pantaloni per tirar fuori, alla fine, come un mago, un piccolissimo pacchetto rotondo. Sará una pallina di vetro di Murano? Ma no! Un uovo di tormalina, per rammendare calzini? Ma no, no, assicura. Allora cosa? Lo apro con cura, per non rompere niente, ma non c´è niente da rompere, mi dice.
Nel pacchetto c’é un gran bottone d’argento lavorato, che forse, ai tempi del Danubio blu, aveva chiuso il mantello di pelli di volpe di una gran dama, e adesso brilla, totalmente orfano di lusso, nella mia soffitta ottocentesca di appassionata Violetta. Osservo che nella superficie del bottone sono impresse due iniziali: M, M. Come Markus e Marianna. Davvero ingegnoso, il mio genio tedesco.
-È metá per me, metá per te- Markus lo divide in due, ne dá una parte a me, e ci dichiara ufficialmente fidanzati. Sono commossa e stordita. Adesso, nella pianura gelata del dopoguerra, spunteranno i piccoli fiori della felicitá, e tutti i giorni della mia vita si sgraneranno dolcemente, per il solo fatto di avere al mio fianco il principe di Turingia and Sassonia.
Nel frattempo peró, la casa della principessa é un bosco di spine.
-Faró volare il tuo tedesco dalla finestra! - tuona spesso mio padre, l’orgoglioso generale Dori. -Mai e poi mai vedró mia figlia sposata con qualcuno di quella razza maledetta... meglio con uno spazzacamino!
C’é anche la proibizione segreta della Regina Madre.
-Sí, puoi andare a lavorare a Milano, lontano dalla famiglia, perché so che NON FARAI MAI qualcosa di cui farci vergognare!
Ci sono tantissime cose di cui potrei farla vergognare, dal dire vaffanculo o puttana, all'andare in giro spettinata, o parlare mentre mangio. Ma la peggiore, cosí peggiore che non se ne puó neanche parlere, è andare a letto con un essere umano dotato di un’appendice erettile…. anche se indossa le vesti di un romantico fidanzato che ti ha dato per anello la metá di un bottone d’argento.
-Aprimi i tuoi giardini incantati, amor mio! -mi supplica intanto Markus, spingendomi dolcemente verso la parete. E le sue mani percorrono impazienti il mio cappotto, e sotto il cappotto fanno saltare i primi tre dei ventitré maledetti bottoncini del vestito. Affonda la sua bocca sul mio collo profumato di Acqua di Parma, (un lusso sfrenato per quei tempi)- scendendo fino all’attaccatura dei miei seni tiepidi e bianchi, e mi ripete gemendo…dai Marianna, Marianna… No e poi no! e poi ni!, mi difendo io. Impensabile, disubbidire alla Regina Madre.
-Vado a scaldarti il risotto!- mi viene da inventarmi lí per lí, per sciogliermi come un’anguilla dal suo abbraccio. Dio, che fatica difendere i giardini della principessa!
Finita la sigaretta dopo cena, Markus scivola nel sonno sul divano. Posso rilassarmi, finalmente. O no.
Mi stendo per qualche minuto nel letto, vestita, ma non riesco a dormire. Allora mi alzo piano piano, e lo guardo alla luce fioca del lampione che attraversa il vetro della finestrina. Nel sonno, il mio principe è rotolato giú e adesso dorme sul tappeto, come un angelo birichino uscito da una composizione barocca. Contemplo i suoi capelli ondulati, la sua bocca semiaperta in una specie di sorriso, mentre i suoi occhi seguono nel sogno, chissá, la cavalcata di Walkirie seminude.
Non credo che ció che fa vergognare la Regina Madre debba per forza far vergognare me! decido finalmente. E comincio a sbottonare, uno a uno, i ventidue virginei bottoncini che restano. Mi levo anche il vestito? Ma sí, fuori tutto. Come nei film…Beh, per la verità, in questi anni i film non mostrano che brevi baci appassionati, accompagnati da un fondo di sviolinate, sul quale cadono rapidamente le tenebre e si sovrappone un’altra scena. Nonostante tutto, alcune immagini risultano cosí vive, che riescono a incidersi nella memoria erotica di un’intera generazione, come il dolce e perverso Angelo Azzurro di Marlene Dietrich. Saró io, l’Angelo Azzurro del mio film privato… perché no? e mi daró tutto il tempo necessario.
In silenzio, lancio all’aria teatralmente il mio vestito viola, che copre una lunga e prosaica camiciola di lana grigia, rammendata in vari punti. Via, fuori anche questa. Sotto, ho solo un reggiseno nero, delle mutande alte di cotone, e delle giarrettiere che sostengono fino alle cosce un paio di calze opache. Per qualche secondo mi massaggio il corpo intirizzito, sperando di scaldarmi un po’. E il cappello? Mi manca un cappello maschile. Dove lo trovo? Ah, adesso mi ricordo che ce n’è uno nel baule, lasciato lí da qualche vecchio inquilino. Raggiungo il baule, saltando seminuda sul pavimento gelato, lo apro con un certo sforzo, lo tiro fuori, scuotendolo dalla polvere e dall’oblio, e me lo metto in testa. Voilá. Adesso sono la cantante dalla bellezza provocante ed enigmatica, nata per dar gioia a un solo spettatore: il mio adorato Markus. Mi chino e vado camminando come una gatta verso di lui. Avvicino il mio viso al suo, aspiro il suo odore… ah, il mio biondo cavallo selvaggio..., e comincio a leccargli le labbra, gli occhi, le orecchie, le labbra.
Markus apre appena gli occhi, rispondendo ai miei baci in dormiveglia.
E finalmente li apre del tutto, appoggiandosi sui gomiti. Che sta succedendo? Mi chiede il suo sguardo, rubato alle Walkirie. E lí, non vede piú nella Marianna di sempre, mi dirá poi, la freddolosa Violetta di una soffitta milanese, no. Vedrá il monumento vivente alla donna dalle infinite carni bianche, che puó trascinare l’uomo per il collo, solo con un dito, per svelargli la sua bellezza, e farne suo schiavo. Allora s’inginocchia e comincia a slacciarmi lentamente le giarrettiere. Le calze nere si srotolano poco a poco sulle cosce tiepide fino alle caviglie, mentre si china a baciarmi l’ombelico, dolcemente, poi piú in basso, piú in basso, aprendo con le sue labbra solchi torridi sulla mia pelle inesplorata, mentre le sue mani percorrono febbrili le mie natiche. “Fai piano, piano, amore mio”, gli sussurro, mentre il cappello dell’Angelo Azzurro cade sui vestiti gettati alla rinfusa sul pavimento.
Sí, ho aperto i giardini incantati al mio principe. I vetri gelati della finestrina si sono appannati al calore dei nostri baci.
L’inverno è finito.  
  
farfalle1Capitolo 8.    Un bicchiere di champagne si rompe
Mai, come oggi, ho sentito il soffio improvviso e freddo del vento che ti allontana con violenza dal Paradiso Terrestre.
Sono lí felice col mio amore, nella sua stanzetta di Monaco, scrivendo annotazioni su un foglio. Finalmente mio padre ha ceduto, dando il suo consenso alle sospirate nozze con Markus. “La lista dei regali è quasi completa, resta solo da decidere dove andremo a incatenarci…”, gli dico ridendo. Peró Markus non risponde con un altro scherzo. Si passa un attimo le mani sui capelli, in silenzio. Poi sugli occhi. Sembra preoccupato. O imbarazzato.
-Beh? Abbiamo quasi finito, dai. Pensi che sia meglio sposarci in Italia o in Germania? E il pranzo, a base di wurstel o di lasagne?- lo interpello.
-È che... hmm, te lo volevo dire da un pezzo, Marianna.
-Cosa?
Mi guarda obliquamente, coprendo il foglio con le mani.
-…Che mi sono innamorato di Paulina.
Tum! Sento una fitta tremenda allo stomaco, mentre crolla fragorosamente il mio castello di illusioni. La torta di tre piani, con la coppietta in cima, è diventata un impasto abominevole di plasma appiccicoso.
-Come? -balbetto- Allora ti spo...ti sposerai con questa Paulina?
-Non lo so, non lo so… - mormora Markus, tormentandosi i capelli per un po’. Per poi pronunciare finalmente la sentenza.
-È meglio che ti senta libera, Marianna... Non voglio che mi aspetti angosciata...
(Si ritiri dalla finestra la principessa dalle lunghe trecce. Il Cavaliere distratto non vi si arrampicherá.) È meglio che te ne torni tranquilla in Italia.
-Certo, mi sentiró meravigliosamente libera, amore mio- ripeto come un automa, mordendomi le labbra per non urlare e buttare a terra tutta la credenza piena di piatti e bicchieri, con un fragore di stoviglie rotte.
Sí, sí, meglio per tutti, no? Tranquilla in Italia. Bisogna essere ragionevoli. Giusto, ragionevoli.
Del viaggio di ritorno non ricordo quasi nulla, se non che lo passo chiusa nella toilette, appoggiata a una parete come una tavola di polistirolo. Entrano fili di pioggia dal finestrino, e non li sento.
Che dolore. Che dolore.
Decido di trasferirmi a Firenze, per evitare le chiacchiere della gente, amica o no, ma sempre con questo pizzico di malignitá nella voce. Allora non ti sei piú sposaaaaata? E quel bellissimo fidanzato tedesco? ah, é finita? Oh, poveriiina. Ma che peccato. Un peccato davvero.
Adesso mi circonda quella bella cittá, dove i miei tacchi risuonano solitari sulle pietre antiche. Passo intere ore nella galleria degli Uffizi, a contemplare le Grazie del Botticelli, con gli zeffiri che soffiano leggeri in un giardino incantato. Ma perché dipingere quei giardini incantati, se li puó gelare da un momento all’altro un soffio di tramontana? Mi sento intorpidita e stupida. Devo risvegliarmi, devo tornare... no, devo inventare altre maniere di essere io!
Per cominciare, decido di andare tutti i giorni, anche quando non ne ho voglia, al caffé letterario “Le Giubbe rosse”, di piazza della Repubblica, per leggere i giornali e cercare di interessarmi a quel che succede nel mondo. Davvero simpatico, quell’antico caffé.
Sto leggendo a un tavolo il giornale “La Nazione”, quando sento che da una sedia vicina qualcuno mi sta osservando.
-Perché cosí pensierosa, bella signorina?- chiede questo qualcuno, facendo un delicato cin cin tra il suo bicchiere di spritz e la mia minerale.
-Mi chiamo Jacopo Ardenzi. Domani, nella festa fiorentina della Colombina, si ripeterá una tradizione che viene dal Cinquecento almeno...
-.... (e allora?) rispondono i miei occhi.
- Metteremo quattro razzi sotto il petto di una colombina di cartapesta -prosegue come se niente fosse. - I razzi faranno incendiare un carro che volerá fino al Duomo, andata e ritorno. Se questa carriera pirotecnica funziona...
-.... (io guardo fuori, distratta)
- Se il carro s’incendia e la Combina vola, avremo un anno di benessere, sa signorina? Ma se cade e interrompe il volo, ahi ahi, contadini e cittadini possono aspettarsi qualche disgrazia.
- Succede. Succedono, a volte, le disgrazie. Non lo sa?
- Ma se lei viene a farci compagnia, non puó che essere tutto perfetto! (guardalo, questo qua, sfoderando un sorriso in cinemascope. Bei denti, ma chissenefrega). Ci fará l’onore di venire, per portarci fortuna, signorina...?
- Marianna...
- Allora verrá con noi alla festa della Colombina, Marianna?
- Va beeeene, dai. Andiamo a vedere ´sta Colombina! -rispondo dopo qualche secondo, con un sorriso stirato. Dopotutto, non ho uno straccio di programma per la notte. Zero via zero.
- Magnifico!- Jacopo Ardenzi mi offre una sigaretta, accendendomela galante fra le bollicine dello spritz.
Nella festa, in mezzo al tripudio della gente che grida e scalpita quando un colpo d’arma da fuoco dá il via al volo della Colombina, mi par di sentire un leggero calore ai fianchi. Non é niente. O meglio, quasi niente. Il calore é ancora lí, sulle mie anche, ma preferisco non farci caso, fra tanti corpi che si urtano involontariamente. Peró la sensazione di calore si fa piú pressante, invece che sfumare. C´é un altro corpo nitido e forte, adesso, che aderisce al mio da dietro. E due braccia altrettanto solide che mi circondano. Ne sono prigioniera. Un intenso profumo maschile mi assalta il collo. Sento che le mie gambe si afflosciano leggermente, come se mi si fossero staccate dal tronco.
Ma il bello é che non ho nessuna voglia di liberarmi da quel tepore avvolgente. Marianna, che stai facendo???!!! Al diavolo! E chiudo gli occhi, affondando nel profumo.
Vattene al diavolo, una buona volta, Marianna la santarellina, la ragazza di buona famiglia che non si comporterebbe mai cosí, dopo poche ore che conosce un giovanotto... Mi hai proprio stufato, brava ragazza! Gli é importato a qualcuno, di te? Aggiornati un po’, figliola. Prendi esempio da Paulina, magari. Quella Paulina che immagini come una bomba sexy, con calze a rete e giarrettiere rosse, sicuramente tanto piú furba di te, se ha ammaliato Markus.
Ma a te cosa manca, per non sentirti fantastica come e piú di quella stronza di Paulina, o Greta, o Julienne? Cos’é che non hai?
E cosí comincio a uscire con Jacopo. Tanto, non sono piú la stessa Marianna, e non c’é traccia di cartelli tedeschi nei dintorni. Né birra Frankfurter, né ausgang di stazioni lontane di dove sarebbe stato bene non esserci mai stata, come a Innsbruck, in quell’odioso bosco di fate. Sono libera. E qui, i giornali hanno titoli rassicuranti: “La Nazione” (una nazione rimpicciolita, dopo la febbre fallace dell’Impero), o “Il Tirreno”, questo mare piccolo, con tanti pini e onde tranquille, dove vado di tanto in tanto con un trenino antidiluviano. Insomma, qui gioco in casa.
Jacopo non é proprio bello, con il naso un po’ lungo (adesso direi che somiglia un po’ a Seann Penn) ma, non lo si puó negare, sa giocare da dio con quegli occhi vivaci. E modulando la voce, riesce a lanciare messaggi sensuali, anche quando parla degli ultimi modelli di macchine, o della modernissima autostrada del Sole, che un giorno non lontano dovrá attraversare tutta Italia, da nord al sud. Si avvicina il boom economico e anche le pettinature delle donne, come i portafogli, si stanno gonfiando fino a divenire a volte monumentali.
- Fuori le nubi!- mi sussurra Jacopo, soffiandomi con delicatezza sul viso, quando vede i miei occhi offuscati dalla tristezza.
-Non c’é niente di cui valga la pena preoccuparsi tanto, rosellina di maggio. Tutto passa, niente é tanto importante da doverti far piangere... E tu sei il fiore piú bello della Festa della Primavera, Marianna - conclude con un lungo, umido bacio.
Giá, che vie en rose, la sua. Non ha certo le banali preoccupazioni dei comuni mortali che devono amministrare con cautela le entrate familiari per arrivare con la lingua fuori a fine mese, tra bollette, affitto, figli, spesa. Sua madre ha una ditta che fornisce di pellicce pregiate le attrici e marchese del dopoguerra: quelle che anche se il termometro arriva a venti gradi, devono sfoggiare una stola di visone sull’abito di raso o taffetá, alla prima della Scala o del San Carlo. Ultimamente, anche le signore degli industriali sono entrate con prepotenza nel jet set della penisola. Sono i loro mariti ad alimentare l’economia italiana con fabbriche di prodotti plastici e macchinari. Ma nella famiglia Ardenzi é la signora Madre, a mandare avanti con decisione la Ditta Pelli Esclusive, una volta rimasta vedova. Jacopo, a quanto pare, non ha nessuna fretta di prendere il suo posto. Preferisce i caffé affollati ai sobri uffici dell’impresa.
-Sposati con Marianna -gli ripete la signora Madre. –È la moglie perfetta per te. Bella, colta, con classe. Potrebbe essere la migliore modella delle nostre pellicce, nelle feste e nei pranzi d’affari. E con un tocco d’ingenuitá, a volte, da ragazza di buona famiglia, che non guasta mai. Anzi, la rende incantevole.
Ma lui dá un’occhiata superficiale ai conti della ditta, sí sí tutto bene, e sparisce per un po’. Se ne va in Canada, dice, per controllare che ci mandino le migliori pellicce. Con qualche sosta, di passaggio, a Tahiti, Rio de Janeiro, Parigi.
Leggerezza, leggerezza. Questa nuova Marianna-Paulina-Julienne sta cercando, con Jacopo, di imparare la leggerezza. Vivere alla giornata, vivere i momenti magici e via. É l’unica, no? Ma un giorno, da un momento all’altro, senza preavviso, la bilancia del mio bagno segna tre kg in piú. Che diavolo succede... e non vengono le mestruazioni. Accidenti.
Succede che una scarica massiccia di ormoni sta rendendo piú pesanti i miei floridi seni, e rafforzando silenziosamente le membrane interne dell’utero, dove si sta moltiplicando a velocitá supersonica un grumo di cellule che porta i geni di nonne dai capelli rosa, da parte mia, piú i geni degli ingegnosi pellettieri toscani della famiglia di Jacopo. Succede che tutto il mio corpo sta preparando il nido per accogliere un nuovo essere unico al mondo, sia che risulti un capolavoro, che uno scherzo malevolo della natura. E dire che finora ho sempre stupidamente pensato che non mi fosse facile restare incinta, per essere sempre riuscita a contenere l’esuberanza riproduttiva di Markus... Ma eccoli lí, senz’ombra di dubbio, (per quanto li guardi e li riguardi, giri la bilancia, riprovi mille volte), quei maledetti chili in piú. Con il loro carico di smarrimento. E di un’imprevista felicitá.
Giorni dopo mi sento come una gatta al sole, distesa nel mio vestito di percalle a fiori, allargato come una rosa su un prato del giardino dei Boboli. Jacopo al mio fianco mi passa un dito sulle labbra, cercando un bacio. Ed io, mentre lo accarezzo, gli rivelo che stiamo per avere un bambino che amo giá visceralmente, é proprio il caso di dirlo, anche se mi sembra ancora tutto cosí strano, sai Jacopo? Avere un bimbo che ti somiglierá tutto, e...
- Sei matta?- Jacopo salta su, come punto da una vespa. -Non se ne parla proprio! Conosco qualcuno che potrá liberarti da “sta cosa”. Vedrai che non ti fará male.
E si accende nervosamente una sigaretta.
Non mi fará male? Sul sole adesso troppo forte di luglio passa un nuvolone carico di tuoni.
-...Perché non mi sposeró MAI con te, lo vuoi capire?? Il matrimonio é il massimo della stupiditá umana. Credere nell’amore eterno é da idioti. Non ti ricordi che ho avuto otto fidanzate, ma nessuna moglie?
Giá, adesso mi vengono in mente quelle brevi confessioni intime della festa della Colombina, brevi accenni tra una risata e un bacio, cancellati subito dallo strepito dei fuochi d’artificio. Che m’importava delle sue ex, se adesso anch’io ero diventata una Marianna, piú una Paulina piú una Greta. Quante personalitá in una potevo sentirmi dentro, avevo scoperto quella notte.
Ma adesso sono tornata una sola, pesantissima Marianna. Con un grumo di cellule che pretendono diventare un essere umano, esclusivo e possessivo come solo sanno essere i cuccioli d’uomo, che chiedono attenzione quasi le 24 ore del giorno. E sono generati da due persone, non clonati da una.
-No e poi no-insiste Jacopo, prendendomi per un braccio e portandomi in un bel bar di mattoni rossi, quasi nascosto dietro una buganvillea, dove ordina una coppa di champagne. Per festeggiare cosa?
-Saró sincero con te, rosellina di maggio. Io non mi consegnerò a nessuna donna che mi metta in gabbia, né a un bimbo piagnucolone. Tu mi piaci moltissimo, lo sai. Sei una donna splendida… come Giulia e Francesca. Tu sei meravigliosa per la tua classe, Giulia per la sua irruenza, Francesca per la sua dolcezza. E tutte e tre, siete magnifiche a letto.
-Ma bene! mi fa davvero piacere! E grazie per includermi fra le magnifiche. (e adesso Marianna... di lacrime, neanche morta!)
- ...Perché, vedi, non riesco a trovare quel che cerco in una sola donna...
-Neanch’io in un solo uomo, devo dire. Anzi, non c’é un solo uomo, tra quelli che cantano madrigali alle mie curve, che valga davvero la pena. Il conto, grazie.
Il bicchiere di champagne, mentre mi alzo, si rompe in cento pezzi.
-Tranquilla, tranquilla. Le gambe bene aperte, cosí. Adesso le daró un po’ di anestesia, -mi dice giorni dopo, in una stanza ammuffita, un medico sconosciuto.
-Non é niente, si rilassi. Non sentirá assolutamente nulla. Solo, morda questo fazzoletto, quando ne avrá bisogno.
Il mio sguardo vaga sugli affreschi popolati di piccoli Cupidi che soffiano dall’alto le loro stupide frecce, avvelenate dall’odore forte dell’alcool, che li trasforma in feti orribili in formalina, serpenti attorcigliati, Gorgoni mostruose.
Poi svengo. Mi sveglio gridando. Jacopo é in viaggio. Dicono che sia andato in Canadá. O alle Filippine. O alla casa del Diavolo.
-Niente scandali, mi raccomando!- mi avvisa la signora Madre delle Pelli Esclusive.
-Mi dispiace proprio, Marianna. Eri la moglie perfetta per il mio Jacopo, serviti di questi cantuccini con vinsanto. Lui ama i fiori, ma non gli interessano i frutti. È un eterno adolescente, e io non so che fare… Se ti serve qualche medicina, dimmelo pure.
Me ne vado con le gambe pesanti. Il mio corpo indolenzito (solo un grumo di cellule), sbudellato, (ma via, solo un grumo di cellule!), é tornato alla normalitá (normalitá?), ma i piedi mi si sono gonfiati moltissimo, chissá perché proprio i piedi. Mi trascino comunque al lavoro, e trovo sulla scrivania un cioccolatino del mio capo, direttore di supermercati, e un mazzetto di fresie della segretaria. Sono tutti cosí gentili, con questa Marianna dalle occhiaie profonde. Che le sará successo alla poveretta? Sicuramente un’intossicazione. -Hai mangiato gamberi, ultimamente?- mi sento chiedere.
-Ah sí- rispondo vagamente. -Forse ho mangiato un piatto esagerato di gamberi, frittura mista, cozze (code vive di pescecani) in un ristorante di Marina di Pisa, domenica scorsa. E non l’ho digerito, nonostante i due, tre, quattro stomaci di Marianna-Paulina-Greta e Julienne.
-Non vuol provare col cortisone? É un medicamento nuovo, introdotto recentemente in Italia- mi chiede un giovane medico lanciando un’occhiata ammirata, senza darlo a vedere, all’abito di cotonina rosa che mi disegna dolcemente il corpo.
-Lo vuole provare?
-Sí, dottore, grazie (tanto, per me é uguale, vivere o morire). Cosí, entro nella modernitá. La medicina funziona, e posso tornare coi piedi sgonfi a contemplare dalla stanza in affitto di Borgo Pinti, sera dopo sera, lo svolazzare frenetico delle rondini che riempiono di gridi il cielo tiepido della sera.
Vanno e vengono dai nidi sotto il tetto, dove i loro piccoli aprono i loro becchi smisurati. Vite mosse dal semplice impulso della vita. E sembrano cosí felici, senza permessi né certificati. Nella natura tutto é piú semplice. Perché gli uomini, invece, sono cosí complicati? O sono io, che non capisco le regole stabilite dagli uomini, ad essere fuori posto in questo semplice gioco di istinti che ci porta a accoppiarci? ALLORA, QUAL E` IL MIO POSTO? chiedo al cielo opaco, ingrigito dall’afa.
Una sera, in mezzo al chiacchiericcio dei vicini, una radio troppo alta, il rimbalzare di una palla sul muro, sento la frenata stridente di una moto che si ferma sotto il portone. Sará qualche cretinetto che deve mostrare a tutti la sua moto dalla marmitta truccata, e si diverte a rompere i timpani ai vicini. Fuck! E invece no. Non ha l’aria di un cretinetto quello sconosciuto con casco e occhiali che é sceso frettolosamente dalla moto e adesso mi sta suonando il campanello, sbracciandosi in direzione della mia finestra. Con un pacchetto in mano.
Ah.
Volo giú per le scale col cuore in gola, rischiando di rompermi il collo. Alt. Fermati qui, Marianna. Che salga lui stavolta, no?
Mi blocco a metá delle scale aspettando che Markus mi raggiunga, respirando forte per cercare di calmare i miei battiti impazziti. Anche lui sta saltando due a due, quattro a quattro scalini alla volta, per arrivarmi addosso con un sorriso spettinato, malandrino e tenero. E mi abbraccia come se fosse riapparso dopo una settimana, invece che dopo due infiniti anni di assenza.
-Sono venuto a darti questo, Marianna. È importante.
-Sí, ma prima lavati.
Ah eccola di nuovo, la brava ragazza ordinata. Ma a chi vai a raccontarlo... se non lo sei piú, Marianna, ricordi?
-Sí sí, - Markus prende al volo impaziente un asciugamano, poi mi acciuffa e mi fa ridere a forza di baci e pizzicotti, mentre io fingo di sfuggirgli.
-Ti devo dare una cosa importante- insiste Markus. –Ma non qui, non in cucina. Sali con me in moto, e andiamo sulla collina piú bella di tutta la Toscana, per avere Firenze ai nostri piedi...
-Non vuoi mangiare qualcosa? Non sei ancora stanco dopo millecinquecento chilometri di strada?
-Macché stanco... dai, vieni con me sulla collina prima che faccia notte, perché il fanalino non mi funziona bene.
Non c´é solo il fanale fulminato, a guardar bene: anche parecchi bulloni si devono essersi allentati nel lungo viaggio dalla Germania. E i freni...., aiuto! Le frenate sono lunghissime, con un soprassalto finale che solleva le ruote, e devi tenerti forte. Ma non importa. La moto adesso arranca in salita, ruggendo orgogliosa. Io appoggio la testa sulla spalla di Markus, e sciolgo i capelli nel vento tiepido della sera. Ahhh di nuovo il suo odore..., quel profumo di gatto selvaggio, che mi fa drizzare la schiena e gemere come una gatta in calore, mentre nell’aria stordita della primavera volteggia un turbinio di semi. La natura che ci avvolge col suo splendido delirio riproduttivo...
Markus guida la moto tenendomi stretta la mano con la sua, ruvida e dolce. Moscerini.
Sí, i freni sono davvero al lumicino. Tanto che, dopo aver raggiunto ansimando la cima di una collina, ci lancia di mala grazia su un prato di erbe appena tagliate, in mezzo a olivi centenari. Lá in fondo, una Firenze annebbiata dall’afa.
Sgranchiamo le gambe, sollevati.
-Vieni qui, amore mio- riprende Markus. Suona come letteratura da quattro soldi, lo so, ma il mio principe mi ha detto esattamente cosí:
- Ho sentito un’ispirazione dal cielo: Marianna é la donna della tua vita. Per questo, sono venuto a chiederti di nuovo in moglie.
E tira fuori la fatidica scatoletta. Dentro c’è un brillante con tanto di certificato di autenticitá. La stessa preziosa pietra sognata dalle Innamorate, che a partire dalla conquista del Brillante, (a sua volta conquistato dai Fidanzati a forza di risparmi o di rocamboleschi affari), diventano Fidanzate Ufficiali. Altro che il mezzo bottone d’argento del nostro austero fidanzamento postbellico. Come sará riuscito a comprarlo Markus, se siamo ancora in tempi di vacche magre?
Dovrei sentirmi orgogliosa, secondo il copione delle Fortunate Fidanzate. E invece giro la faccia.
-Non lo voglio, grazie.
- Che ti prende, Marianna?
Markus é davvero stupito. Mi stringe, mi cerca gli occhi. Insomma, perché? Io mi sciolgo con decisione dal suo abbraccio. Adesso basta con zeffiri e Cupidi, uno piú stupido dell’altro. Meglio scendere a terra, alla dura realtá. E gli dico con tristezza:
-Non lo voglio, il tuo prezioso anello. Perché non posso piú fidarmi di te. Ma neanche di me stessa -aggiungo un po’ piú piano. E lancio nel tramonto questa frase da “Via col vento”:
-Non posso piú sposarti, Markus. Sono una donna finita. Sporca. Ho abortito.
Markus resta un attimo in silenzio, sorpreso.
-Questa poi, Marianna....- e chiude un attimo gli occhi. Si puó sentire anche il ronzio di una vespa, in quel silenzio profumato d’erba.
Ma poi si riprende.
-No, non devi sentirti cosí, amore mio. Sono stato io a lasciarti sola. Perdonami. Ma adesso staró sempre con te (il tuo Lancillotto ti riscatterá). Se non posso piú chiederti la mano, ti chiederó il piede.
E si china a baciarmi un piede, due piedi, una gamba, due gambe. E mentre i suoi baci salgono lentamente sulla mia pelle, sento aprirsi ogni cellula del mio corpo, come un prato di margherite che muove vibrando il vento della mattina.
Ritorniamo con la moto in folle in una discesa pericolosa, gridando mentre evitiamo (per un pelo!) un gatto distratto, una pietra caduta in mezzo alla strada. Ci avvolge un mulinello di semi impazziti. Rido e piango nelle sua braccia. E lascio che cominci a formarsi la valanga di quel lontano bosco di fate.
Il comandante si aggiusta il passamontagna nero, di dove scende un rivolo di sudore.
-Allora, BENE O MALE?-ripete con forza. Il suo sguardo, impenetrabile.
Sebastiano abbassa un po’ la testa, preoccupato, come se cercasse la risposta tra i fili d’erba che calpestano i suoi piedi ruvidi. Ivan, al contrario, guarda in alto, come cercando ispirazione in qualche angolo del cielo.
Io mi mantengo in piedi, con questa corrente gelata che mi scorre nel corpo, avvolgendomi in una campana di cristallo, mentre fuori un sole cocente brucia la terra.
Saró un corpo senza vita fra un’ora, fra le grida e i pianti dei vicini, senza che nessuno di quelli che ho piú amato nella vita mi possa tendere la mano?
NON ADESSO, NON ADESSO, PER DIO! Un grido sgorga dalle mie viscere, senza poter esplodere fuori.
Kametza è BENE, BENE, BENE! Cerco di comunicare telepaticamente ai due cacciatori che restano confusi, in silenzio. Dopo, chiudo gli occhi esausta, mentre un torrente di ricordi mi riporta alla mente scene intense di vita. Riemergendo dalle pieghe dell’anima, alcune tornano, come una volta, col loro carico di vergogna e dolore.

 

 
farfalle1Capitolo 9.    Casa, dolce casa
Eccola lí, con tutte le luci accese come una nave che brilla su un mare scuro, la nostra casa berlinese dai pavimenti lucidi. É una solida villa con giardino, lampadari di cristallo di Murano e pavimenti di marmo di Carrara, che riflettono la stella dell’ingegner Markus Weiser, un uomo che ha raggiunto il successo. Finalmente sono arrivati un magnifico lavoro per lui, e una vera casa per noi, dopo il purgatorio della stanzetta presa in affitto a Monaco nei primi anni di matrimonio, che la padrona di casa teneva a una temperatura di dieci gradi, per risparmiare sul riscaldamento.
Sia a Markus che a me piace molto Berlino, una cittá ricca di parchi, e con un’attiva vita civile. Il totalitarismo nazista appare sepolto, in pochi anni, oltre che nelle rovine della guerra, da un processo di rimozione collettiva, la verdrangung. Nazisti? Mai sentiti nominare. Intanto si fa strada la socialdemocrazia, per dimostrare al mondo comunista, al di lá della cortina di ferro, che é possibile godere di benefici sociali senza dover rinunciare alle libertá fondamentali, come prendere un treno, scegliere tra vari partiti, cambiare lavoro o paese. Nelle moderne fabbriche tedesche arrivano immigranti dalla Turchia, dal sud d’Italia, dal Portogallo e Jugoslavia, adattandosi ai ritmi e disciplina dei laboriosi tedeschi. Ma il 31 agosto del ´61 vediamo sorgere sconcertati il famoso “Muro di protezione antifascista”, che segna anche in cittá la divisione ideologica fra le due Germanie. E anche, piú pedestremente, la divisione fisica tra famiglie, vicini, amici. Impossibile passare dall’Est all’Ovest senza attirare l’attenzione dei vopos che di quando in quando fulminano qualche spirito ribelle che vuole oltrepassare il muro. Noi di Berlino Ovest, per uscire dalla cittá dobbiamo passare per una delle tre autostrade disponibili, e per un’infinitá di controlli. Per fortuna, l’abbondanza di parchi e laghi compensa in cittá l’asfissia della vita politica.
La nostra è una bella casa, sí, peró quanto odio i suoi pavimenti lucidi… perché se ci cade su una goccia d’acqua, o peggio, di salsa, la vestale della casa deve passare e ripassare la lucidatrice per recuperare la sua brillante perfezione: il massimo per sviluppare, se appena ne hai inclinazione, una tendenza ossessiva.
Pazienza, Marianna, pazienza, mi dico. So che devo pagare un prezzo per poter vivere al fianco del principe di Turingia and Saxonia, nel giardino incantato della Felicitá. Include per esempio imparare a cucinare, o stirare alla perfezione le camicie a righe che Markus si cambia ogni giorno, per presentarsi impeccabile alle sue riunioni di lavoro. Include imparare il tedesco, e cercare di fare amicizia con le poche donne che circolano per casa (occhi grigi, labbra sottili), e mi guardano appena. Non so che pesci pigliare. Non hanno simpatia con gli italiani, o con me? Come dovrei trattarle? Non ho idea.
E poi, la lingua tedesca. Ha niente meno che 400mila parole da memorizzare, 100mila piú che l’italiano: una bagattella. Perché su tutto hanno da specificare, i benedetti tedeschi, trovando la parola adeguata, o aggiungendo a una parola prefissi o suffissi. L’uscita puó essere ausgang, se a piedi, o ausfhart, se in macchina.
L’azione di pensare (denken) ha tante sfumature. I precursori sono quelli che pensano-prima (vondenker), mentre quelli che riflettono sono quelli che pensano-dopo. I volubili che cambiano idea, sono gli Umdenker, mentre i Mitdenker sono quelli che capiscono fino in fondo i sentimenti degli altri, gli empatici. Ma c’é una parola fra tante, che mi piace moltissimo, e ne sintetizza varie: Zeigeist. Lo spirito del tempo, le caratteristiche piú rilevanti di una generazione. Una parola importante, in un paese dalla storia accidentata e dai drammatici cambiamenti. O questa magnifica shadenfreude: il piacere maligno del vedere soffrire l’altro….una voluttá piú diffusa di quanto si pensi, se si considera che nella Germania dell’Est piú di un milione di persone collabora- come si seppe dopo- in forma saltuaria o continuativa con la polizia, per fregare la vita di quelli che invidia, odia, non sopporta, fra i nove milioni di suoi concittadini. Per cui, grazie a queste trame,   come va aumentando il weltshmerz, il “dolore profondo del mondo”…
Poco a poco mi appassiono a questo linguaggio preciso e severo, vivendo come lebengefartin (compagna di vita), ossia qualcosa di piú che compagna di lavoro o di viaggio di Markus. I puntigliosi tedeschi potrebbero chiedermi: Di tutta la vita, o solo di una tappa? (lebensabschnittgefahrtin)? Ma a questa domanda nessun dizionario saprá mai rispondere.
La mia buona volontá dá i suoi frutti: giá alla fine del primo anno di matrimonio ho letto tutto il Faust di Goethe, ho imparato a mescolare basilico e besciamella, a distinguere fra curry e chiodi di garofano, e coniugare i congiuntivi in tedesco. Regalo al mondo, dopo tre giorni di dolori, una bella bambina che è il ritratto vivo di suo padre, le diamo il nome di Elisa, la sua bisnonna dai capelli rosa, e mettiamo sulla sua culla due pappagalli verdi di peluche.
A Berlino, mentre io mi destreggio sempre meglio come padrona di casa, Markus puó dedicarsi completamente al lavoro, che include anche interessanti ricerche scientifiche, che condivide con colleghi pieni di talento. Li sento a volte fare lunghe conversazioni per telefono disquisendo su cloridrati e benzoati. Che fortuna per Markus, penso, poter condividere idee e scoperte coi suoi colleghi. Dev’essere appassionante.
Io invece, devo fare salti mortali per non annoiarmi. Ho una domestica a tempo parziale (una donna massiccia, di poche parole), con cui condividere i lavori piú pesanti della casa. Il mio diploma di laurea ottenuto a Cambridge è stato relegato in fondo a un cassetto. Ma non ho niente di cui lamentarmi. Il ruolo che mi assegna la societá in quel momento è dedicarmi anima e corpo al marito, che a sua volta dedica la sua vita a provvedere a tutte le necessità della famiglia. Ogni tanto organizziamo una cena, per favorire certi contatti sociali con uomini d’affari. Il mio compito é preparare piatti raffinatissimi, sorridere e tacere.
Accogliamo gli ospiti sulla porta di casa, con eleganza discreta: Markus con il suo (classico) completo blu marino, io con il mio (classico) vestito di velluto nero, accompagnato da una (ancor piú classica) collana di perle. Ho preparato la tavola con candele e decorazioni di fiori. Una musica gradevole, a volume basso, (una delle impeccabili esecuzioni del Berliner Ensemble, delle sonate di Listz, Brahams, Mozart) accompagna gli impeccabili piatti come creme di asparagi o crepes suzettes, paté de foie gras o torte con frutti di bosco, che presento uno a uno, con gentilezza.
Dopo alcuni sobri complimenti alla padrona di casa (io chino la testa sorridendo) per la sua abilitá di cuoca, chef e anfitriona, gli ospiti si dividono in due gruppi: gli uomini nei divani e poltrone della sala, a parlare di politica e affari, prima del brandy; di sport e nuove tecnologie, dopo il brandy. Con qualche barzelletta finale, se il brandy é stato doppio. Lí colgo qualche barlume (brevissimo) del giovane Markus, il mio amato e giocoso Markus della stazione di Innsbruck.
All’altro lato della sala, su altri divani e poltrone, dissertano le donne. Ma qui si parla solo di idraulici e pediatri, tubi rotti e morbillo. Ah, dimenticavo, dopo il brandy si parla anche di sarte e parrucchiere. Adesso va il grigio, e i capelli corti. Un taglio piú sfumato dell’anno scorso. Per poi tornare alla scarlattina del secondo figlio di Ingrid, o se e quando era il caso di preoccuparsi con la cacchina verde o gialla del primogenito di Johanna. E quali erano i migliori modelli di lavatrice, Grundig, Telefunken, Wilkinson?
Io mi annoio mortalmente, ma non vedo via d’uscita. A volte mi alzo per non mostrare la mia impazienza, con la scusa di andare in cucina a mettere altre noci, ah mi sono dimenticata! sulla torta. Nessuno fa caso alla mia sparizione. In realtá, non riesco a scoprire una scintilla di simpatia, dietro quegli occhi grigini, azzurrini, verdini delle signore ospiti e mogli, come me, di uomini di successo. Non riesco a farci amicizia, e continuo a non riuscire a capire se dipende da me o da cosa. Beh, meglio che lo dica. Queste mogli di direttori dipartimentali e generali mi sembrano monotone e grigie come le loro lavatrici! E non ho piú voglia di fare i salti mortali per piacergli! L’ho detta!
Finita la cena, raccolgo i piatti sporchi (la sua vista mi é odiosa a colazione) vuoto i posaceneri, dó aria alla sala, (anch’io mi sento vuota) mi tolgo e butto in fondo all’armadio le scarpe coi tacchi, mi sfilo il vestito di velluto, la sottoveste di seta, sgancio reggiseno e sfilo mutandine, aah, che liberazione, vado in fretta in bagno e poi cerco le braccia di Markus. Per sentire se il mio corpo di Donna ha ancora consistenza e calore. Se puó uscire dall’anonimato. Ma per quanto cerchi di limitare al minimo la mia sosta in bagno, lo trovo giá sprofondato in un sonno pesante, con la sveglia preparata per le sei e mezzo. Quasi sempre.
In uno di questi “quasi” resto di nuovo incinta. Poco prima di Natale, vado in Italia a Parma a raccogliere Elisa dai nonni, stare lá con loro un mese, e poi riunire di nuovo a Berlino la Famiglia felice.
Salgo le scale della nostra bella casa, di ritorno a Berlino. Il viaggio in aereo è stato agitato da una tempesta di neve. Mancano due giorni al Natale del 1963. Markus va avanti con le valigie. Grazie, amore mio. Nonostante la stanchezza, Mamma Orsa vuole riordinare il suo territorio (casa dolce casa!) spacchettando i regali, aprendo e chiudendo cassetti. È tutto a posto, magnifico. Elisa si addormenta all’istante, nel suo lettino coi pappagalli verdi. Markus deve fare un paio di chiamate e mi dice di raggiungerlo in sala per il brandy fra dieci minuti. Ma, aprendo una valigia, non resisto alla tentazione di entrare in sala, silenziosamente, per lanciargli il capolavoro che gli sto per regalare: una preziosa cravatta italiana di seta, con immagini di giocatori di polo, da indossare per le feste. Solo un lancio scherzoso, non voglio interrompere la sua telefonata.
-Sono d’accordo con te, ...Le ricerche sull’acido desossiribonucleico hanno preso molte direzioni...-
Non ho intenzione di ascoltare cosa dice Markus al telefono, per non essere indiscreta, e capto solo vagamente questo brandello di conversazione. Ma per qualche secondo resto lí ammirata di fronte all’immagine di quest’uomo con la cornetta in mano, sotto la lampada che fa brillare i suoi capelli biondi, folti e ondulati: mio marito! Come brillano anche i suoi occhi di lagune verdi, mentre parla di acidi con un collega… No, è con una collega. Perché termina sussurrando: “A domani, amore mio. Per affogarci di baci”.
Markus mi dá le spalle, quando pronuncia queste parole, ed io entro sorridente con la cravatta in alto (sarebbe un’ottima scena, al rallentatore). Resto lí stupidamente con la cravatta in alto, mentre lui si gira e si accorge della mia presenza impietrita sulla soglia. Il suo viso cambia espressione, i suoi muscoli si tendono. Diventa un altro. Ah, era cosí l’acido desossiribonucleico, penso senza pensare (il cuore sospeso in una campana gelata) solo ripetendomi: Acido, acido. Come il mio corpo gonfio, adesso in preda ai conati di vomito. Markus (questo Markus non lo conosco, é il suo rovescio) afferra la bottiglia di brandy, ingolla mezzo bicchiere e grida:
-E allora? Sí, ho un’amante. E allora? Si chiama Susan ed é una delle piú brillanti biologhe che conosca! E odio la tua faccetta di Bimba Buona (adesso, trasparente) di Moglie Perfetta. Non ne posso più di averti intorno. Mi fai sentire in gabbia.
Sbatte la porta e se ne va. Fuori nevica o piove? Avrá preso l’ombrello?
Scivolo lentamente dalla cornice della porta a cui sembravo incollata, fino al pavimento di marmo. Quel bel pavimento di marmo, con varie macchiette che si sono accumulate in mia assenza, in attesa che le mie mani di fata le restituiscano il luccichio della Casa felice.
Finisce cosí il mio tentativo di costruire una Famiglia con l’Uomo che amo, mi dico. Curando i dettagli (si tratta solo di dettagli,no? sono solo una casalinga) perché il colore dei suoi calzini sia in armonia con il colore delle scarpe e dei pantaloni. Controllando ogni giorno che la lavatrice elimini il filino di cacca che resta sulla sue mutande, perché in caso contrario la moglie perfetta deve ripassarle a mano. Purtroppo i detersivi lasciano ancora a desiderare. Bisognerebbe aggiungere qualcosa di biologico, magari. Un acido? Sí, un acido ci starebbe bene. Dovremmo chiederlo a questa Susan, brillante biologa, se sa come togliere veramente bene quel dannato filino di cacca dalle mutande del nostro comune Gran Amore. Ma lei avrá sicuramente ricerche piú interessanti da fare. No queste scemenze. Magari lei sa fare delle fellatio senza pari. Biologicamente perfette.
Marianna, Marianna... ti sono servite a qualcosa le poesie? continuo a pensare buttata lí sul pavimento, come un gomitolo dimenticato. A niente. Adesso serve l’Ingegneria, la Biologia, altro che i vaneggiamenti di poeti falliti.
Miser Catulle desinas ineptire... ah ah che risate! Al liceo t’insegnavano queste delicatezze, e piú tardi scopristi che il sensibile poeta che piangeva per Lesbia si consolava con maschi dalle tremende verghe. Ode al Fallo, tanto per cambiare. Terapeutico o no. Come sempre. Fallo forever. Questo, i professori del liceo non lo raccontavano. Anche se probabilmente, anzi sicuramente, era la parte piú riuscita della vita del delicato Catullo. Il rovescio di tanti fottuti miti, come quello dell’Amore Eterno, che ti avevano propinato fin da piccola, a scuola, in chiesa, nella vita. E andava di pari passo con l’altro mito, quello della Sposa e Madre abnegata e felice di abnegarsi (e di annegarsi, negarsi o ingannarsi), in modo che tutti (tutte le sue vittime) la adorassero. Per la Donna abnegata, di selette virtú, uno sconto speciale nella sua lapide, di tombe di famiglia (of course). L’unico marmo di cui é degna.
Mi alzo indolenzita, con la guancia raggelata dal marmo, dopo non so quanto tempo. Me ne vado in bagno a vomitare. Eppure il mio dolore resta lí come una pietra. Non ho nessuno con cui sfogarlo, né amiche, né sorelle o fratelli, né zie. Ilse vive a mille km. di distanza, i miei genitori quasi a duemila, e comunque non servono a consolarmi, nella loro fragile vecchiaia. Coi miei fratelli ora adulti, lasciata indietro la complicità dei nostri giochi infantili, ho una relazione appena cordiale. “Tutto bene col lavoro?” “Sí sí”, “Tutto bene coi figli?” “Sisí”. E qui, la compagnia di queste donne teutoniche, fredde come l’inverno. Sono piú sola della luna.
Il mio corpo é diventato insensibile. Che esista o no, a qualcuno gli importa?
Entro silenziosamente nella stanza di Elisa. Che dolce, il suo profumo di bimba.
Dormi, stella mia… Non ti ho ancora detto che noi donne dobbiamo imparare a vivere in un altro modo? Quale, non lo so. Perché il matrimonio, come diceva il mio amico Jacopo, è una gabbia asfissiante. Giusto. Asfissiante per chi? Devo uscire a prendere aria.
Dormi bimba mia adorata, per favore, non svegliarti.
Prendo la sciarpa e il cappotto, scendo le scale, apro la porta, esco in strada come un automa. Una raffica di vento gelato mi schiaffeggia il viso. Sta cominciando a nevicare. Mi sento scoppiare la testa. Continuo a camminare senza meta. D’improvviso, attraverso la strada. Uno stridio di freni. Non sono riusciti ad ammazzarmi.
Adesso sí, invece, vogliono ammazzarmi. Adesso che ho una voglia disperata di vivere, saranno gli altri a decidere il mio destino, che pende da due parole: Kametza, Tekametza.
Qualcuno mi sta riportando alla bella casa dai pavimenti lucidi. E´ quasi l’alba.
-Vada a riposarsi un po’, signora. La vedo pallida.
-Grazie- mormoro.
Chiudo la porta, accendo la luce. I miei stivaletti macchiano di fango e neve l’ingresso brillante. Salgo su per le scale, esausta. Nel corridoio in penombra, intravedo l’odiosa figura di Markus (ah, allora è tornato) -piantato come l’angelo di un monumento funerario al lato della porta della stanza di Elisa. Giro la faccia, per non incrociare il suo sguardo.
Non scambiamo nemmeno una parola. Verró a sapere dopo, che Markus è tornato solo diciassette minuti prima di me. Il tempo sufficiente per sentire che Elisa si è svegliata e chiede acqua alla sua mamma. E la mamma non c’é. E deve fare mille giochi di parole per distrarla, mentre pensieri terribili sbattono contro le pareti della sua mente, come uccelli impazziti contro le sbarre di una gabbia.
Solo diciassette minuti. Il tempo sufficiente per concedere a me altri diciassette anni di tempestosa pace. Fino a quel fatidico maggio del ‘68.
 
 
farfalle1Capitolo 10.    Vogliamo l’impossibile
I vetri delle finestre tremano. Lá sotto, in strada, una fiumana di gente sta scandendo in coro slogans mai sentiti. “Vogliamo l’impossibile!”,“La fantasia al potere!” Una rara congiunzione astrale secondo alcuni, certe condizioni storiche particolari secondo altri, spingono le masse di Pechino, New York, Lima, Roma, Parigi, Praga, a cercare nuovi orizzonti sociali. Fiumi di studenti e lavoratori protestano contro le basi autoritarie di una societá resa docile e conformista da Partiti, Chiese e Scuole, all’Ovest; dal Partito, all’Est. Vogliono dar vita a nuove forme di vita civile. Tutto deve poter essere ridiscusso, sperimentato e rifondato, compresa la base di tutte le basi, su cui si fonda il matrimonio, su cui si fonda la societá, su cui si fonda la continuitá della specie nei saecula saeculorum amen: il rapporto uomo- donna. La donna dov’é, si chiedono nei circoli e nelle piazze i gruppi femministi, quando padri, mariti, sacerdoti prendono, in forma piú o meno sottile, decisioni sul suo conto?
“IO SONO MIA!” Sento gridare per strada a gruppi di ragazze che alzano le mani in un gesto che rappresenta il simbolo della vagina, in mezzo alle bandiere libertarie. È cominciata la piú imprevista di tutte le rivoluzioni: lo sdoganamento, attraverso la pillola anticoncettiva, della sessualitá femminile. Finalmente, ragazze mie, ognuna faccia quel che meglio crede con le proprie mutande: le regali, le blindi, o le conservi per chi ama, se proprio é qualcuno che vale la pena.
Mamma che tempi! Commenta scandalizzata una vecchia signora, osservando con un’amica il fiume di giovani donne dalle mani alzate. E per qualche minuto assisto al dialogo concitato che si svolge fra due ragazze uscite dalla manifestazione e le due vecchie signore.
“Allora, carissime mamme-nonne-zie, per caso avete vissuto contente il regime della doppia morale? arringa una delle ragazze, con una lunga capigliatura rossa ondeggiante. (Ma noi...) “Contente di essere state obbligate ad arrivare vergini al matrimonio, se no, nessuno vi voleva? -incalza- (Ma io...) mentre ai vostri fratelli e cugini maschietti, gli uomini della famiglia se li portavano al bordello a provare tutte le posizioni? (Ma loro...)
- E poi, quando siete finite nella gabbia del matrimonio…- si fa avanti decisa la seconda ragazza, una brunetta con cinquanta treccine arrotolate sulla testa -…Siete state contente, sopportando le amanti dei mariti? (Ma loro...)
“Insomma!!”, adesso é la signora anziana ad alzare la voce: “Ma noi..., ma voi..., ma loro..., allora se anche voi volete degli amanti, non sarete VOI delle puttane?”
I miei figli, Elisa e Alexander, sono cresciuti in un soffio. Elisa ha ormai vent’anni, è bella, piena di vita e studia ad Amburgo, mentre Alex, di quasi diciassette anni, è alto e dinoccolato, riservato e distratto, sempre con l’aria impegnata di chi ha i grandi enigmi della fisica da risolvere. Bisogna ripetergli due o tre volte le cose prima di riuscire a farlo scendere dalle nubi. A volte, perso dietro i suoi calcoli, si mette i vestiti al rovescio. Mentre si moltiplicano in salotto le allegre foto familiari, Markus mi ripete, ogni tanto: “DEVI SAPERE MARIANNA, CHE QUALUNQUE COSA IO FACCIA, TU SEI L’UNICA DONNA CHE VERAMENTE AMO”. Insomma, qualcosa del tipo: “Amami, anche se io ti amo in maniera incoerente”. Olé.
Tra noi, si parla di tutto: politica, musica e cultura. Tranne di quello che ci interessa veramente, e non vogliamo o sappiamo rivelare: i fili arruffati nel rovescio della tovaglia, i desideri, i bisogni, le aspirazioni che si nascondono dietro i fili intricati del ricamo di cento pappagalli.
Comunque, approfittando dei nuovi tempi, un giorno, uscendo dalla lavanderia, invece di prendere il solito tram per tornare a casa, seguo un gruppo di studenti, e senza pensarci troppo mi iscrivo alla Facoltá di Antropologia, la scienza dell’Uomo. E anche della Donna, spero.
-Sai Markus, è affascinante studiare come i popoli si creano divinitá, miti, regole e cultura. Da millenni gli uomini cercano di captare e indirizzare a loro favore le energie che si muovono nell’universo!-spiego al mio amore mentre porto la minestra in tavola.
-Ma va lá, quante sciocchezze- brontola Markus, soffiando sul piatto troppo caldo e raggelando i miei entusiasmi. Tutto quello che non si puó riprodurre in laboratorio, per lui non ha valore.
-E i sogni premonitori, allora, come te li spieghi, tesoro?-insisto sparecchiando.
-Sai, ci sono dei popoli i cui anziani saggi hanno il compito di interpretare i sogni che fa la gente, cercando di rispondere alle loro domande. Lo fanno per esempio gli Harákmbut, un’etnia che è stata “contattata” dagli europei pochi anni fa, e vive nella regione selvatica di Madre de Dios, nel sud del Perú….- cerco di spiegargli mentre asciugo i piatti.
-Niente di scientifico- taglia corto Markus, mettendosi la giacchetta, e uscendo con un breve cenno di saluto. Con un sospiro, termino di riordinare la cucina.
È chiaro che l’Uomo della mia Vita non apprezza come vorrei i miei studi ed interessi. E neanche il mio andirivieni fra 1) Figli, 2) Casa, 3) Ospiti, 4) Universitá (in quest’ordine). Ah, dimenticavo: prime fra i primi, le Sue camicie a righe, che lascio sempre perfettamente lavate e stirate nel Suo armadio. Tutto questo peró, per lui non é lavoro. Chi lavora é lui, io non ho niente, o quasi, da fare.
E poi ha ripreso a sparire per giorni. Ufficialmente deve partecipare a congressi scientifici, ma a volte se ne va senza nessuna scusa plausibile. Semplicemente chiude la porta e sparisce, dopo aver lasciato un biglietto succinto. Non so se si é ripreso con Susan, ma mi arrivano voci anche di altre emozionanti avventure, con una bionda appariscente, o una bruna da film: donne intelligenti o mediocri, chissá, o magari, per loro disgrazia, dal cuore tenero. Quelle che si lasciano incantare dal sussurro di parole vellutate, che scendono, mescolate ai baci, giú giú per le orecchie, per concludere con la classica formula: “Sí, ho moglie e figli, che rappresentano il mio Dovere: (breve sospiro), la Famiglia. Ah, la Famiglia!”(segue un silenzio denso di significato, che potrebbe voler dire tutto, o il contrario di tutto. Per finire con un: “Ma, come vedi, poi torno sempre a te, che sei la Donna dei miei sogni…Con te posso essere finalmente me stesso.”
Ossia, il rovescio perfettamente complementare a quello che dice alla Moglie: “Qualsiasi cosa faccia, (per quante donne possa avere), ricordati, sempre torno da te”. Bello, no? A lui va sempre bene. Lui ha sempre dove tornare.
Cosí, ricomincia quella tensione alla bocca dello stomaco di quando c’era distanza e disamore fra noi. Fino a quella sera in cui qualcuno mi suggerisce nuove strade.
La tavola è stata preparata con fiori e candele, per tre. È giá arrivato il nostro ospite, il dottor Weber, un anziano neurologo dai baffi bianchi, dotato di una cultura enciclopedica e un fine senso dell’umorismo. La sua deliziosa conversazione puó vagare dagli ufo alla fisiologia dei polpi, risultando sempre piacevole. Succeda quel che succeda, non me la voglio perdere, mi dico, e lo invito ad accomodarsi, prendendogli sciarpa e cappotto.
-Cominciamo a cenare, dottore?
-Non aspettiamo Markus?
Il suo piatto, lucido e vuoto. La sedia, deserta.
-È che…sta ritardando un po’, dev’essere che si è dimenticato che…( Markus é via da due giorni. Mi ha mormorato qualcosa a voce bassa andandosene: una scusa confusa, che ho preferito non sentire). Le tagliatelle alla panna si sono un po’ scotte, mi dispiace, dottore- mi scuso portando in tavola, nervosa, il primo piatto.
-Non importa, anche cosí rivelano il suo tocco di gran cuoca-mi risponde cavallerescamente il dottor Weber- Piuttosto, c´è qualcosa che la preoccupa?
-Beh, per essere sincera, avrei una domanda da farle, come scienziato…su…hm, la sessualità umana. Ossia, è vero che…. uomini e donne abbiamo necessità fisiologiche differenti? (Tradotto: perché Markus deve andarsene cosí spesso fuori di notte, Non- so- dove, a fare Non- so- cosa con Non- so- chi?)
Compare un breve risolino sotto i baffi bianchi.
-Vuol sapere insomma se esistono piú donne ninfomane che uomini assatanati?- risponde a sorpresa il nostro amico, rigirando la frittata.- Dipende. Nessuna delle sue amiche femministe le ha spiegato che il corpo femminile è piú bello, piú sofisticato nel sesso e resistente nella vita di quello maschile? E le donne possono portare gli uomini a far guerra o pace? Volete qualcosa di piú, signore mie?-mi apostrofa il dottor Weber con un gran sorriso burlone, sorbendo il suo brandy.
-Sará anche vero, ma di fatto, le pressioni sociali in Occidente hanno sempre favorito gli uomini, esaltando la loro virilitá e non al contrario!- ribatto cominciando a scaldarmi. –E fuori del letto, per una Cleopatra che ha conquistato due o cento grandi uomini, ci sono milioni o miliardi di Annine e Giuseppine che devono chiedere il permesso per tutto ai loro uomini, dallo studiare al lavorare, al votare..., che fatica gente! Non avrá ragione il mio amico Amadeus?
-Ah, quello studente con la chioma ricciuta che viene spesso a casa sua per i vostri scambi culturali....(continua col suo sorriso burlone, il dottor Weber. Beh, pensi un po’ quel che gli pare, io...)
-Appunto! Amadeus è il piú preparato, il piú intelligente (e sexy ) dei miei compagni studenti, con cui a volte facciamo lunghe discussioni. Lui insiste che la chiave anche delle relazioni familiari é il capitale. Chi maneggia la cassa, produce per il mercato, o possiede terre e case, é in definitiva chi comanda anche in famiglia, sostiene Amadeus. Gli uomini nel corso della storia l’hanno capito cosí bene, che per dominare la sessualitá potenzialmente pericolosa delle donne, dice, hanno tolto loro l’acceso alle terre o ai conti in banca, come se fossero sottosviluppate mentali, no dottor Weber ? In buona parte del mondo é ancora cosí.
-E lei cosa pensa, Marianna?
- A dir la veritá, mi sembra un po’ eccessivo, il mio amico Amadeus. Perché c’é anche l’Amore, te lo scordi Amadeus? gli ho ribattuto tante volte. L’Amore che ci unisce, ci fa soffrire, o ci porta alle stelle. I Bambini per esempio hanno bisogno dell’affetto dei genitori, ma soprattutto della Madre, e se c’é amore, é bello prendersi cura del Marito e dei Figli, senza affannarsi per forza a lavorare fuori casa, o invidiare l’erba dei vicini.
- E allora perché soffre, Marianna?
Perché, dopo millenni di storia maneggiata dal Capitale (in gran parte) e da un pizzico d’Amore, ( per qualche illuso), il quadro in cui vivo é il seguente: Markus ha intestato la casa a suo nome, tiene saldamente le chiavi della cassa, e la notte va in giro per farsi passare le caldane con qualche femmina meno rispettabile di me, mentre io lo aspetto facendo sogni agitati, senza guardare l’erba del vicino. Che meraviglia! Questa é la triste veritá.
Ma non rispondo e abbasso gli occhi, perché non si vedano quelle due maledette lacrime che vi stanno spuntando.
Il dottor Weber si accarezza i baffi bianchi, lentamente.
-Perché Markus anche stavolta é dovuto uscire?
-La domanda adesso gliela faccio io, a lei dottor Weber, come scienziato e come uomo: Markus esce cosí spesso la notte perché la natura gli ha dato un livello di testoterone cosí alto che gli straripa dagli orecchi, o perché invece é un idiota egoista?
-Ahi Marianna… nessuno l’ha avvertita, da ragazza, che chi aspira a un lungo matrimonio deve prepararsi alle montagne russe? Perché non é facile per una donna essere sempre una Moglie perfetta, piú un’Amante delle Mille e una Notte, piú una Ballerina esotica e una Chef di prim’ordine. E naturalmente, per un qualsiasi tapino con la fede al dito, essere sempre un efficiente Uomo d’Affari, piú un Poeta romantico, e insieme un Ballerino di flamenco..., non é affatto semplice. Mi ci vedrebbe a me, ballare il flamenco?
Il dottor Weber cerca di farmi ridere. Me lo immagino col suo gilet e catena dorata, e il corpo rotondeggiante, in un tablao di Siviglia, con tante mani eccitate che battono un ritmo ossessivo, competendo con un rivale gitano che scatena la femmina primigenia anche nelle signore ottantenni costrette in sedia a rotelle. No, non é il corpo ad affascinare nel dottor Weber. Ma mi strappa un sorriso.
-In fin dei conti, tutti siamo un mix di vari io- afferma tirando fuori un sigaro dalla sua scatola- E se qualcuno riesce ad amarci a lungo come siamo, con la nostra speciale dose di Ballerino e Ragioniere, questo sí che é un regalo della vita! L’amore non si spaventa se ti é spuntata una ruga o ti si é sfilacciato il menisco: chi ti ama ti ama e basta. Questo é il miracolo.
-Markus dice che sono l’unica che ama, ma...
-Ma ci sono un sacco di falene intorno alla vela, no? Alla salute!- Il dottor Weber se la ride alla grande. Tutto tranquillo, lui. (fuck)
-Si beva anche lei un Bailey’s, Marianna. “Sposato ma non cieco”, si dice in Brasile, lo conosce questo proverbio? Insomma, sono migliaia gli occhi che ti guardano, e alcuni fanno l’occhiolino..., ci sono migliaia di corpi flessuosi o muscolosi che vogliono essere guardati e toccati, e tante menti che fanno scintille (queste sono molto meno, mi pare). E allora, bisogna vedere con quali criteri, o valori, come preferisce chiamarli, uno gestisce la propria (teorica) immensa capacitá di godere della varietá umana. Chiudendo del tutto gli occhi? Mantenendoli socchiusi? O aperti e allucinati per non perdersene una?
-Per me, é chiaro. Gli occhi, li tengo chiusissimi. Sono avvinta come l’edeera a Markus, alla Nilla Pizzi…accidenti.
-Esplorazione, e Sicurezza... Ci muoviamo fra queste due pulsioni fondamentali. E ci facciamo tanti di quei film!
-No, é Markus che fa i suoi film. Io solo li subisco, anche se per lui ho imparato il kamasutra, e le crepes flambant- rispondo cupa, togliendo nervosamente le briciole dalla tavola.
-E´ la stessa cosa: il dolore é solo il rovescio del film. Un segnale. Forse, le sta dicendo che é l’ora di dare una mossa a questa fiaba da bosco di fate, come mi ha raccontato una volta, che ormai sta facendo la muffa...
-Vuol dire allora che Markus si annoia con me…che non gli interesso piú?
Il dottor Weber scuote la testa, come davanti a un’alunna testarda.
-Ma no. Per interessargli, gli interessa. Markus ha bisogno della sicurezza che lei gli rappresenta, MA ANCHE della scarica di adrenalina che gli viene dagli affairs…Se no, si sente come un animale in gabbia.
-Proprio cosí. E non cambierá mai- mi rendo conto all’improvviso, dolorosamente.
Sono finita in un vicolo cieco. Vorrei scoppiare in pianto. Ma non posso.
Il dottor Weber versa un po’ di Bailey’ s nel mio bicchiere.
-Meglio abolire parole come “sempre” e “mai”. Ogni essere umano, in fondo, è un mistero. Per ora, sarebbe giá molto se dicesse a ogni nuova conquista: “Bellezza, vuoi passare per il mio letto dopo la frutta? Ho ventidue minuti liberi.” Cosí, sarebbe tutto piú semplice, senza nessuna parola d’amore. Ma sono proprio le parole d’amore il piú potente afrodisiaco, lo sapeva bene don Giovanni!-
Già, lo stesso repertorio romantico sfoggiato con me da Jacopo… ma possibile che anche le dichiarazioni del mio amato bene fossero le stesse, superficiali ed egoiste, di tanti seduttori da strapazzo? Che orroreeeeee....
Una nuvola carica di lampi rabbiosi mi passa sulla testa. Cerco di recuperare la calma, respirando lentamente. Per qualche minuto, in silenzio, il dottor Weber pare molto occupato ad accorciare e togliere un po’ di cenere dal suo sigaro.
-Piuttosto lei, Marianna- il dottor Weber mi rivolge una lunga occhiata piena d’ammirazione. -Non si rende conto che è una donna con la D maiuscola, e molti uomini la desidererebbero finché campano?
Abbasso la testa. Incrocio nervosamente le dita.
- No, non mi rendo conto, dottore. Anzi, per essere sincera, mi sento debole e stupida, e quindi non attraente. Tutto questo perché mi sono innamorata come una tonta di Markus, come la piú tonta delle fruttivendole dell’angolo, che non hanno mai fatto autocoscienza, riflettendo sulla propria vita e sulle proprie scelte…me lo dice sempre la mia amica femminista Ingrid. Ma io non so come uscirne, maledizione…come guarire da questo virus chiamato amore.
Inchiodo il mio sguardo negli occhi tranquilli del dottor Weber, che lo sostiene ed accarezza.
-Si guardi dentro allora, Marianna. Perché per esempio l’affascinó tanto questo giovane straniero che giá prima di sposarsi, s’innamoró d’un’altra?
-Accidenti, é proprio vero... Forse volevo rompere l’asfissia di certo ambiente provinciale, scegliendo un forestiero, quando tutti si aspettavano che mi sposassi con qualche rampollo di buona famiglia... ma a me annoiavano a morte!
-Esplorazione e Sicurezza, dicevamo, sono due potenti desideri che ci muovono, in misura diversa. Lei credette che l’uomo dei suoi sogni fosse piú coraggioso di lei. Peró quando gli offrirono di aprire una filiale all’estero, per esempio Giappone o Brasile, e lei era tanto entusiasta, lui si rifiutó con decisione. E lei, la moglie perfetta, ha ripiegato il suo desiderio come un tovagliolo. La moglie perfetta puó sempre lamentarsi che non la capiscano né la valorizzino. Ma fa poco o niente, per uscire dalla sua prigione dorata...
-Cosa dice? Per me Markus è il centro della mia vita, non un carceriere...
Adesso peró il dottor Weber esagera, e parla come una femminista esaltata, o un ballerino di flamenco. Mamma, che confusione.
-E cominci a distinguere fra Desiderio e Amore, si svegli Marianna! E faccia qualche prova, magari….Qualcuno glielo puó impedire? - Il dottor Weber (quale dei tanti?) mi scompiglia affettuosamente i capelli, come a una gatta.
L’ultimo sorso di cognac, l’ultimo sorso di Bailey’s, un saluto cordiale, e resto sola. Che notte intensa. Davvero io sono un’esploratrice mancata dei boschi, con o senza fate? Davvero si possono far prove di...? Mi sento un po’ stordita. E se decidessi una buona volta di svegliarmi? Davanti a me ammicca la notte aperta, eccitante (multiorgasmica) di Berlino. Dio che paura! Apro uno spicchio della porta di casa. Una folata fredda. Troppo fredda. Ma domani, sí, ci proveró.
Grazie davvero, dottor Weber.

 

Capitolo 11.     La movida
Sí, é ora. Lo sguardo intenso di Amadeus mi sta inchiodando alla parete come una schiava egizia. Amadeus, regalo degli dei per me, in questo turbolento ‘68.
Il suo sorriso, i suoi grandi occhi espressivi, i suoi capelli semilunghi e mossi come quelli di Beethoven, m’invadono di nuovo. Navigo nel mare dolceamaro della nostalgia di lui, con una lacerante coscienza di quanto ho perduto.
Ha quindici o venti anni meno di me, e la stessa curiositá verso la vita, quando compare a casa mia in una di quelle riunioni che organizzo tra studenti per scambiare dati e conoscenze. Lui vuole praticare con me l’italiano perché d’estate dovrá andare a Roma a fare teatro di strada con degli amici, mentre io posso approfondire con lui certi aspetti delle teorie sociali del ventesimo secolo, in cui è molto preparato. A volte ci immergiamo in interminabili discussioni politiche, sulle necessarie riforme del sistema capitalista, sulle necessarie riforme del sistema socialista, per un uso ottimale del plusvalore..., mentre il suo sguardo si sofferma sulla curva del mio collo, e su quella dei seni che si affacciano sul mio golfino viola (il riscaldamento non é troppo alto?), navigando con la mente sul plusvalore della mia pelle morbida.
Io mi sciolgo nel suo sguardo, percorrendo mentalmente le sue labbra e scendendo scendendo sulla sua pelle liscia e calda, finché, é vero, il capitale dovrebbe servire a..., ci isoliamo in una campana di silenzio, i suoi occhi persi nei miei, in un mondo senza denaro né sfruttamento. È un amore ancora virtuosamente virtuale.
Intanto, nell’universitá circolano come panini copie del famoso “libretto rosso” di Mao, la guida ideologica dei giovani cinesi lanciati nella (disastrosa, come si seppe poi) campagna di rinnovamento del loro immenso paese, con nomi fantasiosi come la Campagna dei Cento Fiori, che copre abusi e orrori ancora sconosciuti. Io lo trovo semplicemente indigesto. A me e Amadeus affascina il fatto che in Cina “i medici dai piedi scalzi” siano disponibili a percorrere lande sperdute, per curare umili contadini, ma quelle grandi cerimonie con migliaia di persone ridotte a formichine cariche di gigantesche bandiere rosse, illuminate dal pensiero- guida del Leader Massimo… MAMMA MIA, è davvero qualcosa a cui aspiriamo? Devo dire che qualsiasi cerimonia con grandi bandiere e una massa in adorazione di un Grande Capo, a me e a questi giovani tedeschi nati dalle rovine del nazi-fascismo, ci fa venire letteralmente la pelle d’oca.
Non avrei mai immaginato che mi sarebbe toccato conoscere dal vivo questi ruvidi ragazzi andini, seguaci fuori porta di Mao. Tocco con mano la mia impotenza di fronte a chi cancella sfumature e individualità costruite nel complesso cammino che ha percorso durante secoli l’Occidente, per superare una visione unilaterale del mondo, che vuole giudicare invece di capire…Un processo che in Europa ha visto spaventosi passi indietro e ha lasciato al suo passaggio milioni di morti…E continua ancora senza fine, avanzando verso la conquista del privilegio del dubbio, il “cogito ergo sum”, “penso quindi esisto”, essenza della persona umana. Perché è piú facile dividere il mondo in due: seguaci e nemici, bene e male, kametza e tekametza.
Impotenza. Sudore.
No. Non mi convince quest’adorazione del leader massimo, chiunque sia- riconosce Amadeus- Mi attrae molto di piú la rivoluzione pacifica di Gandhi, che ha liberato l’India senza colpo ferire, ma per strada gridano piú forte quelli che vogliono uno scontro duro con lo stato borghese. In una maniera o nell’altra, la costante è la parola “rivoluzione”. Quelli che stanno sopra devono andare sotto, e viceversa. Il dritto, il rovescio: dalla politica alle relazioni umane.
Ed io, mi decido o no ad applicare i sottili suggerimenti del dottor Weber? Anche Amadeus mi spinge a scendere dalle nubi. “Dai Marianna!” mi dice con la respirazione accelerata, mentre le mie orecchie si infiammano...Sí sí, domani, te lo prometto Amadeus...
-Ma é OGGI domani... anzi, domani era ieri! -mi risponde la sua impazienza. Ma no ma no ma ni... Accidenti, quanto mi costa darmi una mossa! Il fatto é che Markus é tornato ieri sera in piena notte, zitto zitto, a soffocarmi di baci. Forse per chiudermi la bocca. E io non ho saputo respingerlo. Intanto i baci di Amadeus si fanno sempre piú lunghi e sempre piú dolci, sulla mia porta... scivolando poco a poco verso un finale previstissimo.
E invece no! Mi arriva una comunicazione a sorpresa, che interrompe l’inevitabile sequenza, e dá una svolta alla storia. Leggo e rileggo il messaggio con gioia, poi ripongo la mia collana di perle nell’astuccio e preparo in fretta una grossa valigia. Non sia mai che cambino idea! No, meglio una valigia media e un borsone, per i viaggi interni. Fará caldo? Fará freddo? Ci sará, lá, lo sciampo per capelli secchi? Le calze di nylon, forse non servono…
-Tesoro- mi dice Markus salutandomi con un lungo bacio - anche se te ne vai al Polo nord, io saró sempre qui, per te.- Sempre cosí romantico, il mio principe di Turingia and Saxonia.
Bene, per un po’ ti lascio alle cure del Comitato Dame della tua agenda, penso, camicie a righe incluse.
- Sentiró la tua mancanza, -mi sussurra invece con uno sguardo triste Amadeus- e ti penseró ogni minuto di ogni giorno, finché non sarai di nuovo qui.
“Parole, parole…”mi dico. Parto per sei mesi. E alla fine, fate un po’ quel che vi pare, miei cari Markus e Amadeus (in ordine d’entrata) coi vostri milioni di spermatozoi che la natura vi regala ogni giorno. Il problema è vostro. Io, Marianna Dori in Weiser, stavolta ho qualcosa di meglio a cui pensare.
Per un po’ di tempo posso distanziarmi dal mio ombelico, e andare a conoscere qualcosa di ció che vibra nel mondo, fuori dalle strade ordinate della Germania, dove i negozi si sono di nuovo riempiti di wurstel e pane di cereali.
Salgo emozionata sulla scaletta di un Boeing Lufthansa, per attraversare per la prima volta l’enorme pozza d’acqua che chiamano Oceano Atlantico, e sbarcare all’altro capo del mondo con una valigia piena di libri, e uno sciampo per capelli secchi.
La Facoltá di Antropologia dell’Universitá di Berlino mi ha concesso una borsa di studio di sei mesi per fare una ricerca educativa in Perú. Proprio in Perú, lá in fondo ai nostri due mondi conosciuti: il confortevole Primo mondo, dove ci troviamo, e il severo Secondo, dall’altra parte del Muro. Raggiungeró il cosiddetto Terzo Mondo, lá sotto l’equatore, col suo carico di ingiustizia e povertá, con gli occhi spalancati, per captare tutto il suo splendore.


12. Verso il Tahuantinsuyo
Sono tremendamente sconcertata. Mi sembra di essere atterrata su un altro pianeta, quando scendo all’aeroporto Jorge Chavez di Lima nel 1971. L’antica capitale del vicereame del Perú possiede in quel momento un aeroporto diviso in due parti: quella internazionale, con code di gente ordinata da cordoni rossi, e quella nazionale, dove arrivare al banco del check in é un’impresa anche di carattere fisico. “Lo vedrá coi suoi occhi, Marianna”, mi spiega un funzionario dell’ambasciata tedesca con cui converso in aereo. Perché anche se una massa di gente ha prenotato o pagato il biglietto verso una determinata destinazione (ecco qua il biglietto per Juliaca, volo PB432, vede signore?), puó succedere che nel volo i posti reali risultino quasi la metá, o forse i due terzi di quelli assegnati, secondo misteriose contingenze. Allora, riesce a raggiungere l’aereo chi si mette a testa bassa a sgomitare in mezzo alla gente, buttando giú qualche rivale come un birillo, saltando sacchi di patate, casse di latte Gloria e fagotti di yuta cuciti con l’ago a mo´ di chiusura, con tanto di indirizzo scritto a mano sulla tela. Insomma, un circo. E puó anche succedere, che una volta che i vincitori del torneo possono accomodarsi nei sedili dell’aereo, (ancora col respiro affannoso per lo sforzo), il capitano ordini a 14 passeggeri di scendere, per lasciare il posto a qualche papavero in cravatta e panciotto col suo seguito di scagnozzi. E quindi qualcuno deve scendere smadonnando e tornare domani per un’altra sessione di lotta libera. Non è finita. Quando esce dall’aeroporto, il viaggiatore frustrato si trova circondato da un gruppo di tassisti che lo stordiscono gridando: Taxi!, Taxi!. Il piú veloce di loro gli prende la valigia senza tanti complimenti e spingendolo al suo taxi gli chiede: È andato bene il viaggio, signore?
Esco da quella confusione e cerco un taxi nero ufficiale, come mi ha raccomandato il funzionario, per andare sul sicuro. Eccone uno in arrivo.
-Mi chiamo Onorio, per servirla, signora- L’autista che mi accoglie è un tipo alto e magro, con un gran sorriso e un vestito a giacca dignitoso, dalla tela quasi lucida per un uso a dir poco decennale. Chiudo con sollievo una portiera ferruginosa. L’auto imbocca una lunga avenida che va dal Callao a Lima, piena di bus rumorosi e sgangherati, che lasciano dietro di sé una scia pestilenziale di fumo. La capitale cresce di giorno in giorno, mi spiega il signor Onorio, che un tempo era stato professore, (ma lo stipendio non bastava a mantenere i suoi quattro figli), per cui eccolo qui, adesso, in un taxi affittato a un altro signore che a sua volta lo affitta a lui per qualche ora al giorno. Lo spagnolo studiato all’universitá mi permette di parlare fluidamente col signor Onorio, e in caso di necessità, porto con me un piccolo dizionario.
Ogni notte, si legge sui giornali, scendono dalla sierra decine di andini dalla pelle color cannella (i disprezzati cholos), per cercare la fortuna sotto questo cielo quasi sempre grigio-lattiginoso di Lima. Ma la fertile vallata dei tre fiumi dove cinque secoli fa entrarono le tenaci truppe (piene di pulci) di Pizarro, é da qualche decennio completamente urbanizzata, e restano, per sistemarsi, solo le pendici desertiche lungo la costa. E allora le nuove bande di macilenti conquistatori devono salire su su, fino ad arrivare alla cima delle colline di sabbia, dove batte il vento che viene dall’oceano. Piantano le loro capanne di stuoia con l’immaginetta della Virgen di Candelaria alla parete, e poi si fermano un po’ storditi, la notte, a guardare sotto di sé l’immenso manto di luci della cittá, a cui si aggiunge, giorno dopo giorno, qualche altro punto luminoso.
Cammino a volte senza una meta precisa, per conoscere la cittá e osservare i volti della gente. La maggioranza ha l’aria preoccupata di chi cerca lavoro, un qualsiasi lavoro per sopravvivere un giorno, una settimana, un mese. Ci sono i tipi rumorosi, che assaltano i timpani del prossimo offrendo i loro servizi: Le sorveglio l’auto! Il giornale d’oggi! Pare che vinca chi si agita di piú. Poi ci sono i tipi silenziosi, che invitano solo con occhiate penetranti, o i rassegnati, come le mamitas con trecce e gonnelle colorate di lana pesante, allo stile andino, e il bambino caricato sulla spalla, che vendono ad altri il biglietto della fortuna, perché la loro é giá segnata.
Bambini malridotti offrono caramelle ai semafori, uomini dallo sguardo sfuggente vendono pezzi di motore usati su teli di plastica tesi sul marciapiede. Alcuni hanno il lavoro portatile, esposto in bella mostra su un carretto cigolante: idraulici, trasportatori di sacchi e casse di frutta, riparatori istantanei di ingranaggi svitati, o cuoche capaci di inventarsi un menú, giusto all’angolo tra la Abancay e Nicolas de Pierola, per offrire qualcosa di commestibile ai passanti.
Una di loro, una donna grassotta e sorridente, Teodora, mi racconta che scende ogni mattina dalla cima di una collina nel deserto con un carretto, un fornellino portatile, due padelle per fritti (con olio usato mille volte, non ho altra scelta, signori clienti), sette piatti e quattordici posate, due secchi d’acqua e un po’ di macinato di carne imprecisata, comprato per strada, con cui prepara salchipapas... ossia patate fritte ripiene: un piatto che per qualche ora ti fa credere di averti riempito lo stomaco, ma che allo stesso tempo ti assesta una tal bastonata al fegato, che te la ricorderai a lungo. Peró i suoi bambini hanno qualcosa da mettere sotto i denti, e Teodora non puó fare la schizzinosa. E un giorno, magari, potranno diventare professionisti, se Teodora nel frattempo non si scoraggia. Per questo é scesa da sola dalle montagne dell’Apurimac tanto tempo fa, con quattordici anni, due trecce in spalla, e due pannocchie di granoturco in tasca.
La capitale include e nasconde le sue differenze, mettendole in scatole cinesi isolate una dall’altra. C’é tutto, e il contrario di tutto, a Lima. Nei marciapiedi ricoperti di aiuole di Miraflores, si vedono chalet tipo svizzero, villette similbarocche, decorazioni quasi rococó che sembrano illustrazioni di racconti di fate. Dietro i muri coperti d’ibisco e gelsomini, possono vivere le zie Ernestine, professoresse in pensione tra rosari e pettegolezzi, i notai Belaunde con segretarie dai tacchi altissimi, o i commercianti di tessuti Fernandez, che si passano il negozio di padre in figlio da generazioni. Piú avanti, verso il centro, comincia a vedersi qualche edificio piú alto, con silenziosi manichini, immersi nella luce azzurrina dei negozi per spose, con indosso i vestiti inamidati, primizie di Miami. Dietro le strade strette del centro, nel quartiere cinese, i discendenti dei coolies cucinano anatra all’agrodolce, infilano aghi nei corpi docili ed estraggono molari, come facevano i loro antenati a Shangai. Piú in lá, giá fuori dal rumore e dagli ingorghi, cominciano i barrios con ville piú grandi, giardini piú esuberanti, muri piú alti.
Lá si nascondono alla vista della gente (serviti dai cholos) gli eredi di patrimoni accumulati da antichi latifondisti (vedi sopra) e alcuni industriali dalla fortuna incerta (idem). Ragazzi e ragazze dalle divise impeccabili (lavate e stirate dalle domestiche cholas) escono da prestigiosi collegi, attesi lá fuori dagli autisti che gli aprono le porte dei vetri fumé.
Velocitá e lentezza, grida e silenzio. Tra le voci estreme della cittá, a volte ondeggia un fiume di manifestanti, mettendo sossopra le strade del centro. NO AI SALARI DA FAME! gridano operai, medici e maestri. Gli risponde il fumo di gas lacrimogeni tra botte e striscioni calpestati (gli autisti hanno giá portato le Volvo al sicuro nei garages protetti dai guachimanes). Di sera la manifestazione si é giá dispersa, si chiudono le notarie Belaunde e le finestre coi gelsomini delle zie Ernestine. Teodora trascina il suo carretto fino alla punta della collina, guardando la cittá assopita nella nebbiolina grigia. La nebbia trattiene nelle sue mani umide odori, lacrime e sogni. Fumo e odore di bus, salchipapas, lacrimogeni, orina, mare e gelsomini, continuano a apparire e scomparire fra muri e giardini. Sará per questo, forse, che le lacrime non si possono piangere davvero, e le risa non si possono ridere davvero, in questa cittá. Tutto pare vivere o vegliare sospeso, nel grigio irreale, triste e soave di Lima. C´é solo qualcosa di certo. Ogni mattina qualche capanna in piú di stuoia, é stata piantata nelle colline pelate, da altri ostinati andini. I disprezzati cholos, esercito della speranza, circondano in silenzio il cuore torpe della cittá. Come cavalli di Troia, aspettando.


13. Il fiume lá in fondo
Alcuni giorni dopo, salgo su un bus che s’inerpica su per le pendici ripide delle Ande. Un fiume brilla in fondo al precipizio, osservo con raccapriccio. Meglio guardare in alto, penso. Dio, quanto cielo. Le nubi cavalcano sovrane in un campo immenso di luce, che si sfa al tramonto in fili di rosso, porpora e violetto, prima di spengersi dietro le montagne. Chissá come sará stato davvero, fuori dalla retorica e le celebrazioni, il famoso Tahuantinsuyo, l’impero in cui gli Incas, per pochi decenni, organizzarono abilmente la vita di tanti popoli differenti, dall’Equador all’Argentina.
Ricordo di aver visto immagini di magazzini di grano e tambos fin nei luoghi piú impervi, o incassati in una rocca. Immensi greggi di lama e alpache nella puna, e coltivazioni agricole nella serra, erano riusciti a mantenere, secondo alcuni storici, una popolazione di circa 14 milioni di persone in tutto l’impero.
Cos’era rimasto di quest’organizzazione minuziosa e apparentemente efficiente? Mi chiedo.
Il bus adesso attraversa un paesaggio scosceso, tutto valli e dirupi, con migliaia di fazzoletti di terra dalle infinite sfumature di ocra, verde e giallo. Alcuni puntini neri in mezzo al giallo stanno raccogliendo grano, quiwicha, quinua. E patate, sempre patate. Con un’abilitá da certosini, certamente. Perché alcuni campi sono quasi verticali. Qua e lá si vedono case di fango con tetto di paglia, e asini macilenti. È chiaro che la terra non é sufficiente per tutti. I bus che scendono a valle viaggiano pieni di bambini assonnati e famiglie con fagotti, che sfuggono alla penuria di questa terra luminosa e dura.
Secondo gli andini, mi spiega Hilario, un professore di cultura quechua nell’universtá di San Marcos, ogni cinquecento anni il mondo va al rovescio, e chi sta sopra va sotto. Adesso é arrivato questo momento, dicono: sembra che il Perú sia in pieno pachacuti, solo che qui la rivoluzione non la stanno facendo studenti dalle capigliature ribelli o casalinghe esasperate, come in Europa, ma un generale con uniforme e stellette, Juan Velasco Alvarado, soprannominato “Il Cinese”.
Velasco si é proposto di combattere lo strapotere dei latifondisti distribuendo le terre delle grandi proprietá ai contadini organizzati in cooperative. Inoltre, vuole migliorare l’educazione, e valorizzare l’idioma del Tahuantinsuyo, il disprezzato quechua. Un vero pachacuti culturale, per dare dignitá a quelli che ricevono piú frustate che pane. I contadini sembrano contenti, ma le cose si complicano. I padroni, per esempio, all’andarsene si portano via macchinari e conoscenze tecniche, e quindi non é affatto facile mantenere i livelli abituali di produzione.
Le haciendas piú produttive vengono trasformate in SAIS, organizzazioni autonome di soci, dei quali peró solo pochi vivono nella zona occupandosi attivamente delle terre: ergo, ancora una volta finisce con l’essere beneficiato solo un piccolo gruppo, si lamentano i contadini. E poi, soprattutto, i contadini non ricevono nessuna preparazione per imparare ad organizzare loro stessi la produzione, e non piú solo a ubbidire e chinare la testa, come hanno sempre fatto. Io guardo e ascolto, attenta, i dettagli di questo difficile Pachacuti.
In nessun posto del mondo una rivoluzione è un giro di valzer.
Sierra, camion, don Chisciotte…mi viene in mente, adesso, la figura di un cavaliere allampanato, con gli occhi che brillano febbrili inseguendo miraggi.
Per arrivare a Huanta, nel dipartimento di Ayacucho, devo scendere dal bus e alle prime luci dell’alba salire sul retro di un camion che, mi dicono, é l’unico mezzo che trasporta esseri umani, merci ed animali in quelle lande sperdute. Sogno di raggiungere entro la notte la benedetta hacienda di don Lucho La Torre, dove potró finalmente distendere le mie ossa indolenzite, rattrappite e sballottate da un’infinitá di buche di quella carretera interminabile.
L’hacienda di don Lucho é l’unica istituzione che puó ospitare gli scarsi visitanti che per qualche peregrino motivo viaggino fino a Iribamba. So che si tratta di una fattoria non molto grande, per cui non é stata toccata dalla riforma agraria. Mi aspetto di trovare una casa rustica ma confortevole, circondata da verdi prati dove pascolano vacche e cavalli. Anzi, spero ardentemente di trovare un buon cavallo, con cui visitare le comunitá inserite nella mia ricerca educativa, assaporando la bellezza del paesaggio.
Sí sí, un buon cavallo é il meglio che mi possa capitare.
Ma quando scendo dal camion a Iribamba, piú polverosa di una vecchia scopa, é giá caduta una notte senza luna, che ha inghiottito una dopo l’altra le strisce rossa, arancioni e viola di un tramonto sfolgorante. Davanti all’unica costruzione della zona, vedo avanzare debolmente verso di me la luce smorta di una candela, che oscilla nel buio rivelando pezzi di pareti scalcinate. Ah, é cosí, allora. Altro che chalet svizzero e floride vacche al pascolo. Mi pare di essere stata catapultata indietro nel tempo, finendo nelle pagine di un’edizione stinta del Don Chisciotte. Infatti, dondolandosi su una vecchia poltrona di cuoio di Castiglia, mi sta aspettando un uomo ossuto dallo sguardo febbrile, che insegue dietro il fumo del suo sigaro l’idea geniale che porterá fuori la sua gente dal pantano della povertá: Don Lucho.
Possiede solo cento ettari di terra dura coltivata da peones allampanati, ma per Dio, giura e spergiura che prima o poi riuscirá a cavare da quei sassi benessere e abbondanza per tutti. Come base, possiede solo un consunto manuale di agricoltura lasciatogli da qualche antenato in una vecchia cassa. Dopo averlo consultato per un bel po’, leggendo e rileggendo le sue pagine consunte, l’austero cavaliere decide un giorno di intraprendere la coltivazione dell’uva malvasia, per produrre un vino degno degli dei. Lo venderó a prezzo d’oro, cazzo, e correranno tutti a comprarmelo, lo giuro su mia madre.
I peones devono rimuovere la terra, togliere le pietre, strappare le erbacce, e finalmente piantare le viti, maledicendo in silenzio don Lucho per tutta quella fretta e quel lavoro in piú. Quando sui filari cominciano a spuntare piccoli grappoli d’uva, don Lucho, dondolandosi sulla sua poltrona di cuoio di Castiglia, si mette a calcolare con pazienza quanti litri di questo vino degli dei si puó produrre, quanto denaro intascare, quanto distribuire. Manca solo un dettaglio. Nella maledetta pagina 13 del manuale, una macchia copre la cifra che specifica a quale altezza massima puó maturare l’uva malvasia. Don Lucho non ci ha fatto caso. Solo dopo aver tirato fuori, come risultato del lavoro di una quadriglia di peones in ettari ed ettari di sudatissime pendici, quattro bottiglie 4 di un vino acidulato, il cavaliere si rende conto che coltivare malvasia a piú di tremila metri é proprio roba da pazzi.
Beh, ormai é fatta. La festa é stata programmata e non c’é motivo di sospenderla. Dalla nonna Josefina ai peones allampanati, tutti sono stati invitati a brindare con quel dannato vino acido. Alla salute di don Lucho, e doña Josefina! Tutti devono fingere entusiasmo. La doña peró approfitta di un accesso di tosse per sputare il suo bicchiere. I peones no, loro devono trangugiarselo tutto, facendo di nascosto smorfie di disgusto.
Sconfitto, il nostro cavaliere? Macché, don Lucho, perché si sappia, è tutto d’un pezzo. Si tratta solo di cercare un’altra idea, no? Aguzzando un altro po’ l’ingegno, di sicuro scenderá dal cielo l’idea giusta per trionfare una buona volta sulla povertá. L’illuminazione giunge il giorno dopo, insieme a una nube che poco a poco oscura tutto il cielo, nera come i draghi dell’Apocalisse. Da non credere….sono cavallette! Stavolta, siamo finiti direttamente nelle pagine della Bibbia, alla piaga tal dei tali. Ma don Lucho non si deprime, anzi, al contrari osi frega le mani dalla contentezza. Cavallette uguale proteine, no? e magari dal sapore simile a quello dei gamberi, provare per credere. Quindi ordina ai suoi peones stralunati, che lo guardano come se fosse un ufo: “Preparate i pentoloni, svelti! E niente “se” e “ma”!” Poco dopo, sui fornelli borbotta una minestra dal colore incerto. E dal sapore orribile. Stavolta, anche i suoi cani Manco Capac e Mama Ocllo si allontanano dalla tavola, per vomitarla lontano, con dignitá.
Passeggio con la nipote di don Lucho, Augusta La Torre, per un sentierino di cactus e alberelli di huaranguay, prima del tramonto. È una ragazza gentile, sposata con un professore di filosofia dell’Universitá di Ayacucho. Ho bisogno di sfogarmi.
-Stamattina ho visto una scena terribile, Augusta. In un’hacienda stavano frustando a sangue dei peones, per aver rubato un pugno di riso. E gli altri salutavano inginocchiati ai loro padroni, Buenos días Papacito, buenos días Mamacita…, come se fosse il Sommo Pontefice, con una profusione di diminutivi, anche se l’affetto, è chiaro che non c’entra per niente. Mi sembrava di rivivere scene del Medio Evo. Gli uomini continuano ad esser trattati come bestie da soma, le donne dormono sulla nuda terra, o esposte al freddo di un capannone. Il corpo delle giovani serve é territorio di godimento gratuito per i maschi della famiglia privilegiata. Ad saecula saeculorum, amen. È stato sempre cosí, mi dicono. Ma chi avrá cominciato, all’inizio? insisto. Amadeus ha ragione, penso. C’é una radice marcia all’origine di molti patrimoni.
Viaggiando per la sierra annoto sul mio quaderno, ormai un cahier de doléance, anche i dati desolanti di un sistema educativo che ha ben poco del suo nome. La letra con la sangre entra. “S’ impara a frustate”: questo il principio piú utilizzato nei paraggi. I maestri possono picchiare i bambini quando si distraggono dal copiare lavagnate intere di scritte incomprensibili. I bambini non possono esprimersi, i maestri sanno solo gridare. È una scuola che serve a poco o niente. La gente non protesta, perché ha altro a cui pensare. Per esempio, a come riuscire a sopravvivere.
-Sí, il Perú avrebbe bisogno non di uno ma molti pachacuti...-risponde lei.- A proposito, Marianna, dovresti conoscere mio marito. È un uomo che puó sembrare anche troppo serio a chi non lo conosce, ma per me é un genio.
Ha visitato la Cina e sta preparando programma politico di grande respiro per costruire una societá nuova in Perú. Vuole chiamarlo Sentiero Luminoso.
Molti studenti lo seguirebbero fino alla morte, ti giuro, per vendicare tante ingiustizie e sofferenze che si vivono ogni giorno nel paese.. Anche lui ha sofferto parecchie umiliazioni.
Augusta tace, per discrezione, i dettagli della vita personale di questo grigio e carismatico professore. Li conoscerò tempo dopo.
Figlio illegittimo di un amministratore di haciendas, abbandonato da sua madre a otto anni, ma accolto da una madrina compassionevole, Abimael s’innamoró di una ragazza ma fu ostacolato dalla sua famiglia, che l’allontanó anche dalla figlioletta avuta da lei. Fin qui, niente di nuovo: uno dei tanti amori frustrati da pregiudizi sociali, profondi come gli abissi di questi scoscesi paesaggi andini. Ma questo giovane non piegó la testa, e forse in una notte insonne giuró a se stesso, esasperato, che avrebbe mostrato al mondo quello che sapeva fare, nel bene e nel male. Migliaia, milioni di giovani, i suoi veri “figli”, lo avrebbero seguito senza batter ciglio, attraversando fiumi di sangue, per costruire il mondo che sognava.
E intanto noi, ignare, camminiamo fra cactus e alberelli di huaranguay, commentando ció che succede nel nostro piccolo mondo.
Una lieve brezza gioca con le foglie argentate degli eucaliptus, nel cielo splendido del Tahuantinsuyo. La tempesta è ancora lontana.
Nessuno poteva prevedere che alcuni dei seguaci di Abimael Guzmán mi avrebbero cercato e catturato trattandomi da gringa, straniera pericolosa, sfruttatrice del popolo, marcandomi a fuoco con etichette grossolane: un meccanismo come il razzismo al contrario, per compattare l’unitá del gruppo contro gli “stranieri”, i diversi. Gringa. Pericolosa gringa. Non è la prima volta che mi tocca quest’odiosa etichetta. La prima fu quando conobbi da vicino la durezza della vita nelle Ande.


14. Zelinda
Nella scuoletta dei servi di Iribamba, sto prendendo note nel mio taccuino sull’infausto sistema educativo ivi praticato, quando un grido mi fa correre alla porta. Una donna cerca gesticolando di scacciare una tarantola che le ha punto una gamba. I suoi due bambini, che ha accompagnato alla scuola, la guardano spaventati, senza sapere che fare.
Corro ad assisterla, e ricordando qualche modesta nozione d’infermeria appresa durante la guerra, mi metto subito a succhiarle il veleno dalla gamba.
Grazie, warmi, mi risponde lei con gratitudine, cercando di baciarmi la mano.
E mi regala un sorriso che si apre come un arcobaleno tra le rughe. Di niente, rispondo emozionata.
Zelinda è una donna magra d’etá indefinita, carica di figli come tante donne andine, con una gonna rossa scolorita e un cappello marrone sulle trecce. Cosí va vestita la maggioranza delle donne in questi paraggi. Conosceró la sua forza qualche giorno dopo, arrivando con una vecchia mula in una comunità vicina, oggetto della mia ricerca.
Questa mula testarda non ha nessuna voglia di andare al galoppo, come i magnifici cavalli di Emma Malaspina. Povera me! Al contrario, procede ostinatamente sul filo dell’abisso, anche se cerco di spingerla con tutte le mie forze verso il fianco della montagna…. Alla fine mi rassegno, e scopro che cavalcare in un incerto equilibrio su un sentirono scosceso, con la visione costante del vuoto che mi affianca, alla fine rende ancor piú eccitante il viaggio. Anzi, che meraviglia! Respiro a pieni polmoni e ammiro l’azzurro intenso del cielo, la corona delle montagne in lontananza, le pendici vertiginose. Ma quando arrivo alla comunitá tutto il mio entusiasmo per la grandiosa magnificenza della natura si trasforma in sconcerto di fronte allo strano comportamento dei comuneros. Perché i bambini vengono tirati uno dietro l’altro dentro le case da mani nodose? Perché tutte le porte mi vengono chiuse in faccia, e i pochi passanti in circolazione mi guardano con ostilità? Gringa,… pishtaca, ….pishtaca! Sento sussurrare qua e lá. Povera me, se è questo che credono! Perché il pishtaco è un personaggio mitico, odiato e temuto allo stesso tempo, che ricorda i terribili tempi della Colonia. Dicono che a volte, di notte, in certi paraggi solitari, si vede sbucare dalle rocce la figura di uno spagnolo che dá la caccia agli indios per estrargli il grasso e ungere con esso i ferri dei suoi cavalli e le campane delle sue cattedrali…(qualcosa di simile era certamente successo nei secoli bui della Conquista).
I Quechua andini hanno ragioni storiche da vendere per odiare il pisthaco spagnolo, ma io che c’entro, se sono arrivata lí da Berlino con le mie migliori intenzioni?
Quando entro nella scuola, la maestra mi avvisa allarmata: -Corra via, signora, i comuneros potrebbero linciarla! Donna Josefa, la proprietaria terriera della zona, sta facendo correre la voce che lei é venuta per estrarre gli occhi ai bambini per venderli ai paesi ricchi!
La ringrazio dell’avviso, ma al tempo stesso osservo che anche il suo sguardo é inquieto. “E se fosse vero?” sembra chiedersi la maestra.
Dio, che momentaccio. So che a volte, in certi periodi di crisi politica e sociale, la psicosí del pishtaco o dello “strappaocchi” puó diffondersi in una zona carica di problemi, e la gente puó cercare un capro espiatorio per farlo fuori a bastonate, e liberarsi dell’ansia. Se c´é uno straniero nei paraggi, (che raccoglie su di sé invidie e rancori secolari), meglio ancora. Via libera al massacro.
E adesso che faccio? Mi appoggio allo stipite di una porta, cercando di pensare a come diavolo uscire da quell’imbroglio. Non mi vengono idee geniali: non sono Batman né lady Jane, per nascondermi saltando sul tetto. E intanto uno scalpiccio di passi pesanti mi avvisa che qualcuno si sta avvicinando alla scuola... chiudo gli occhi, immaginandomi giá il peggio, e mi preparo a difendere la porta. Ma i miei rivali sono piú forti! Adesso si apre con violenza, con uno spintone che mi fa vacillare.
-Come?! Sei tu, Zelinda? Accidenti, mi hai fatto spaventare! Tu da sola, hai piú forza di un toro che scappa dal recinto…
-Proprio vero! – Zelinda adesso fa uno dei suoi sorrisi come arcobaleni, e mi prende decisamente per il braccio, per portarmi di corsa nella piazzetta della comunità.
-Marianna é una brava persona, comuneros! -proclama ai suoi vicini, rompendo quel silenzio denso e duro, che circonda le case come una muraglia.
-Non dovete aver paura, non vi fará niente di male! – conclude, abbracciandomi con un gesto appena un po’ teatrale. Solo in quel momento le porte delle case cominciano ad aprirsi, prima con cautela, poi con decisione. Ne escono, uno dopo l’altro, vari uomini e donne che mi vengono intorno formando un circolo. Non mi posso muovere. Sono nelle loro mani. E se qualcuno afferra il primo palo, e…?
-Cosa sei venuta a fare, qui, gringa?- mi apostrofano alcuni, diffidenti. Sta per cadere la notte, e un vento freddo arriva sibilando dai picchi acuti delle montagne. Mi accorgo che la mia frangetta é bagnata di sudore.
Per qualche secondo, mi concentro pensando cosa sará meglio rispondergli.
E poi cerco di spiegargli come posso, nel mio quechua elementare, perché sono venuta qui, e come desidero di tutto cuore che le cose vadano meglio per loro.
Forse, piú che le parole, parlano i miei gesti, i miei occhi. Cosí, un po’ per volta, il cerchio ostile comincia ad aprirsi, e la gente comincia a disperdersi, con brevi cenni di approvazione. Respiro sollevata.
-Adesso c’é da preparare il “corta monte”, mi dice Zelinda.
Il “corta monte”? Sí, bisogna piantare nel suolo un albero, simbolo della fertilitá, spogliarlo della maggior parte dei rami, e decorare il resto con nastri colorati, qualche pezzo di carne di lama, un’arancia, qualche caramella. Una specie di albero della cuccagna, con modesti premi per i giovani piú coraggiosi che vi saliranno sopra, per afferrare i regali e distribuirli a tutti tra gli evviva.
Ore dopo, vedo quei rudi contadini passarsi l’un l’altro la bottiglia di aguardiente, commentando le prodezze dei giovani, e dopo un po’, scoppiare a ridere a crepapelle. I piedi cominciano a pestare forte il suolo intorno all’albero, al ritmo di bombos e flauti, le trecce e le gonne a volare nel ballo. Una donna m’invita a bere un goccio di aguardiente. Allora esisto! Bevo un sorso che mi cade nello stomaco come dinamite, ed entro saltando nella ronda.
Non ci sono bicchierini di aguardiente, adesso, solo un sole cocente. Da quali montagne saranno scesi questi ragazzi dallo sguardo sfuggente? Cuzco, Apurimac, Puno? Gli avró preso una manina in un gesto affettuoso, mentre stavano caricati in una manta sulle spalle della loro mamma, magari in uno di quei vivaci mercati andini, o in una delle loro fantasmagoriche feste? Ci sará, tra di loro, un figlio di Zelinda?
Guardo le loro facce sudate sotto il sole spietato della selva. Sono adolescenti, son solo ragazzi. I loro occhi allucinati sanno ancora ridere, per qualche istante. Di sicuro, sognano un mondo piú giusto. Quante volte saranno stati umiliati? E qualcuno li ha convinti che con una mitragliatrice in mano potranno costruire un mondo differente, e si libereranno di quella miseria acida che mangiano tutti i giorni. Potranno essere finalmente qualcuno. Ma sangue chiama sangue, e ancor piú odio, e piú dolore. Questo, non gliel’hanno detto.

15. Stelle e tamburi
Quando torno a Berlino, posso parlare solo con poche persone di quanto mi ha emozionato in Perú. Si tratta dei miei giovani amici: Ingrid, una vulcanica femminista dalle lunghe gonne a fiori; Dieter, minuto, acuto e logico come un cristallo; Amadeus, dalla capigliatura espressionista, mente brillante e cuore caldo. Con loro possiamo farci tutte le domande del mondo, anche senza riuscire a trovare tutte le risposte.
Ho salutato i primi due, non ho ancora visto Amadeus.
Mi avrá ricordato davvero ogni giorno, mentre ero lontana? mi scopro a chiedermi, come una ragazzetta.
D’improvviso, scorgo la sua testa inconfondibile nel cortile della facoltá. E’ girato di schiena, e sta leggendo gli avvisi della bacheca. Il mio cuore comincia a saltare come un cavallo imbizzarrito. Lui si gira, mi riconosce, comincia a venire verso di me, come al rallentatore. Forse è solo questione di qualche secondo, ma a me sembra che duri un tempo infinito, quel suo scivolare fra gruppetti rumorosi di studenti. Dopo, mi sento avvolgere in un abbraccio silenzioso, profumato di sandalo e menta.
-Raccontami tutto, Marianna. Quanto ti ho aspettato.
Mi riempie il viso di baci. Andiamo alla caffetteria piú vicina.
-Come ti è andata in Perú?
-Intenso, intenso. Ausangate, la selva, don Lucho, Zelinda.
Zelinda! Guardo la sua pancia gonfia.
-Cuanto ti manca?- Le chiedo.
-Poco: una settimana, forse due.
-Sará un parto complicato- sentenzia la vecchia ostetrica consultata, masticando il suo mucchietto di foglie di coca-Speriamo che Dio ci protegga.
Zelinda si stringe nelle spalle e va al torrente con la sua cesta di panni da lavare. Quelli di suo marito e dei suoi cinque figli piccoli, piú quelli del vecchio padre e di uno zio invalido. La seguo con lo sguardo, vedendola avanzare a fatica fra le pietre del torrente, fermandosi ogni tanto per una fitta di dolore che le attraversa il corpo.
-Ehi, Zelinda, fermati!- Corro verso il torrente per raggiungerla. Stavolta, non riuscirá a uscirne viva- mi viene da pensare come in un lampo.
Zelinda si gira.
-Che ti succede, Marianna?
-A me niente. Piuttosto, se non ti offendi, potrei accompagnarti all’ospedale di Huanta, e con un po’ di denaro, sai, potrai avere un’attenzione migliore, piú sicura.
Lei mi guarda scuotendo la testa.
-Ma no, no.
-Perché no? Non ti meriti anche tu di essere ben assistita una buona volta, quando passi la vita assistendo gli altri?
-Non vale la pena, visto che lá mi tratterebbero come un’india sudicia e ignorante. Meglio comprare scarpe ai bambini.
E Zelinda riprende a camminare fra le pietre del torrente, con la sua cesta di panni.
Adesso, si è fatto scuro. Zelinda si alza da terra, toglie dal fuoco una pentola di patate, le rimuove, le serve alla famiglia. I dolori si sono fatti piú forti. Come spade affilate che attraversano il suo corpo, dall’alto in basso, silenziose.
Poi, piano piano, senza interrompere la loro cena, apre la porta ed esce. Nessuno deve vederla. Solo la luna e le stelle. Il silenzio è profondo. Latrati di cani in lontananza. Ma Zelinda deve andare fino alla falda della montagna, dove la terra è piú dura e la notte piú nera.
Lá c’è l’unica persona che sa darle protezione e affetto. L’unica di cui si puó fidare veramente. Il vento l’accompagna, sibilando fra le croci.
Questa è la sua. Quella di ferro ossidato. Zelinda si stende sulla terra e apre le gambe. La tomba di sua madre riceve il suo sangue.
Restiamo un attimo in silenzio. Intorno a noi, i volti, le risate, le parole, si allontanano in una nube vaga.
-Dio…- dice Amadeus chiudendo gli occhi. Quando li riapre, siamo piú vicini.
Mi cerca la bocca, me la accarezza con le labbra, le esplora, me le ricorre come fiumi di lava. Mi lascio fluire in questa vertigine calda.
Presi per mano, andiamo correndo alla sua stanza in affitto nel Kreuzberg, il quartiere turco. La metropolitana, le facce, le risate, le parole. Tutto fluttua indistintamente dietro un fondo di bottiglia, come delfini lontani in un mare d’estate. Ci sono solo i suoi occhi, le sue labbra, il suo riso. La sua dolcezza.
Amadeus, ha mani che mi fanno vibrare come un’arpa. I suoi capelli da Beethoven spettinano la mia frangetta perfetta. I nostri corpi disegnano soavi adagio di carezze, allegro successione di baci, andanti cavalli nelle praterie, pastorali armonie di pace.
Amadeus, violini, tamburi e stelle. Anche a Berlino c’é un Koyllur R’iti.


16. Il Bulldozer
Mi sento un’altra.
Non appartengo piú a questa foto di gruppo che è stata finora la mia vita. È la foto che si sta ingiallendo, o è la mia immagine a farsi sfocata? Camminando nelle frenetiche strade del centro, penso con nostalgia alle notti stellate delle Ande. In una vetrina scintillante, vedo il sorriso della donna asháninka che mi regala una collana di semi. Markus mi sembra un fantasma, che entra ed esce distratto dalla casa dai pavimenti lucidi. Parliamo il meno possibile, per non aumentare il solco che si sta aprendo tra noi, giorno dopo giorno.
Un’altra foto festosa: la mia laurea in antropologia. Metteró ancora una volta in fondo a un cassetto il mio titolo?
E Amadeus.
-Vieni con me, Marianna. Separati una buona volta. Non sei piú felice con Markus, non lo vedi?
-Ma la differenza d’etá, i miei figli, e un giorno vorrai un figlio tuo, e il matrimonio per sempre…
-Non preoccuparti cosí tanto per il futuro, Marianna. Il futuro nasce oggi. E l’amore, c´è o non c’é. Non è questione d’etá. E quando finisce, bisogna accettarlo. Miser Catulle, desinas ineptire… ricordi?
-Questa frase di duemila anni fa, non l’hanno scritta per me.
No e no. Solo al pensiero di separarmi da Markus, mi sento cadere in uno strapiombo.
É passata una settimana, e …
-Markus, che ti sembra l’idea di fare una buona terapia di coppia?
-Questo mese ho due congressi. Se mai., dopo.
-Dopo quando?
-Dopo quando.
E Markus sparisce con la sua valigetta.
È arrivato il “dopo” di molti “quando”, ed eccoci finalmente seduti, composti, e un po’ rigidi, di fronte alla famosa psicologa Karla Kupfer, che dicono abbia una grande esperienza in paturnie e paranoie varie, di singles o coppie.
È una bella donna slanciata, sui cinquant’anni, coi capelli cortissimi, lo sguardo diretto e franco, dietro un paio di occhiali dalla montatura colorata (design italiano). Siede su una poltrona di pelle dietro a un tavolo di cristallo e ha in mano ha un lapis e un quaderno (marca tedesca), dove prende note veloci. La ricorderemo come il Bulldozer, piú potente ed efficace, da solo, nel dare la mazzata finale alla nostra traballante relazione, dell’ intero Comitato Dame.
-Bene, signori, raccontatemi di quando e perché avete deciso di mettervi insieme, vent’anni fa -chiede aprendo la sessione.
Io porto la mia famosa collana di perle (regalo di Markus nel giorno delle nozze, in cui mi dette tanti baci quante erano le perle), Markus con uno dei suoi soliti completi sportivo-eleganti, con camicia a righe (naturalmente). E un sorriso un po’ imbarazzato. Che finisca presto... queste cose da donne sono una palla totale, gli si puó leggere nello sguardo. Comunque, vediamo dove ci porta, la signora design.
-Cominci lei, Marianna- mi fa cenno Karla.
E io racconto di quel ragazzo fantastico che conobbi piú di vent’anni fa, in un bosco bellissimo delle Alpi austriache, che sembrava un bosco di fate... e lui mi chiese di aspettarlo... Infatti, ancora adesso continuo ad aspettarlo, tante notti senza dormire, ma lui mi pare che la prenda sempre piú larga, la strada di casa. Adesso mi abbraccia cosí poco! E anche se il dottor Weber mi ha dato qualche pista, non capisco perché continua ad innamorarsi di altre donne. Tutte le volte credo, e spero che sia l’ultima, e invece…Tanto che alla fine, solo da qualche tempo, che questo sia ben chiaro, ho accettato l’amore di un ragazzo che... (Markus alza gli occhi al cielo: anche un cieco se ne sarebbe accorto!), ma io sono disposta a...
-ALT!- mi interrompe la psicologa, per evitare che scopra le mie carte. Bisogna negoziare un po’, no? signora tonta!, mi dicono severamente i suoi occhi, dietro la montatura design. -Adesso tocca a lei, Markus.
- Sí, mi ero innamorato di un’altra ragazza, all’inizio. Ma dopo, mi resi conto che Marianna era la moglie perfetta per me, e per questo feci mille acrobazie per comprarle il benedetto anello di fidanzamento, un vero brillante certificato... Ossia comprai, trasportai e vendetti alcuni mobili antichi di ex proprietari terrieri polacchi, o ebrei, o tedeschi rovinati... E poi, per portarglielo a Firenze, presi in affitto una moto di seconda mano che in viaggio si riveló un rottame... E per strada, verso il Brennero, rischiai la vita con un camion che uscí di corsia sfiorandomi per un pelo... Finii fuori strada ma non mi feci un graffio, un vero miracolo vi giuro, solo la moto perse qualche bullone. Ma quando vidi Marianna, cosí bella e disperata...- la voce di Markus si rompe improvvisamente per l’emozione. Sogno o son desta? Lo ascolto che dice: -Tante volte sono stato una bestia con lei...
Mi prende la mano. Ci guardiamo. E ci abbracciamo commossi.
-Ecco qua i fazzoletti. Bene, bene- conclude la psicologa che d’un tratto sembra essersi ricordata di avere un altro appuntamento. La aspettano altri clienti, o deve andare a pattinare sul ghiaccio?
-Per finire, signori miei, vi dó un consiglio, anche se in teoria dovreste arrivarci da soli, ma é solo per accelerare un pochino. Lei, Marianna rompa con quel caro ragazzo, il giovane Amadeus (vero?), lei Markus con la sua ultima amante. Provate a sentirvi di nuovo come quei due trentenni in una moto sbullonata. Perché non fare di nuovo un viaggio a Firenze, per ritrovare l’emozione di quel periodo meraviglioso? Stavolta magari con una moto potente! Coraggio, potete ricominciare da capo!
Karla ci sorride aprendo le mani. Voilá.
Geniale! Ci asciughiamo le lacrime e usciamo abbracciati, inciampando nello scalino per l’emozione.


17. Pioggia nella Sebastianstrasse
Che tremendo diluvio, quel giorno. Adesso devo andare al Kreuzenberg, a riprendere dei libri sul Perú prestai ad Amadeus. Vive vicino alla Sebastianstrasse, dove passa serpeggiando quell’orribile muro di Berlino, che divide in due la cittá e il mondo. Suono il campanello ed entro, senza togliermi il cappotto.
-Ti vedo strana Marianna, c’é qualcosa?
-C’é che... Amadeus, non me la sento piú di tenerti come fossi il mio giocattolo. Sai, io non posso lasciare Markus, non ce la faccio. Ti voglio dannatamente bene, e per questo voglio che ti senta libero, senza condizionamenti da parte mia che...
Amadeus dá una sberla ai libri ben disposti sul tavolino, e li fa volare in aria tutti quanti, insieme a una scatola di fiammiferi che si spargono a terra. Non l’ho mai visto cosí infuriato.
-Ma che bello! I piccioncini sono tornati insieme, no? Ascoltami una buona volta, Marianna. Ti parlo al di lá del mio ego, di quello che vorrei con te -guardo i suoi occhi, accesi da un amore furibondo-. STAI FACENDO LA SCEMENZA DEL SECOLO!- mi grida. -Credi che Markus possa cambiare per una frasetta buttata lí da una psicologa design? Se le scene drammatiche, i “perdono Marianna” sono la sua especialitá!
Touchée. Ha ragione. Quante volte ho vissuto drammi e riconciliazioni?
Inghiotto.
- Eppure, non so come spiegarti, Amadeus. È che se non l’hai vissuto, non puoi saperlo. Il matrimonio ti fa con un’altra persona, come la farina e l’acqua. Tu distingui nel pane la farina dall’acqua, no, vero? È come... come...
-Anche quando non ti ama piú, non ti abbraccia piú, se ne va con tutte le donne meno che con te? Scusa la mia brutalitá Marianna... È ancora matrimonio perché gli servi quasi solo per trovare una minestra in tavola, quando gli gira, e le sue camicie stirate... Perché non si paga una cameriera?
-Adesso non esagerare, Amadeus! Una volta mi ha detto: Qualsiasi cosa io faccia, sappi che ...
-Ahaha che ridere. Ti ha detto, vero? Ma guarda ai fatti, una buona volta, non alle parole al vento! “Marianna, la donna della mia vita”. “Il viaggio della tua vita”. “Una lavatrice per la vita”. Le stesse formule magiche per le lavatrici germaniche e gli amori sbiaditi. Non hai studiato in Mc Luhan come si usa il linguaggio pubblicitario? Solo per rincitrullire pensionati, bambinetti e casalinghe.
Resto zitta, con gli occhi chiusi. Forse ha ragione, ma non posso dargliela. Non so piú niente. Non so piú niente di niente.
-È solo paura di restar sola, Marianna! RESTI CON LUI PERCHE´ HAI PAURA DI VIVERE! Apri gli occhi, una buona volta.
Apro gli occhi. Il suo viso mi é vicinissimo. Questi occhi grandi, disperati, pieni d’amore.
-Stai vivendo gli anni forse piú interessanti del secolo... gli anni Settanta. Milioni di persone si stanno chiedendo come migliorare la loro realtá e l’intero mondo, hai a disposizione le migliori biblioteche dell’Occidente, e questi sono i risultati: paura della libertá. Rinunci a vivere per paura che un giorno, magari, chissá, resti sola. E allora? Non ti sei accorta che nasciamo e moriamo soli? Bisogna accettare il nostro essere “uno”: accompagnati, ma “uno”. Ma tu vuoi restare attaccata alla tua sciapa minestra quotidiana, anche se ormai é piena di muffa.
Amadeus prende il suo cappotto.
-D’accordo, Marianna, ti lascio alla tua minestra ammuffita. E tanti auguri. Non mi vedrai piú, se é questo che vuoi. Grazie per aver messo sossopra la mia vita in questi ultimi due anni…. ubriacandomi di gioia. È stato un privilegio conoscerti.
E poi si gira per mettersi la sciarpa, senza guardarmi.
Io prendo il mio zaino e i miei guanti, leggermente stordita, ah, l’ombrello, mentre lui apre la porta e mi lascia passare. Poi la chiude con un colpo secco.
Non ci resta che scendere le scale, in silenzio. Le sue scarpe con le suole di gomma fanno strada, i miei stivaletti le seguono. Il mio zaino pieno di libri, lo sento piú pesante di una bara.
Siamo giá in strada: Nel cielo plumbeo alcuni lampi accoltellano le nubi che si stanno accumulando, senza riuscire a disperderle. Tra poco verrá giú un diluvio.
-E ricordati una cosa, Marianna. - Amadeus si ferma un attimo prima di svoltare per la Eisebahnstrasse, con gli occhi lucidi, lucidi.
-Sí?
-Che quello che piú temiamo, quello a cui sfuggiamo, prima o poi, ci toccherá viverlo. Addio, e buona fortuna.
Un tuono, e comincia a scrosciare.
Amadeus se ne va senza un bacio, in fretta, quasi correndo. Spariscono sotto pioggia la sua bella testa espressionista, e il suo cuore di stelle e tamburi.
L’ho perso, l’ho perso. Mi sento pervadere, all’improvviso, da un brivido gelato. Giro per la Sebastianstrasse, e scoppio in pianto.


18. Il fragore della valanga annunciata
Gli eventi cominciano a rotolare giú, sempre piú veloci, come una valanga. Mentre rinuncio ingenuamente a Amadeus, Markus non cambia di una virgola le sue abitudini, continuando beatamente con le sue manovre clandestine. Clandestine é tutto dire, ormai non c’é piú niente di segreto. Io mi sento crescere dentro una rabbia infinita, come una lava che fará saltare la casa, prima o poi. Siamo agli ultimi giorni di Pompei.
A Firenze come due colombi? Certo, è un’idea magnifica, quella della famosa Karla. Ci andiamo in auto, per visitare brevemente un terreno di famiglia e tornare. Millecinquecento km di pura tensione: il viaggio piú triste della mia vita. Neanche una parola mentre sfilano i boschi, i campi, le montagne, le cittá della nostra bella Europa. Nell’auto c´é un silenzio cosí tossico, che basterebbe accendere un fiammifero per far saltare tutto. Nel sedile posteriore c’é nostro figlio, Alexander, di diciassette anni. Non é mai stato un chiacchierone, ma quando finalmente (oh finalmente!) arriviamo alle scale della bella casa di Berlino, pronuncia una frase chiara e definitiva, come poche:
-Basta cosí, genitori miei. Papá: o te ne vai tu, o me ne vado io.
Se ne va Markus, il giorno dopo, senza una parola. Lo vedo scendere le scale con le sue pesanti valigie, piene di camicie a righe, di completi sportivi, di scarpe italiane, di vestiti blu per le cene sociali. Io salgo per riordinare le camere. Ci scambiamo una rapida occhiata senza espressione. Di tutto questo trambusto, resta appena una striscia sui pavimenti lucidi. Sento solo, di lontano, il fragore della valanga annunciata.
Poi, mi sento risucchiare in un vortice oscuro. Sono cosí dolorosamente, e maledettamente vere le parole di Amadeus. Ció che piú temo e piú evito, mi sta cadendo in testa col peso di una tonnellata. La solitudine. Ho perso in una sola mossa i due uomini che amo. Geniale davvero, Marianna. Il tuo Grande Amore é risultato poco piú che un topolino, forse partorito dalla montagna della tua fantasia. E il Piccolo, che hai respinto, ha lasciato dietro di sé un alone di luce e polvere di stelle, come una cometa.
I pavimenti di casa sono piú lucidi che mai, visto che nessuno ci cammina sopra.
Ricordo l’occhiata tenera e ironica del dottor Weber, quella notte in cui inizió la movida. Un po’ di Bailey’s, Marianna?
Un pochino, dottore, avevo risposto. Adesso, perché no? Posso berne quanto mi pare. Un giorno mi scolo una bottiglia intera, fino a vedere sfumare i contorni delle cose. Porte, mobili, tende, tutto comincia a fluttuare nel vuoto, perdendo le sue connessioni. Tutto ció che ho cercato di mantenere unito, ordinato, sotto controllo, adesso ondeggia liberamente, non si sa verso dove. E in questo caos, si aprono delle bocche orrende che gridano al silenzio, come nei quadri di Munch.
Come posso sentirmi, dottor Weber, quando all’improvviso sparisce quella che è stata per venti anni la fonte principale delle mie emozioni…felicitá e rabbia, adrenalina e ossitocina…. Markus forever, cosí credevo. O forse era solo un attaccamento malato? Ma senza queste emozioni, c´é solo la nebbia anonima, insopportabile del mio Non-Essere.
Parlo sola allo specchio. Finché giorno, nel mio torpore, sento la voce chiara e nitida di Alexander (ah, allora è qui con me, mi dico) che mi grida:
- Mamma svegliati! Voglio che tu viva!
Per la terza volta, qualcuno che mi vuole bene mi dice:
- Svegliati, se vuoi vivere!
Amadeus, Amadeus,... penso con una fitta dolorosa. Dove sarai finito, con il plusvalore del tuo sguardo caldo, delle tue mani di violini? Si é trasferito a Malmo, in Svezia, mi dicono gli amici. Fuori campo, fuori pericolo.
“Mi sono stancato di aspettare Marianna. Quando tutto andava a meraviglia fra noi, mi ha tradito”, ha confessato a un amico. E quindi.
Intanto arrivano le fatture, le tasse, le scadenze delle assicurazioni. Dove diavolo si pagano? E’ sempre stato Markus a occuparsi della gestione del denaro. Ma soprattutto, COME si pagano? Sono rimasta con un armadio pieno di vestiti, e duecento marchi in tasca. Muovi il culo, Marianna!
Grazie, belle vacche di razze selezionate, frisone e svizzere dagli occhi mansueti. Mi avete salvato dalla vergogna di chiedere soldi all’ex Uomo della mia Vita. 
Appena fuori Berlino, mi avvisa Ingrid, hanno impiantato una grande feria di bestiame, e cercano commesse. Perché non tentare? I miei studi di Cambridge sui sonetti di Shakespeare non sono incompatibili col maneggiare una cassa, o preparare e offrire succhi di frutta tra vacche di razza selezionata. In futuro, vedremo. Per ora, sono contenta di mettere insieme un po’ per volta tanti piccoli biglietti, e ogni settimana un biglietto piú grande. Per ora.
“Ma dov`é la stella di neve del mio destino, apu Ausangate?”, penso guardando fuori, notte dopo notte. Una cappa di nubi copre case e fabbriche. Silenzio. Dove hai sentito le stelle piú vicine... sento risuonarmi dentro queste parole. Sará in Perú, allora?
Il giorno dopo scrivo alla cooperazione tedesca, rendendomi disponibile come antropologa per progetti educativi con i popoli indigeni. Sono passate settantadue ore dalla mia offerta, e sto guidando la mia Wolswagen nella Clay Allee, quando provo una sensazione strana e forte. Anche Zambo, il mio cane, fiuta qualcosa di strano e mi salta addosso, come in un abbraccio. E cosí, cane e padrona abbracciati, proseguiamo nel frenetico traffico della Clay Allee. In casa trovo la velocissima risposta della cooperazione tedesca. Sí, mi accettano per occuparmi dell’educazione elementare dei bambini indigeni nelle Ande. E mi accludono il biglietto, con data aperta, e la frase: Destino: Lima, Perú. Solo andata.


19. Messaggi e simboli
Mi muovo in punta di piedi, nei primi tempi a Lima. In ogni paese esistono codici specifici e dettagli differenti nel gestire la vita quotidiana, e gli stranieri devono stare in campana per non fare gaffes, non offendere nessuno, capire cosa vuol dire veramente l’altro, anche senza dirlo, eccetera. Ci vorrá del tempo, immagino, per imparare a destreggiarsi. Questo succede dappertutto. Ma è soprattutto a Lima dove banali pratiche di vita quotidiana possono tradursi in pezzi di teatro surreale.
Prendiamo la dogana, per esempio: un kafkiano Labirinto del Fauno.
Puoi perderci giorni o mesi, prima di poter ritirare un pacchetto con cassette di Listz che ti hanno mandato dalla Germania. Che meraviglia, eccolo lí, il mio pacchetto, a meno di cinquanta cm. di distanza dalle mie mani, appoggiato con altri .sulla scrivania dove regna l’Impiegato numero 1! Glielo segnalo e chiedo: “Posso ritirarlo? La mittente è la mia amica Cristine Kruger, Eisebhanstrasse 25, Berlino. Sono un paio di cassette della mia musica preferita”, dichiaro con un gran sorriso all’Impiegato n.1, e gli mostro uno, no, due documenti di identitá perfettamente in regola.
-NON LO TOCCHI, NON SI PUÓ! Risponde allarmato l’Impiegato numero 1.
-Perché no?
-Perché adesso deve passare all’Impiegato n.2, per un timbro, e poi al 3 e al 4 per altri timbri, e poi tornare al 2 per la revisione dei timbri...
L’Impiegato numero 2, anche lui mi guarda come se fossi una ritardata mentale.
-Che strano... Beh, allora quando potró ritirarlo?
-Provi domattina presto, en la mañanita... -risponde l’Impiegato n.1. Adesso comincio a familiarizzarmi con questi diminutivi. Un mañanita é un domani nebulizzato fino all’evaporazione. Infatti passano varie mañanitas e sono ancora lí, sulle tracce di un pacchetto sempre piú inconsistente, e con scuse sempre piú volatili. Stanno controllando timbri e controtimbri, continuano a ripetermi. E io continuo a protestare: Ma insomma, quante storie…se non contiene uranio arricchito! Si tratta SOLO di due banalissime cassette di Listz, come devo dirvelo?
Ma poi, improvvisamente, ecco l’illuminazione. Anzi, che tonta, come ho fatto a non pensarci prima? I dis-funzionari dei tavoli 23, 24 e 82, tra i quali vai peregrinando una o mille volte, in cerca del tuo pacchetto, non te lo consegneranno MAI se non ti rivolgi a quei tizi appostati lá fuori, per sbrogliare le pratiche che i loro amici, all’interno, si danno da fare per imbrogliare. E te lo faranno a un prezzo assolutamente conveniente, señorita. Solo il doppio del valore delle due cassette. Comunque. Con questa logica dis-funzionale, si creano il doppio dei posti di lavoro. Así es mi Perú, prendere o lasciare.
Un giorno cerco un bus che va a Ica, un piccolo centro a 200 km a sud di Lima, una bella oasi in mezzo al deserto costiero. Ne vedo uno con una scritta sul vetro: “ICA”, che va in direzione della Panamericana Sud. Ottimo. Comunque, salendovi sopra, chiedo: “Questo bus va a Ica?” “Sí”, conferma l’autista. Pago il corrispondente biglietto, ma dopo solo un’ora di viaggio, il bus inverte la marcia e torna a Lima.
-Scusi, perché sta tornando indietro?- chiedo sorpresa all’autista- Non stavamo andando a Ica?
-Certo, ma questo bus lo devo riportare al garage dell’impresa alle 19 - e mi guarda come se fossi una ragazzetta un po’ ritardata.
-Ma almeno, dopo averlo riconsegnato puó ripartire per Ica?
-No, questo no, ma sicuramente ce n’é un altro. Ce ne sono tanti (sí, certo, magari con la scritta “Cajamarca”, per andare ad Arequipa, dall’altra parte del Perú).
Naturalmente, alla stazione dei bus, nemmeno l’ombra di qualcuno che va a Ica.
-Provi mañanita, signora: torni domattina prestissimo...-mi suggerisce un’impiegata.
- Grazie, lei é troppo gentile.- Senza ironia, davvero.
Altre volte, c´è meno da ridere.
Lima continua ad esser agitata da tumultuose manifestazioni, mentre i giornali riportano notizie allarmanti. La riforma agraria di Velasco Alvarado, con il suo sogno di abbondanza per i contadini allampanati, è risultata un fiasco. E´stata distribuita la terra, ma non l’abbondanza. Solo alcune cooperative hanno raggiunto una produzione soddisfacente. Cosí “il Cinese” viene destituito da un altro militare, Moralez Bermudez, che alleggerisce lo stato di migliaia di funzionari, per equilibrare il bilancio pubblico. La gente scende in strada a protestare. Si moltiplicano le manifestazioni. In questo panorama agitato, le elezioni presidenziali dell’’80 dovrebbero restituire una parvenza di democrazia al paese.
Nella sierra peró non arrivano i politici incravattati della capitale, e questo vuoto viene riempito dai seguaci del carismatico professore-profeta Abimael Guzman, sí, il marito di quella ragazza gentile, Augusta La Torre, con cui facevo lunghe passeggiate. Abimael ha giá aperto la diga della rivoluzione contro il marcio stato borghese, facendo bruciare le anfore elettorali in un paesino vicino ad Ayacucho, Chuschi, in spregio alla farsa delle elezioni.
A Lima intanto i suoi seguaci mandano un sinistro messaggio alle autoritá corrotte, impiccando dei cani e lasciandoli penzolare tristemente dai pali della luce. “Vi ammazzeremo come cani”. Lo stesso linguaggio usato dai maoisti nella rivoluzione cinese. (Senza contare il massacro di cani, ufficialmente organizzato, che decretó la fine della frustrata rivoluzione democratica di Praga del ‘68).   . Nell’82, oltre alla torta di compleanno preparata dalla sua cara Augusta, Abimael   Guzmán riceve un regalo veramente impressionante. Nel monte La Picota di Ayaucho vengono accese centinaia di torce di latta, come candeline di una torta, formando il disegno di una gigantesca falce e martello, mentre un coro di i voci inneggia alla rivoluzione. Siamo entrati, senza rendercene conto, nel decennio in cui scorreranno fiumi di sangue, il prezzo che deve pagare il paese per rinascere nuovo. Lo dice e lo comanda il Camarada Gonzalo, leader della rivoluzione peruviana, che un giorno, está cierto compañeros, se dará a conocer en todo el mundo.
Ma non avrei mai pensato che mi sarei trovata io, sporca gringa borghese, di fronte alle canne fredde dei loro fucili.


20. Piedi e missioni
“Hai una missione importante, e hai perso molto tempo!”. Mi risuonano adesso nella mente queste parole. Me le sta dicendo, all’inizio della mia permanenza a Lima, una donna tranquilla, dai capelli castani, orecchini di fantasia, e un camice bianco. “Centro di Riflessologia”, dice il cartello sul muro di cinta di una delle tante case che danno su una strada dai marciapiedi pieni di gerani di Miraflores. Entro? Entro.
So vagamente che si tratta di un tipo di massaggio che, dicono, serve a ripulire i canali energetici che vanno da un punto determinato del piede a un determinato organo: il fegato, i reni, lo stomaco e cosí via. Lo praticavano anche gli antichi Egizi. Un po’ per volta, i massaggi rivitalizzano l’organo. Ma il mio problema é un altro: ci sará un modo, di ripulirmi l’organo che s’incarica di riempire le mie notti di sogni agitati? Oggi é una giornata di porte aperte, il centro di riflessologia dá trattamenti gratuiti alla gente, e solo con una mancia alle operatrici in camice bianco, puoi dare un’occhiata alle linee di energia che si incrociano dentro di te. Una di loro mi prende con soave decisione un piede e lo percorre con le sue dita, facendomi saltare dal dolore. E poi mi sorprende con le sue parole, nitide e serene:
-Si ripulisca l’aorta, signora. E´ piena di colesterolo e di rabbia. Metta un’enorme pietra incaica su quello che é successo con suo marito, e apra bene le finestre... Per questo é venuta qui, no?
Accidenti... come fa a conoscere, questa donna dal viso anonimo, i capelli corti e gli orecchini di plastica, i miei drammi segreti? Se è la prima volta che metto piede (é il caso di dirlo) in questo centro, e a Lima non ho nessuna amica che possa spifferare in giro i fatti miei.
-Scusi se entro nella sua vita, ma ho qualcosa d’importante da dirle - aggiunge, mentre si toglie il camice per uscire, e saluta un uomo che apre la porta per riceverla. –Peró, meglio che torni domani mattina, stasera é il nostro anniversario e mio marito é venuto a sequestrarmi...
Il giorno dopo, perché no? mi fiondo a conoscere questa strana donna.
Un donna normalissima, questa Sylvania, che piú normale non si puó. Taglia media, statura media, etá media, occhi marrone.
-D’accordo, ti daró del tu. Non devi pagarmi. Solo ogni tanto, mentre tocco i punti dolorosi delle persone, vedo qualche frammento del loro passato o del loro futuro. Di te, vedo che hai una missione importante, e hai perso giá abbastanza tempo!- mi ripete abbassando la voce.
- Vorrei Amore, non una Missione, -mi sento mormorare mentre due stupide lacrime mi spuntano negli occhi.
Torta alla crema, non al limone! protesta la Bimba al bancone del Destino. Altre lacrime spuntano dal fondo marino del mio essere. Tiepide e salate.
Perché non riesco a cancellare con una spugna, come vorrei, dalla lavagna scarabocchiata della mia anima questo gomitolo arruffato a pesante di (una tonnellata di) venti anni di ricordi? Quante volte, di notte, guardo il cielo senza stelle di Lima, che la nebbia colora di un rosa giallognolo emanato dai fari di viali e fabbriche. Un triste cielo color Toyota.
E poi dormo facendo sogni piú intricati delle composizioni celesti della cappella Sistina. Tra le quattrocento figure di angeli e profeti muscolosi della cappella mi appare ossessiva la faccia di Markus, con indosso i pantaloni, ma a dorso nudo. Oppure al contrario, con giacca di smoking, cappello duro da finanziere, e giú, niente. O meglio, i suoi orgogliosi e apprezzatissimi attributi virili. Piú bello e seduttore che mai, ma con gli occhi rossi di un diavolo. In un sogno addirittura assume la faccia del dio severo che dá la mano ad Adamo, ma é lui stesso Adamo, un Adamo-Markus al quadrato, che dá la mano a stesso, creandosi e perdonandosi. Un mondo a misura d’uomo. E vedo Amadeus, in un angolo della scena, a suonare il flauto come un dio greco, regalando musica a questi maschi complicati.
Eva dov’é? In un sogno é sparita, ma in un altro eccola arrivare, con la mela e un serpente avvolto nel corpo, al lato di Judith che agita come una bandiera la testa di Oloferne. Arrivano anche la Vergine con una corona di stelle e una borsa per la spesa, Salomé che lascia cadere, danzando, un velo dopo l’altro; Sara e l’anziana Elizabeth che tengono per mano la piccola Anna, e la moglie di Seth, giá diventata una statua di sale, ma con un permesso speciale per le manifestazioni... e tutte gridano alzando le mani: IO SONO MIA! Come le femministe della Kaiserstrasse.
Peggio ancora se mi giungono da Berlino notizie che preferirei non avere. Come quella che adesso Markus sta vivendo con una donna che non conosco. Quando lo vengo a sapere, ho una reazione strana. Si alternano giorni di calma con altri in cui un missile nucleare sarebbe troppo poco per incendiare la casa dove l’ex uomo del mio Destino vive con la (momentanea?duratura? ) donna dei suoi sogni. Certo, siamo separati, é suo diritto, no? E a me che me ne viene, se alla fine, e alleluia, ci siamo separati? A me che m’importa se é finito con Marlene, o Gredna, o Francine? Per me é lo stesso. Lo stesso orrore. Anche se non gli sará facile trovare la donna perfetta per lui, come ha osservato il dottor Weber ... perché per vivere ha bisogno di una mescolanza di Marianna, con piattini deliziosi e fiori sul tavolo, piú Margrit (la tappabuchi-tuttofare), la amante liberale per definizione. Un’equazione impossibile fra profumo di fiori e crepes flambant, e vagine insaziabili. Un po’ di questo tipo:
Xy Marianna+ Margrit+ (Francine al quadrato-42 xy Flor)
                                             Magnolia x 4
Vorrei cancellare tutto con un solo gesto, zac e zac, e dormire sonni limpidi, senza dei paranoici.
- Non ti spaventare…il tuo dramma si sta processando e diluendo. Avrai tutto l’amore di cui hai bisogno…- Sylvania adesso mi accarezza una mano, mentre il mio stomaco si rilassa in una sensazione magnifica di calore. Sí, sento che posso fidarmi di lei.
-Ma non sará quello di tuo marito. Lui continuerá irretito nelle sue storie... ha terrore a star solo. In questa situazione di debolezza, non sa distinguere chi lo puó amare o semplicemente ammaliare, anche se apparentemente é lui il conquistatore... Ho l’impressione che cadrá in mano a una donna astuta e... Non fare quella faccia, non voglio spaventarti. Beh, mi posso sbagliare, sai? Sará la vita a dirlo. Ma su di te non mi sbaglio, sono sicura! Tu hai una stella nel palmo della mano, negli occhi, nella fronte.
-Di che stella parli, benedetta donna?
-La tua missione. (E dagli con questa missione, non la voglio e non la voglio, avete capito? Scalcia la Bimba)
...La scoprirai un po’ per volta, giorno per giorno. E quando ti sembrerá di averla piú chiara, apri questo foglietto, e leggi quello che adesso ci scrivo, promesso? Non prima!
Foglietto chiuso fra i miei quaderni, con Missione Sconosciuta dentro. O Impossibile?
Dove sará finito questo foglietto? Naturalmente, lo persi subito. Se potessi stare con me, adesso, Sylvania, col tuo sguardo tranquillo, e quelle mani fresche e decise. Forse tu sapresti vedere al di lá di questi sguardi duri, che mi squadrano senza vedermi. Tu forse, sapresti vedere cosa mi aspetta.


21. Orizzonti
Chiudo gli occhi di nuovo e mi perdo nella visione dei paesaggi immensi dell’altopiano di Puno. Navigo nella loro vastità, lasciando che la mia anima respiri e si plachi.
Ho terminato il corso di quechua a Lima, e mi sono trasferita a Puno, per iniziare a lavorare come formatrice nel progetto educativo diretto ai bambini quechua e aimara dell’altipiano. Lá dove volano i condor.
In questa piccola cittá dalle costruzioni anonime, appiccicate l’una all’altra come scatole di sardine, il lago e l’altopiano fanno da contrappeso ai limiti architettonici con la loro grandiosa bellezza. Non mi stanco mai di contemplare i paesaggi immensi di quelle altezze. Valli con grandi greggi di alpaca e lama, che si muovono leggeri sul duro velluto dell’icchu. E in fondo, in fondo, un pastorello che sembra scendere dalle nubi, in un’alba dalle dita di rosa. Saranno stati cosí gli inizi del mondo? Vengono a scuola i bambini dell’altopiano: sono allegri e vivaci, con le guance rosse, gli occhi neri brillanti, le labbra a volte screpolate dal freddo, i chullos colorati. Ma il metodo d’insegnamento che vi si applica tarpa poco a poco la loro creatività, rendendoli passivi e dipendenti.
Se il primo anno che entrano alla scuola, gli fai descrivere il loro ambiente, i bimbi fanno disegni pieni di dettagli come cagnetti che saltano, galline perseguitate dalla volpe, addirittura la tomba della nonna, sotto un immancabile sole pieno di raggi. Prova a fargli fare un disegno libero, dopo quattro anni di scuola, e la maggioranza disegnerá una bandiera o un mazzo di fiori, ugualmente scialbi. Che conoscano trenta colori di granoturco o sappiano orientarsi da soli, in mezzo a montagne imponenti, alla scuola non importa. Gli cancella il sapere tradizionale, senza peró sostituirlo con le conoscenze necessarie a farli sentire cittadini di una patria piú grande.
Mi vedo in decine di riunioni a vari livelli, col ministro e funzionari ministeriali, e poi con professori e genitori, per disegnare con loro un’educazione che si possa dir tale, e quindi non autoritaria, ripetitiva, noiosa, ma centrata sul bambino e sulla comunitá, aperta e creativa. É un’impresa titanica, come si puó immaginare, una vera rivoluzione educativa. I funzionari ministeriali e i professori, salvo eccezioni, ci guardano di traverso. Sono matti da legare, questi gringos, gli leggiamo negli occhi. Vengono con il denaro dei progetti, e credono di poterci comandare? E qualcuno sbotta: “Perché tanti soldi per educare quattro indios? Perché piuttosto, non usarli per cercare oro? Nel Madre de Dios ci sono certi angoli dove...”
Dobbiamo fare un passo indietro, allora. Ragioniamo un momento sui pregiudizi razziali.
-Da quando e perché gli indios sono stati considerati inferiori, per favorire chi?
-Chi, noi razzisti? Sono loro, primitivi.
-Che significa per voi, “primitivi”? Si sta parlando del piano emozionale, tecnologico, o sociale?
Continuiamo col ragionamento. Vengono turisti dall’Australia o dal Canadá, per visitare il Perú, che ha una varietá incredibile di paesaggi ed ecosistemi, tra i piú diversi del mondo. Una riserva di semi e genomi per tutto il pianeta. Chi ha raccolto, utilizzato, selezionato nei tempi dei tempi questi semi? Chi ha sperimentato con pazienza con loro, scoprendo le qualità curative o alimentari delle piante?
I 43 o 46 popoli nativi che sono sopravvissuti finora in Perú, mantenendo una lingua propria, hanno imparato a “addomesticare” non solo piante e animali, ma anche paesaggi scoscesi, costruendo ingegnose terrazze e sistemi di irrigazione nelle terre alte. In Amazzonia, sono riusciti a solcare fiumi limacciosi, a cacciare la scarsa selvaggina in modo da non decimarla, e piantare orti in terreni acidi, spostando le coltivazioni quando non producevano piú.
Gli andini hanno costruito un impero teocratico basato su classi differenziate, mentre fra gli amazzonici ha piú potere il saggio, o quello che sa donare. Questi ultimi hanno organizzato la loro vita in modo che nessuno soffra la fame, rispettando l’ambiente, e hanno utilizzato il superfluo per grandi feste dove si rafforza lo spirito di gruppo, senza necessitá di dover organizzarsi in uno stato.
Come ogni altro gruppo umano del pianeta, hanno elaborato miti e sistemi di credenze a volte molto complessi, per spiegare la vita e la morte, ma sono stati sistematicamente ignorati dai governi dei bianchi o meticci, che hanno preferito ridurli a “feroci selvaggi”, per usarli come bestie da soma.
Pensate che uno chiunque di noi, nato in cittá, saprebbe pascolare in queste montagne solitarie, animali cinque o dieci volte piú grandi di noi, come fanno a cinque anni i bambini dell’altipiano con le vacche e gli alpaca? Sapremmo destreggiarci fra i mulinelli, in una fragile canoa, come sanno fare i piccoli amazzonici? No, non ce la faremmo. Beh, allora perché non proviamo a scambiare con loro le diverse conoscenze e abilità, imparando dai popoli originari quello che hanno di piú valido nella loro maniera di utilizzare l’ambiente, mentre noi possiamo trasmettergli ció che possa essergli utile, fra i ritrovati scientifici e tecnologici della cultura occidentale, per arricchirci mutuamente?
Utopia? Puó darsi. So che per realizzarla non basteranno una, o due, o venti riunioni. I cambiamenti della mentalità collettiva richiedono anni, mi dico a volte per non abbattermi. O ere geologiche.
Ma almeno i genitori saranno contenti, si potrá pensare, che ci si sfianchi per i loro bambini. Macché.
Tutti questi giochini, e semini, e bastoncini, per imparare i numeri, non sono una perdita di tempo? I bambini devono imparare a scrivere e poi a lavorare, altro che balle. Con qualche bella frustata, se necessario. La letra con la sangre entra, giá.
Mi verrebbe voglia di alzarmi e dirgli : SVEGLIA!! Non vi rendete conto che per secoli vi hanno insegnato ad abbassare la testa (buenos dias papacito, buenos dias mamacita) per dominarvi meglio, fin dalla Colonia? E a ricevere bastonate, anche in una scuola che dovrá insegnarvi tutto meno che a pensare, e inventare qualcosa di diverso ... E poi, alla fine di una vita di miseria, ecco che vi sventolano davanti la promessa del paradiso: tanto. il cielo é gratis. Ma finché siete in terra, dannati siete e dannati resterete… (Amadeus, ricordi i nostri discorsi?).
Peró non devo scaldarmi, ovviamente, e subissare quei poveri genitori di idee sovversive.. Devo essere diplomatica e persuasiva.
Finché un giorno mi sveglio con due occhiaie profonde da far paura, e decido di gettare la spugna… Mi sto dissanguando io, a furia di spiegare che non si educa col sangue delle frustate. Mi dimetto e via. Fatto. Prendo la mia borsa e vado ad avvisarli che li lascerò al loro destino, quegli andini dalla testa dura. Ci provi qualcun altro, con loro. Ma mi aspetta una sorpresa. Mi accoglie con un sorriso fino alle orecchie la signora Ersilia, presidente del Club de Madres, che all’inizio mi guardava di traverso. Adesso invece mi viene incontro con una padella annerita... un uovo fritto! E dove ha trovato quest’uovo, con le galline decimate dalla volpe, e l’olio carissimo? Mi chiedo.
-Lei non si preoccupi, e mangi. L’ho vista un po’ giú, ultimamente.
Un uovo fritto in quest’altipiano spazzato dai venti! É come mangiare aragoste e champagne in Germania. Restituisco il tegame brillante, e abbraccio Ersilia. Coraggio e avanti, hasta siempre.
Sono libera come un fringuello. Per la prima volta nella mia vita, non ho nessuno che mi aspetti a tavola, o chi aspettare a tavola, o che si aspetti che gli prepari la tavola, o che mi prepari la tavola. Neanche uno Zambo che mi accolga scodinzolando. Sará bene o male? Non posso far altro che sperimentarlo, e giá che ci sono, approfittare dell’occasione. Per esempio, posso rendermi disponibile per i viaggi stronca-cavallo, rifiutati dai colleghi sposati, a visitare le comunitá piú sperdute della puna, per coinvolgerle nel progetto educativo. Sempre con quella pazza idea di dare un’educazione dignitosa agli ultimi degli ultimi. E se per strada ti trovi bloccata da un incidente, come un buon boccone per gli avvoltoi?
Ogni viaggio comincia caricando la mia Volswagen bianca con un sacchetto di carne secca e patate disidratate, piú una provvista di tonno in scatola e crakers, sempre apprezzati come leccornie dagli abitanti di questi paralleli sperduti. Ha bisogno di un nome, la mia preziosa Volkswagen, dato che passeremo moltissimo tempo insieme: la chiamerò Olivia von Batten, mi suona bene! La mantengo in condizioni perfette, sempre con l’olio, l’acqua, la pressione delle ruote, e i freni nel giusto punto. Olivia mi corrisponde con l’immediata accensione del motore, anche se piove o tuona, sta gelando o c´è siccità. Cosí va bene, Olivia, sempre avanti, mi raccomando, senza piantarmi in asso in mezzo all’estero, o in fondo al mondo, dove nascono le nubi.
A volte sola, a volte in compagnia di qualche taciturno maestro, m’immetto in una di queste strade polverose e infinite, che tagliano in due un altipiano schiacciato dal cielo. E poi costeggiano pascoli giallognoli di erba ruvida, lambendo lagune verdi, tra voli di anatre selvatiche, per arrivare lá in fondo, in fondo, dove comincia o termina l’orizzonte dell’altopiano, e si apre una corona di montagne possenti, dai ghiacciai scintillanti di neve.


22. La febbre dell’oro
Lá in alto, continuo a salire fino alla zona dove si allevano le alpache, a Macusani, a 4500 metri sul livello del mare. E ancora piú in alto, devo attraversare un passo a 5000 metri, col respiro piú corto, per poi cominciare finalmente la discesa verso la selva: la selva immensa del Madre de Dios, il fiume detto anche Amaru Mayo, (“Grande serpente” in quechua), dove Mayo é lo spirito del fiume. Terra di coca e oro, che ha alimentato per secoli il sogno del Paititi e l’Eldorado, Madre de Dios é finora, e per poco ancora, una delle regioni piú intatte del Perú, quasi spopolata, perché le terre coltivabili sono scarsissime.
L’oro che finisce nella rena di questi fiumi viene giú dalle cordigliere, trasformato in polvere, lamine o pepite da milioni di anni di erosione. Milioni di anni silenziosi, finché negli anni Settanta l’aumento del prezzo internazionale dell’oro ha richiamato da ogni dove gente fornita solo di un setaccio e una carretta o di potenti motopompe, intenzionata a estrarre dal fiume tutte le pepite che nasconde. Ma dove finiranno le grandi ricchezze provenienti dalla loro vendita? penso guardando sgomenta un accampamento montato alla bell’e meglio sulle rive, con quattro pali: un tavolato come pavimento, un tetto di foglie di palma e un telo di plastica azzurra in caso di piogge.
Vedo ragazze che preparano da mangiare, in grandi pentoloni, per i ragazzi che stanno lavando la rena con setacci artigianali. Spetta a loro raccogliere legna, lavare, e a volte badare ai bambini nati dalle precarie unioni che si consumano fra le canne, nel frinire dei grilli e il gracidare delle rane.
I ragazzi sono contrattati a Cuzco per lavorare nella stagione secca, come figliocci di padrini, familiari o conoscenti giá occupati nella ricerca dell’oro, secondo la tradizione andina. Sono arrivati dalla cittá in camion, (tre giorni di discesa) con viaggio pagato. Per caricare ed estrarre la polvere d’oro da cento carrettate quotidiane di rena, fra zanzare e sanguisughe, ricevono, se tutto va bene, il salario di un dollaro al giorno. Per diventare ricchi, c´é la domenica, (avanti signori!, oggi avete tutto il fiume per scovare per conto proprio la pepita del secolo!). E se li coglie la febbre tifoidea, il dengue emorragico, o li morde un serpente? Semplicemente, muoiono. E vengono sepolti in fretta in fosse comuni.
-Quanti morti? Macché, tutte invenzioni signora…-Il lavoro minorile é proibito? Certo, ma qui non ne abbiamo - mi sento rispondere dappertutto.
Nessuna impresa artigianale che lava poche carrettate di rena al giorno, segue la norma di registrare il terreno che sfrutta, meno che meno lo fanno le imprese grandi che sbancano fondali di chilometri e chilometri di fiume, senza pagare un centesimo di tasse, in questa terra de Dios che pare fuori dalle leggi degli uomini. Ogni tanto arrivano dei giornalisti, a fare un polverone sul caso delle fosse comuni dove vengono seppelliti i piú sfortunati ragazzini cercatori d’oro, ah, e anche sul tema del mercurio che viene utilizzato nell’estrazione del prezioso metallo, e finisce nel fiume, e quindi nei pesci, e quindi nella catena alimentare.... Com´è possibile permettere questa infamia? Sí sí, prenderemo provvedimenti, come no, rispondono le fantomatiche autoritá, e tutto resta uguale.
Un maestro della zona, Miguel, mi supplica di inserire quei ragazzi nel progetto, ma io posso solo promettere di cercare di trattare di provare a vedere se riesco a interessare le improbabili autoritá di Puno: quelle che se ci sono, nessuno le ha viste.
Me ne vado con una stretta al cuore.


23. Notte senza luna
-Ti hanno avvisato se possiamo andare a Boca Inambari?- chiedo a un certo punto a Hernán il motorista, un silenzioso arakmbut che conosce tutti i mulinelli della zona.
Il sole sta tramontando sul Madre de Dios, inondando il cielo di arancio e viola. Il vento fresco della sera mi accarezza le tempie. Dalla riva vedo alzarsi stridendo uno stormo di guacamayos. Eccoli, i principi del fiume, in uno sfoggio di colore e vita: i pappagalli sognati da mia nonna Elisa. Contemplo il loro volo come un regalo, sollevata. M’invitano di nuovo a guardare in alto. Perché gli uomini sono creature cosí pesanti da distruggere tutto dove passano, e trasformare i sogni in incubo? Si potrá, una buona volta, trasformare gli incubi in sogno?
Ci troviamo giusto nel territorio dei “sognatori”, quegli Arakmbut che avevo studiato sugli ordinati banchi di Berlino e che mi avevano affascinato con la loro storia peculiare. Muoio dalla voglia di conoscerli, anche se il mio piano di lavoro non lo prevede. E adesso sono cosí vicini, che posso immaginarli camminando dentro la linea scura della vegetazione costiera, mentre il disco del sole scende all’orizzonte, incendiando con la sua luce sovrana l’acqua del fiume.
-Sí, ci permettono di entrare, ma dobbiamo comprare la benzina
Giorni fa, avevo chiesto il permesso alla comunitá indigena di Bocca Inambari, di sostare da loro, attraverso un tecnico forestale che andava da quelle parti, e me lo avevano concesso. E adesso, dovevo comprare due galloni di benzina piú uno di olio per motori, se volevamo arrivare fino a lá. Qui la benzina è piú cara che in cittá. Ho il denaro sufficiente per questo viaggio, dando anche un giusto compenso a Hernán, il motorista? Guardo nella borsetta di tela che porto nascosta alla cintura, con i biglietti di riserva per le possibili e frequentissime emergenze. Uno, due, tre, quattro. Mostro a Hernán i quattro biglietti ripiegati. Bastano?
-Appena appena, andando piano per non consumare troppa benzina. - E al ritorno, se succede qualcosa, arrangiati Marianna, mi dico. Vuoi rischiare lo stesso? Sí. Adesso non é il momento dei Ragionieri, ma dei Sognatori.
-Allora andiamo.
Hernán gira la barca verso il disco del sole, quasi scomparso dietro le nubi. Io chiudo gli occhi, per danzare felice sulla loro spuma.
-Dove passiamo la notte? No, qui meglio di no- mi avvisa Hernán, guardando le luci che tremolano nell’acqua scura del fiume.
Boca Colorado non é un posto per signore (dalla frangetta perfetta) mi spiega, misurandomi con un’occhiata. Ah giá. Mi rendo conto che questo villaggetto squallido costruito dai cercatori d’oro andini, con baracche di legno e bar chiassosi, dove corrono fiumi di birra e volano insulti e coltellate, non é il massimo per chi ha voglia di farsi una buona dormita. Meglio accampare su una spiaggia, per stare alla larga dai ladri e sperare in una notte tranquilla. E se comunque dovessero venire fino a qua... macché, perché poi dovrebbero venire fino a qua, a prendersi i nostri quattro biglietti stropicciati? E quindi coraggio, dobbiamo metter su la tenda su quella spiaggia senza luna, in una notte senza luna, e soprattutto, speriamo, senza intrusi.
Hernán spinge la barca in un pantano di canne, dove so che a quest’ora sonnecchiano i coccodrilli, e poi scende nell’acqua, trascinandosela a riva. Anch’io scendo dietro di lui, nell’acqua fangosa e tiepida.
-Shhh, passi di qua - mi dice facendomi strada fra le canne.
Io spero vivamente di non disturbare nessun abitante del fiume. Dormite bene, coccodrillini.
-Lei qui, non spengere fuoco -mi ordina nel suo linguaggio approssimativo, tradotto dalla lingua arakmbut, ordinandomi di tenere sempre acceso il fuoco, per tenere lontani gli animali. Soprattutto lo splendido otorongo, il giaguaro, che durante la stagione secca vaga di notte per le spiagge cercando le uova saporite della taricaya, la tartaruga del fiume.
-Vado a fare un giro- mi avvisa prendendo il suo machete. -Lei qui badare al fuoco, d’accordo?- mi ripete.
Ed io resto sola sotto quel tetto di stelle, in compagnia dei barbagli del fuoco. Fuoco, stelle, vento, terra. Vento, stelle, lampi. Occorrono altri rami per tener viva la fiamma. Devo andare in cerca di qualche arbusto. Cammino a piedi nudi sulla sabbia, sabbia, fresco, piedi, gioia. Nell’aria, arrivano da lontano frammenti di note, scollegate dalla loro armonia. Salsa, onde, canto, notte. Ancora lampi.
Faccio scorrere un momento un po’ di sabbia fra le dita. La sabbia di una terra indomita, definita dagli spagnoli “tomba degli esploratori”. E che, ancor prima di loro, aveva respinto gli Inca. Una nube di frecce aveva accolto diecimila soldati del Tahuantinsuyo, inviati nelle terre dei chunchos selvaggi, costringendoli a ritirarsi. Le piantagioni di coca e cacao poterono crescere piú in lá, ma il bacino del Madre de Dios rimase ai suoi fieri abitanti. Seguirono secoli di silenzio, finché qualcuno arrivó in quelle foreste, a sconvolgere la loro vita.
Mi stendo sulla rena pensando. Non è molto lontano da qui, Fitzcarrald. Un sentiero di pochi chilometri tra due fiumi, che lo stravagante barone del caucciú, famoso per navigare nei fiumi amazzonici ascoltando musica lirica nel suo moderno grammofono a tromba, si mise in testa di utilizzare per accorciare la lunga rotta fluviale che trasportava il caucciú fra Perú e Bolivia.
Immagino lo stupore degli indios a suo servizio, quando gli ordinò di trasportare
….i sacchi di latex in spalla? No! Stavolta dovete trasportare lungo il vado LA MOTONAVE, avete capito bene fannulloni? spingendo spingendo, ooooooooo-hhhhh, oooooooooooohhhhh, sudando, sudando. Carlos Fermín Fitzcarrald, quando vide la motonave toccare l’altra riva, si sentí forse in quel momento padrone del mondo. Ma qualcuna di quelle fastidiose tribú dalla pelle di bronzo che pullulavano in zona, (i Toyeri, della famiglia Harakmbut), si oppose al passaggio della modernitá sul suo suolo. E fu il massacro. Duemila corpi finirono a galleggiare sull’acqua, ondeggiando fra canne e ninfee. Il fiume divenne una cloaca pestilente, ricordano i viaggiatori dell’epoca. Dei duemila Toyeri rimasero solo due o tre famiglie. Per ricordare l’impresa, fu costruito un monumento a Porto Maldonado: dedicato a Fizcarrald, no ai Toyeri.
Adesso, negli anni settanta-ottanta, erano rimasti poco più di mille, milleduecento persone tra i vari popoli della famiglia linguistica Harakmbut, delle 14mila che la componevano all’inizio del secolo: i Sapiteri, dal monte Sapite, gli Huachipaeri, o costruttori di ponti sospesi, gli Amarakaeri o Arakmbut, “la vera gente”. Perché dopo, a metà del secolo, erano arrivati altri stranieri a sterminarli. Stavolta, con le migliori intenzioni.
In questo momento, tra meticci e indigeni, si contano poco più di sessantamila anime, a popolare l’immenso dipartimento. Lo stato peruviano è riuscito a porre la bandiera biancorossa a Porto Maldonado, un piccolo centro dalle case di legno al puro stile Far West, solo nei primi anni del ´900, per dare una qualche formalità allo sfruttamento del legname e della castagna. Gli emigranti andini che scendono dalle montagne a inventarsi la vita in queste terre solitarie e magiche, diboscano rive e pendici come cavallette impazzite, per piantare un po’ di riso e di granturco E i fiumi s’infuriano sempre piú, quando si gonfiano di piogge. Le notti stellate hanno cominciato a riempirsi di musica stridente. Ed io mi trovo adesso in questo fiume, a metà fra un passato di stelle e un presente di plastica.
Il vento mi trae, adesso, il rumore di un motore. Sembra che proceda lentamente, come per cercare di passare inosservato. La luce di una pila esplora fra le canne, avvicinandosi.
Hernán, Hernán! penso o grido, non so. Dove si è cacciato quel benedett’uomo?
SSshhh, mi sussurra materializzandosi al mio fianco, come dal nulla, mentre punta con decisione il fucile verso la barca che avanza nel canneto. Più vicina, ahii, sempre più vicina…
-Un bastone!- Mi ordina Hernán, a voce bassa. Dalla catasta di legna vicina al fuoco afferro un ramo, ma … con orrore sento che la mia mano non sta stringendo un legno…è qualcosa di piú ruvido e freddo: la pelle di un coccodrillooooo!!!! Soffocando un altro grido, mollo il coccodrillo, sotto lo sguardo leggermente beffardo di Héctor. L’animale è piccolo e inoffensivo, (non vedi?), l’ho stordito io con un colpo preciso.
-Il bastone, tenerlo così- mi consiglia indicandomi l’altezza giusta in cui lo devo brandire, e poi guarda tranquillo la barca che si avvicina. Al suo fianco, stringendo il bastone, Marianna Weiser guerriera della notte.
-Tutto bene signora? -mi grida uno dei tre uomini che scende dalla barca.
-Tutto bene, -confermo con la voce più tranquilla e decisa che posso, alzando il bastone. Il fucile di Héctor prende la mira.
-Ah, se però non è abbastanza comoda sulla spiaggia, può venire ad alloggiarsi a Boca Colorado: abbiamo i migliori hotel di tutto il fiume…
Ma guarda! Sono arrivati in tre, preoccupandosi della mia comodità, per augurarmi la buona notte? Sappi che ti teniamo d’occhio, gringa. Per adesso solo un’occhiata, visto che sei con uno di quei fottuti guerrieri. Ma se ti distrai un attimo… ci vedrai di nuovo, carina. E butta giù quel ridicolo bastone, vuoi farci ridere? Saresti davvero capace di darcelo in testa? Sento questo messaggio scivolare tra le parole.
Ah sì? Credi che l’abbia preso per fare ginnastica artistica? Sono capace eccome di dartelo in testa, a te e a quegli stronzi che hai vicino, sai. Di Marianne ce ne sono molte dentro di me, e non ti conviene provocare quella piú selvaggia: resteresti sorpreso, idiota, nel vedere come mi posso difendere, se lo voglio, con o senza Hernán. IO.
E intanto dico: Grazie, siamo qui solo di passaggio. Stiamo solo raccogliendo qualche uovo di tartaruga, e domani saremo a Bocca Inambari.
-Allora buona notte, alla prossima.
-Buona notte,- a non rivederci. La barca gira e il suo monotono tu tu tu del motore si allontana nel buio, scomparendo fra i lampi.


24. Ai tempi delle malocas
Ed eccoci finalmente a Boca Inambari, sotto un grande albero frondoso che da centinaia di anni guarda scorrere il fiume. Nel cielo stanno spuntando le prime stelle. Mi accoccolo sul prato, respirando la brezza della sera, ad ascoltare i racconti degli anziani. Ho mille domande da fargli. La prima: Cosa significa Arakmbut?
“Noi, gli esseri umani”, mi viene risposto. Ossia, i “veri Uomini e vere Donne”. Cosí si definiscono gli Arakmbut, come la maggioranza dei popoli indigeni originari dell’Amazzonia. Su ció che significa per loro questa espressione, gli antropologi si affannano e scrivere libri, sconcertati (gli antropologi e gli Arakmbut) sui cambiamenti che hanno coinvolti i “Veri Uomini” negli ultimi decenni, quando sono stati obbligati a percorrere a velocità supersonica il tunnel della modernità e trovarsi catapultati dall’infelice (o felice?) età della Pietra, alla felice (o infelice?) Era delle Comunicazioni. A partire dal giorno del Gran Gallinaccio.
Ho la fortuna di ascoltare dalla loro viva voce, in questa notte senza luna, cosa provarono Sueyo e Bayacope in quella giornata di sole di quarant’anni fa, quando videro nel loro cielo arrivare un gigantesco uccello sconosciuto. Erano due giovani cacciatori, dal corpo agile e muscoloso, completamente nudo com’era la loro usanza, ma decorato dalle pitture di caccia. I capelli lunghi e neri li portavano raccolti in una coda. Adesso sono due vigorosi anziani che indossano una maglietta con la scritta “Arizona” e “Università del Pacifico”.
Mi appoggio all’albero in una posizione comoda, per non perdermi una parola di questa storia affascinante. Perché non si sentono tutti i giorni, sotto le nostre stelle pallide, storie di “gente vera”. Ancor piú se uno di loro, Bayacope, per i suoi muscoli agili, viene chiamato ancora Tarzan. Il Tarzan di una selva esuberante e viva, non di cartone come nei set cinematografici.  
Héctor, il figlio di Sueyo, fará da traduttore.
“Vivevamo su una grande collina, piena di scimmie, pernici, guacamayos, maiali selvatici, prima del giorno del Grande Gallinaccio”, comincia a raccontare Bayacope, alias “Tarzan”.
“Dicevano i nostri nonni che i popoli della famiglia Harakmbut discendono da un grande albero frondoso, il Huanamey. Sui suoi rami si rifugiarono uomini e animali quando, all’inizio del tempo, una tremenda pioggia di fuoco distrusse la terra. Huanamey significa per questo: “quello che salvò l’umanità”. Riapparirà, con i suoi magnifici rami, alla fine dei tempi. Questo é quel che crediamo.
Noi, gli Esseri Umani, gli Arakmbut, eravamo molti, almeno tremila persone, prima del giorno del Gran Gallinaccio. Adornavamo i nostri corpi nudi con tatuaggi e con l’oro del fiume Irishive: sulla testa portavamo, come re, le nostre corone di piume colorate di guacamayos. Aprivamo la selva piú dura con le nostre asce di pietra, e cacciavamo con le nostre frecce di canna, con punte di osso di scimmia. Vivevamo in grandi capanne collettive chiamate malocas, dove potevano stare anche quindici famiglie, ognuna delle quali aveva il suo tavolato e il suo focolare. Lo spazio comune era per ballare.
Non avevamo canoe. Quando dovevamo attraversare un fiume, lo facevamo a nuoto. Non eravamo taccagni. Se qualcuno catturava un animale, ne dava un po’ anche ai cacciatori meno fortunati, che ricambiavano quando lui stesso tornava a mani vuote, così nessuno restava mai a digiuno. La selvaggina la cucinavamo in grandi pentole di argilla che rendevano la carne molto tenera e saporita. E poi, fra il bosco e il campo (la chacra) tenuta dalle donne, avevamo alimenti in abbondanza, yuca, poroto, pijuayo, banane e altri frutti. Di tanto in tanto chiudevamo il braccio di un piccolo affluente e vi ponevamo le radici velenose del barbasco, per addormentare i pesci e catturarne grandi quantitá, in vista di qualche festa. Tutte le notti cantavamo, inventando canzoni di caccia o d’amore, rilassandoci e stimolandoci con tabacco e foglie di coca.
I sogni? Sí, sono sempre stati importanti per noi, e cercavamo di interpretarli, con l’aiuto di un saggio che appunto, chiamavamo il Sognatore, perché aveva imparato a decifrarne il linguaggio. Come poteva sapere se possedeva davvero questa facoltá? In genere, perché da piccolo aveva sentito che un animale selvatico lo seguiva, e con un linguaggio speciale lo istruiva perché un giorno potesse curare gli altri, o con l’aiuto delle visioni prodotte dal toè, (una pianta allucinogena), o soltanto con canti di cura. Ogni malattia può essere causata da spiriti diversi, ed esistono i canti giusti per curarli. Gli spiriti benevoli, come le anime degli antenati, ti possono consigliare in sogno dove é possibile trovare oro, o selvaggina, o dove é meglio aprire un orto. Gli spiriti maligni invece entrano in azione quando hai cacciato in eccesso, per esempio, o commesso un incesto, e ti fanno capovolgere la canoa, o mordere da un serpente. Le nostre regole sono chiare: condividere quello che abbiamo senza meschinitá, uccidere altri esseri umani solo per difesa, e gli animali solo il necessario per nutrirci.
Quali i nostri migliori ricordi? Senza dubbio, l’impressionante festa dell’iniziazione maschile, o Huambokerek, quando i ragazzi diventavano uomini e potevano dimostrare la loro abilitá nella caccia. La festa richiedeva giorni e giorni di preparazione, e l’ingestione di piante maestre, come il toé, che ti rafforzavano e chiarivano il tuo scopo nella vita. E finalmente il giorno in cui tutto era pronto, cominciava a riunirsi la gente, come oggi per un concerto, ma i protagonisti eravamo noi. Con il nostro spettacolo, cercavamo soprattutto di impressionare le belle donne che ci circondavano, con danze e canti che imitavano l’animale che cacciavamo con piú frequenza.
Il mio era il guacamayo. Per questo avevo indossato un ornamento di grandi piume di questo magnifico volatile, che andava dalla cintura alla spalla, come spettacolari ali d’angelo. Se fece effetto? Sí, una ragazza osservó ammirata la mia danza, e io a lei. Come le altre donne, mentre noi uomini portavamo i capelli lunghi, o legati in una coda, lei aveva invece i capelli corti e la frangetta. Sulle braccia e sui seni aveva tatuati bellissimi disegni tracciati con l’huito, (un seme che colora di nero), e portava una gonnella fatta di corteccia d’albero, pestata fino a diventare sottile come una tela (la llanchama). Mi parve speciale, quella ragazza, fin dalla prima occhiata. E quindi lavorai qualche tempo per i genitori, per dimostrarle che ero un uomo responsabile, finché potei sposarla. E come i guacamayos, siamo stati uniti fino alla sua morte.
Ragazzi e ragazze dovevano arrivare vergini al matrimonio. Le madri fasciavano i piccolissimi con grandi foglie di bijau, e li portavano sulla schiena in una culla, con una base rigida di legno, perché crescessero ben dritti. Adesso diciamo che quelli che sono cresciuti “dritti” ossia hanno passato del tempo in quelle rigide culle, sono piú forti e si sanno destreggiare meglio nella vita. Guarda per esempio Pembuyo, la madre del mio amico Sueyo, che continua a camminare e lavorare nell’orto, come se niente fosse.
Ogni tanto facevamo guerra con i vicini, sí, i Toyeri o gli Hauchipaeri che vivevano fuori del nostro territorio. Perché? Per qualche contrasto, per invidia, o per provare la nostra forza. Gli attacchi erano notturni: chi vinceva si portava via i bambini, che tutti lasciavano vivi.
Adesso non facciamo piú guerre a colpi di frecce, ma non abbiamo pace, per le continue invasioni di cercatori d’oro e di tagliatori di legname, che ci vogliono buttar fuori dal nostro territorio. Tutto é cambiato da quel giorno fatidico, il giorno del Gran Gallinaccio.
Ah, il Gran Gallinaccio! Un gruppo di bambini viene a sedersi sotto l’albero, per ascoltare il vecchio Tarzan e Sueyo che raccontano quella storia famosa. Forse la conoscono giá, ma ogni volta che viene revocata compaiono nuovi dettagli. Una bimba si arrampica agilmente tra un ramo e l’altro, col suo coltello alla cintura. Dal suo orto lontano qualche chilometro dalla comunitá, arriva anche la mamma di Sueyo, Pembuyo-Enriqueta, caricando yuca per gli ospiti, col suo inseparabile machete in mano. Ha una frangetta perfetta su un casco di giovanili capelli neri, e mi rivolge un sorriso allegro di ragazza, anche se i denti si sono persi nel cammino della vita. Un’insolita, deliziosa maniera di portare ottanta o novant’anni sulle spalle, osservo. Ma é cosí importante contare gli anni? No, si dicono gli Arakmbut, meglio andare per epoche: epoche di formazione (i giovani), epoche di realizzazione (gli adulti). E poi ci sono gli anziani, che meritano rispetto per la loro esperienza accumulata, che possono trasmettere ad altri.
E adesso eccoci tutti qua, bambini, adulti e anziani, sotto un albero frondoso, ad ascoltare nel vento della sera il racconto di quel giorno che cambió la loro storia.

25. Quando tutto cambió
Quel giorno, comincia Bayacope, eravamo nascosti in una zona acquitrinosa piena di palme di aguaje, aspettando da un momento all’altro di sentire lo scalpiccio furioso degli zoccoli delle huanganas, i maiali selvatici, che arrivano correndo in gruppi di cento individui, facendo tremare il suolo. Ci eravamo dipinti sul corpo con achiote, i disegni propiziatori della caccia, e portavamo i capelli raccolti in una coda. Ci sentivamo forti e ben addestrati, per una delle tante battute di caccia, che erano la nostra vita.
Ci rendemmo conto molto presto che non eravamo gli unici ad aspettare le fragorose huanganas. Alle nostre spalle, alcuni giaguari stavano in agguato, aspettando che entrassero nel loro campo visivo i piccoli del gruppo, che non riuscivano a seguire il ritmo della corsa e per questo potevano cadere facile preda dei loro denti affilati. Ma il rumore che sentimmo non aveva niente a che vedere con le huanganas. Anzi, non somigliava a nessuno dei suoni che conoscevamo.
-Ehi, viene dal cielo! Guarda che grande quel gallinaccio che ci sta volando sopra la testa, Sueyo! - Dissi al mio compagno.
Sí, assomigliava a un grande gallinaccio quello strano volatile, ma lo seguiva una lunga scia di fumo, e perché mai? Lo vedemmo lasciar cadere qualcosa e sparire all’orizzonte.
Facendo molta attenzione, ci avvicinammo per capire di che si trattava, e tirammo su con la punta della freccia dei pezzi di tela. Osservammo che erano cuciti in modo tale che in alcuni potessero entrarci le gambe, in altri le braccia, ma a cosa mai potevano servire? Se era freddo, bastava accendere il fuoco. E in piú, quella tela ci sembrava avesse cattivo odore. No, non ci piacque. Per cui, la allontanammo con la punta della freccia e la nascondemmo in un buco scavato nella terra, pestandoci sopra altra terra. E poi, vedemmo sparse qua e lá molte palline colorate, a cui demmo una rapida leccata…avevano un gusto dolce... ma se erano velenose? Via, ben dentro la terra anche quelle. C’erano invece altri due oggetti che non smettevamo mai di osservare, e rigirare, e provare, una, due, moltissime volte. Erano machetes cosí affilati che potevano tagliare con un solo colpo varie canne. Zas e zas. Ottimo! Quelli sí che ce li portammo alla maloca contenti, tagliando e caricando un grosso fascio di canne lungo il cammino.
Come ci ricevettero nelle malocas? Ovviamente molto contenti, per le canne e i machetes, ma restavano troppe domande senza risposta, ad aleggiare nelle nostre notti intorno al fuoco. Giorni dopo, uno dei nostri uomini stava pescando, quando apparve nel fiume un’imbarcazione guidata da un Huachipaeri, carica di uomini bianchi. Il loro capo pareva un anziano dalla lunga barba. Uno sparo, e il pescatore cadde pesantemente nell’acqua. I bianchi sembravano pentiti di averlo ferito (ma allora, perché avevano sparato?), e nelle malocas cresceva l’agitazione. Chi erano quegli intrusi? Si chiesero anche gli uomini di altri de nostri clan, che cominciarono ad affinare le frecce sui formicai, e a scendere dalle alture. La tensione cresceva. Anche in cielo si accumulavano nuvoloni, ricordo, e guizzavano lampi, ma non pioveva. Il giorno dopo, riuniti in un alto dirupo, noi Arakmbut vedemmo venire lentamente verso di noi l’anziano con la barba bianca che teneva alta, in mano, una croce. Era solo, e aveva lasciato indietro quelli che l’accompagnavano.
-Cosa sei venuto a fare, straniero?- chiese il nostro curaca, il capo della comunitá.
-A mangiare sardine con voi- rispose l’anziano, nella nostra lingua. Questo ci sorprese molto. Ovviamente. L’uomo sorrise vedendo i machetes che avevamo in mano noi due, Sueyo ed io.
-Ah, ce li avete portati voi? Avanti, allora, si serva- E il curaca invitó l’anziano a mangiare dei pesci freschissimi, appena cotti nelle foglie di banano, e poi gli offrí pezzi di canna da zucchero, fette di ananas e guayaba, mettendogli a disposizione l’abbondanza della selva. Ma noi uomini restammo in cerchio, con le frecce in mano, disposti a trafiggerlo in caso osservassimo un movimento ostile. Non lo facemmo.
-Vedo che siete in molti, e avete bisogno di altri machete. Ve li porterò.
Lo straniero ringrazió per l’ottimo cibo, e con un gesto di saluto giró le spalle e si allontanò. Come sapemmo poi, quell’ostinato frate (il domenicano spagnolo padre José Alvarez) aveva passato la notte pregando e, prima ancora, molto tempo studiando la nostra lingua, cercando in tutti i modi l’occasione e i mezzi per contattarci. Per anni e anni. Fino a quel fatidico giorno del 1950, quando un’avioneta pagata da una compagnia nordamericana, la Fondazione Wener Gren, poté trasportarlo a sorvolare il mare di verde dove serpeggiava lento e solitario il grande Amaru Mayo, ora Madre de Dios.
Un Huachipaeri gli riferí che aveva sognato che noi Arakmbut non l’avremmo ucciso. Superstizioni, rispose lui. Questo non voleva assolutamente dire che non si sarebbero stati gravi rischi nella sua dissennata impresa, pensava.
L’Amaru Mayo, il Madre de Dios, per noi ha uno spirito. Ce l’hanno anche le collpas, gli strapiombi di argilla dove i guacamayos arrivavano con strepito alle prime luci dell’alba. Ce l’hanno le lagune, che riflettono nelle loro acque immobili una corona di alberi verdi.
Cosa pensarono gli spiriti della selva quando questo rumoroso apparato ruppe per la prima volta il silenzio dei fiumi, le lagune, gli alberi? Non lo sappiamo. Forse, piansero.

Arrivarono altri machetes e, con loro, altre morti. La prima fu quella del pescatore ferito dai bianchi della barca, poi quella di sua moglie e dei suoi figlioletti. I parenti bruciavano le cose dei defunti e li seppellivano, piangendo. Chi era quello stregone cosí potente che aveva potuto provocare tante morti? Stava succedendo qualcosa di strano, che non sapevamo spiegarci. Era febbre gialla, venimmo a sapere tempo dopo. Un giorno apparve di nuovo la canoa dei vicini Huachipaeri, a portarci un messaggio dell’anziano dalla barba bianca: “Ho la medicina giusta per curarvi. Seguitemi e vi salveró”.
Giorni dopo, abbandonammo il nostro territorio, che conoscevamo palmo a palmo, in marcia verso lo sconosciuto e minaccioso mondo dei bianchi. Non avevamo alternative.
Dal fiume Huandandakhue, camminammo nel folto della foresta, aprendoci sentieri col machete, ed arrivammo alcuni giorni dopo alla missione di Shintuya.
La missione crebbe di giorno in giorno, arrivando ad ospitare 500-600 persone fra Toyeri, Huachipaeri, Sapiteri, tutti insieme, senza distinzione di lingue o clan. Mentre la compagnia americana Andean Petroleum costruiva una strada che tagliava la foresta, il padre Alvarez cominció a organizzare la vita di noi indigeni, impiantando coltivazioni di caffé e cacao. La giornata cominciava prestissimo con la messa, e poi, a lavorare nelle piantagioni. Chi non lavorava, non mangiava. In casi ostinati, i padri arrivavano a darci punizioni corporali. Ai suoi occhi eravamo capre testarde, ma lui lo era piú di noi, mi sembrava. Ogni giorno si accendevano liti fra gente di differenti popoli, obbligati a stare addossati l’uno all’altro, quando fino allora avevano avuto a disposizione gli spazi immensi della selva. Ci accusavamo reciprocamente di stregoneria, perché le malattie continuavano a decimarci, e nessuno sapeva né da cosa erano causate, né come curarle. Nemmeno le potenti medicine del padre Alvarez pareva servissero a qualcosa. L’anziano padre era molto affettuoso con noi, e a volte ci abbracciava. Noi restavamo sorpresi, perché noi non ci esprimiamo cosí.
Peró, tra risse e malattie, quella non si poteva dire vita. E in una notte piena di lampi (nel 1969) Kentepo, Irey, io Bayacope, Sueyo e molte altre famiglie, decidemmo di lasciare dietro di noi meschinitá e limitazioni. La missione restó quasi deserta. Dicono che il vecchio padre s’inginocchió davanti alla croce e pregó cosí:
“Cosa vogliono da me, Signore, questi Harakmbut? Gli ho dato ambulatorio medico, vestiti, segheria, allevamento di polli. Che altro vogliono?”

Il Signore non rispose in quel momento, o almeno, nessuno lo sentí. Se ce l’avesse chiesto a noi, invece, gli avremmo risposto:
“Perché obbligarci a vivere appiccicati come in scatole di sardine, quando fuori c’é una selva immensa? Perché tutto questo lavorare dall’alba al tramonto, per poi mangiare peggio di prima?
Ma i tempi erano cambiati, purtroppo. Quando finalmente ci levammo di dosso quei fastidiosi vestiti da “civilizzati”, che ci riempivano la pelle di bolle e irritazioni, ed arrivammo, adorni solo dei nostri tatuaggi, nelle strade di Porto Maldonado, la gente ci rise dietro. Capimmo allora che se volevamo trattare con la gente della cittá, dovevamo mascherarci come loro.
Da qualche anno, c’é di nuovo la febbre dell’oro nel Madre de Dios. Si é arricchita soprattutto la gente di fuori, che fa lavorare peones e ragazzini, a volte in condizioni infami. Quando anche qualcuno di noi si é trovato con un bel pacchetto di denaro in mano, per mancanza di esperienza l’ha perso in poco tempo: tra furti, inganni, acquisti inutili. Abbiamo constatato a nostre spese come il denaro arriva a cambiare le persone, e la nostra vita in genere. I giovani non sono piú interessati a vivere nella selva, e vogliono andare tutti a Porto Maldonado, magari lavorando in un negozio, e farsi giri in moto avanti e indietro. Nella cittá i giovani imparano che esistono furti, abusi, ubriacature. Manca una vera educazione che aiuti a orientarsi in mezzo a tanti eccessi.
Sapete cosa penso io, Bayacope-Tarzan? io che sono della stirpe della Vera Gente, e un vero Tarzan di una selva vera, come dite voi: Il denaro a noi non serve. Se ci deve togliere quello che vale veramente la pena: vivere in pace con la famiglia, con il fiume e la foresta-.
Ringrazio Bayacope e Sueyo per questa impressionante testimonianza, e ritorno pensosa a Puerto Maldonado, dove cerco di interessare le autorità alla tremenda situazione dei ragazzi, appena adolescenti, che lavorano nella ricerca dell’oro.
-Ma no, impossibile, è un’esagerazione. E´ sicura, signora, di aver visto questi ragazzi?
E´chiaro che la loro esistenza è ostinatamente e coscientemente ignorata dalle burocrazie locali, a cui sfugge l’esuberante informalitá della vita.
Data la situazione, le loro condizioni di vita e lavoro resteranno penose, fino a quando cambieranno le leggi. Ma, prima delle leggi, cambia la tecnologia.
Adesso sono enormi bulldozer a sbancare rive e fondali, per estrarne la polvere d’oro del Madre de Dios, nella zona di Huepetue, concentrando in poche macchine il lavoro di centinaia di braccia, distruggendo la vegetazione, gettando mercurio nel fiume. E una luna desolata si alza sulla terra ora nuda e violata, arida come un deserto, dove prima palpitava un universo di vita.
Anni dopo quel fatidico giorno del Grande Gallinaccio, dalla Spagna, dove sta morendo il vecchio missionario padre Alvarez, arriva ai frati domenicani il suo ultimo messaggio:
-Proteggete i miei figli, gli Harakmbut.

26. Uovo con sorpresa
Mi duole la schiena. Mi bruciano gli occhi. La luce del giorno si sta facendo eccessiva. E mi viene il ricordo di quei dolori acuti che mi facevano piegare in due, di tanto in tanto, mentre servivo succo d’arancia tra le vacche selezionate di Berlino, e si ripetono a Puno.
-Oggi non posso lavorare con te- dico a Sara, una mia giovane collega che si sta specializzando in medicina tradizionale andina. Siamo a casa mia. Ogni tanto mi sento trafiggere da un dolore che mi lascia senza respiro. Sara mi aiuta a stendermi sul letto, preoccupata.
-Cosa ti senti, esattamente, Marianna?- mi chiede.
- Non so piú a che santo pregare, Sara mia. In Germania ho fatto tutte le analisi possibili, visitato ginecologi ed endocrinologi, ingurgitato pastiglie di tutti i colori, e niente. Per un bel po’ mi sentii bene, ma da qualche tempo, qui a Puno, sono tornati piú forti di prima. Si tratta dell’utero e delle ovaie. Mi sembra di avere qualcosa che mi tritura dentro, ma gli analgesici servono a poco, e non voglio diventarne dipendente. Conosci per caso qualche infusione d’erbe che mi possa alleviare il dolore?
Sara è una ragazza dai capelli scuri raccolti in una crocchia, che sembra piú interessata agli studi che agli amori: forse anche troppo seria, penso qualche volta. Si concentra un attimo prima di rispondermi.
-A questo punto, perché non vai direttamente dal mio amico curandero Feliciano Quispe, per una diagnosi e una cura piú precisa? È un tipo onesto- mi assicura.
-Perché non ho la più pallida idea di cosa possa farmi…Non mi passerà un cuy, il coniglietto delle Indie sul corpo? Non lo sopporterei proprio, ti avviso!
Mi giro inquieta nel letto, e cerco di alzarmi. Una fitta terribile mi fa desistere. No, non ce la faccio.
- Se vuoi, ti spiego qualcosa, warmi.- Sara mi accarezza con un sorriso la fronte sudata. Mi sento piú sollevata.
- Come sai, dai tempi dei tempi si pratica in Perù una mescolanza di atti curativi e religiosi, per curare i malati. Forse hai già provato i bagni di fiori o di vapore, o la diagnosi di una malattia attraverso il cuy. (Sí, il coniglietto d’India, che viene sacrificato per vedere se hai i reni o lo stomaco infiammato). Adesso in certi casi i malati vengono curati con farmaci o piante, mentre in epoca precolombiana, si sanava solo con orazioni e piante.
-Con che risultati? –chiedo debolmente.
- Le piante, per esempio, erano largamente sperimentate prima di essere applicate per curare, per cui riuscivano ad essere efficaci. Le orazioni creavano un’atmosfera mistica e non sappiamo fino a che punto i guaritori vi ricorressero come un semplice espediente per captare la fiducia dei pazienti, e poi applicare cure effettive, come quelle con le piante. Peró nessuno dubita, dai tempi di Galeno, come la fiducia fra medico, curandero o paziente sia importantissima nel processo di guarigione.
-Eppure questo tipo di medicina tradizionale è sempre stata considerata folklorica dai medici in camice bianco…cioè non garantisce un risultato al cento per cento…-insisto.
-Se per questo, nessun tipo di medicina lo garantisce, Marianna. Piuttosto, c’è da dire che questa nostra medicina non è stata codificata secondo criteri scientifici occidentali, in collegi medici e biblioteche, ma si tramanda empiricamente, con rituali quasi segreti, per cui non ha avuto un riconoscimento ufficiale. Ma se i guaritori non riuscivano a rimettere in piedi i loro pazienti, poveri loro! Fra i Mochica potevano essere sepolti vivi! I precolombiani non sopportavano i ciarlatani… E ricordi la storia di quel povero spagnolo, fra’ Diego de Ortiz, che non riuscì a curare l’inca Tito Cusi, discendente di Atahualpa… e per questo fu fatto morire dissanguato. Insomma, per amore o per forza i guaritori cercavano di mettercela tutta!
Mentre parla, Sara mi massaggia delicatamente le tempie. Cerco di rilassarmi. Mi sento leggermente meglio. Solo un po’. Ma apprezzo il suo sforzo.
-Non lo dubito, cara. Mi sembra molto interessante quanto dici, ma ripeto che non voglio che mi passino sul corpo un coniglietto delle Indie, neanche se fosse stato l’animale preferito di Atahualpa.
Sara ride, prendendomi una mano.
-Tranquilla, non si tratta di un cuy, o coniglietto che dir si voglia: Alberto diagnostica le malattie con un uovo.
-Un uovo?
-Sí, un comunissimo uovo di una comunissima gallina. Lo vedrai. In quanto al cuy, si tratta di una tradizione cosí antica che anche i Romani ne facevano uso (ancora!). Come e perché funzioni, non si sa, ma funziona. Comunque, adesso basta con le chiacchiere. Pensaci. Se i tuoi scrupolosi medici tedeschi non hanno saputo dirti esattamente cosa ti faceva star male, nonostante tante analisi e cure, perché non provi con Alberto? Peggio di cosí non puoi stare …, ma comunque, decidi tu!
E Sara se ne va con un sorriso fino alle orecchie.
-Venga con un uovo fresco, e lo tenga in mano per un po’- mi raccomanda quest’uomo di mezza età, dagli zigomi pronunciati e la capigliatura nera e folta, tipica della gente andina.- Alberto Quispe, sono qui per servirti.
Lo saluto cercando di nascondere la mia sfiducia e tradurla in un neutro “vediamo”. E intanto osservo che nella sala d’attesa si ammucchia una ventina di persone, pronte invece a mettere una mano sul fuoco sulla sua capacità come curandero, perché il fegato di un cugino o i reni di un cognato o il cuore della nonna sono stati rimessi a posto da quel brav’uomo, e adesso sono come cera nelle sue mani. Alberto comincia con l’ordinarmi un bagno di fiori, per ripulirmi della negatività che tengo accumulata addosso (dice) e farmi sentire di nuovo vitale. Quando torno da lui con l’uovo piú fresco che trovo, me lo passa a qualche centimetro dal corpo, avanti e indietro, sul tronco, il bacino, le gambe, la testa. E alla fine, lo rompe. Non posso credere ai miei occhi. L’uovo è pieno di una materia sanguinolenta. Accidenti!
-E’ danno- sentenzia.
-Danno, in che senso?
-Beh, danno. C’è bisogno di spiegartelo? Non hai nessuna rivale che ti abbia potuto fare un maleficio?
Rivali di sicuro ne ho, o meglio, ne avevo in abbondanza. Ma non m’immaginavo la brillante biologa Susan preparandomi nei suoi alambicchi una pozione pestifera, o la tappabuchi Margrit, la donna per tutte le stagioni, mettersi durante la luna piena a fare rituali contro la malefica Marianna, a meno che…Sybil? E´una stravagante artista d’avanguardia, con cui Markus ha tenuto una breve avventura, e più che camminare, sembra avanzare fra le masse anonime portando la sua vagina in processione. Si dice che sia una fedele seguace di certi sciamani che fanno rima con ciarlatani... (fatti suoi, basta che non venga a rompere le scatole a me). Ma pensiamoci un attimo: credo davvero che Sybil si sia messa a trafiggere con degli spilloni una bamboletta che mi rappresentava, per regalarmi con un po’ di fortuna, un incidente aereo o un biglietto per un camion che finisce in fondo al burrone? No, non ci credo. E non perché magari non lo abbia potuto desiderare in qualche momento, ma perché io sono a seimila km di distanza, fuori servizio, fuori luogo, out, capito Sybil?, e il signor Markus è solo l’Ex-Uomo della mia vita, che più ex non si può. E poi, qualsiasi cosa abbia escogitato Sybil, é riuscita ad ammaliare Markus solo per un soffio. Dove sará il trucco?
Ogni due giorni torno da Alberto a vedere come vanno i miei organi un po’ malconci. I dolori stanno diminuendo, il tuorlo d’uovo è più chiaro. Ogni volta, osservo con grande attenzione se fa qualche gesto strano. Non lo vedo, o non riesco a vederlo. Tant’è. Dopo un mese mi sento perfettamente a posto, e l’interno dell’uovo è normale. Pago per il lavoro di Alberto una cifra modesta, e lo saluto con più rispetto di quando sono entrata. Devo avvisare Sara di questi risultati, ne sará contenta. Infatti, mi accoglie con un abbraccio caloroso.
- Ma…tutta questa storia dell’uovo non sarà frutto di suggestione? – le chiedo sedendomi alla sua tavola, dove si allineano mucchietti ordinati di piante medicinali.
-Mi pare che non sei andata da lui piena di fiducia, vero? Al contrario. Probabilmente l’uovo, come le viscere del cuy, il volo degli uccelli eccetera, funzionano come un rivelatore, un indicatore. Tu avevi un male probabilmente di natura psicosomatica, (guarda caso gli organi della femminilità che hai vissuto drammaticamente), ma di questo non hai parlato coi tuoi medici tedeschi.
-Nemmeno col curandero, per la verità.
Sara mi prepara un tè di coca, disponendosi ad avere un altro po’ di pazienza con me.
-Ma in questo caso non è necessario, Marianna, perché lui usa strumenti differenti per diagnosticare. Non bisturi, ma simboli. Succhiare una ferita provocata dal morso di un serpente per togliere il veleno é normale, no? Per associazione, se il curandero succhia una parte del corpo malata, il paziente pensa che gli si stia estraendo l’origine del male. Che sia vero o no, l’importante é che lo creda. Questa é la parte magico-religiosa del sistema. In questo caso, l’uovo é rivelatore dei processi interiori. Poi, ovviamente, c´é l’uso delle piante, le diete, eccetera, che sono la parte curativa piú vicina alla medicina occidentale. Mi guardo allo specchio, pensierosa. I miei occhi scuri brillano sotto la frangetta perfetta. Mi rendo conto che tutte le Sybyl del mondo sono fantasmi. È stata la mia propria sofferenza ad ammalarmi, devo concludere, anche se mi costa ammetterlo. C´era tanto in gioco che valesse la pena? La risposta é superflua. Comunque sia, lí c´é Marianna, esemplare unico al mondo, col suo corpo sinuoso, e il suo pensiero che a volte vola oltre le nubi, piú in lá dell’orizzonte, cercando l’infinito. Nessun altro puó e sa prendersi cura di me, se io stessa non mi apprezzo.

27. La porta verde
Che bella quella casa panoramica di Puno, che adesso rivedo, con le sue tende rosse di tela bayeta e una vivace porta verde. Verde? Sí, verde. Sempre originale questa gringa, brontolavano sicuramente i passanti. Ma io, quando la trovai dopo una lunga ricerca, ricordo che feci salti di gioia.
Lavoro duramente, e la sera vorrei tornare in una vera casa. Una via di mezzo fra la villa dai pavimenti lucidi di dove provengo, e gli anonimi parallepipedi con tetto di alluminio che fanno di Puno poco piú che un accampamento di minatori: sará possibile trovarla proprio qui? Aspiro a una dimora essenziale e gradevole, con gerani alle finestre e tende colorate, secondo il mio gusto europeo, posso dirlo? Cerca di qui e cerca di lá, finalmente trovo nei dintorni di Puno una casetta di dove si gode uno splendido panorama di laghi e montagne. Ma senz’acqua né luce, ci dispiace signora, domani sicuramente lo sistemeremo, mi dice l’idraulico.
Tiro avanti parecchi domani con secchi d’acqua e candele, fino a quando possiamo dare finalmente il benvenuto alla luce, che rende piú vivibile la notte. Viene a vivere con me, per qualche mese, una pedagoga di Arequipa, Esther, di trentacinque anni, capelli nerissimi e un sorriso raggiante. Con lei diamo gli ultimi ritocchi alla casa, annaffiamo e concimiamo dei gracili gerani, tingiamo dei vecchi mobili, e alla fine mettiamo su delle allegre tende rosse di tela bayeta. La compro al mercato da una mamita abbigliata secondo l’usanza andina con una quantità di gonne colorate sovrapposte una all’altra, un grembiule pieno di tasche segrete che la fa assomigliare a una grossa cipolla, e una bombetta con tanto di fiocco nero sulle trecce lunghissime. Mi piace negoziare, e chiedo uno sconto, mil gracias! La signora me lo fa se compro anche i tradizionali torelli di ceramica, da mettere sui tetti di casa, come simbolo di fertilitá e abbondanza. D’accordo, prendo anche i torelli e torno a casa contenta.
Anche Esther ama andare a far compere peró qualche giorno dopo, la vedo tornare sconvolta dal mercato delle verdure.
-Cos´ho fatto perché mi trattino tutti come una…puttana?- si chiede fra i singhiozzi.
- Cosa ti è successo, stella? Perché non hai preso un taxi?-le chiedo.
-Infatti l’ho preso…ma quello svergognato di un tassista mi ha chiesto quando prendevo per fargli un buon pompino. Poco prima, un verduraio mi aveva palpato il sedere, e il macellaio, in un momento in cui non c’era nessuno nel negozio, mi ha proposto di fare un sandwich speciale, “Io fra te e la gringa, che dici?”
Resto un attimo perplessa, e poi… ah, giá, le tende rosse! Evidentemente la luce che filtra da quelle insolite tende sta lanciando imprevisti segnali erotici ai passanti. Dovró aggiungerne un altro paio di piú scure, da usare la notte. A pensarci bene, che due donne vivano sole é considerata una stramberia, in questi paraggi. Se non sono monache, sicuramente sono prostitute. Ma com’é oscillante la vox populi! Poco tempo dopo, senza che siano cambiate di una virgola le nostre abitudini sessuali, nel paese si commenta che in quella casa lá fuori, con le tende rosse, vivono delle suore, e c’é una gringa tedesca che fa da badessa.
Risolto questo problema d’immagine, la vita in casa va a meraviglia. Fuori, un po’ meno. La tensione nell’altipiano sta crescendo. Dalla sierra di Ayacucho, i seguaci di Abimael Guzman hanno ampliato il loro raggio d’azione, facendo saltare posti di polizia nella sierra. A me cominciano a succedere cose strane, una dietro l’altra.
Come quel giorno della dinamite, che non dimenticheró mai.

28. Notti da cani
Scendo in cittá con la mia Volskswagen, per dare un corso di formazione a dei maestri. Illusa. Oggi i miei maestri hanno ben altro da fare. Sono tutti in strada, con altri centinaia di docenti venuti da tutto il dipartimento, e fra slogans e bandiere stanno dandosele di santa ragione con la polizia. Bastonate da una parte, lanci di pietre dall’altra. Le bandiere dei sindacati vengono abbattute, ma qualcuno le risolleva in mezzo alle grida. NO AI SALARI DA FAME! Ancora una volta sento risuonare nei vicoli di Puno questo slogan che ho sentito altre dieci, mille volte, nelle strade e piazze del Perú. Con risultati praticamente nulli. Anzi, immagino giá cosa seguirá, secondo un ben noto copione. Dopo l’aperitivo di bastonate e sassaiole, alla polizia cominceranno a girare le scatole davvero e procederanno al lancio di gas lacrimogeni, accompagnato da qualche sparo, sporadico sí, ma sufficiente a lasciare in mezzo alla strada un corpo o due senza vita.
Visto che la mia presenza in mezzo al tafferuglio non aiuterebbe in nessuno modo a pacificare gli animi, faccio un giro piú largo per evitare le strade piú congestionate dove potrei restare intrappolata, e cerco di parcheggiare la macchina in una piazza piú tranquilla.
Crasso errore, anche questo. Tranquilla? Un’improvvisa detonazione mi fa sobbalzare al volante, spaventa uno stormo di gallinacci che vola via stridendo, fa tremare i vetri delle case vicine e …poco piú in lá, sta riducendo in un ammasso di rottami fumanti una camionetta della polizia stazionata sul marciapiede. Accidenti! penso, con lo stomaco svuotato dall’ansia…bastava facessi qualche metro in piú e anch’io finivo come una torcia umana nei rottami fumanti della mia Olivia… Resto un attimo a guardare intontita l’ammasso di ferraglie, indecisa sul tragitto da fare per allontanarmi di lí prima possibile, quando mi sento afferrare da due, anzi quattro braccia durissime.
-Ehi, come vi permettete?-tento di difendermi.
-È lei che ha messo la bomba, vero? - mi gridano due sconosciuti agenti di polizia, trascinandomi a spintoni verso il piú vicino commissariato.
-Questa gringa che va in pantaloni, e guida da sola per le montagne... è da un po’ che la teniamo d’occhio, di certo ha a che fare coi senderisti...
-Appunto! Sono i gringos che hanno portato da noi il terrorismo, l’ha detto anche il presidente Bealunde…- sento che un agente sta dicendo all’altro. -E lei cammini, avanti! Non siamo qui per cogliere fiori…- mi riprende uno strattonandomi. Ci crede davvero, questo qua, o lo dice solo per impressionarmi?
-Ma siete m...? Voglio dire, come facevo a mettere la bomba se mezz’ora fa ero al mercato (chiedete pure!), e adesso, per poco non salta in aria anche la mia macchina?- cerco di spiegare. Ma é come parlare al vento. Nessuno dei due mi ascolta. Devo cercare qualche altro testimonio, penso freneticamente mentre quelle braccia odiose continuano a mantenermi nella loro morsa. I maestri no, chiedergli di testimoniare a mio favore in questo momento sarebbe una pessima idea…allora chi diavolo? Vediamo…
Un altro centinaio di metri ed eccoci davanti a un edificio basso e grigio, con lo stemma della repubblica del Perú, e una fila di sacchi di sabbia fuori della porta. Li devo seguire per un corridoio cupo, dietro uno sbattere di tacchi, un cancelletto di ferro che si apre, il rumore di grosse chiavi che lo richiude, lo sbattere di un’altra porta, ed eccomi in una stanzuccia, dove mi accoglie una zaffata di…aff, non vale la pena decifrare questo miasma di cattivi odori. Nella penombra intravedo macchie di umiditá e scritte oscene alle pareti. Proprio una bella idea è stata parcheggiare in quella piazza, mi dico. Una risata sguaiata si leva da un fagotto umano buttato lí in un angolo, e dopo la risata sento una voce roca che mi saluta con un “Finalmente ci arriva una bella femmina tettona, giusto quello che mi ci voleva, perché è un bel po’ che non scopo! … sono tutto suo signora, benvenuta all’inferno!” Altre sghignazzate gli rispondono dagli angoli. Sono due, no, anzi tre i fagotti umani buttati lí su due materassi grigiastri. Ubriachi fradici, sbattuti in carcere dopo una rissa, evidentemente. “Scelga me per stanotte…” “No, a me!” “Allora tutti e tre!” Voci, tosse e risate si sovrappongono in un crescendo. Questa sí che é una scena da film, penso. Anzi, un filmaccio dei peggiori, girato fra taverne medievali, navi di bucanieri, soldatacci di ventura. Cerco di non farmi prendere dal panico. COME USCIRE DA QUI, MALEDIZIONE. Marianna, stai calma, concentrati.
Adesso vedo una seggiola di metallo al lato di un materasso. Bene. E anche un finestrino, lá in alto, con un vetro cosi sporco che fa pochissima luce. Eppure fuori c’é un sole che spacca le pietre.
Prendo la seggiola e la piazzo sotto il finestrino. Ci salgo sopra e tiro un calcio alla mano che cerca di afferrarmi la caviglia.
- Sono disposta a stritolarla, quella mano, se qualcuno si azzarda a riprovarci, vi avviso!- minaccio. I compagni di cella mi rispondono con altre risate, ma giá un po’ meno strafottenti, mi par di capire.
- Ehi stai attento Efisio, che la signora morde! – Li lascio lí alle loro battute idiote, tanto, sono cosí sbronzi che non si reggono neanche in piedi…pulisco un po’ il finestrino con una manica, giusto a tempo per vedere, dall’altra parte del marciapiede, vari passanti scendere giú correndo per allontanarsi dalla zona dei disordini.
- Ehi, signori!- Mi metto a gridare con quanto fiato ho in gola. Due o tre di loro alzano gli occhi per vedere chi si sta sbracciando al finestrino… del commissariato di polizia? Via, alla larga! Chi camminava di fretta si mette a correre, chi stava giá correndo se la dá a gambe levate. Passa una buona mezz’ora, e nessuno si degna di dare ascolto ai miei richiami.
Comincio a scoraggiarmi. Ma ecco che vedo scendere giú proprio dal marciapiede piú vicino una signora con una gonna pesante di lana verde, e la solita bombetta in equilibrio sulle trecce, che cammina in fretta ma non sembra cosí nervosa come gli altri. È lei, mi dico, la mia salvezza. Cerco di impressionarla con un “MAMITA PER FAVORE!”, gridato a pieni polmoni. Anzi, agito pure il lembo di una sciarpa che riesco a far uscire dal finestrino, schiacciandomi un dito. Lei continua per la sua strada…no, sta rallentando,… si sta fermando, la bella signora andina con la sua meravigliosa bombetta su quelle splendide trecce. È ferma. Si è fermata! E adesso si gira! Sí, sta guardando in alto chiedendosi di chi è quella sciarpa che si agita, e quella voce che rompe i timpani…
-Mamita, per favore signora, é urgente! - le grido appena incontro il suo sguardo.
-Avvisi la signora Esther, la conosce, no? che avvisi il direttore Mamani, che avvisi l’ambasciatore tedesco! Che mi portino via di qua, che non ho fatto niente!!
-Che???- La mamita continua a studiarmi stralunata, con la sua bombetta in diagonale sulle trecce. Daiiiii, svegliaaaa!
-Ah...- dice finalmente dopo dieci lunghissimi secondi, (tic tic tic tic...) in cui deve aver frugato nei suoi cassetti mentali per trovare qualche traccia della mia fisionomia.- Ah, lei é la gringa tedesca, no? Sisí, andró ad avvisare la signora Esther!- E la vedo affrettare il suo passo dondolante, con la sua bombetta in bilico, che non perde gradi del suo angolo acuto neanche nel saltellare dei passetti che girano l’angolo.
Di sicuro va ad avvisarla appena puó, la buona signora dalla bombetta equilibrista, ma non riesce ad evitarmi il regalo di un paio di notti, passate seduta sulla sedia con gli occhi sbarrati e pronti a fulminare chi mi si avvicini a una distanza inferiore al metro, tra i miei ineffabili compagni di cella, ma loro per fortuna, dopo aver cantato un paio di canzonacce, ruttato e sgracchiato a loro piacere, cominciano a ronfare come trattori in salita su un campo di sassi e carciofi spinosi.
Due giorni dopo, alle undici in punto, arrivano finalmente i colleghi, i documenti, le credenziali, le assicurazioni dell’ambasciata tedesca, a testimoniare che mai e poi mai la signora Weiser potrebbe avere contatti con gruppi terroristi..., (vogliamo scherzare?) e anche quelle del ministero peruviano, (dichiariamo solennemente che la signora Marianna Weiser collabora con il Ministero della Pubblica Istruzione in qualitá di esperta in educazione bilingue, svolgendo un lavoro ineccepibile, eccetera eccetera), insomma si puó scrivere la parola FINE su questo pessimo film di bucanieri e taverne.
Riprendo la mia borsa, e con un sospiro di sollievo faccio per scapparmene via il piú velocemente possibile. Ho due tremende occhiaie scure, e un leggero tremolio alle mani, per le due notti passate senza chiudere occhio. Non vedo l’ora di un buon bagno e poi dormire fino al giorno dopo. Me ne vado senza neanche un cenno di saluto. Eppure il commissario mi lancia un ultimo avviso. È libera ma schedata, e la terremo sott´occhio, ci siamo spiegati?
Rispondo alzando gli occhi al cielo ed esco in strada. Esther mi sta aspettando lá fuori da almeno un’ora, e mi viene incontro con un abbraccio. Passa qualche minuto prima che mi si calmi il tremito alle mani e mi senta di accendere il motore della mia Volskswagen. Dopo un po’, la mia casetta panoramica dalle tende rosse e la porta verde mi appare in fondo alla strada polverosa, come una fonte d’acqua gorgogliante in mezzo al deserto. Finalmente.
Tutto continua uguale, osservo, come se non fosse successo nulla, tra i miei gerani con qualche foglia secca, una tazza di caffè dimenticata sul tavolo, una coperta caduta dal divano. Esther, appena avvisata, era corsa via facendo miracoli tra i suoi contatti per raccogliere i documenti che mi avrebbero liberato.
Faccio per distendermi sul letto esausta, quando sento che qualcuno sta battendo leggermente alla finestra. Potró starmene un po’ in pace una buona volta? Mi dico.
-Ha bisogno di qualcosa?- sento chiedermi da una voce conosciuta.
É donna Amelia, una vicina assolutamente gentile, (e straordinariamente) discreta.
- Grazie, veramente ho solo bisogno di riposare un po’.
Ma lei non si muove. Qualche attimo d’incertezza e poi mi dice.
-Beh, era un po’ che volevo dirglielo, Marianna. Non ha ancora fatto quello che doveva?
-Dovevo cosa? A chi? Per favore, si spieghi meglio perché non so di che parla.
-L’offerta alla Pachamama, no? La madre Terra. Non ricorda che le ho detto che questa casa é stata costruita sul terreno di antiche chullpas, o tombe di nobili, e chi viene a vivere qua deve chiedere il permesso alla Pachamama perché ci consenta di vivere in questo luogo speciale?
-Davvero? No, non me ne ricordo, ho avuto tanto da fare... Ho visto solo il bel panorama, ma non conosco la storia di questo luogo.
-Come no, se ha una storia!- ripete misteriosamente donna Amelia.- E le dó un consiglio, poi veda lei.
Ovviamente seguo il suo consiglio, non si sa mai, perché so che ha buone intenzioni. Anche se, come col curandero Alberto, navigo in acque sconosciute, e io devo lasciare (con gli occhi ben aperti!) che altri agiscano, con altri codici. E vado a trovare un anziano aimara, don Manuel, esperto in cerimonie come l’ offerta alla Pachamama, secondo la regola ancestrale della reciprocitá. Tu le offri qualcosa, e lei ti ricompensa con buoni frutti, e un senso di pienezza e di pace nella tua vita. Perché la Madre Terra, come le montagne e le lagune, é fonte di vita e merita rispetto, doña Marianna, mi spiega. Fin qui, sono d’accordo. Anzi, d’accordissimo.
-Cosa devo portare per fare l’offerta?
- Compri al mercato delle streghe questa lista di oggetti.
E mi passa un foglietto dove ha annotato, a quanto ricordo: alcune candele, un fazzoletto pieno di petali di garofano, un mucchietto di foglie di coca, un feto di lama…Ah, e anche una buona quantitá di bosta. So giá come usare lo sterco di vacca, preziosissimo in quest’altipiano senza alberi. Ma non ho idea di come potrá servire nell’offerta alla Pachamama.
-Venga venerdí notte. Da sola, con le sue candele- mi dice don Manuel, che di giorno lavora come spazzino. Bisogna fare una cerimonia per tre notti, per tre settimane.
Arriva il venerdí notte, con la luna alta nel cielo. Il freddo è pungente: Don Manuel indossa un poncho di lana spessa, a strisce rosse e marroni, sull’abito liso di tutti i giorni, e ha un chullo che gli copre la testa. Io sono protetta da un buon giaccone di piume nordiche, ho con me una coperta d’alpaca per avvolgermi durante la cerimonia notturna, e sono piena di curiositá.
Dopo un breve saluto, don Manuel mi avvisa di seguirlo in silenzio fino a uno spiazzo lá in alto, dove i venti frustano l’erba dura. Il grandioso paesaggio montano è immerso nel silenzio. Anche il vento tace, e tutto sembra sospeso nell’attesa di qualcosa di sacro. Una volta arrivati allo spiazzo, don Manuel pone con cura per terra la sua manta. Poi con gesti precisi tira fuori da una piccola borsa di tela delle foglie di coca, e comincia a lanciarle lentamente nell’aria. Come fará a cogliere il loro misterioso messaggio? Mi chiedo osservando i loro volteggi. L’anziano mormora di tanto in tanto qualche parola, e continua a lanciare in aria le foglie, una dopo l’altra. Lo seguo assorta nei suoi gesti silenziosi. Trascorre lentamente la notte. Finalmente, poco prima dell’alba, don Manuel mi fa cenno con la testa di seguirlo fin sulla cima della montagna. Cammino ansimando un po’ dietro al suo passo agile, per un lungo, lunghissimo tratto in ripida salita, con la fatica di chi é nato in altri paralleli. E finalmente raggiungiamo la vetta, un breve spazio sassoso in mezzo a rocce giganti.
La notte é ancora vestita del suo mantello nero, ma in fondo al cielo le stelle cominciano a impallidire, inseguite dalle linee arancioni che fendono l’orizzonte.
Quando le linee si congiungono in una splendida luce giallo-rosa, don Manuel accende un fuoco con la bosta. Mentre brucia tabacco, semi e fiori, invoca apus e santi, rivolto ai quattro punti cardinali. Durante le orazioni, io non devo guardare indietro. Ubbidisco e ripeto mentalmente le preghiere, senza farmi domande. L’aria si sta facendo piú tiepida, il cielo piú rosa. Finalmente, si alza un sole trionfante, a scaldare il pianeta. Il grandioso Inti degli Incas. La cerimonia è terminata.
Il ritorno lo facciamo quasi di corsa, zigzagando fra i sassi, nonostante la stanchezza. E adesso devo riposare un po’, grazie don Manuel, spero che la Pachamama sia contenta. Passano otto ore, e sto ancora dormendo. Esther mi chiama per la cena, due o tre volte, ma la porta della mia stanza resta chiusa. La mattina dopo, Esther va a lavorare, lasciandomi immersa in un sonno profondo.
Finalmente, che ora sará? Le tre del pomeriggio! Accidenti…apro gli occhi. Poso i miei piedi nudi sul tappeto di pelliccia bianca di pecora che copre il pavimento di legno, e apro le finestre. Accarezzo le foglie dei miei gerani, respiro con gratitudine. E mi sento in perfetta armonia, in perfetta pace, come non mi sentivo da secoli. E non so ancora il perché.

29. In bus tra paesaggi esagerati
Quante volte la mia vita è rimasta appesa a un filo, arruffato da un imbroglio improvviso? Come quella volta che viaggiai da Lima a Puno in bus, fra sierra e deserti, per gustare piú lentamente la bellezza di questi paesaggi esagerati.
Giá sulle pendici delle Ande, il bus arranca nella notte, oscillando nella salita cinquanta fagotti umani addormentati. Il motore é mantenuto ancora in prima, per un lungo tratto in salita, che affronta ruggendo e gemendo.
Accidenti, che freddo! Sento la testa pesarmi per la mancanza di ossigeno, ma per prudenza cerco di non perdere di vista l’autista, un uomo grassotto, avvolto da una sciarpa fatta a mano, che guida ingabbiato al volante. Con questa nebbia che cancella la strada, speriamo che riesca a capire se la curva va a destra o sinistra, mi dico. Non c´’è ombra di segnali, figuriamoci.
Finalmente, l’altipiano emerge maestoso da un mare di nubi, col suo orizzonte nitido di picchi appuntiti, illuminati dalla luna. Adesso il bus va in terza, lasciandosi dietro una fumata nerastra. Dietro ogni curva, il panorama continua a ad ampliarsi intorno al bus, che al confronto si fa sempre piú piccolo, un rospetto- un grillo- una formica- un moscerino... di fronte ai profili giganteschi delle rocce, interrotti dalle macchie stellate di neve. Con il vento che grida nel silenzio sibili spaventati...
Questi picchi gelati ti osservano sotto le stelle, dall’alto del loro silenzio senza testimoni, tra lotte solitarie di condor. Una stalattita di gelo si rompe nell’aria rarefatta dei seimila metri, con il nevischio che mulinella sui licheni e le pozze di smeraldo delle lagune. La natura pare seguire indifferente la sua vita millenaria, senza il fastidio degli omuncoli che pestino le sue nevi vergini. Anni e anni di silenzio, scavando e seccando lagune, con il vento a scolpire lentamente le rocce. E le rocce a disgregarsi, senza rumore, e le pietre piú piccole a rotolare giú anno dopo anno, di secoli di vento e silenzio...
Lá in fondo, un deserto lungo migliaia di km, accecato dal sole, incontra le onde fragorose dell’oceano, lontano da queste vette coperte di nubi. Ogni tanto, una scossa piú forte. E allora non sono pietre a rotolare saltando, ma blocchi pesanti di fango che si abbattono cancellando geografie, e seppellendo laghi, popoli e cittá, se li incontra sul suo devastante cammino. I condor volano spaventati, forse, e poi tornano a volteggiare sugli abissi.
Quelle montagne esistevano prima che comparissero gli “uomini della Luna”, l’affascinante regno del Gran Chimú, che aveva riempito le valli del deserto a nord del Perú, di piramidi e palazzi con disegni policromi di pesci e giaguari. In quel tempo i signori mantenevano un’intera corte di artigiani, gioiellieri, tintori, suonatori di conchiglie e maestri di piumaggi. Corti di api regine. Intanto i contadini brulicavano come formiche intorno ai fiumi che scendevano impetuosi dalle Ande, per imbrigliare l’acqua in lunghissimi canali che correvano gorgogliando fino alle oasi del deserto.
Mi par di vederle quelle formichine Mochica, con il viso dipinto di rosso e nero e i ponchos disegnati a quadri e stelle, ponendo uno sopra l’altro, nel giro di qualche secolo, 25 milioni di mattoni di adobe, per innalzare al Sole la sua Piramide. O pascolando i loro greggi di lama sulle pendici verdi delle oasi, e cantando ubriachi di chicha nelle feste rituali. Como sará stata la vita di una di queste piccole donne che si pettinavano le trecce di fronte a uno specchio di ossidiana e turchese, prima di mettersi a tessere i fili sottilissimi di vigogna o le trame impalpabili di vestiti di piume?
Me le immagino sedute al lato del fuoco alimentato da sterco di lama, mentre raccontano la loro vita nelle ceramiche che paiono animarsi sotto le loro piccole mani scurite dal sole, tutto ció che un’occhiata puó cogliere... Le danze rituali degli uomini vestiti da uccello, i supplizi dei rei sepolti vivi nel deserto, o spinti al mare dagli abissi costieri, le mani dei curanderos sui corpi degli infermi, i dolori pieni di gioia del parto. E i giochi allucinati dell’amore, in tutte le sue varianti e posizioni.... Questo mentre in Europa, negli stessi tempi, nei manuali per confessori si affermava che si poteva toccare la sposa solo per procreare, possibilmente piangendo di vergogna. Chissá quando avevamo cominciato a perdere la festa dei sensi per incorsettarla in santi ingessati?
Con la morte, i signori del Gran Chimú entravano in un regno ancora piú grande, a cui solo loro avevano accesso, portandosi dietro spose e servi preferiti, e cibo e gioielli.
Le donne Mochica continuarono a dipingere le loro vite dominate dalla luce misteriosa della luna, fino a quando le truppe scelte dell’Impero del Sole scesero dalle Ande, per vincere i loro uomini in battaglia, vicino al Palazzo dei sette muri di Paramonga. Lo stesso palazzo che contemplarono ammirati, un secolo dopo, i barbuti cavalieri di Pizarro, arrivati dal nord, attraverso la strada principale tracciata per i monti e valli del continente, per unire popoli e genti sotto il dominio dell’Inca, il figlio del Sole. Il Camino Real avanzava come un serpente di pietra, per migliaia di chilometri nel deserto, fra dune e boschi di carrube, ombreggiato a volte da alberi dove gridavano i pappagalli, e fiancheggiato da un muro che lo proteggeva dal vento. Duemilacinquecento chilometri di sole e luna.
Sí, quelle Ande imponenti che nascevano dalle colline grigie del deserto e che adesso il bus sembrava guardare intimorito percorrendo l’altipiano, esistevano anche prima che lá sotto apparissero i popoli della Luna e del Sole, coi loro fagotti di piume, sale, e sogni tenaci. I venti del deserto avevano fatto volare poco a poco le loro pietre ostinate, ma quelle montagne rimarranno lá invitte, forse anche dopo che gli ultimi uomini della terra avranno annientato l’un l’altro, con futuribili armi supersoniche, i loro sogni malati.
I miei pensieri svolazzano inquieti oltre il finestrino, perdendosi nella nebbia.
Il bus ha cominciato una discesa rapidissima, ma non si sa verso dove. Accidenti, che succede? In pochi secondi salto al lato dell’autista che, adesso mi rendo conto, ha abbassato la testa sul volante, e lo scuoto per le spalle.
-Ehi! Che...? cazzo!... L’uomo apre gli occhi stravolto, e gira bruscamente il volante, rimettendo il bus in carreggiata, invece di proseguire dritto verso l’abisso che fiancheggia la strada. Qualche passeggero si é alzato dal sedile stropicciandosi gli occhi, mentre altri seguono incoscienti i loro sogni oscillanti.
-Senta, lo pagano per guidare, no?- gli grido.-Lo denunceró alla polizia per la sua guida irresponsabile! Si rende conto che per pochi secondi in piú, potevamo finire nel burrone ridotti in poltiglia?- Ho bisogno di gridare per dimenticare il tremito delle gambe. E il suo aiutante dov’é finito? L’ho visto scendere in un paesino, e chi s’é visto s’é visto, mentre invece doveva... doveva...
-No! Tutto meno la polizia! Si calmi signora! - mi supplica l’autista.- Ma lei di dove viene? scusi se mi permetto, dalla Germania? Ah, capisco, lá é un’altra cosa. Se sapesse cosa mi ha fatto la polizia, non me la nominerebbe di certo...- mi avvisa abbassando la voce. – È proprio grazie a quei fottuti poliziotti che mi tocca guidare questo rottame di bus coi freni scassati... Neanche all’impresa di trasporto gli interessa la nostra vita, a quegli stronzi! Domani, domani, ci rispondono sempre quelli degli Angelitos Negros quando li avvisiamo che questi freni devono essere cambiati. Io li riparo come posso, chiaro ci tengo alla mia vita... un giorno o l’altro possono saltare, e finiamo tutti come piatto forte per gli avvoltoi... Beh, sto scherzando, adesso non la voglio spaventare. Piuttosto, signora, non avrá un po’ di caffé?
Sí, per fortuna ne ho un po’ nel thermos. E anche due mandarini spiaccicati, in fondo allo zaino. E al diavolo gli avvoltoi, adesso! Lá in fondo vedo un cartello che attrae la mia attenzione. “Al Condor de Oro”, é l’orgogliosa insegna di un ristorantino sgangherato, in mezzo al niente. Ci fermiamo. Il menú é di quelli che ti lanciano bombe nello stomaco, caricate di peperoncino. L’autista mi si avvicina, perché lo onori con la mia compagnia al suo tavolo, scusandosi.
-Pancho Samaná, a suo servizio, - si presenta dandomi la mano, e sfoggiando un sorriso con due denti d’oro in primo piano. Perché un giorno era stato re, Pancho Samaná.
-E adesso, da re a schiavo del volante...- comincia a raccontare attaccando un piatto di fagioli con uovo fritto, e un porcellino d’India anch’esso fritto, tutto rannicchiato con le sue zampette, che va tagliato ferocemente, come una violazione, prima di potersi dedicare a mangiarlo.
-Non sa com’era bello il mio camion, signora...tutto dipinto di giallo, coi bordi rossi. Anni e anni di lavoro, per pagarlo! “Tigre di Andahuaylas”, si chiamava, perché vi avevo applicato il gran muso di una tigre con le fauci aperte e un motto scritto con le mie mani:
“L’O FATTO COL MIO SFORZO MUOIANO gliINVIDIOSI”. Altri ci scrivono, sul camion: “Curve e buchi mi consumano...”, o “La gelosia ti distrugge, figliola”. “Se vuoi scopare la polvere, seguimi”.... Io no, non avevo tempo per le donne, solo una birretta fra uomini di tanto in tanto, dopo aver pagato un’altra rata del mutuo. Il mio Tigre non aveva misteri per me, e non rida, signora?... Marianna. Mia moglie si accorge da una tossetta o un sospiro se i figli si stanno ammalando, io sentivo dal rumore del motore se c’era qualche ingranaggio che non faceva il suo dovere. Allora scendevo coi miei ferri, lo sistemavo, e dopo proseguivamo contenti. Fino a quel maledetto giorno...
-Insomma, che successe quel giorno? Mi dá un po’ di fagioli a cambio di questo cuy, poveretto?
-Va bene, adesso le racconto.

30. Di camionisti, gringhe e incappucciati
-Quel giorno ci fu una perdita nel deposito di carburante, la riparammo come meglio potemmo ma, per continuare, bisognava cercare benzina... E cammina cammina in una pampa a 3800 metri di altezza, io e il mio aiutante facemmo una ventina di chilometri con il nevischio in faccia, fino al paesino seguente, dove conoscevo un compare che ha sempre un po’ di riserva. Ma non lo trovammo, e la cugina di sua zia lo mandó a cercare. Insomma, alla fine, e dai e dai, e questo e quello, per favore cognato, ritorniamo con un bidone, inseriamo la chiave, e con tutto il carico di tonno e burro da consegnare lo stesso giorno, una fretta terribile, fu lì che apparvero i poliziotti, questi figli di p.. scusi signora, in Germania come si dirá? Ah. Arshloch. “Le fatture stanno qui, é tutto in ordine, ecco qua anche quelle del tonno, del sapone e del burro”. Per cui non capisco perché quei fottuti ci bendarono e ci buttarono al lato della strda col culo del fucile... Certo, un machete lo tenevamo sempre nella cabina del camion, non si sa mai, ma come darlo in testa ai tutori dell’ordine, armati di tutto punto e con carnet d’identitá in ordine? Adesso lo so, siamo stati scemi, non abbiamo avuto fegato... e cosí il mio Tigre sparí in mezzo al nevischio, e noi buttati nell’erba, legati come salsicce. Dopo, chissá fu l’anima santa di mia madre che venne ad aiutarci, e potemmo liberarci delle bende con i denti...
La nevicata aveva smesso, ma nessuno dei veicoli che passava si fermava... Chi si arrischiava a raccoglierci, se potevamo essere terroristi che cercavano di far pagare una taglia? Una collaborazione per la rivoluzione, compare! Ci dicono quando abbiamo la sfiga di incocciarli in qualche carretera sperduta. Di fronte a una mitragliatrice tu glieli dai quei sudici biglietti, come no! con tutto il cuore, basta che ti lascino in pace e non ti prendano il camion per fare gli attentati grossi: quelli con trecento o cinquecento chili di dinamite, sa?, quelli che per esempio hanno fatto saltare a Lima i vetri del banco Sudameris, o il Continental, e fanno un buco di sei metri in strada. E gli edifici restano con gli occhi vuoti, i ferri contorti all’aria, che tristezza, l’ho visto piú di una volta...
Sí, che tristezza. Come adesso. Un orrore infinito.
-Ma, in generale i terrucos preferiscono le camionette per fare gli attentati normali, quelli a un posto di polizia, un canale di televisione, un’ambasciata. Deve sapere signora, che bisogna fare molta attenzione per strada. Se non ti attaccano terrucos veri, possono farlo delinquenti mascherati da terrucos, con una mitragliatrice e un passamontagna, e via, oppure poliziotti che si comportano da delinquenti, o delinquenti mascherati da poliziotti, insomma ce n’è da scegliere... Ovviamente sí, la facemmo la denuncia al commissariato, non siamo cosí scemi, no? “Investigheremo”, ci risposero, “state tranquilli”. Il camion lo trovarono giorni dopo, ma squartato come un agnello, il mio Tigre: senza carico, senza motore, senza ruote, senza tutti i pezzi che potevano essere venduti nel mercato informale di Arequipa o Puno, o addirittura a Lima. Restava solo la scritta: L´O FATTO COL MIO SFORZO. Eppure, se sono sopravvissuto alla gringa col machete, significa che gli invidiosi hanno ancora da invidiarmi, e non sanno chi é Pancho Samaná!
Ricompare un attimo la sua risata dai denti d’oro, mentre sorbiamo un brodino marrone annacquato che chiamano caffé. Allora, mentre gli altri 48 passeggeri fanno la coda di fronte alla stanzina con due miracolosi bidoni d’acqua e un buco nel pavimento, chiamato BAGNO, perché non mi racconta della gringa col machete? E me la immagino come una scena da film, che Pancho Samaná commenta ispirato.
-Successe lá, nel deserto infinito che costeggia il mare. Ore e ore di solitudine, con l’aiutante salito in cima ai sacchi di farina, piú un po’ di farina che usciva dalla scucitura di qualche sacco, insomma alla fine del viaggio il Negrito sembrava un Babbo Natale. E la salsa martellava alla radio: Divorami ancora, divorami ancora...
“Una radio con ritmo sexy”, si definisce, ma questa volta era un martirio, funzionava male ed emetteva via via dei sibili che mi trapanavano gli orecchi... lei crede negli ufo, signora Marianna? Non li ha mai visti? Mi hanno detto che in certi punti del deserto la gente va a aspettarli. Come diavolo sará questa storia? E le linee di Nazca..?- Ventitré persone nella coda.
-Mi chiedo a volte come poterono farle, quelle grandi linee, gli abitanti del deserto, se non avevano un disco volante, o qualche aggeggio che volasse, per vedere dall’alto se i disegni venivano bene... Io passo spesso per questa zona, e una volta la conobbi quella famosa gringa matematica, la Marianna Reiche, immagino che abbia letto i suoi libri. E´una tedesca come lei, (ah lei non é tedesca? vabbé, comunque gringa), piú vecchia certo, adesso quasi cieca, si sa che passó la vita spazzando ogni giorno le linee di Nazca, perché la polvere non le sommergesse facendole sparire. La pioggia no, non c’é pericolo perché lá non piove mai. Me l’immagino quando arrivó al porto del Callao molti anni fa, una signorina tedesca dagli occhi chiari, e una valigia di cuoio piena di libri di matematica, perché andava a fare da istitutrice ai figli di un ambasciatore... Una pazzia, per quell’epoca, una donna che viaggiava sola per gli oceani, e sapeva tutta la matematica, quando a me fanno sudare i conti della benzina e le fatture del tonno... E in quella casa piena di porcellane sentí parlare delle linee di Nazca e si mise a pensare come diavolo facevano le mummie a calcolare tutte queste linee che si incrociavano. Le mummie, voglio dire, prima che diventassero mummie si chiamavano Paracas o qualcosa di simile, lei che ha studiato lo saprá meglio di me, ed erano gente fuori serie, se sapevano fare nel deserto disegni lunghi chilometri e chilometri. Se ne vedono ancora, rannicchiate nei loro cuscini funerari, in mezzo alla sabbia, tutte scurite dal sole, ma ancora coi capelli neri come se fossero morte ieri. Ci sono intere pampe che nascondono tombe e i tombaroli continuano a trovarne, avvolte nei loro mantelli ben ricamati.
Mi hanno detto che la gringa matematica un giorno lasció la casa lussuosa dell’ambasciatore e se ne andó a dormire in una capanna di contadini in una hacienda vicina alla pampa di Nazca, pur di poter camminarci sopra avanti e indietro per fare i suoi calcoli, tanti chilometri e anni e anni di polvere, accidenti, spazzando le linee e scrivendo numeri su numeri, calcolando in quali giorni i raggi del sole si alzavano su quali linee, e dove tramontavano le Pleiadi... C’era chi la chiedeva in matrimonio, a questa gringa bionda dagli occhi azzurri, grossi terratenientes e colonnelli, ma lei rispondeva che preferiva spazzare il deserto al lavare i calzini di un uomo che l’avrebbe chiusa in casa, meno male che la mia Rosita me li lava... Altri pensavano, magari, che era una strega... ma adesso vengono da tutto il mondo a visitare la signora Maria Reiche. Mi pare che alle gringhe come voi bisogna rispettarle, o tenerle alla larga, non si sa mai che non ti prendano a schiaffi...
Ancora dieci persone nella coda. Sí, ma... e la gringa del machete?
Questa fu peggio, molto peggio, signora...
Stavo guidando, come sempre, per questa Panamericana interminabile con i suoi buchi improvvisi e il mare al fondo dell’abisso, senza muro di contenzione,... e magari di notte ti trovi davanti all’improvviso un idiota che ha fermato il camion quasi in mezzo alla strada, senza luci, e se non sei piú che veloce ti trovi spiaccicato sul vetro, ciaaá!, come un uccello distratto. No, questa volta era di giorno, il Negrito come sempre stava sui sacchi, il deserto tremava di calore... giá avevamo passato la parte con i cactus bassi, dopo quella delle pietre grigie come la luna, per chilometri e chilometri. Dopo, c´é un’altra parte come onde di sabbia che sembrano il fondo del mare, tutte ondine piccole e parallele, come se tremassero di paura. Ah, se il mare un giorno si sbaglia di misura e viene il tsunami, a mangiarsi il burrone costiero e tutti i camionisti con il loro carico di sardine!... come quella volta che arrivó con le sue ondacce maledette fino al quinto piano delle case del Callao...
Sette persone nella coda...
-Stavo dicendo che quel giorno passai la curva dove molti la vedono, la gringa bionda che fa autostop, meno male stavolta non c’era, ma quando mi girai un attimo, mi si geló il sangue.
Lei era al mio fianco, seduta sulla coperta di alpaca che mi porto sempre dietro in viaggio, tutta vestita di nero, quella strega, con quegli occhi azzurri immensi... e io non dovevo cadere nel fascino di quegli occhi, come era successo a tanti di noi. Perché quelli che si lasciano incantare dalla sua bellezza, vedendola al lato della strada, e la fanno salire sul camion,... da un momento all’altro, zas!, il camion finisce laggiú in fondo, schiantato sugli scogli. Sa chi ricordano quelle croci che si vedono piantate nella rena, giusto sulla curva? i camionisti ammaliati e fatti fuori dalla gringa...! Solo uno, che io sappia, riuscí a salvarsi. Me lo raccontó lui stesso ancora coi brividi addosso, il mio compare Pepito Rios, dev’essere che non era ancora il suo momento.
L’aveva visto all’improvviso, attaccata al vetro come un ragno gigantesco che le copriva la visuale della strada, mentre dall’altro lato stava arrivando un bus a gran velocitá, questi della Cruz del Sur che nei momenti pericolosi ti schiacciano senza pietá piuttosto che frenare... Ma lui sí, per fortuna riuscí a frenare il camion con la forza della disperazione, mentre gli occhi gli si stavano annebbiando.
Sono le anime dannate, signora, quelle che restano inquiete fino a che non ti vedono anche a te precipitare nell’inferno!... Perché mi guarda cosí doña Marianna?, noi camionisti lo sappiamo, le anime ti ipnotizzano se ti fermi a guardarle, e allora sei fregato hermano...
Due persone nella coda.
Sentivo giá la sua faccia gelata avvicinarsi alla mia, ma io volevo vivere, stracazzo, e quindi afferrai il machete come un fulmine e brandii un colpo tremendo senza guardare... e poi riaprii gli occhi, sollevato dal fatto che ero ancora vivo. Il camion aveva cominciato ad affrontare la salita, per questo riuscii a mantenere la direzione, ma non avevo il coraggio di guardare a lato... Alla fine mi girai... La maledetta non c’era piú. Sparita nel nulla. C’era solo una macchia di sangue che si allargava nel sedile.
Silenzio. Solo una persona nella coda. Guardo Pancho Samaná, anch’io con occhi straniti. I miei (brillanti) occhi color nocciola, non azzurri.
-Ma come, la macchia di sangue l’ha vista davvero allargarsi? Non era notte?
-Piú o meno, ma che importanza ha...? Perché mi guarda cosí, signora, con quegli occhi accesi come due lampadine? È che... qui non siamo in Germania... non se lo scordi.

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