ALLA RICERCA DI UN EFFETTO TRUMP
Un antidoto o l’urgenza di cambiare direzione?

 

di Massimo D’Angelo

Qual è l’effetto Trump su chi non lo ha sostenuto? Quale è il suo effetto sul resto del mondo, per chi considera le sue posizioni di politica sia interna che internazionale non solo stravaganti ma pericolose? In Europa c’è chi arriva a sperare che Trump possa apparire talmente traumatico che possa scuotere la classe politica europea e spingerla finalmente a collaborare al suo interno per soluzioni che prescindano dalla politica americana, così come viene espressa dalla nuova amministrazione della Casa Bianca. Una specie di effetto indotto imprevistamente benefico.
Ci sono già sin d’ora sintomi di un simile effetto “positivo” della presidenza Trump all’interno degli Stati Uniti, da dove scrivo, con la diffusione a macchia d’olio della “Resistenza” a Trump. ll crollo elettorale della Clinton in stati tradizionalmente democratici ha fatto prendere coscienza a molti che forse bisogna ricominciare dalla base, verificando se i democratici non stiano trascurando realtà sociali che scottano, come la condizione dell’elettorato a reddito medio-basso che ha perso lavoro in certi settori economici in crisi strutturale (i minatori delle miniere di carbone della West Virginia, o gli ex operai della siderurgia o della manifattura minore che ha chiuso i battenti negli stati della Rust Belt nel nord degli USA). 
 
In questo senso, la vittoria di Trump è spesso apprezzata come una doccia fredda per svegliarsi. I democratici non possono più permettersi di ignorare le condizioni dei gruppi sociali che soffrono e sperare di vincere le elezioni. Il rinnovo del DNC, il Comitato Nazionale Democratico, con la nomina delle sue nuove cariche alla presidenza e alla vicepresidenza avvenuta il 25 di febbraio di quest’anno sembra proprio ispirato da questa esigenza. 
I democratici stanno dimostrando che non solo debbono riconquistare la maggioranza nel Congresso sin dal 2018 e la Casa Bianca nel 2020, ma hanno bisogno di recupare la fiducia di quella parte della classe lavoratrice che ha appoggiato Trump, riprendendo così anche il controllo di realtà locali, a cominciare dagli organi legislativi dei singoli stati e dei comuni, riconquistando posizioni di governatori e di sindaci perse ai loro rivali repubblicani.
 
Mentre otto candidati si sono sfidati alle primarie della fine di febbraio del 2017 in un confronto accanito per la successione alla guida del partito democratico americano, la nomina del nuovo presidente del DNC nella persona di Tom Perez, accompagnata dalla designazione del suo maggiore rivale, Keith Ellison, come vice-presidente, confermano l’unità fondamentale, quasi incredibile all’osservatore italiano, che prevale in quel partito quando si cerca di stabilire una strategia per le future sfide elettorali.  Il partito democratico americano alla fine è sempre unito, diversamente da quello italiano. Lo ha mostrato alle ultime elezioni presidenziali. E lo sta dimostrando quando sta cambiando direzione di marcia in risposta all’effetto Trump. Ciò fa meraviglia se confrontato con la tendenza della sinistra italiana a frammentarsi. In Italia il cambiamento spesso genera piccoli movimenti che alla fine non vanno oltre l’1-3% dell’elettorato o, alternativamente, si scontra contro l’immobilismo cronico dei grandi partiti (che dominava  la DC ed il PCI, e adesso  il PD).
 
In America, i partiti minori (i verdi o i libertari) sono marginali e resteranno tali, mentre i grandi partiti hanno dimostrato nella storia di cambiare profondamente la loro natura in tendenze diverse: il partito repubblicano (il partito di Abraham Lincoln) si è spostato sempre più a destra, mentre il partito democratico (che nell’800 era di destra), a partire dalla Depressione degli anni ‘30 e ancor pìù dal movimento dei Diritti Civili negli anni ’60 è divenuto sempre più progressista, anche se con molte contraddizioni.  Oggi come oggi, il partito democratico deve decidere se è ancora il partito della “terza via” (alla Bill Clinton e Tony Blair, molto vicino al nostro Renzi), o un partito decisamente progressista, alla Bernie Sanders e alla Elizabeth Warren. Durante le elezioni, Hillary Clinton si è gradualmente spostata dalle posizioni del marito a quelle dell’area progressista, ma lo ha fatto con ritardo e con toni non sufficientemente convincenti, per lo meno così sembra essere, dato il risultato elettorale.    La prospettiva di un terzo partito in America, a volte auspicata da alcuni osservatori politici, non ha alcuna possibilità realistica. E direi, a questo punto, meno male. Negli Stati Uniti è possibile trasformare il partito democratico senza distruggerlo, e garantire così un peso elettorale globale. Mi chiedo se ciò sarà mai possibile al PD italiano. Non sembra.
 
Ma torniamo all’effetto Trump. C’è una reazione dilagante alla sua presidenza che forse corrisponde a quella che evoca in qualcuno la “speranza” per un effetto positivo come reazione all’impatto depressivo che potrebbe apparire la conseguenza naturale dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca.  Non c’è riunione popolare, le famose “town-hall meeting” di lunga tradizione americana, ove parlamentari repubblicani non vengano subissati da una valanga di proteste non solo di democratici ma addirittura di alcuni “elettori di Trump” che chiedono il rendiconto, viste le decisioni contraddittorie di Trump sin dai primi giorni.
 
Il New York Times, il Washington Post e la CNN sono concentrati in una corsa competitiva per sapere cosa succede alla Casa Bianca con scoop giornalistici che ci ricordano i tempi di Watergate e di Richard Nixon, mentre le conferenze stampa della White House vengono sempre più ignorate perché considerate solo momenti di propaganda governativa. È sintomatico come la decisione della Casa Bianca del 24 febbraio di escludere alcune testate nazionali ed estere (CNN, New York Times, Los Angeles Times, Politico, Washington Post, BBC, The Guardian, ed altre) da una conferenza stampa, se da un lato è indice di un certo panico comunicativo della nuova presidenza americana, mostri anche quanto agguerriti i media siano divenuti rispetto alle insensatezze decisionali ed alle profonde contraddizioni della nuova amministrazione.
   
La componente progressista del partito democratico, a partire da Elizabeth Warren e Bernie Sanders (che adesso si considera parte del partito, e non più indipendente), ma anche attraverso la nuova coppia Perez/Ellison alla presidenza e vice-presidenza del partito, sta in prima fila nel movimento di protesta, che adesso ha un nome ufficiale: “Resistenza" con l’intento di portare un’ondata di rinnovamento e di impegno politico in tutti i distretti elettorali del paese. 
 
Robert Reich, ex ministro del lavoro del primo governo di Bill Clinton e da allora osservatore critico delle politiche sociali (è un professore universitario, ed è stato grande sostenitore di Bernie Sanders alle primarie dell’anno scorso) pubblica un bollettino giornaliero della “Resistenza”, con analisi chiare e spietate, con grande seguito di pubblico, e promuove una campagna da un titolo simbolico, “Move-on”.
Nel frattempo, Trump continua a far disastri, per esempio sui temi dell’immigrazione, dei rapporti con Israele, nella scelta dei suoi ministri nel suo Cabinet, nella scelta della sua proposta per la Corte Suprema, nelle sue ambiguità nei riguardi dei suoi rapporti con Putin e con la Russia, e nei rapporti con i media.  Le sue contraddizioni politiche stanno appena emergendo, anche nelle fratture tra quello che lui sbandiera negli incontri con la sua base elettorale, molto compatta nel sostenerlo, e un numero crescente di membri del suo governo, che cercano di attutire i toni sbilanciati e radicali del loro capo supremo con posizioni più sfumate e diplomatiche.
 
Chi vivrà vedrà. Se quindi la reazione a Trump suscita qualche speranza per un cambiamento radicale nel partito democratico (quella che in Italia si chiamava ‘sinistra’), affinché si riesca a stabilire un contatto più diretto con i veri problemi sociali del paese, la reazione dei repubblicani, anche quelli moderati, è ambigua: da un lato i sostenitori di Trump hanno rafforzato la loro aggressività; dall’altro i repubblicani ed i conservatori in generale vogliono sfruttare il loro dominio al Congresso e alla Casa Bianca per fare passare tutta una serie di misure che con Obama non sarebbero mai passate, e sono disposti a mandare giù qualsiasi rospo che Trump gli propone pur di portare avanti la propria agenda. Il recente incontro tra Trump ed il CPAC (Conservative Political Action Conference) conferma la convergenza sostanziale tra gli intenti del neo presidente americano (nonostante le sue esagerazioni verbali e le sue uscite eterodosse) e la linea politica sempre più conservatrice che ha dominato il partito repubblicano sin dai tempi di Ronald Reagan.
 
Perciò la logica che la reazione a Trump possa generare speranza per il futuro, facendo prendere coscienza all’opposizione per fare ciò che non è finora riuscita a fare, sta dando qualche risultato qui in America, ma non sarei così certo del risultato finale, anche perché la forza della destra conservatrice non va sottostimata.
In Italia il fenomeno Berlusconi durò ventanni, con alti e bassi, e logorò l’opposizione di sinistra anziché stimolarla. È vero che è comparso il fenomeno del M5S, ma la sua involuzione a destra e verso il populismo conservatore non incoraggia certo prospettive illuminate.
 
Ma la teoria sull’effetto ‘benefico’ Trump potrebbe essere interpretata in modo più estremo.  Più danno fa Trump, e maggiore potrebbe essere la presa di coscienza e quindi il desiderio di rivolta. Starei attento a prendere questa ipotesi in modo troppo letterale. Molti movimenti extra parlamentari italiani negli anni 70 adottarono questa ottica: la rivoluzione, intesa come proteste allargate a tutti i settori della società italiana ed occasionalmente anche appoggiate da qualche intervento violento, era da molti evocata non perché avesse qualche probabilità di successo, ma perché si sperava in una reazione repressiva della destra di tale violenza da dare coscienza al proletariato e agli oppressi che la rivoluzione era l’unica risposta valida.
 
Sappiamo che non andò proprio così.  La reazione repressiva ci fu ma non fu della destra più estrema, ma del centro maggioritario, con una convergenza della DC e del PCI verso il centro, con grande appoggio popolare. E i rivoluzionari si misero il vestito borghese della rassegnazione, trovando nicchie varie per lavorare ed avere un successo personale. Di quella rivoluzione non è rimasta neanche l’ombra. C’è il rischio di fare una cosa analoga con l’effetto Trump?
In generale, io non sono favorevole all’approccio “tanto peggio tanto meglio”: le reazioni positive alle idiozie di Trump, i cambiamenti necessari alle politiche sociali ed economiche, non hanno bisogno che la società sprofondi raggiungendo il fango del pozzo, quando ormai non c’è più niente da fare. Non credo che ci sarà una rivoluzione, ma spero che ci siano reazioni sufficienti per cambiare pagina. Per questo spero che gli Stati Uniti possano recuperare sin dalle prossime elezioni intermedie del 2018 il terreno perduto con le elezioni del novembre passato. E così spero che anche in Italia ed in Europa, i movimenti ed i partiti progressisti trovino la forza di cambiare senza distruggersi, aggregando forze nuove e cambiando in senso positivo il loro ruolo in una società ed in un mondo che cambiano in continuazione.
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