ITALY n° 4 - da Sofia Immerego

Che schifo, ancora una notizia di schifo. Ci sono volte che la nausea mi assale a tal punto che penso di farla finita. Basta basta  basta. Finché la vita compensa con morsi improvvisi di miele, sorsi di felicità strappata al tessuto continuo di dolore e noia e nonsenso che scorre sul lento monotono inesorabile nastro trasportatore delle mie giornate, ancora ancora ce la faccio a reggere, a non buttarmi di lato e di sotto, ma certe volte, come questa, vorrei essere così agile di mente e pronta di reazione   da fare il gran tuffo senza pensarci due volte.

 Oggi c’è quella del magistrato, quello che teneva (tiene?) dei corsi privati di preparazione per i giovani laureati in legge aspiranti magistrati. Una foto sbiadita esplode sullo schermo TV (rubata?): forse una discoteca, tavolino  al centro, a destra e sinistra quattro belle ragazze sedute con bicchieri in mano, sexy, scosciate quale più quale meno  ma tutte sexy, a capotavola un giovanotto ridente eccitato faccia da pinocchio occhi lucidi ammiccanti. Le facce delle ragazze sono oscurate, quattro nuvole bianche indistinte, quattro nebbie mattutine ma di coscia lunga e tacco dodici. Che schifo, mi si sta rivoltando lo stomaco, quello mio, ma anche quello dei miei antenati e discendenti. E vabbè, Sofia, mo’ che è ‘st’esagerazione? Direte voi.

E’ che a casa mia sono tutti magistrati, ovvero, uno lo è, gli altri lo erano. E questa notizia mi rode assai. Anzitutto la accenno, la notizia, nel caso che qualcuno che legge questa pagina dovesse averla persa tra i vari notiziari di ieri e l’altro ieri: il magistrato si chiama Francesco Bellomo ed è un Consigliere di Stato, cioè membro di uno dei due  organi  di giustizia amministrativa dello Stato Italiano di cui l’articolo 100 della Costituzione definisce le funzioni : “ Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione. La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato.” Non so se mi spiego, signori: tutela della giustizia dell’amministrazione, controllo di legittimità sugli atti del Governo e (…) sulla gestione del bilancio dello Stato. Roba seria, dunque, roba da perderci il sonno, roba da culi pesanti, di quelli che non si staccano dalle poltrone non per affezione al potere, ma per mole di competenze e gravità del lavoro. Gente pallosissima, almeno quando, da bambina e ragazza, in quell’ambiente ci vivevo dentro.

Sì perché il mio papà, che a ventun anni si era laureato in Legge nel profondo Sud, era migrato al Nord poco prima della guerra, aveva fatto il concorso al Ministero dell’Aeronautica, poi era finito in Africa da cui si era salvato solo per il tempestivo decesso di suo padre e conseguente licenza per motivi di famiglia, che lo aveva fatto rientrare in Italia mentre la sua divisione veniva massacrata, poi aveva fatto il concorso alla Corte dei Conti, lo aveva vinto , ma poi (ancora?!), non amando quel tipo di lavoro, aveva fatto il concorso al Consiglio di Stato, e aveva vinto anche quello. Figlio di un oscuro ma severissimo preside calabrese, non aveva santi in Paradiso ma una bella testa sì e, immagino, una grande tenacia. Da bambine eravamo abituate a considerare la porta del suo studio come qualcosa di sacro e inviolabile, e la frase più frequente di mia madre era “Ssssst, papà sta lavorando!”. Mia sorella ed io siamo cresciute sottovoce. E a Natale, molti anni più tardi, non protestavamo nemmeno più quando nell’ingresso rimanevano bloccati, intatti, i pacchi dono pieni di ogni ben di Dio, che venivano rispediti invariabilmente ai mittenti tramite una ditta di recapiti appositamente assoldata dal nostro inflessibile genitore. Ai congressi giuridici, dove ogni tanto ci portava in sostituzione della mamma, conoscemmo i suoi colleghi, pochissimi giovani, la maggior parte uomini maturi, tutti gentili e compassati, completi grigi, spalle curve, voci basse, pochissimo sex appeal, donne nemmeno una. Mio padre ce ne indicava alcuni con ammirazione: quello è Tizio, un genio del diritto, quello è Caio, ha pubblicato di recente…, quello è un’autorità in materia… Di onestà non si parlava, perché era la condicio sine qua non, era sottintesa. Ricordo ancora un episodio che mi colpì moltissimo per la stretta mescolanza tra ruolo pubblico e vita privata che predominava ai tempi nel giudizio sulle persone: un consigliere di cui frequentavamo la famiglia (aveva una figlia  nostra coetanea) conobbe, nel ministero dove ricopriva l’incarico di capo di gabinetto, una funzionaria con cui intrecciò una relazione adulterina, che lo spinse a separarsi dalla moglie. La cosa si riseppe, grande fu lo scandalo e il presidente del Consiglio di Stato iniziò una procedura disciplinare per cui il consigliere fu costretto a dimettersi. Erano gli inizi degli anni ’70!  Gli unici di cui mio padre   parlava malvolentieri erano i suoi colleghi  di nomina politica, perché allora una minima percentuale dei 60 consiglieri del Consiglio vi era entrata non per concorso magrazie a nomina, ufficialmente in base a motivazioni legate a  particolari competenze o servizi resi allo Stato. Dei paria, guardati con sospetto, quando non con malcelato disprezzo, dai monumenti viventi che vi erano entrati dalla porta principale, un concorso di difficoltà estrema, pari solo a quello dei notai. Oggi, a quanto mi riferiscono persone dell’ambiente, il Consiglio di Stato è nella stragrande maggioranza occupato da “nomine politiche”, altro che monumenti del diritto e pacchi dono rimandati indietro!”

Poi c’è mio figlio, che in quello che era lo studio del nonno, morto quando lui aveva appena un anno, ha passato tre anni terribili a preparare il proprio concorso in magistratura. Lui appartiene alla generazione che era all’università ai tempi di “mani pulite” e Borrelli e i suoi sono stati i suoi modelli di riferimento. Di quei tre anni di studio post laurea, come direbbe Leopardi “matti e disperatissimi”, io ricordo la sua schiena curva. Ai tempi di mio padre la sacra porta era sempre chiusa, ma mio figlio invece la teneva aperta, ed io mille volte sono passata nel corridoio e ho visto quella schiena curva sulla scrivania, ferma per tutta la giornata. Mio figlio era un tipo sportivo e vivace. In quegli anni diventò pallido, flaccido, la sua miopia si aggravò. Non potevo più vederlo, soffrivo quasi di una claustrofobia indiretta, gli dicevo esci, fa’ una pausa! Macché. Superò negli stessi mesi  gli scritti di magistratura e avvocatura, poi cominciò a preparare gli orali, i cui programmi  in parte coincidevano. Quando era a metà del programma di magistratura gli arrivò l’orale di avvocatura e ci andò, “tanto per provare”, disse. Lo superò e continuò a studiare, un anno ancora, e poi arrivò, finalmente, l’ultimo esame. Era ridotto uno straccio: mio marito, che non era, di solito, materno, gli disse “Ti accompagno”, e lui non ce la fece nemmeno a dire di no, tanto era stanco.

E’ questo che mi fa davvero, profondamente incazzare, che mi fa vomitare. Quando ho visto la foto di ‘sto tizio con le donne scosciate ai suoi fianchi ho rivisto la schiena di mio figlio, e lo sguardo fermo e sereno di mio padre. Perché questo signore, non pago del lauto stipendio percepito dai consiglieri di Stato, ha messo su una  scuola di preparazione per gli aspiranti al concorso in magistratura che ha addirittura tre sedi, Roma Milano e Bari, e fin qui nulla di illegale. Poi però arriva la denuncia di un padre che apre il sipario  su una serie di vicende che hanno dell’incredibile. Qualche giorno dopo la notizia diffusa dai media, una giovane avvocatessa che a suo tempo ha frequentato  uno di questi corsi, riferisce in modo estremamente dettagliato e preciso circostanze e fatti analoghi a quelli denunciati dal padre  di cui sopra. Ma non basta. Nei giorni successivi all’intervista televisiva dell’avvocatessa, altre ex studentesse dei corsi confermano quando vissuto in prima persona. Ma che cosa avrebbe fatto il signore in questione? Avrebbe fornito alle aspiranti donne una serie di “regole” da seguire per vincere il concorso stesso, regole basate in particolare sull’aspetto fisico, l’appeal sessuale, la disponibilità a prestazioni “extra”, ecc.  e le avrebbe sottoposte a “prove” particolari passando così dalla teoria alla pratica. Se tutto questo fosse confermato dall’inchiesta giudiziaria che è stata aperta, la cosa tragica non sarebbe  che un mentecatto maniaco sessuale si inventi una  buffonata oscena per procurarsi  donne ad ogni costo. La cosa tragica sarebbe  che la sua “scuola” sia andata  avanti, che ci siano ragazze aspiranti magistrate che continuino a frequentarla, che ci siano, forse, magistrate che sono diventate tali in ragione di “regole” innominabili, il che fa pensare che ci siano altri magistrati facenti parte delle commissioni di concorso che queste “regole” le possano adottare come criteri di valutazione dei candidati in sede d’esame… Uno scenario da film dell’orrore.

Io, che non sono credente, ho della Giustizia un concetto sacro. La comunità è umana solo nel momento in cui in essa vige la Giustizia davanti alla quale tutti gli uomini siano considerati uguali. Una Giustizia concreta e non solo teorica, un Giustizia (ancora) imperfetta ma tendente per sua stessa natura alla perfezione. Al di fuori di questo cerchio magico regna il caos, regnano la prepotenza e la sopraffazione del più violento, il cinismo irridente del più malvagio e l’arroganza del disonesto, regna l’arbitrio del più vizioso, la crudeltà del più sadico, regna il cieco piacere della perfidia. Al di fuori del cerchio illuminato dalla Giustizia regna l’inferno. I legislatori che fanno le leggi giuste, i magistrati che applicano quelle leggi svolgono per me  funzioni più sacre di qualsiasi  altra, perché creano un mondo in cui è possibile vivere con la dignità di essere umani. O almeno ci provano. Questo personaggio balzato all’improvviso agli onori della cronaca, ma su cui già un anno fa è stato aperto un fascicolo di indagine dalla procura di una città del Nord, se avesse fatto solo la metà delle cose di cui viene accusato dalle sue ex(studentesse) avrebbe prodotto fango ed escrementi in luoghi ed occasioni deputati alla formazione di persone che, per definizione, dovrebbero essere i soggetti attivi di funzioni di massima importanza per lo Stato e i portatori per eccellenza di valori fondativi della nostra società.

A meno che la mia fede nella Giustizia e le mie speranze siano vane ed avesse ragione l’altro magistrato della mia vita, che era mio nonno: napoletano, nato nel 1886, aveva quarant’anni quando la moglie di trentasette morì all’improvviso, lasciandolo solo con tre figlie di diciassette, sedici e nove anni, mia mamma. Ma un colpo della sfortuna non bastava: era anche il 1926, anno in cui il regime fascista consolidava il suo potere in Italia e dettava (anche lui!) le oscene regole che dovevano cambiare la vita della popolazione, riducendola a un branco di fantocci consenzienti. Tra queste, l’obbligo, per i funzionari dello Stato, di possedere la tessera del Partito Fascista per poter esercitare il proprio ruolo. Ma mio nonno era ‘na capa tosta, come dicono a Napoli, e credeva fermamente che un giudice non doveva dipendere da nessuno, per interpretare ed applicare la legge senza condizionamenti. Perciò quando gli chiesero perché non avesse la tessera, glielo disse, il motivo, al funzionario di turno. E quando lo spedirono in Sardegna, che a quei tempi non era una passeggiata, giovane vedovo con tre ragazzine vestite a lutto   al seguito, non fece una piega, e ci rimase sette anni. Ma poi arrivò la guerra e lui poté tornare e finire la sua carriera in un’Italia diversa, piena di speranze di rinnovamento. Eppure, ottantenne, fece in tempo a trasmettere a noi nipoti ragazzine, attente e un po’ perplesse, un messaggio che ripeteva spesso, sottovoce, come se ci rivelasse un segreto inconfessabile: “ ’A giustizia è ’na bilancia scassata! Solo i poveri pagano!”

Succederà anche questa volta?

DESIGN BY WEB-KOMP