IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO (III)

                                                                                                                                   (parti: I - II)

di Massimo D’Angelo

  • SULLA “CRIMINALIZZAZIONE” DEGLI IMMIGRANTI IRREGOLARI
  • Dalla sicurezza nazionale alla criminalizzazione dell’immigrazione irregolare

Diciamolo chiaramente. Nei paesi occidentali prevale la preoccupazione di fermare l’immigrazione irregolare per garantire la sicurezza nazionale, più che occuparsi di rendere l’immigrazione più sicura e tranquilla. Naturalmente, alcuni governi si mostrano premurosi per i rifugiati, anche se con reticenze, o enfatizzano quanto generosi siano i loro paesi quando salvano vite umane in mare o accolgono profughi.  È giusto riconoscere questi contributi, anche se un po’ autorefenziali, ma la storia sull’accoglienza non si esaurisce in pochi aneddoti a lieto fine. La sostanza è che i flussi migratori sono visti, in primo luogo, come una minaccia alla sicurezza nazionale, anche se non c’è un legame inevitabile tra i due. Non tutti condividono questa preoccupazione. C’è chi chiede aperture all’immigrazione, ma forse sono solo una minoranza, anche se significativa. Gli umori popolari verso l’immigrazione sono spesso più negativi di quelli dei loro rappresentanti, con qualche eccezione, quando sono gli orientamenti negativi dei governi a forzare la mano in senso repressivo. Un esempio? L’amministrazione Trump.

In questa contesto, possiamo immagirare un percorso logico per definire le priorità delle politiche d’immigrazione dominato da misure di contenimento,[1] anche se attenuate da politiche alternative, [2] che seguirà una triangolazione tra tre elementi concettuali: (i) la necessità assoluta di garantire la “difesa della sicurezza nazionale”; (ii) riconoscimento della “minaccia che l’immigrazione irrregolare esercita alla sicurezza nazionale”; e (iii) accertamento dell’urgenza di “reprimere i crimini” connessi con l’immigrazione irregolare come minacce tangibili. 

Il primo elemento di questo triangolo non richiede spiegazioni. Nessuno negherebbe l’importanza di difendere il proprio paese da minacce militari, spionaggio, terrorismo, traffico illegale di risorse finanziarie e di persone.  Il problema è il secondo elemento: ipotizzare che l’immigrazione irregolare sia una minaccia alla sicurezza nazionale non è così scontato. L’immigrazione irregolare – come fenomeno sociale, economico e politico, che riguarda milioni di persone che lasciano il proprio paese con i loro problemi, motivazioni, speranze e potenzialità, fuggendo da tragedie umane, povertà, violenza, fame, e disperazione –  non è necessariamente una minaccia alla sicurezza del paese destinatario. Può essere vista anche come contributo positivo a quella società. Affinché l’immigrante irregolare si trasformi in minaccia, è necessario introdurre un’ulteriore ipotesi: supporre che immigrazione irregolare equivalga a importare criminalità. Chiamo questa ipotesi la “criminalizzazione dell’immigrazione irregolare”.  L’immaginario collettivo infatti può ignorare la dimensione umana e sociale dell’immigrazione irregolare per rimpiazzarla con la nozione di una immigrazione clandestina strettamente legata a “reati” e ad “attività criminali”, in qualche modo causati dal flusso migratorio. Se accettiamo questa ipotesi, l’immigrazione irregolare diviene una minaccia alla sicurezza nazionale da cui difendersi.

Dall’accettazione di questa sequenza logica deriva la necessità impellente di adottare misure che “contengano”, “respingano”, e“reprimano” l’immigrazione irregolare, perché solo così si difendono le frontiere, anche se queste misure non si sono dimostrate efficaci. Infatti, i flussi migratori continuano ad arrivare nonostante i respingimenti.

Molti potrebbere dire che sto esagerando nella stigmatizzazione della retorica della difesa della sicurezza nazionale, collegandola con la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare. L’obiettivo dei governi, si potrebbe obiettare, non è la criminalizzazione di persone innocenti ma la “difesa della legalità” e la “normalizzazione” del processo migratorio. Alcuni governi si dichiarerebbero addirittura favorevoli all’immigrazione, anche se in realtà questo si applica solo a quella “regolare” (e questo è da dimostrare), e potrebbero concludere che la loro unica preoccupazione è la protezione del territorio nazionale da pericoli esterni. In realtà, le politiche d’immigrazione sono spesso presentate come un ibrido nebuloso di misure di contenimento e di accoglienza, per rispondere ad un elettorato che ha posizioni contraddittorie in materia.  Tuttavia, le loro dichiarazioni pubbliche continuamente ribadiscono la preoccupazione per la difesa della sicurezza del paese, anche se alcuni osano parlare anche di “immigrazione e accoglienza” o addirittura di “immigrazione e integrazione”. Ma anche i governi che sono più aperti all’immigrazione considereranno questa preoccupazione per la difesa della sicurezza nazionale necessaria per tranquillizzare l’elettore “medio”, assicurando che la priorità assoluta è la tutela del cittadino. E per questo verranno intensificati il reclutamento delle forze dell’ordine, i controlli ai confini e nelle strade, la protezione da chi ruba, uccide, ferisce, stupra, vandalizza, sporca e denigra il territorio nazionale. “Sicurezza in primis.

Si possono individuare tre tipi di tentativi di criminalizzare l’immigrazione irregolare:

  • Considerare il soggiorno illecito nel paese di destinazione finale come un vero e proprio reato;
  • Presentare gli immigranti irregolari come (potenziali) criminali (comuni);
  • Promuovere azioni repressive nei confronti di una serie di attività criminali associate al processo di immigrazione. Questi reati si articolano in due sottogruppi: (a) reati commessi durante o dopo l’ingresso nel paese a danno degli immigranti da “terze persone”; e (b) l’attività dei trafficanti di immigranti, responsabili dell’organizzazione e della facilitazione del viaggio migratorio.

In questa Parte III, mi concentrerò sui primi due tentativi, che considerano gli immigranti irregolari come “criminali”. Nella Parte IV affronterò il terzo tentativo. 

  • ‘Criminalizzazione’ formale e criminalizzazione ‘de facto’ dell’immigrazione irregolare

Il primo tipo di tentativo di criminalizzare l’immigrazione irregolare è quello che chiamo criminalizzazione “formale”: inclusione di un nuovo reato fra le leggi vigenti che consideri il mero attraversamento illecito del confine nazionale o il soggiorno nel paese senza le dovute autorizzazioni come un crimine formale, e punibile in quanto tale. Basta la mera adozione di una legge o di una misura con analoga forza, come decreti leggi, decreti legislativi, circolari o direttive, come è possibile in Italia, o gli “executive orders” del Presidente degli Stati Uniti.  È il modo più diretto per criminalizzare l’immigrazione irregolare. Non richiede alcuna speciale comportamento da parte dell’immigrante né circostanze particolari. È sufficiente che l’immigrante irregolare si comporti come tale e si trovi entro i confini nazionali, senza che abbia commesso altri crimini.  Questa condizione è sufficiente per giustificare misure repressive come la detenzione e l’espulsione forzata.  A questo punto, l’immigrazione irregolare cessa di essere un’ “infrazione amministrativa” (se era considerata tale in precedenza).

Questo è quello che è avvenuto in Italia con l’adozione della legge n. 189 del 30 luglio 2002 (c.d. legge Bossi-Fini),[3] che modificò le procedure d’espulsione previste dalla legge Turco-Napolitano, rafforzando il respingimento e il rimpatrio obbligatorio e dando rilevanza penale all’immigrazione irregolare. Quelle disposizioni furono rafforzate e confermate nel «Pacchetto sicurezza» del secondo governo Berlusconi, che sancì l’inserimento del reato di immigrazione «clandestina» nel testo unico sull’immigrazione (art. 10-bis), che può essere giudicato con rito direttissimo dal giudice di pace.  La criminalizzazione “formale” intensificò la retorica della difesa della sicurezza nazionale, come operazione di vera propaganda politica, e mandò un chiaro messaggio, non tanto agli immigranti, quanto agli elettori del centro-destra, anche se non alterò la dinamica dell’immigrazione in Italia. Con l’arrivo del centro-sinistra, ci fu un’inversione di tendenza e, con l’approvazione nel 2014 della legge sulle pene detentive non carcerarie e la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili (legge n. 67 del 2014), si arrivò in sostanza all’abrogazione del reato di ingresso e di soggiorno illegale in Italia, trasformandolo di nuovo in illecito amministrativo. Resta però il divieto di reingresso di immigranti irregolari dopo l'espulsione, che è un reato penalmente sanzionabile. Persiste, perciò, una coda a questa criminalizzazione “formale” in quanto, se l’immigrante irregolare espulso rientra in territorio italiano, l’irregolarità del suo soggiorno acquisisce rilievo penale. Si tornerà alla piena criminalizzazione “formale” dell’immigrazione irregolare in Italia dopo i risultati elettorali del marzo del 2018? Difficile prevederlo, visto l’attuale quadro politico, anche perché un simile cambiamento richiede l’approvazione del Parlamento. 

La criminalizzazione “formale” dell’immigrazione irregolare non è frequente, poiché normalmente lo stato irregolare dell’immigrante viene considerato un’infrazione amministrativa, anche se la severità con cui viene colpita fa pensare più ad un vero e proprio reato pur non avendone il nome.  Anche quando è un’infrazione amministrativa, essa normalmente prevede pene severe, fino alla detenzione carceraria (in alcuni paesi), e altre misure fortemente repressive, fino all’ordine di espulsione, che non sono molto diverse da quelle previste per attività criminali. In pratica la differenza tra criminalizzazione ‘formale’ e criminalizzazione ‘de facto’ dell’immigrazione irregolare è quasi esclusivamente semantica. Il peso delle misure repressive adottate è molto simile, se non identico, e sono percepite, sia dagli immigranti che le subiscono che dai cittadini che ne sono testimoni, come repressione di attività criminale.

Quindi la vera criminalizzazione dell’immigrazione irregolare non consiste tanto nel riconoscimento dell’esistenza di un “reato” formale di immigrazione clandestina quanto nel fatto che, sostanzialmente, gli immigranti irregolari siano trattati come veri criminali solo per soggiornare nel paese d’immigrazione senza le dovute autorizzazioni.  Ne è prova l’adozione di tutta una serie di misure repressive nei loro confronti: arresti, detenzioni, monitoraggi “elettronici”, retate, riduzione della libertà di movimento, controlli incrociati con polizie e agenzie di intelligence internazionale, come il trattenimento presso i Centri di Detenzione statunitensi o i CIE italiani, ove la detenzione è spesso discrezionale.

  • L’immigrante irregolare come “pericolo sociale”

La detenzione degli immigranti irregolari non è normalmente obbligatoria, ma è spesso lasciata alla discrezionalità delle forze dell’ordine. In alcuni casi, i centri di detenzione o le autorità pubbliche da cui questi centri dipendono (per esempio il questore, in Italia, o l’Immigration and Customs Enforcement - ICE negli Stati Uniti) li rilasciano con permessi permanenti o temporanei, sulla base di varie giustificazioni, ma anche con una certa imprevedibilità e con una discrezionalità che varia da un paese all’altro, e nello stesso paese, da un governo all’altro.

Si sono sollevate – sia in Italia come negli Stati Uniti o in altri paesi – obiezioni sulla legittimità di queste forme detentive, considerate come misure precauzionali, visto che sono vere privazioni della libertà personale in assenza di reato. Come si può essere arrestati per infrazioni amministrative? A dire il vero, sanzioni amministrative possono portare alla detenzione in carcere a determinate condizioni (per esempio, comportamenti recidivi, ma questo dipende dalle leggi del paese).  In Italia, l’art. 13 della Costituzione pone garanzie contro la riduzione della libertà personale, che può essere giustificata solo in casi eccezionali con “atto motivato dall’autorità giudiziaria”. Tuttavia, la nostra stessa Costituzione non esclude che le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrrere a provvedimenti di limitazione di tale libertà in caso di necessità e di urgenza,[4] decidendo – attraverso una valutazione abbastanza imprevedibile e tutto sommato soggettiva –esclusivamene sulla base della presunta pericolosità sociale e del rischio di fuga dello straniero che si potrebbe sottrarre dal provvedimento d’espulsione.

I centri di detenzione americani o i CIE hanno una popolazione di “ospiti” molto mista. Ci sono persone altamente “sospettabili” in base a presunti trascorsi penali, ma anche persone che hanno solo una colpa accertata: sono entrate nel paese senza le dovute autorizzazioni. Spesso ciò che conta sono le informazioni raccolte nelle prime ore dopo il loro ingresso nel paese (per esempio, durante la “pre-registrazione” compiuta negli Hotspot italiani subito dopo lo sbarco o dopo aver attraversato il posto di frontiera ed essere trattenuti dal funzionario dell’immigrazione). E quanti malintesi sorgono, quante valutazioni superficiali vengono effettuate, e quante ingiustizie vengono commmesse in quelle prime ore, con conseguenze pesanti per gli immigranti coinvolti.

Ci si aspetterebbe che la detenzione si applichi più che altro agli immigrati con elevati rischi di pericolosità legata alla probabilità di commettere reati comuni (contatti con criminalità organizzata, o con reti terroristiche, o aver commesso reati specifici). Ma molti di questi soggetti probabilmente sono stati già “trattenuti” presso strutture carcerarie. Solo una percentuale degli “ospiti” dei centri per immigrati appartiene a quel gruppo. La stragrande maggioranza ha commesso solo un “atto illegittimo”: hanno infranto le leggi d’immigrazione, e non necessariamente sono isolati dagli “ospiti” più pericolosi.  Non è il genere, né l’età, né la nazionalità dell’immigrato che definisce chi deve essere detenuto. Né l’esistenza di provati precedenti penali o consistenti sospetti di attività criminali.  Negli Stati Uniti, ove a volte i detenuti vengono rilasciati in libertà provvisoria dopo il versamento di cauzione pecuniaria, sono in primo luogo gli immigranti che non si possono permettere di pagare la cauzione che rimangono nei centri, magari  perché non sono riusciti a entrare in contatto con parenti o amici.  

La detenzione o qualunque altra misura repressiva applicata all’immigrante irregolare che entra in contatto con le autorità si basa solo su di una circostanza: la presunzione che l’immigrante irregolare sia un pericolo pubblico per la nazione, una vera minaccia alla sicurezza nazionale senza bisogno di dimostrare questo stato di pericolo con riferimento ad alcun crimine specifico. È per questo che la detenzione spesso è molto lunga, anche se dovrebbe essere solo temporanea.[5] Ma a volte vengono rilasciati, magari per periodi limitati, forse dietro pagamento di cauzioni monetarie, o con altre condizioni sospensive, ma c’è il “rischio di fuga”.  Per evitare la fuga, negli Stati Uniti spesso debbono portare “braccialetti” elettronici alle caviglie – gli “shackles” (le “catene”) – che li rendono più facilmente ubicabili. Quante volte ho viste donne di tutte le età, convocate da un tribunale americano per l’immigrazione, presentarsi con questi “shackles” alle caviglie!  Ho chiesto ad alcune di loro da quanto tempo lo portavano. “Nove mesi. Non lo posso mai togliere.  Devo caricare la batteria ogni giorno, mettendo il piede vicino ad una presa della luce. Se la batteria si scarica, arrivano subito gli agenti dell’ICE per verificare se ho tentato la fuga.” Come ti senti a portare il “braccialetto”? “Mi vergogno. La gente pensa che sia una ladra, una criminale. Debbo farmi la doccia col “braccialetto”, e a volte mi fa male, mi fa irritazione, ma non posso levarlo.” 

Lo scopo di questi “braccialetti” è chiaro nel caso di un criminale comune in libera provvisoria. Se fugge, c’è il rischio che ripeta lo stesso crimine: un ladro può continuare a rubare; un omicida sanguinoso può uccidere ancora; un pedofilo può minacciare altri bambini. Occorre controllarne i movimenti. E per l’immigrante irregolare? Potrebbe continuare ad essere un immigrante irregolare. Non c’è proporzionalità tra la gravità di queste misure e la qualità dell’illecito che ha commesso. Gli immigranti rilasciati dall’ICE subiscono costrizioni alla libertà di movimento come se si trattasse di criminali in libertà provvisoria o agli arresti domiciliari. Sarei tentato di concludere che è la severità stessa delle misure di repressione che, trattando gli immigranti come criminali, definisce la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare. Siamo riusciti a criminalizzarli a priori, li trattiamo da criminali, e pertanto sono criminali, nonostante si tratti per lo più di persone in grave stato di bisogno.

  • La “criminalizzazione degli immigranti irregolari”

Questa criminalizzazione “formale” o “de facto” dell’immigrazione irregolare è semplice da concepire, ma non riesce a creare il sostegno popolare di chi si aspetta un grido d’allarme di fronte a questa immigrazione. È una definizione puramente astratta della minaccia esercitata dall’immigrazione irregolare, che non spiega la natura del “pericolo sociale” per la vita quotidiana dei cittadini.  La dà per scontata. Un’ipotesi a priori, una presunzione, assolutamente incapace di generare un sostegno sociale o generare un senso d’urgenza nell’opinione dei cittadini, di cui i governi hanno sempre bisogno per garantire efficacia alle proprie leggi. Per generare questo sostegno occorre personalizzare questa minaccia, rendendo credibile la “pericolosità” dell’immigrante irregolare perché capace di atti criminosi gravi (effettivi, presunti, o attesi). Il primo tentativo di criminalizzazione non riesce in questo, perché “l’aver attraversato la frontiera senza le dovute autorizzazioni” non colpisce l’immaginario collettico.

Il secondo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, invece, non si accontenta della criminalizzazione come fenomeno astratto (l’infrazione delle leggi sull’immigrazione) ma cerca la “criminalizzazione degli immigranti irregolari” come “individui” che probabilmente potrebbero commettere personalmente reati comuni, contribuendo così ad un aumento del tasso di criminalità.

Chi sostiene questa ipotesi non rappresenta necessariamente la maggioranza della popolazione. Né i politici che li rappresentano debbono inevitabilmente sottroscriverla. Ma non c’è dubbio che, dietro le politiche di respingimento sempre più frequenti, esiste una opinione diffusa che la avalla.  A dire il vero, tra chi sostiene questa tesi, c’è anche chi ha posizioni ideologiche ben più estreme, aggiungendo che l’immigrazione irregolare è addirittura una minaccia diretta alla nostra cultura, alle nostre tradizioni, alla nostra religione, alle nostre famiglie, alla nostra identità nazionale o perfino alla nostra identità etnica. Queste ultime preoccupazioni sono di chiara matrice xenofoba e razzista, e per questo non riflettono le politiche di alcun governo attuale (forse con qualche eccezione). Pertanto, mi limiterò qui a considerare l’ipotesi che l’immigrazione irregolare, se non controllata e opposta, produca un aumento della criminalità comune, senza scomodare stereotipi di natura xenofoba e razzista, anche se posizioni più estreme si nascondono nella psicologia individuale di coloro che influenzano le politiche d’immigrazione.

Un modo efficace per sintetizzare questo secondo tentativo di criminalizzazione è l’uso delle parole di Donald Trump durante il dibattito televisivo del 19 ottobre 2016 con Hillary Clinton nelle ultime elezioni presidenziali, ma quelle posizioni non sono molto diverse da quelle espresse da Le Pen in Francia, da Falange nel Regno Unito e da Salvini in Italia, tanto per menzionarne alcuni. L’allora candidato presidenziale americano giustificò la costruzione del muro con il Messico con la necessità di bloccare l’arrivo di trafficanti di droga e di “bad hombres” (uomini cattivi), espellendo “very bad bad people” (gente molto cattiva). Le espressioni di Trump sono rozze e l’uso del sostantivo spagnolo “hombres” è un modo denigratorio per stigmatizzare l’immigrante latino-americano con linguaggio da film western. Ma il significato è ovvio: attribuire agli immigranti lo stereotipo degli “uomini cattivi”, un modo infantile per riferirsi a “criminali”, ribadendo la ratio di questo secondo tentativo di criminalizzazione.

Il problema non è tanto se il legame tra l’immigrazione irregolare e un aumento del livello di criminalità possa essere dimostrato statisticamente (farò qualche richiamo a questo aspetto più di seguito) ma il fatto che questa ipotesi ha un diffuso sostegno popolare, come conseguenza di un esteso senso di insicurezza, di paura, di disagio o addirittura di disprezzo nei confronti degli immigranti irregolari, e pertanto influenza le politiche d’immigrazione.

  • Gli immigranti che commettono crimini e la criminalizzazione degli immigranti

Potrei citare all’infinito aneddoti che confermino o contraddicano questa ipotesi.  Al tempo stesso, non possiamo negare che esiste una delinquenza da parte di stranieri immigrati, sia residenti che appena arrivati, così come esiste una criminalità anche tra i cittadini del paese ospitante. Se un immigrato ruba, stupra, uccide, o infrange il codice penale in altro modo, non merita uno “sconto” dovuto alla sua condizione. Ma la questione è un’altra: possono i massicci flussi migratori essere riassunti soltanto in espressioni quali “invasioni di stranieri che infrangono le nostre leggi” o una “importazione di criminali”?

Ci sono tre aree su cui intendo concentrarmi: (i) relazione tra immigrazione con i reati comuni (contro la proprietà e contro le persone); (ii) la sua influenza sul traffico di droga; ed infine (iii) il possibile legame tra l’immigrazione irregolare ed il terrorismo internazionale. Esaminerò queste tre aree separatamente. Cominciamo dalla prima relazione: sono gli immigranti irregolari una fonte di maggiore criminalità comune? I social media che fanno eco a opinioni avverse all’immigrazione hanno spesso esaltato questo rischio, dando visibilità ad ogni crimine commesso da un immigrante irregolare, che sono continuamente evidenziati sulla stampa ed in TV, non solo e non tanto per la gravità del reato (su cui non si possono fare eccezioni), ma per il fatto che il reato è commesso da un immigrante clandestino. Analoghi reati commessi da cittadini del paese d’immigrazione non hanno la stessa copertura giornalistica: se un borseggiatore strappa una borsa ad una signora buttandola per strada non fa notizia e il fatto non viene riportato in alcun giornale, a meno che non sia un immigrante irregolare. Sembra quasi che nel riportare queste notizie, alcuni media cerchino continua conferma della presunzione che mediamente gli immigranti irregolari commettano più reati dei cittadini.

L’ipotesi contraria, che gli immigranti irregolari possano commettere meno reati dei cittadini, perché così rischiano di essere arrestati ed estradati in qualsiasi momento, non ci sfiora neanche da lontano. Eppure gli immigranti irregolari, come ho potuto constatare parlando con molti di loro, sanno che commettere reati è la strada maestra per accelerare la loro espulsione, ed è pertanto contrario ai loro interessi. Per questo molti di loro sono attenti a non commettere infrazioni di alcun tipo.

Tuttavia molti crimini sono commessi da immigranti, anche reati gravi, e non ci sono scusanti per comportamenti devianti di questo tipo, pur tenendo conto delle povere condizioni socio-economiche in cui molti di loro versano.  Ricordiamo, però, che la maggioranza degli illeciti compiuti dagli immigranti irregolari appartengono al gruppo dei reati minori. Ciò nonostante, anche questi piccoli crimini rinforzano lo stereotipo che sono tutti stupratori, trafficanti, ladri o assassini, generalizzando a tutta la popolazione straniera recentemente immigrata lo stigma della criminalità.

 

 Chi ha ucciso il capo?

Un esempio,[6] poco noto al pubblico italiano, che riguarda gli italiani emigrati negli Stati Uniti, conferma l’ingiustizia di attribuire la colpa per un crimine a chi non ha alcun altro contatto con il criminale se non la nazionalità. Luogo: New Orleans. Anno: 1890. Migliaia di emigranti siciliani tra i più poveri erano arrivati nella Louisiana dopo la guerra civile nel 1865 per sopperire alla domanda di lavoro nelle piantagioni dopo la schiavitù. Gli italiani mostrarono una notevole capacità ed intraprendenza, affermandosi in settori quali quello ortofrutticolo, nelle strutture portuali, e nell’industria perschiera. A New Orleans si era creata la Piccola Palermo, ad immagine della Little Italy di New York e di Boston. Una scalata difficile per chi non conosceva le abitudini locali, con contrasti con altri immigrati, di più vecchia generazione, che si consideravano “nativi”.

Il 15 ottobre 1890, un gruppo di uomini uccise il capo della polizia David Hennessy. Il sindaco, Joseph A. Shakespeare, subito ordinò l’arresto di ogni italiano in circolazione. Le testimonianze della stampa dell’epoca riflettono il clima persecutorio che seguì. Il crimine fu attribuito alla Mafia, legato al tentativo del capo della polizia Hennessy di interferire sulle dispute tra due rivali italiani (Provenzano e Matranga) nel trasporto di ortofrutticcoli, appoggiandone uno. Ciò avrebbe provocato la vendetta della fazione rivale. Ma l’ordine fu di “arrestare tutti gli italiani” che si potevano trovare a New Orleans. Ben 120 italiani furono arrestati: fruttivendoli, manovali, stradini, guardiani notturni, anche uno studente di 12 anni. Molti furono malmenati. Alla fine solo 19 persone, collegate con il clan dei Matranga, furono trattenute, e 9 formalmente accusate. Una sommossa contro gli italiani accompagnò per quattro mesi il processo, con la stampa che alimentava le proteste. L’accusa rivolta agli italiani era di interferire sul funzionamento della vita sociale e politica con cosche mafiose. Nel processo, gli italiani furono presentati come gente povera e oppressa, “scura di carnagione”, nati criminali, violenti e primitivi per natura.

Alla fine, sei accusati furono esonerati con un verdetto di non colpevolezza, mentre per altri tre la giuria non riuscì a concordare un verdetto. Il giudice, inorridito da questa impasse giudiziaria, si rifiutò di rilasciare gli accusati. Una folla inferocita di più di ottomila persone, molte armate, prese la giustizia nelle proprie mani, e pretese il rilascio dei prigionieri: due di loro furono rilasciati alla folla e, dopo essere stati picchiati, furono impiccati su di un albero ed un lampione.  Alla fine della giornata, undici italiani risultarono linciati e fucilati dalla folla inferocita.  Il New York Times uscì con un editoriale dal titolo “Capo Hennessy Vendicato”, pieno di insulti contro i siciliani, “figli di banditi e di assassini”, difendendo chi aveva fatto il linciaggio perché “giustificato e appropriato”.   Gli effetti del linciaggio furono la fuga degli italiani da New Orleans, continuamente molestati dai cittadini. Quando navi arrivavano dall’Italia con nuovi immigranti, gli italiani venivano accolti da sberleffi ed insulti.  I rapporti diplomatici tra i due paesi subirono un congelamento per un anno, specialmente dopo che una giuria scagionò completamente gli autori del linciaggio, descrivendoli come “molte migliaia di cittadini tra i migliori e i più rispettosi della legge”.  La comunità di New Orleans continuò per anni a marginalizzare gli italo-americani residenti nella città, utilizzando sempre la frase “Who Killa da Chief?” (scimmiottando l’accento italiano), a memoria permanente della responsabilità per l’omicidio del capo della polizia occorso nel 1890, attribuita a tutta la comunità di origine italiana.

Alcuni studi sociologici e criminologici hanno esaminato il comportamento di gruppi sociali a seconda delle loro origini, distinguendo cittadini che hanno origini straniere (di seconda o di terza generazione) dagli altri, e sono pervenuti alla conclusione che il tasso di criminalità di ogni gruppo sociale dipende dal grado di integrazione o di marginalizzazione nella società di quel gruppo, e l’appartenenza degli individui a ciascuno di questi gruppi. Fenomeni di ghettizzazione e di disadattamento sociale possono favorire comportamenti criminali. Questi studi non offrono molti suggerimenti sull’immigrazione corrente, perché, anche se i due temi sono collegati, il problema per gli immigranti correnti è se accoglierli o respingerli, mentre nel caso di figli o nipoti di immigranti del passato il respingimento neanche si pone: in tal caso, il tema centrale è la loro integrazione, che è essenziale per il successo del processo d’immigrazione. Finora, però, di integrazione ho parlato ben poco. Ne parlerò in una parte successiva.

Altri studi cercano di verificare correlazioni tra criminalità e sottogruppi di immigranti, quali i rifugiati, per verificarne l’impatto sul tasso di criminalità. La Germania è stato un paese che ha accolto molti rifugiati, provenienti sia dall’est europeo che dal Mediterraneo. Le conclusioni raggiunte, però, non necessariamente si possono applicare agli immigranti irregolari in generale, in quanto questi ultimi possono includere sia richiedenti asilo (potenziali rifugiati) che altri individui.

Molto più interessanti sembrano le analisi per fasce di età. La criminalità infatti varia a seconda dell’età: è generalmente più elevata fra individui in età tra i 20 e i 40 anni, e più bassa per classi di età superiori ai 40 anni, per la minor incidenza di reati quali furto, scasso e rapina tra persone di maggiore età, anche se criminali di qualunque età possono commettere questi reati.  Gli immigranti irregolari hanno una struttura per età che privilegia i giovani. Quindi la probabilità che si annidino tra di loro individui più disposti a commettere crimini è maggiore della probabilità di trovarli in popolazioni meno giovani. Questo approccio permette di arrivare ad altre scoperte. In Italia, è stato riscontrato che la criminalità di immigranti in età tra i 18 e i 44 anni è più alta di quella degli italiani della stessa età,  ma il tasso di criminalità degli immigrati di età più avanzata mostra di essere minore rispetto a quello degli italiani della stessa età.[7] Questa constatazione si presta a considerazioni non irrilevanti sui facili slogan che attribuiscono attitudini criminali a chi entra dall’estero in contrapposizione a chi è cittadino del paese.

Questo mi porta ad altri paragoni. Gli italiani, popolo di emigranti da data ben remota, hanno spesso subito lo stesso stigma, attribuito al ruolo della criminalità di stampo mafioso che ha macchiato l’immagine del nostro emigrante operoso, spesso tacciato di essere un criminale solo per essere un italiano. Stiamo facendo la stessa cosa con gli immigranti irregolari che vengono nel nostro paese?

  • Le evidenze statistiche: segni contraddittori

Non ho intenzione di rivedere qui i numerosi studi condotti su quest’ipotesi.[8] Basta dire che le ricerche partono da premesse molto diverse, seguono approcci e metodologie spesso incomparabili, coprono realtà molto differenti, e sono arrivate a conclusioni a volte completamente opposte. In generale, sono incapaci di dimostrare una relazione causa-effetto tra immigrazione e criminalità. Alle difficoltà metodologiche, si aggiunga il fatto che la base conoscitiva sugli immigranti irregolari è molto debole, mentre più ricca è la qualità di conoscenze sugli immigranti regolari.  C’è infatti il rischio di applicare agli irregolari conclusioni tratte studiando immigranti regolari, inavvertitamente sostituendo l’ipotesi da dimostrare (la “criminalizzazione degli immigranti irregolari”} con una correlazione tra criminalità e chiunque abbia un passaporto straniero, ipotesi molto pericolosa.

Ma guardiamo ad alcuni risultati emersi. Negli Stati Uniti, sembra che non ci sia una correlazione positiva tra immigrazione e criminalità.[9] Anche nel caso in cui si riuscisse a trovare una qualche relazione, si tratterebbe di una relazione estremamente debole, in cui il rapporto di causalità non è per nulla dimostrato.  C’è chi ha dimostrato che la correlazione statistica sia addirittura di segno negativo: che immigrazione e criminalità si muovano in direzione opposta.[10] A conferma si aggiunga l’osservazione comune tra gli immigranti irregolari negli Stati Uniti, che sono costantemente preoccupati di scongiurare problemi con le forze dell’ordine per evitare il rischio di espulsione immediata: infatti il tasso di criminalità degli immigranti valutato in specifiche aree ove essi risiedono è inferiore al tasso medio di criminalità di chi abita nele stesse aree. In altre parole, sarebbero i cittadini ad essere più “pericolosi” degli immigranti in quelle aree. Conclusione analoga fu raggiunta nel Regno Unito in uno studio del 2014 sui reati contro la proprietà (furti e simili) condotto nella zona di Londra,[11] che constatò che gli immigranti, ed in particolare immigranti africani, mostrano di essere significativamente meno propensi dei cittadini britannici che abitano nelle stesse zone ad intraprendere attività criminali, particolarmente furti, violenza e attacchi sessuali, anche se sono più attivi in reati riguardanti il settore “droga”.

Simili risultati sono stati osservati in Canada,[12] ove non è stato possibile dimostrare una influenza significativa dell’immigrazione sul tasso di criminalità, mentre questo stesso indice mostra chiari segni di miglioramento una volta che gli immigranti sono integrati nella società nazionale.  Altrettanto può dirsi della Francia,[13] anche se è stato riscontrato un tasso più elevato di criminalità tra gli immigrati disoccupati (come c’è da aspettarsi). Il problema semmai in quel paese, così come in molti paesi europei ad intensa immigrazione, è il processo di integrazione della comunità di origine straniera, vista l’emarginazione significativa di cittadini discendenti da immigrati del passato. Lo stesso vale per i Paesi Bassi, ove è stato rilevato un tasso di criminalità più elevato tra la popolazione di origine straniera rispetto a quella considerata “nativa”,[14] specialmente nelle fasce di età tra di 18 e 24 anni, con una differenza notevole tra gli uomini e le donne (le quali presentano il tasso più basso di criminalità).

Nel Regno Unito, la percentuale di popolazione incarcerata nelle prigioni britanniche non sembra essere molto influenzata dalla proporzione tra popolazione residente nativa e quella di immigranti.[15] Diversi studi concludono che non ci sono prove che vi sia un impatto causale tra immigrazione e criminalità in Inghilterra e nel Galles.[16] Soltanto con il nuovo millennio si è avuta un’esplosione del 111% degli stranieri denuti nelle carceri britanniche, ma questo non è collegato ad un incremento dei flussi migratori, o ad una loro presunta tendenza a commettere più reati dei cittadini britannici, quanto all’aumento delle detenzioni collegate al traffico di droga (che normalmente è legato ad attività di stranieri).[17] Un aumento è stato rilevato per le detenzioni legate a reati di frode e di falsificazione di documenti governativi, nonché altre infrazioni relative a leggi sull’immigrazione (che rientrano piuttosto nell’ambito del primo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, non collegabile a reati comuni).

In Germania, eccetto per lo spaccio di droga, non risultano particolari diversità nel tasso di criminalità tra popolazione tedesca e rifugiati.[18] Nel 2016, una polemica tra l’allora candidato presidenziale Donald Trump ed il governo tedesco, sulla presunta incidenza dell’immigrazione in Germania sui tassi di criminalità, portò ad una netta risposta del governo tedesco che mostrò che, pur con un aumento del 50% del numero dei reati per i quali erano sospettati rifugiati, richiedenti asilo e immigranti irregolari nel corso del 2016, solo l’1% degli immigranti erano colpevoli, per lo più criminali recidivi,[19] dimostrando la distorsione di generalizzazioni sulla pericolosità degli immigranti irregolari.

Anche in Svezia vi fu un’analoga polemica con Trump che, nel febbraio 2017, affermò che il tasso di criminalità era aumentato in quel paese a causa dell’immigrazione, specialmente per il riportato aumento di stupri commessi da immigranti e da rifugiati.  La dichiarazione fu contraddetta da studiosi svedesi che mostrarono che quelle asserzioni erano estrapolazioni da episodi isolati. In paesi come la Svezia, comunque, la relazione tra immigrazione e criminalità è complessa. Si ha una conferma di un tasso di criminalità maggiore tra gli immigranti rispetto ai cittadini svedesi, specialmente per reati come stupro, furti, crimini violenti (compresi omicidi),[20] ma i dati esaltano eventi isolati per generalizzarli all’intera popolazione degli immigranti. Fattori particolarmente rilevanti nel determinare un diverso tasso di criminalità tra immigranti sono il reddito familiare, il livello economico medio delle aree in cui l’immigrato vive, e la differenza tra il caso in cui l’immigrato sia cresciuto sin da giovane età in Svezia, e il caso in cui sia arrivato nel paese già da adulto. In Norvegia ed in Danimarca, analoghi dati emergono dalle statistiche sui crimini, con tassi di criminalità molto più elevati per certi gruppi di immigrati rispetto ai cittadini, anche se ci sono variazioni sostanziali a seconda del paese di origine.

In Grecia, che insieme all’Italia e alla Spagna, rappresenta uno dei paesi più frequentemente usato come destinazione da chi attraversa il Mediterraneo, l’intensificazione di politiche di respingimento ha prodotto un aumento del tasso di incriminazione per “immigrazione illecita” (che però rientra nel primo tentativo di criminalizzazione). Tuttavia, come riportato dalla BBC,[21] statistiche ufficiali mostrano che gli immigranti sono responsabili per circa la metà dei reati commessi in quel paese.  Analoga conclusione può facilmente trarsi sull’incidenza degli immigranti sul tasso di criminalità in Spagna, specialmente per reati contro la proprietà e per il traffico di narcotici.[22] Il 30% dei reati commessi in Spagna sarebbero causati da stranieri, pur rappresentando questi ultimi soltanto il 15% della popolazione.

In Italia, esiste una grande varietà di studi con risultati contradditori, alcuni con conclusioni allarmanti, che attribuiscono agli immigranti irregolari una quantità elevata di crimini, specie per scasso, furto d’auto, furti ordinari, rapine, assalto a pubblico ufficiale/resistenza all’arresto, riciclaggio di merci rubate. Secondo uno studio del 2013, gli immigranti compiono il 23% dei crimini, ma rappresentano solo il 6-7% della popolazione residente (nel 2010). Tuttavia obiezioni metodologiche sono state sollevate su questi studi, che non riescono a dimostrare la causalità tra immigrazione e criminalità. Uno studio del periodo 1990-2003[23] mostrò che l’incidenza dell’immigrazione sulla criminalità riguardava solo i reati di furto, mentre per altri reati i suoi effetti erano sostanziamente irrilevanti. Non c’è dubbio, comunque, che l’immigrazione incida sulla criminalità in Italia, anche se questi risultati sono controversi. Tuttavia, mentre è frequente in Italia mostrare “facili” statistiche che mostrino tassi di criminalità più elevati per gli stranieri immigrati rispetto agli italiani, le analisi più approfondite rivelano una realtà molto più complessa. Anche quando c’è una correlazione positiva tra criminalità e flussi migratori, ci possono essere altre variabili che potrebbero determinare questi risultati, non necessariamente collegate ai flussi migratori.  Una ricerca del 2008 promossa dalla Banca d’Italia[24] inviò severi moniti su errate conclusioni in questa materia, sia per l’inadeguatezza dei dati che per le carenze metodologiche degli strumenti di analisi, ed arrivò alla conclusione che non era possibile riscontrare un impatto diretto decisivo sulla criminalità esercitato dai flussi migratori, in particolare con riferimento a reati contro la persona, contro il patrimoio ed il traffico di droga, essendo le ragioni alla base della criminalità di certi individui attribuibili ad altri fattori. I risultati delle indagini in Italia sono tuttavia ambigui, con alcuni studi che suggeriscono che è stata l’intensificazione dell’uso delle forze dell’ordine a portare ad una riduzione della criminalità degli immigranti, mentre dall’altro la riduzione di misure restrittive conseguente alla regolarizzazione degli immigranti illegali raggiunge forse più facilmente lo stesso risultato.

Nell’Unione Europea, in generale, i flussi migratori più che essere associati ad un aumento della criminalità hanno generato un aumento del “senso di disagio” e di “paura” nei confronti degli immigrati, riflettendo un attengiamento psicologico frequente fra i cittadini europei più che il comportamento degli immigranti. In ogni caso, la letterattura sui singoli paesi mostra risultati misti, ove a volte l’influenza dell’immigrazione sulla criminalità è praticamente irrilevante, mentre per altri si nota una certa incidenza specialmente sull’aumento dei reati contro la proprietà (furti, scassi, rapine, borseggio e scippo), mentre l’associazione con crimini violenti risulta più debole (con alcune eccezioni).

  • Distorsioni nel trattamento degli immigranti irregolari in sede giudiziaria

I dati che emergono sulla presunta correlazione tra immigrazione irregolare e criminalità sono in parte condizionati da due fattori: il distorto trattamento degli immigranti irregolari da parte delle strutture giudiziarie e delle forze dell’ordine quando essi sono messi a confronto con la giustizia, che gonfia i dati sulla loro criminalità, e l’importanza del contesto socio-economico, spesso ignorato, che può almeno in parte spiegare l’incidenza sulla criminalità dei flussi migratori.  Le distorsioni nel trattamento in sede giudiziaria portano ad esagerare il numero di arresti e di detenzioni di persone immigrate, più facilmente individuate come obiettivo di perseguimento rispetto a cittadini che commettano analoghe infrazioni. Queste distorsioni sono particolarmente rilevanti quando si usano dati come il numero di arresti o di incarcerazioni, o il numero di detenuti nelle carceri, come “proxy” della nostra analisi. Nella maggioranza dei paesi d’immigrazione, le modalità e le procedure per fermi e per arresti nei confronti degli immigranti irregolari riflettono il frequente ricorso all’ “etichettamento” (profiling) degli stranieri per tratti somatici o per altri aspetti esterni che portano ad una più facile identificazione e più frequente detenzione rispetto ai cittadini. Inoltre, i sospetti di crimini che sono cittadini spesso riescono a evitare punizioni ricorrendo a pene pecuniarie o ad altre forme non detentive di punizione, semplicemente perché possono contare più facilmente su adeguata assistenza legale, oltre ad avere una migliore conoscenza del sistema legale e giudiziario. O, semplicemente, riescono ad evitare di essere perseguiti, perché più facilmente evadono nel territorio nazionale, protetti da un ambiente cui sono familiari, o possono contare su di un grado di tolleranza maggiore da parte delle forze dell’ordine con cui si incontrano, grazie a favoritismi non sempre concessi a stranieri. 

L’effetto di questa distorsione è ancora più rilevante se l’anasisi del tasso di criminalità si basa sul numero di persone “sospettate” per certi crimini o accusate degli stessi, anziché del numero dei condannati con sentenza di un tribunale, perché questi dati sono più facilmente reperibili.  L’uso di questa variabile “proxy” (persone sospettate anziché quelle condannate) può sovrastimare la criminalità degli immigranti, anche per l’adozione dell’approccio “tolleranza zero” in molti paesi verso qualsiasi attività criminale compiuta dagli immigranti, specialmente quelli irregolari, combinata con l’uso del profiling, che portano ad un aumento del numero di fermi e di arresti degli immigranti per motivi cautelari, anche se la colpevolezza dei detenuti non è ancora dimostrata, e ad una esasperazione della stigmatizzazione degli immigranti irregolari come presunti criminali. Ne deriva un errore sistematico nel calcolo del tasso di criminalità. A questo si aggiunga che l’esasperazione delle misure difensive e di respingimento nei confronti degli immigranti irregolari porta ad un facile “scontro” tra immigranti e forze dell’ordine quando queste ultime effettuano controlli, spesso in condizioni particolarmente aggressive, come retate o fermi casuali effettuati per la strada o in altri luoghi pubblici, con conseguente aumento degli arresti per resistenza a pubblico ufficiale, che si aggiungono alla detenzione per aver infranto leggi sull’immigrazione. Prova che questa “tolleranza zero” è una forma distorta di applicare la giustizia, combinata con il “profiling, è il fatto che anche cittadini che condividano gli aspetti ‘esterni’ degli immigranti irregolari ne subiscono spesso le conseguenze, essendo sottoposti a simili comportamenti discriminanti semplicemente perché “appaiono” stranieri.[25]  Questa “tolleranza zero” non viene applicata in ugual misura ai cittadini che commettono gli stessi crimini, specialmente per tutta una serie di reati minori.  Questo anche spiega l’applicazione meno frequente di pene non carcerarie a immigranti irregolari : quando è possibile evitare la detenzione carceraria pagando cauzioni pecuniarie, gli emigranti si trovano spesso in condizione svantaggiata, sia per la insufficienza dei mezzi finanziari di cui dispongono, sia per la incapacità di fornire informazioni non aleatorie su un possibile domicilio provvisorio ove possano essere rilasciati in caso di scarcerazione provvisoria.  

Se la presenza elevata di stranieri nelle prigioni italiane e di altri paesi mette in particolare risalto l’incidenza degli immigranti tra i detenuti, questi dati sono distorti a favore dei cittadini rispetto agli immigranti.  Nel caso dell’Italia, inoltre, la disastrosa situazione carceraria e le insufficienze delle nostre strutture di custodia crea un problema di sovraffollamento delle carceri, che ha portato alla tendenza a usare più frequentemente pene non carcerarie quali arresti domiciliari o libertà provvisoria o riduzione di pene detentive come alternativa alla crisi carceraria, in mancanza di strutture sufficienti ad accogliere i detenuti. Ma molte di queste misure non sono facilmente accessibili agli immigranti irregolari.

Altre forme di discriminazione si rifesicono al fatto che molte condanne sono legate a reati in qualche modo connessi alle leggi per l’immigrazione, anche quando l’immigrazione irregolare non è un reato (per esempio l’uso di documenti falsi per immigrare). Infine, nel caso di reati minori, dobbiamo anche tener conto di problemi di comunicazione, della possibile mancanza di conoscenza della lingua e delle leggi e dei constumi locali, che indubbiamente favoriscono i cittadini rispetto all’immigrante irregolare.

  • Fattori socio-economici, criminalità e immigrazione irregolare

Fattori socio-economici non vengono tenuti in adeguato conto nella stragrande maggioranza degli studi sul legame tra immigrazione e criminalità. La diversa condizione dell’immigrante rispetto al livello di reddito pro-capite (o l’assenza di alcuna forma di reddito), disoccupazione, povertà, livello di istruzione, accesso linguistico, e altri limiti relativi alle capacità tecniche dei lavoratori stranieri, incide in modo preponderante sui tassi di criminalità ancor più della presunta pericolosità degli individui, per cui presunte “predisposizoni criminogene” basate sullo stato migratorio degli individui sono infondate. 

La marginalizzazione degli immigranti irregolari, in parte conseguente alle politiche d’immigrazione, li costringe a vivere in condizioni spesso misere, sfruttati ed esclusi dalla società. Se disoccupati, o con occupazioni instabili, o con accesso limitato a canali legali per conseguire un lavoro decente, sono oppressi dai problemi immediati di sopravvivenza. In mancanza di misure adeguate di accoglienza e di integrazione, i neo-arrivati usano tutti gli espedienti per sbarcare il lunario, compresi il commercio ambulante non autorizzato (spesso fortemente ostacolato dalle autorità), chiedendo l’elemosina lungo le strade o di fronte ai supermercati, prestandosi a svolgere qualsiasi servizio informale per qualunque remunerazione, affollando il mercato sommerso del lavoro a salari inferiori a quello di sussistenza. Questa situazione favorisce la creazione di ghetti ove gli immigranti irregolari abitano in condizioni degradanti.  È così che non di rado sono tentati dal ricorso ad attività illecite, subendo la facile contaminazione da parte di ambienti criminali della società, dando luogo alla moltiplicazione di fenomeni di piccola criminalità, ma anche, occasionalmente, di gravi crimini, che contribuiscono ulteriormente al pregiudizio contro gli immigrati.  Il legame tra criminalità e marginalizzazione dalla società risulta essere molto più significativo ed è ben noto ai crimologi, toccando gli immigranti come i cittadini. Per cui, più che scagliarsi contro i flussi migratori, dovremmo affrontare le cause che favoriscono la ghettizzazione di gruppi sociali costretti a vivere in enclave di povertà, che porta ad un’esasperazione delle tensioni sociali, con conseguente aumento dell’indice di criminalità: il problema quindi non sarebbe tanto l’immigrazione ma il processo di marginalizzazione nella società.

L’importanza di questi fattori socio-economici, però, può portare alla facile conclusione che respingere gli immigranti irregolari è l’unica soluzione disponibile per abbassare il tasso di criminalità, vista l’elevata incidenza di questi fattori nel favorire processi di marginalizzazione, che influenzano lo sviluppo della criminalità. Questa conclusione è erronea. L’amnestia del 2007, che portò alla regolarizzazione di molti immigranti in Italia in precedenza considerati illegali, produsse una sostanziale riduzione del tasso di criminalità nella popolazione immigrata e una diminuzione dei reati commessi da criminali recidivi. Come sostenuto in una ricerca del 2015 da Paolo Pinotti[26] dell’Università Bocconi, una riduzione del tasso di criminalità degli immigrati irregolari può scaturire da una intensificazione della legalizzazione degli immigranti nel paese ospitante. Questo genera incentivi per indurre comportamenti positivi e legittimi, che guardano al futuro con fiducia e con speranza, aprendo agli immigranti un accesso più facile a canali legali per un lavoro decente nell’economia formale, evitando le deviazioni di comportamenti illeciti come attività criminali.  Ciò mostra che è lo stato di irregolarità (e non l’immigrato stesso) che costituisce una condizione che favorisce la criminalità. Tanto è vero che questa tendenza alla criminalità si riduce (per lo meno in parte), se non viene addirittura eliminata, se si dà all’immigrante uno stato legittimo che favorisce lo sviluppo della sua condizione economica e sociale. Questo effetto benefico della regolarizzazione degli immigranti irregolari sul tasso di criminalità degli stessi soggetti è stato riscontrato anche in altri paesi europei occidentali (per esempio in Germania ed in Francia). 

Un altro fattore, probabilmente scarsamente considerato, può essere l’incidenza di esperienze traumatiche subite dagli immigranti sul loro comportamento sociale, e quindi sulla loro capacità di integrazione pacifica in una fase post-conflittuale della loro esistenza. Questo fattore è rilevante in molti paesi ove si riversano migliaia di immigranti che fuggono da scenari di guerra, o da catastrofi naturali, o condizioni di particolari tensioni sociali o persecuzione personale.  Uno studio del 1997 condotto in Svezia ha analizzato questo fenomeno, con riferimento a persone che perseguono asilo, molte delle quali erano state soggette a episodi di tortura fisica o a PTSD (post-traumatic stress disorder). Questa è una condizione che può spiegare che certi gruppi di rifugiati hanno un elevato rischio di commettere reati. Ma, di nuovo, si tratta di situazioni non generalizzabili a interi gruppi nazionali di immigranti.

  • Immigrazione e traffico di droga

Una delle accuse più frequenti contro gli immigranti irregolari è che sono spesso coinvolti nel traffico di droga.  Sembra un luogo comune, ma molti uomini politici, da ambedue le sponde dell’Atlantico, sostengono questa idea, che ha motivato misure contro immigranti clandestini perché probabili trafficanti di droga, anche se le autorità preposte alla lotta contro il narcotraffico preferiscono concentrarsi contro le cosche criminali organizzate, che controllano il traffico della droga, più sugli immigranti irregolari. Tuttavia, il coinvolgimento di immigranti in questo traffico effettivamente esiste e bisogna caprine la natura e i limiti.

In primo luogo, però, riconosciamo che il narcotraffico rappresenta una tragedia umana ed un crimine internazionale che esiste anche indipendentemente dagli intensi flussi migratori dal sud del mondo verso i paesi ad economia più avanzata. In secondo luogo, il commercio e l’uso della droga hanno dimensioni interne a ciascun paese, con politiche nazionali contro la rete di spacciatori e di consumatori, Infine, il traffico di narcotici ha anche una dimensione internazionale perché la loro produzione, per lo meno per quanto riguarda l’eroina, la cocaina e la resina di cannabis (hashish), è localizzata in alcuni paesi, mentre il loro consumo è diffuso nei paesi ad alto reddito, creando un commercio clandestino. I problemi da porsi sono i seguenti: (1) quali sono i paesi coinvolti in questo traffico? (2)  quali sono le organizzazioni criminali che li gestiscono? (3) di che nazionalità sono questi criminali? (4) esistono  legami tra questi criminali e le comunità nazionali da cui provengono, gli immigranti, e quelli irregolari?

  • I paesi coinvolti nel traffico della droga

Mi riferirò qui più che altro al traffico di cocaina e di eroina, ed in minor misura a quello di hashish, in quanto le droghe sintetiche sono prodotte negli stessi mercati ove vengono consumate. Il commercio di droga dall’America Latina consiste in milioni di chili di cocaina (principalmente dalla Bolivia, dalla Colombia e dal Perù) che attraversano la frontiera messicana per gli Stati Uniti. L’importazione di cocaina in Europa[27] segue rotte aeree o marittime, in quest’ultimo caso generalmente dal Brasile ed in minor misura dall’Argentina, e per la produzione colombiana dall’Ecuador e dal Venezuela, o direttamente dal porto di Cartagena, direttamente verso l’Europa o con scali nei Caraibi, per continuare verso le Azzorre, Capo Verde, Madeira, e le Canarie, o l’Africa continentale ed arrivare in Europa, attraverso la Spagna ed il Portogallo, ma anche attraverso porti olandesi e belgi. 

Il mercato degli oppioidi, particolarmente di eroina, è più complesso, perché coinvolge più paesi.[28] La produzione di oppio alimenta sia il suo uso legittimo per la produzione di medicinali che il commercio clandestino di eroina. I maggiori produttori di oppio si trovano nell’Asia centrale (con il ruolo dominante dell’Afghanistan, ma anche quello minore dell’Iran), nel sub-continente indiano, nel sud-est asiatico (il Triangolo d’oro della Thailandia, Laos e Myanmar), e nuovi paesi produttori come la Colombia, il Guatemala ed il Messico. L’Afghanistan è il maggiore produttore mondiale ed il fornitore principale del mercato europeo, mentre la produzione asiatica alimenta più che altro i mercati nordamericani. Per l’importazione di resina di cannabis (hashish) – da non confondersi con la cannabis erbacea (marijuana), generalmente prodotta localmente e non importata – il ruolo del Marocco e del Nord Africa è centrale, integrato dalla produzione dell’Afghanistan, del Pakistan, dell’Asia Centrale, della Russia e del Libano.

Le rotte usate per importare droga coinvolgono trafficanti di nazionalità tra le più diverse, ed è importante capire il collegamento tra cosche di trafficandi e immigranti, se esiste. Tradizionalmente, l’importazione di oppio in Europa è stata sempre nelle mani di trafficanti turchi. L’oppio afghano, trasformato in eroina sul posto, viene esportato in paesi limitrofi – utilizzando i percorsi tradizionali della via della seta attraverso l’Asia centrale, coinvolgendo il Turkmenistan e, per via terra o utilizzando il mar Caspio, verso paesi del Caucaso come l’Armenia, l’Azerbaijan, la Georgia, per arrivare in Turchia. Istanbul è il polo centrale per lo smercio dell’eroina sui mercati europei, per via marittima, aerea o terrestre: (a) la rotta balcanica attraversa la Bulgaria, per entrare in Italia ed in Austria prevalentemente via terra; (b) la via settentrionale, dalla Bulgaria e dalla Romania, raggiunge via terra l’Austria, la Repubblica Ceca, la Polonia e la Germania; e (c) la rotta meridionale raggiunge la Grecia, l’Albania e l’Italia (prevalentemente via mare). Altra rotta segue l’Iraq e la Siria come paesi di transito, per raggiungere il Mediterraneo.  Il trasferimento dell’eroina dall’Afghanistan può anche traversare il suo confine settentrionale verso il Tajikistan e via Kyrgyzstan, Uzbekistan e Kazakhstan, raggiungere la Russia, l’Ucraina e la Belarussia, per arrivare nell’Europa occidentale per mezzo della Polonia e dei paesi baltici.  Alternative alle rotte per la Turchia sono anche quelle che trasferiscono la produzione afghana verso l’Iran ed il Pakistan, ed usando i porti sul Golfo di Oman e sul Golfo Persico, avviare grandi spedizioni verso l’Europa, circonvenendo la penisola arabica, sia attraverso il Mar Rosso oppure verso la costa orientale dell’Africa per raggiungere l’Europa attraverso il Sud Africa, via terra o per via marittina lungo le coste dell’Africa occidentale.[29]

Il modo di trasportare la droga internazionalmente varia da un mercato ad un altro. Il traffico marittimo usa frequentemente container per spedizioni di grandi quantità, con l’uso crescente di container legittimi col metodo rip-on/rip-off, che richiede corruzione di funzionari di polizia e delle autorità portuali nei porti di partenza e di arrivo.  Il trasporto terrestre di eroina utilizza camion, autobus e, sempre più frequentemente, semplici autovetture. Quando la via aerea viene utilizzata, le rotte seguite possono essere le più diverse.  Spedizioni di eroina di piccole dimensioni attraverso il canale pakistano hanno utilizzato anche la trasmissione di pacchi postali. L’uso di “corrieri” individuali è frequente per il traffico di cocaina in Nord America, per spedizioni di modesta quantità.

  • I gruppi criminali che sono coinvolti nel traffico della droga

La varietà di rotte implica la collusione di molti gruppi criminali lungo il percorso. Nel mercato dei narcotici nell’Unione Europea, bande criminali fanno capo a immigranti e a cittadini europei di origine di pochi paesi specifici,[30] con le organizzazioni criminali turche che hanno un ruolo preponderante per il traffico dell’eroina, anche se si affidano in misura crescente a collaboratori di lingua albanese, nonché a gruppi serbi, bulgari e rumeni. Alcune bande criminali turche, che in passato facevano base nel Regno Unito, in Olanda ed in Turchia, si sono trasferite in Sud Africa, spesso nascondendosi dietro attività commerciali apparentemente lecite, ubicate nei luoghi più diversi,  per facilitare il trasferimento della droga da un paese all’altro, con la collaborazioni di aziende di trasporto. Gli albanesi sono responsabili della maggioranza della distribuzione nei paesi scandinavi ed, in minor misura, in altri paesi europei, controllando una parte consistente della parte occidentale della rotta balcana.  Altri gruppi criminali importanti sono quelli iraniani, pakistani, georgiani e nigeriani. I gruppi nigeriani controllano non solo  trasferimenti di eroina per la costa africana atlantica e la maggioranza dei traffici infra-africani, ma estendono la loro influenza anche alla distribuzione dell’eroina in Europa . Nell’Africa orientale organizzazioni con base in Pakistan hanno un ruolo crescente, che si estende anche alla distribuzione in Europa. In Africa orientale, un ruolo crescente hanno gruppi armati basati in Kenya e in Somalia. Queste organizzazioni criminali usano un business model decentralizzato, con strutture logistiche flessibili, e utilizzano collaboratori tra i più diversi, compresi, a volte, gli immigranti irregolari.

L’ingresso della cocaina nel mercato europeo avviene attraverso la Spagna, il Portogallo e l’Olanda, e lo smercio all’ingrosso di quella droga continua a far capo ad organizzazioni colombiane, anche se spesso si appoggiano sul contributo essenziale di organizzazioni con base nazionale. La ’Ndrangheta calabrese svolge un ruolo molto importante per l’importazione di queste droghe attraverso l’Italia. È stato osservato, tuttavia, che la distribuzione della droga da un paese europeo all’altro ha visto fenomeni di diversificazione geografica nei “corrieri”, con frequente uso di consumatori-spacciatori europei rispetto a quello attribuito spesso troppo facilmente allo stereotipo dell’immigrante. Il mercato della cannabis e delle droghe sintetiche vede un ruolo maggiore di organizzazioni criminali con base nazionale e di cittadini europei. Persone originarie del Marocco hanno un ruolo importante nel commercio dell’hashish attraverso la Spagna, ma il loro ruolo non ha confronto rispetto al ruolo dominante dei colombiani nel mercato della cocaina, o quello dei turchi e degli albanesi nel mercato dell’eroina.

Con il declino dei cartelli colombiani di Medellin e di Cali, il commercio della cocaina negli Stati Uniti è nelle mani di nuovi cartelli basati in Messico, che si combattono tra di loro, collegati  con la criminalità nordamericana e le sue reti distributive capillari per lo smercio al dettablio. Rapporti ufficiali della DEA (U.S. Drug Enforcement Administration) indicano che questi cartelli dominano vaste zone del confine sud-occidentale, interagendo con organizzazioni attive nel traffico di persone, controllando molte rotte di passaggio attraverso la frontiera, grazie a diffusa corruzione, e nonostante il dispiego di mezzi, tecnologie, intelligence e forze dell’ordine da parte del governo americano. Ovviamente, queste organizzazioni criminali vedono un ruolo preponderante di individui di nazionalità latino-americana, spesso messicana.

  • Il legame tra gruppi criminali e comunità nazionali

Questi gruppi criminali fanno capo a individui di specifiche nazionalità, che contano su contatti con reti di collaboratori che assicurano la necessaria segretezza che la clandestinità di queste operazioni richiede.  Concepire queste reti sulla base dell’appartenenza ad una stessa comunità nazionale facilita contatti con persone che si conoscono tra di loro, che appartengano allo stesso entourage sia familiare che di amicizie, con possibili trascorsi comuni (anche criminali), per avere rapporti stabili, efficaci ed affidabili. Scegliere persone della stessa nazionalità, inoltre, permette l’uso di una stessa lingua per le comunicazioni interne, a volte usate per evadere i sistemi di sorveglianza, per lo meno in prima istanza.  Le nazionalità più frequentemente rappresentate appartengono a popolazioni che hanno vissuto fenomeni di “diaspora” demografica verso i paesi destinatari del traffico.  Questo è il caso dei gruppi nazionali turchi, albanesi, colombiani, pakistani e marocchini, che sono particolarmente attivi nell’importazione di cocaina, di eroina e di hashish nell’Unione Europea,[31] o il caso dei messicani che gestiscono il traffico di cocaina verso gli Stati Uniti.  Pensiamo ai milioni di immigranti turchi, pakistani o marocchini attualmente in Europa, o ai milioni di persone di origine messicana che vivono negli Stati Uniti. Lo stesso vale per i colombiani che emigrarono in massa nei primi anni ’90. Così gli appartenenti ai gruppi criminali possono nascondersi dietro ai grandi numeri dei flussi migratori per svolgere le proprie attività illegali indisturbati. Certamente ciò non fa buona pubblicità a quelle comunità nazionali, creando forti pregiudizi a loro danno: per cui, ogni turco viene spesso addidato come trafficante di oppio, così come ogni marocchino viene definito come spacciatore di hashish, o qualunque messicano diviene automaticamente un trafficante di cocaine, così come ogni siciliano veniva identificato come “mafioso” Questo non vuol dire che il fenomeno della “diaspora” sia la causa del traffico della droga. Gli emigranti che hanno partecipato ai massicci processi migratori sono stati motivati dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e da tanti altri incentivi che nulla hanno a che vedere con il narcotraffico. Solo una modesta porzione di loro appartiene a gruppi criminali.

Ma i trafficanti della droga usano il fenomeno delle “diaspore” demografiche per confondersi nei grandi numeri dell’enorme comunità nazionale.  Inoltre, possono contare su certe forme di collusione indiretta da parte alcuni membri di questa comunità, anche se non partecipano al commercio illegittimo (per esempio rifiutando a volte a collaborare con i tutori dell’ordine durante eventuali indagini), in quanto questi ultimi si sentono legati a obblighi di solidarietà nazionalistica o di parentela. Questo è il problema dell’omertà o della lealtà basate su rapporti privilegiati tra individui dello stesso paese (il concetto di “famiglia” e di “villaggio”: siamo tutti “paisà:”). Questa omertà può essere solo sperata o presunta dai criminali, e non è garantita, specialmente per reati di “traffico di droga”, ove il prezzo da pagare per collaborare con attività criminali è elevato (l’incarcerazione o la deportazione forzata). Tuttavia, l’omertà può anche essere estorta con ricatti, intimidazioni, e minacce. Pur se esiste una sproporzione numerica enorme tra trafficanti di droga appartenenti ad una certa nazionalità e gli immigranti irregolari della stessa nazionalità, il fatto che si faccia costante riferimento a questi gruppi criminali in termini generici, come i “turchi”, gli “albanesi”, i “marocchini”, i “pakistani”, i “messicani”, stabilisce uno stigma quasi indelibile di criminalità a tutti gli individui che condividono quella nazionalità. 

  • Immigranti come “corrieri” della droga

Nonostante il narcotraffico sia gestito direttamente da organizzazioni criminali, immigranti irregolari sono coinvolti come “corrieri” internazionali della droga, o come “spacciatori”, una volta superata la frontiera, anche se essi rappresentano una minoranza della grande massa di immigranti. In tal caso, sono colpevoli di reati e meritano di essere perseguiti ai sensi della legge. Tuttavia, considerate le modalità di trasporto per raggiungere i mercati europei, il ruolo degli immigranti irregolari come “corrieri” individuali in quelle rotte verso l’Europa è probabilmente marginale. Le bande criminali preferiscono usare i propri assoldati (che sono, però, spesso stranieri, da cui la confusione con gli immigranti irregolari), anche se non escludo l’uso occasionale di immigranti irregolari anche sul fronte europeo. Nel caso dell’importazione di cocaina negli Stati Uniti, invece, le organizzazioni criminali sono ricorse al doppio canale: per quantitativi maggiori, preferiscono usare trasporti marittimi o aerei, ma occasionalmente usano anche quelli terrestri via TIR, anche se troppo facilmente rintracciabili; per piccolo quantitativi, spesso ricorrono allo sfruttamento più sistematico degli emigranti che passano la frontiera, transformandoli in vettori della droga a basso rischio di essere identificati.

Il “reclutamento” di questi ultimi come “corrieri” avviene in modo violento, quando sono ancora in territorio messicano.[32]  Comincia con il sequestro dell’emigrante per detenerlo in luoghi reclusi, rubando ogni suo possesso. La violenza fisica serve per dimostrare la misura della determinatezza dei sequestratori, e comprende violenza sessuale su giovani donne. La morte del sequestrato è il risultato se quest’ultimo si rifiuta di collaborare. Trasformato in contrabbandiere, l’immigrante viene accompagnato oltre la frontiera (spesso sotto lo sguardo di un poliziotto corrotto), per essere magari usato anche come spacciatore. Il sequestro può avvenire ovunque in Messico (anche in treno, con la complicità del personale ferroviario o di sicurezza, corrotto per l’occasione), ma più spesso mentre gli emigranti procedono a piedi attraverso il deserto. Secondo la ONG Kino Border Initiative, che opera alla frontiera tra Nogales, Arizona (negli Stati Uniti) e Nogales, Sonora (in Messico), immigranti irregolari espulsi dagli Stati Uniti sono presi di mira dai trafficanti subito dopo aver attraversato la dogana messicana, per essere forzati a divenire “corrieri” ed essere mandati indiestro come contrabbandieri.[33] Nell’agosto del 2010,[34] 72 emigranti fu trovato sepolti a 90 miglia dal confine in territorio messicano, uccisi da una organizzazione di trafficanti nota come “Los Zetas”. Gli emigranti erano stati sequestrati per forzarli a contrabbandare la droga attraverso il territorio di Tamaulipas, e si erano rifiutati di collaborare. La Commissione Nazionale per i Diritti Umani del Messico segnalò 412 casi di tentativi di sequestro di emigranti, molti provenienti da El Salvador, Honduras e Guatemala, per un totale di 21.091 persone, tra il settembre del 2008 ed il settembre del 2010. Ma c’è chi stima che ci sono almeno 400 sequestri all’anno, per ben 22.000 migranti. Inizialmente i sequestri miravano solo al reclutamento di “corrieri”, ma adesso servono anche per estorsioni con riscatto o per fomentare il traffico di persone a scopo di prostituzione (si veda la Parte IV di questo saggio sul fenomeno di human trafficking ed il suo rapporto con l’immigrazione). Forzati nel ruolo di “corrieri”, gli immigranti irregolari sono sia “criminali” che “vittime”, indotti in questi reati dopo aver subìto abusi, minacce e violenze inaudite.

  • Coinvolgimento degli immigranti nello spaccio della droga

L’aspetto più inquietante del coinvolgimento degli immigranti irregolari nel narcotraffico è la frequenza con cui sono implicati nella distribuzione al dettaglio della droga come “spacciatori” dopo aver attraversato la frontiera. Anche se la proporzione di immigranti coinvolti nello spaccio è una minoranza, resta il fatto che la frequenza di questo reato è significativa. In alcuni paesi europei, la proporzione di stranieri condannati per questi reati è maggiore di quella dei cittadini colpevoli dello stesso reato.

Il commercio al dettaglio della droga è condotto da immigranti, residenti (stranieri),  cittadini di origine straniera e cittadini che possiamo definire come ‘nativi’, e si realizza con operazioni all’aperto, lungo le strade delle nostre città, o nel mercato “nascosto” che usa canali riservati. In passato era dominato da spacciatori nazionali, ma più di recente ha visto un ruolo crescente di stranieri, specialmente nello smercio all’aperto, più facilmente perseguibile, mentre l’uso di canali riservati è in mano a residenti, spesso spacciatori-consumatori, che si muovono con maggiore agilità negli ambienti nazionali. 

Le origini nazionali degli spacciatori stranieri sono le più diverse. In molte città svizzere gli albanesi hanno sostituito spacciatori di origine turca nello smercio di eroina. In molte città europee crescente è la presenza di spacciatori africani, ma non esclusiva, favorita dal collegamento con gruppi criminali nigeriani. Negli Stati Uniti, tra gli spacciatori latino-americani ci sono anche immigranti irregolari, che rappresentano una quota significativa ma non preponderante dei pusher di droghe, visto il ruolo dominante di spacciatori residenti (consumatori-trafficanti), collegati anche alle operazioni di produzione di droghe sintetiche e del relativo smercio. Gli spacciatori nazionali provengono da enclave sociali depresse, ove coesistono anche con gli immigranti.

Nelle statistiche americane, elevata è la presenza di trafficanti di origine latino-americana, anche se cittadini americani e stranieri di altre origini sono coinvolti in questi reati, specialmente nella produzione e nello smercio di droghe sintetiche.  In Italia gli immigranti rappresentavano più del 37% dei condannati per reati legati alla droga nel 2003, pur essendo il 4,1% della popolazione del paese in quell’anno, mentre erano solo il 10% dei condannati per traffico di droga nel 1990, quando erano il 2,3% della popolazione. Simili dati emergono anche in altri paesi europei, come quelli scandinavi, la Gran Bretagna e la Germania. In quest’ultimo paese il  44,5% dei trafficanti di narcotici erano stranieri nel 2005, rispetto al 32% registrato in anni precedenti, anche se essi rappresentano solo il 9% della popolazione, ma le percentuali scendono al 20-26% se i reati includono il possesso di droghe, ove più elevata è l’incidenza di criminali di nazionalità tedesca (tuttavia la percentuale di stranieri coinvolti in questi crimini è sempre alta). Queste statistiche tendono, tuttavia, a sovrastimare l’importanza degli stranieri, viste le distorsioni nel trattamento degli immigranti irregolari nei sistemi giudiziari, che si traducono in una percentuale elevata di stranieri che vengono fermati, arrestati, condannati ed incarcerati per questi capi d’accusa. Queste statistiche, inoltre, non sempre distinguono tra immigranti e stranieri residenti, rendendo impossibile trarre conclusioni sul rapporto tra immigranti irregolari e narcotraffico.

Queste cifre, pur se distorte, rivelano un ruolo attivo degli immigranti (anche irregolari) nello spaccio della droga, ma richiedono una certa dose di discernimento ed un approfondimento per comprendere le ragioni di fondo di questo coinvolgimento, che può in parte essere collegato con le connivenze nazionali con le organizzazioni criminali che controllano il traffico della droga.  Ma la realtà è che i gruppi criminali che gestiscono il commercio al dettaglio di droga hanno bisogno di una “manovalanza” più diversificata per lo spaccio, e ricorrono alla massa di immigrati anche irregolari come fonte per poter spacciare la propria mercanzia in piccole quantità agli angoli degli incroci e per i vicoli delle grandi città. Gli immigranti che non hanno ancora stabilito radici solide nel paese d’immigrazione spesso si sentono marginalizzati dalla società e vivono in condizioni particolarmente fragili esaminate in precedenza tra i fattori socio-economici che spiegano il loro coinvolgimento con la crimanilità.  In queste condizioni, possono essere “corteggiati” da trafficanti di droga per essere reclutati come pusher nello spaccio lungo i nostri marciapiedi. Questo rischio si estende anche a coloro che non sono immigrati recentemente ma vivono in condizioni di povertà prevalente e una marginalizzazione sostanziale. Indagini sulla qualità di vita di questi immigranti, sui loro alloggi, sul loro lavoro, sulle condizioni dei quartieri ove vivono, e sul grado di scolarizzazione dei più giovani o dei figli di questi immigranti, può offrire un’idea più accurata del quadro “ideale” per le cosche criminali per poter avviare il reclutamento di nuovi spacciatori.

Spesso le statistiche sugli spacciatori di droga detenuti sono lacunose, non sono disponibili per ogni paese d’immigrazione; non distinguono tra residenti, immigranti regolari, immigranti irregolari o semplicemente  “stranieri”; presentano problemi di interpretazione come per il tasso di criminalità, essendo fondate solo sulla nazionalità dell’accusato, del detenuto o del condannato e non possono contare su dati affidabili sugli immigranti irregolari.  Anche gli osservatori più critici nei contronti dei flussi migratori attuali ammettono che la maggioranza degli immigranti irregolari non è direttamente coinvolta in questi traffici, ma un certo numero di loro, sia pur modesto, è sicuramente attivo come pusher della droga.  Questo vale tanto più per immigranti che condividono la nazionalità dei membri delle organizzazioni criminali che gestiscono il narcotraffico. Ma questo non significa che la maggioranza degli appartenenti a quelle grandi “diaspore” nazionali sia implicata nel traffico della droga. Accusare genericamente tutti gli immigranti che provengono da un paese di essere implicati nello spaccio della droga significa infatti parlare con stereotipi: come dire che tutti gli italiani sono mafiosi.

Resta l’amarezza che quest’attività criminosa poteva forse essere prevenuta ed evitata, se l’immigrazione fosse avvenuta garantendo un’integrazione all’immigrante nel paese ospite, evitando fenomeni di esclusione sociale, economica e culturale. Lo spaccio della droga offre la prospettiva di facili guadagni e può essere l’alternativa illegale all’indigenza o alla mancata mobilità sociale, l’unico modo per accedere a livelli di consumo e a stili di vita da cui i giovani immigrati si sentono esclusi.  Ma una volta entrati in questo tipo di attività criminosa, una spirale di reazioni negative con effetti a catena si mette in moto, con probabile ruolo crescente del consumo di droga fra i membri di queste minoranze.

  • Criminalizzazione dell’immigrazione e lotta al terrorismo

L’analisi del possibile legame tra immigrazione e terrorismo internazionale ha appassionato il dibattito politico in molti paesi. Si tratta di uno dei capisaldi dell’argomentazione per sostere misure repressive contro gli immigranti irregolari, spesso accusati di essere conniventi con il terrorismo. L’immigrazione è spesso considerata un mezzo per diffondere il terrorismo su scala internazionale. Se questo legame fosse dimostrato, la politica d’immigrazione dovrebbe essere vincolata alla lotta contro il terrorismo, e le misure di repressione dei flussi migratori diverrebbero strumenti dell’antiterrorismo, perché nulla può essere più importante che proteggere la vita dei cittadini da un qualsiasi attacco esterno. Questa ipotesi influenza il modo in cui la maggioranza dei paesi d’immigrazione affronta questo tema:  negli Stati Uniti, ove il Dipartmento di Homeland Security coordina sia l’azione contro il terrorismo che  la politica d’immigrazione; in Italia, ove il Ministero degli Interno ha analogo doppio incarico. È l’approccio di ogni governo europeo e della Commissione dell’Unione Europea. La stragrande maggioranza degli atti terroristici transnazionali sono stati commessi da “stranieri”, o persone collegate a reti “straniere”.  Una società aperta all’immigrazione è perciò vulnerabile ad attacchi terroristici esterni, da cui l’ipotesi che quanto più grandi sono i flussi migratori, tanto più elevato diviene il rischio di essere vittime di queste minacce.[35] Ma il legame tra immigrazione e terrorismo non è così scontato.

Dopo l’attacco dell’ 11 settembre 2001 negli Stati Uniti (il c.d. “9/11”), c’è un riconoscimento generale che la minaccia terrorista non possa essere ignorata, visti i suoi effetti devastanti.  Al Qaeda e ISIS hanno contribuito notevolmente alla sua diffusione transnazionale, pur se la minaccia terrorista si manifesta anche come fenomeno puramente interno in alcuni paesi. Dopo il 9/11, anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ne riconobbe l’importanza e, adottando la risoluzione 1373 del 2001, ha incoraggiato gli stati a limitare il movimento di terroristi ed il loro passaggio tra frontiere con misure per controllarne l’identità e i documenti di viaggio, e impedire la contraffazione di documenti.

Che l’immigrazione ed il terrorismo siano legati non significa che tutti gli immigranti siano terroristi o sospettati di essere tali, anche se molti atti terroristici sono stati eseguiti da stranieri. Ma sono essi entrati nel paese nascondendosi tra le fila degli immigranti per passare non identificati? Non necessariamente. Il terrorista potrebbe essere un viaggiatore che si finge turista, studente internazionale, uomo d’affari.  Molti terroristi non sono “stranieri”, ma “cittadini” (con o senza origini straniere), oppure sono “residenti permanenti” non riconducibili alla figura degli immigranti irregolari, anche se tutti hanno generalmente collegamenti con reti terroristiche “straniere” (sia pur solamente ideali, di natura ideologica, pseudo-religiosa, politica o strategica). I fatti dimostrano che raramente un terrorista cerca di usare un gruppo di immigranti irregolari per entrare in un paese (anche se eccezionalmente questo avviene). Il percorso usato dagli immigranti è lento ed inefficiente, mentre i terroristi preferiscono trasporti certi, efficaci e rapidi (anche se celati dietro false identità). Gli attentatori del 9/11 entrarono negli Stati Uniti con passaporti regolari, visti regolari, regolari voli di linea, per non destare sospetti e non rischiare un fermo per aver infranto le leggi sull’immigrazione. Quindi i tentativi dei terroristi di apparire immigranti irregolari sono rari.

  • Diffusione del terrorismo e comunità nazionali

Ma come può il terrorismo diffondersi in nuovi paesi se non usa l’immigrazione irregolare? Quali sono i passi seguiti per aprire nuove basi terroristiche? Che tipo di contatti stabilisce? Comprendono quelli con comunità nazionali di un certo tipo? In che modo questi contatti sono influenzati da flussi migratori (correnti o passati)?  Svolge l’immigrazione un ruolo importante o marginale per la sua diffusione?  Come i trafficanti della droga, anche le reti terroristiche che intendono espandersi all’estero nei paesi d’immigrazione cominciano i primi passi con una serie di contatti che privilegiano le connessioni con persone note, magari di una stessa comunità nazionale, anche se non coinvolte col terrorismo, perché hanno bisogno di un quadro di coesione sociale basato su lealtà e fiducia reciproche. Gli immigranti, anche di generazioni passate, offrono questo quadro di coesione sociale, perché questi contatti sono essenziali per il processo migratorio, che richiede comunicazioni con parenti ed amici che sono emigrati in precedenza o con coloro che sono rimasti nel paese di origine, per assicurarsene l’appoggio. Sono questi i legami “preziosi” che l’immigrante usa per lasciare il proprio paese, scegliere la sua destinazione, organizzare il viaggio, scegliere il luogo di residenza, cercare alloggio, trovare scuole per i figli, cercare lavoro, richiedere aiuti d’emergenza, trovare servizi d’assistenza, superare qualsiasi altro ostacolo. 

Anche il terrorista che sta ponendo le basi per una nuova rete di collaboratori ha bisogno di questo tipo di contatti, e può prendere a prestito la rete usata da immigranti per costruire una base logistica, anche se strumentalizzerà questi contatti per le sue attività. Però le somiglianze di questi contatti sono solo apparenti. Non è infatti sufficiente la “lealtà” di parenti ed amici per promuovere una rete terroristica, perché il terrorista richiede contatti basati su profonde adesioni ideali, obiettivi politici comuni e condivisione di modalità. Si muoverà con cautela e riservatezza, in incognito, non svelando i propri piani se non a chi è già parte della rete terroristica. Userà falsi pretesti per giustificare la propria presenza nel paese e per consolidare il suo soggiorno. È un processo graduale e lento, basato sulla totale “lealtà” dei contatti avvicinati.

Come nel caso dei trafficanti di droga, i terroristi si avvantaggiano della nazionalità degli individui che avvicinano se appartengono a “diaspore” demografiche, perché così potranno nascondersi in enclave urbane e semiurbane ove migliaia di immigranti e dei loro discendenti vivono, mimetizzandosi tra di loro. In questa interazione sociale, i terroristi sviluppano comunicazioni occultate tra i messaggi della loro comunità, rendendone difficile l’identificazione. I terroristi sperano di avviare qualche forma di protezione e collaborazione con alcuni membri di questa comunità, grazie all’omertà diffusa tra di loro, anche se costoro non sono coinvolti nelle attività terroristiche.  Purtroppo questa comunità nazionale paga un costo elevato per questa collaborazione: lo stigma di collaborazionismo con il terrorismo, nonostante che la stragrande maggioranza dei suoi membri non abbia nulla a che fare con il terrorismo.

  • Reclutamento internazionale di nuovi quadri terroristici

Questi primi contatti rappresentano solo il primo passo per stabilire una base per una rete terroristica. Il passo successivo è il reclutamento di nuovi quadri, che si manifesta attraverso una successione di fasi:

  • Verica dei candidati promettenti, scelti dopo una serie di sondaggi, anche via Internet, tra persone residenti nel paese (magari tra quelli che condividono la stessa origine, la stessa cultura, o altre caratteristiche comuni, prima di procedere alla selezione definitiva dei più affidabili);
  • Intensificazione dell’affiliazione sociale, rafforzando la familiarità con i candidati individuate, attraverso contatti più frequenti, come incontri personali o scambi “virtuali” via Internet (il reclutatore non ha neanche bisogno di essere nel paese ove si trova il “candidato-recluta”).
  • Continua verifica dell’esistenza di fattori che influenzano la scelta finale della recluta potenziale: condivisione delle stesse preoccupazioni sociali, atteggiamenti psicologici, frustrazioni e delusioni, esclusione dal tessuto sociale circostante, episodi di discriminazione, desiderio di vendetta e di prendere parte attiva in azioni terroristiche.
  • Valutazione complessiva del processo di affiliazione e conferma dell’associazione “ideale” alla rete terroristica, anche se questo non comporta necessariamente il coinvolgimento in atti terroristici specifici. La nuova recluta avrà adottato un nuovo “credo” politico, finalità e obiettivi del movimento terroristico: la radicalizzazione della nuova recluta sarà considerata completata.
  • Passaggio dall’affiliazione al movimento terroristico alla partecipazione attiva in azioni concrete. La nuova recluta si rende disponibile a partecipare ad attentati terroristici, con un ruolo che può variare da semplici azioni di supporto logistico, incluso l’approvvigionamento di componenti materiali di ordigni esplosivi, ricerca di mezzi di trasporto, costruzione di ordigni, elaborazione di piani d’intervento, sopraluoghi preliminari, copertura per eventuali fughe (non necessaria nel caso di attentati-suicidi), comunicazioni, oppure partecipazione attiva ad attività terroristiche, sia nel paese ove la nuova recluta risiede, o emigrando in luoghi di conflitto.

Il terrorista può procedere a più reclutamenti, consolidando la rete terroristica, al rafforzamento delle basi logistiche, alla preparazione di piani d’attacco, al trasferimento delle nuove reclude su altri scenari di conflitto, curando i rapporti con altre reti e le comunicazioni con i media. Il terrorista cercherà sempre nuovi contatti, ed i collegamenti con immigranti o con cittadini di origine straniera, sempre verificando  le opportunità che si aprono per sviluppare questo modello di radicalizzazione.[36]

  • Immigrazione e adesione alle reti terroristiche messi a confronto

Il processo di adesione ad una rete terroristica qui illustrato ha ben poco a che vedere con l’immigrazione irregolare. Le nuove reclute del terrorismo non provengono, per lo meno direttamente, dai flussi di migliaia di persone che sbarcano dai gommoni, attraversano i deserti, affollano i TIR, o cercano di immigrare di soppiatto, infrangendo in qualche modo le leggi dell’immigrazione. Se intervistiamo immigranti sui loro obiettivi, potremmo forse avere risposte confuse, ma le loro aspirazioni sono parole di speranza.  Non ci sono motivi allineati alle finalità del terrorismo. Eppure, esiste un possibile legame tra il terrorismo ed i processi migratori se gli immigranti, dopo aver trascorso prolungati periodi in attesa di veder realizzare i propri obiettivi originali, non riescono a raggiungerli. Quando le delusioni e le frustrazioni si accumulano, gli immigranti diventano soggetti “fragili”, che possono subire le influenze devianti più diverse, visto che la società che li ospita non offre risposte alle loro aspirazioni.  Essi così rischiano di divenire vittime del processo di criminalizzazione, trasformandosi in spacciatori di droga, ladri, rapinatori, prostitute, o – a certe condizioni – possono essere avvicinati da terroristi ed essere reclutati dalle reti terroristiche, se superano la selezione del processo di affiliazione. E tra i possibili candidati, i preferiti sono coloro che sono entrati nel paese già da tempo, sono familiarizzati con l’ambiente che li circonda e si possono muovere con più agilità. Non è l’immigrante che è impegnato a cercare di sbarcare il lunario il candidato ideale.  Per accedere al traffico della droga, le organizzazioni criminali, quando non procedono a reclutamenti forzati, fanno leva sulle prospettive di facili guadagni per reclutare nuovi spacciatori tra gli immigranti. Ma l’adesione al terrorismo segue un altro approccio, che richiede che il futuro candidato corrisponda ad un un profilo ideale molto esigente con caratteristiche standard del terrorista ideale. Più spesso i terroristi-reclutatori preferiscono concentrare il loro reclutamento sugli immigranti regolari, o ai loro figli e nipoti, nati nel paese d’immigrazione, specialmente se non hanno pendenze con la giustizia, e magari sono divenuti residenti permanenti o cittadini. 

Questo non è l’unico modello per la diffusione del terrorismo. Il reclutamento “forzato” di nuove reclute è possibile, quando sono sequestrate (a volte in età precoce) da bande che li inducono in processi forzati di “formazione” ad attività terroristiche e para-militari, anche se questi fenomeni possono non avere nulla a che fare con processi migratori (per esempio in Nigeria). Questi sequestri possono avvenire nei campi profughi, che sono un terreno esplosivo ove la prolungata permanenza può dar luogo a tutte le possibili forme di reclutamento sia “volontario” che “forzato” di giovani quadri terroristici. 

Il legame tra immigrazione e terrorismo, quindi, è tutt’altro che semplice ma dipende dalle condizioni in cui individui diversi (spesso di origine estera, ma non necessariamente) sono integrati o esclusi nella società in cui vivono. Il fattore centrale che favorisce il terrorismo è l’inadeguata integrazione con i valori sociali del paese in cui questi individui risiedono, compreso il rispetto dei diritti umani, ed in particolare il rispetto per la vita altrui, per poterli sostituire con obiettivi alternativi come una giustizia jihadista.  

Se questi modelli di diffusione del terrorismo transnazionale corrispondono a comportamenti realistici, l’emigrazione e i suoi meccanismi complessi offrono un terreno utile alla diffusione del terrorismo, specialmente per l’influenza dei processi di marginalizzazione degli immigranti nel lungo periodo in un contesto multi-generazionale. Tuttavia, non possiamo sostenere che quanto maggiore sia l’immigrazione (regolare o irregolare) tanto maggiore sarà la probabilità di intensificare gli attacchi terroristici, ma solo che i processi migratori possono essere utilizzati come veicoli per la diffusione del terrorismo.

Questo non ci autorizza ad arrivare alla conclusione che, per lottare il terrorismo, è sufficiente chiudere indiscriminatamente il rubinetto dell’immigrazione, limitando il più possibile l’ingresso agli immigranti, specialmente a quelli irregolari. Il fatto che singoli immigranti siano stati un veicolo di diffusione del terrorismo da un paese all’altro non significa che sia stato dimostrato che l’immigrazione di per sé produca terrorismo. È stato addirittura ipotizzato, ad esempio, e comprovato con alcune analisi quantitative che ne dimostrerebbero l’attendibilità,[37] che l’aumento dell’immigrazione, quando non è collegata al terrorismo dei paesi d’origine, possa produrre una riduzione del numero di attacchi terroristici, in quanto l’influenza crescente di immigranti non legati al terrorismo riduce lo spazio per lo sviluppo di processi di affiliazione nelle fila di reti terroristiche. Questa ipotesi e la sua verifica quantitativa confermano quanto forse non è ovvio al grande pubblico, e cioè che il numero di immigranti collegati al fenomeno del terrorismo è, tutto sommato, estremamente modesto rispetto alla grande massa di migranti che provengono dal sud del mondo. Ma, ripeto, anche questa ipotesi ha senso solo se esistono condizioni che permettono una piena integrazione degli immigranti nel paese ospitante.

  • Immigrazione e analisi del rischio terroristico

Un’analisi del rischio terroristico associato ai movimenti migratori, condotta su di un periodo di 41 anni (dal 1975 al 2015) con riferimento esclusivo agli Stati Uniti,[38] ha stimato che la probabilità che un cittadino americano possa rimanere ucciso in territorio statunitense in un attacco terroristico per mano di uno straniero, è pari a uno su 3,6 milioni all’anno e questa probabilità diviene incredibilmente più bassa se calcolata rispetto alla possibilità di essere ucciso da un immigrante irregolare (uno su 10,9 miliardi, praticamente pari a zero).  Questo non vuol dire che attentati terroristici ad opera di immigranti non siano occorsi. Però, associare stranieri che hanno commesso atti terroristici al processo di immigrazione porta a conclusioni analiticamente errate.

Prendiamo il caso degli attentati alle Torri Gemelle. Nessuno degli attentatori era un “immigrante”: dei 19 attentatori, 18 avevano un visto turistico ed uno era entrato con un visto per motivi di studio. Un altro, che partecipò solo alla preparazione dell’attentato, era cittadino francese e beneficiò della esenzione dalla necessità di visto turistico prevista per i cittadini europei (Visa Waver Program). Nessuno aveva il permesso permanente di residenza.  Tra i terroristi che hanno compiuto attacchi negli Stati Uniti dal 1975 ed il 2015, quelli che hanno prodotto attacchi più letali (con un maggior numero di morti), avevano visti turistici e visti per studenti, mentre gli immigranti irregolari sono all’ultimo posto, perciò sono i meno rischiosi. Il maggior numero di terroristi sono residenti permanenti, anche se il numero di morti causati dai loro attentati (in quel periodo) è estremamente basso (8 decessi in 41 anni), ma nessuno di loro partecipò all’attacco del 9/11. La sbandierata minaccia terroristica che proviene dall’immigrazione irregolare è basata, perciò, su di un pregiudizio contraddetto dai fatti.

Non dispongo di analoga analisi per l’Unione Europea, ma la sua prossimità fisica con il Nord Africa, il Medio Oriente e l’est europeo, la rendono più porosa all’influenza di terroristi che attraversino la frontiera, potendo i terroristi muoversi in entrata ed in uscita dai vari paesi europei più facilmente grazie all’accordo Schengen, e al fatto che molti di loro sono cittadini o residenti europei, e altri possono facilmente farsi passare per turisti o per uomini d’affari. Nessuno dei partecipanti del grande attacco terroristico di Parigi era un immigrante, a parte uno di loro che fece uso di un passaporto falso siriano.  C’è da attendersi che, dopo il recesso dell’ISIS in Siria ed in Iraq, un numero crescente di terroristi provenienti dai paesi occidentali tenterà di tornare nei propri paesi d’origine per continuare l’attività terroristica, anche se numerose sono le misure preventive adottate dalle strutture anti-terroristiche.  Naturalmente attentatori “residenti” sono collegati con reti terroristiche internazionali, anche se alcuni operano in modo isolato, cercando obiettivi “morbidi” che non richiedono sofisticati mezzi d’intervento. Molti di questi terroristi sono cittadini europei o sono venuti in Europa quando erano bambini, e appartengono alla seconda generazione di immigranti. Alcuni di loro sono venuti in Europa con visti per studenti. Un numero significativo di questi terroristi sono il risultato di conversioni e processi di radicalizzazione come nel modello di diffusione del terrorismo prima illustrato. Diversamente dalla maggioranza degli immigranti irregolari, questi terroristi hanno spesso una forte formazione occidentale e conoscono bene il funzionamento delle società ove intendono portare in porto gli attacchi, ne parlano le lingue e possono essere confusi con i residenti.  Pochi terroristi si sono fatti passare come rifugiati politici, visto che è facile identificarli. Solo eccezionalmente, hanno scelto di entrare come immigranti irregolari, mescolandosi tra i naufraghi che sbarcano sulle coste europee, ma vi sono aneddoti di questa natura.  Per i terroristi, ha molto più senso entrare in Europa per la porta principale, all’aeroporto di Fiumicino o di Charles De Gaulle, con documenti normali ineccepibili, anche se a volte contraffatti.

  • Politiche antiterrotistiche e politiche d’immigrazione

Se l’aumento dell’immigrazione, non collegata al terrorismo dei paesi d’origine, può ridurre il numero di attacchi terroristici, dovremmo evitare di associare misure di respingimento alla lotta al terrorismo, ma dovremmo favorire forse l’opposto, salvo quelle “discriminanti” nei confronti di probabili terroristi. Ciò che è necessario è buona intelligence e misure antiterroristiche mirate, compresi i controlli sui flussi finanziarii. Retrizioni basate sulla pericolosità dei paesi di provenienza per isolare le “culle del terrorismo” colpiscono gli immigranti come gruppo ma non fermano i terroristi.

I movimenti fisici in Europa ed in Nord America attraverso le frontiere debbono continuare ad essere sottoposte ad un attento vaglio per contenere penetrazioni terroristiche. Ma sono i flussi dei “viaggiatori” con visti turistici o di studio, o dei residenti permanenti che hanno ampia libertà di movimento, che contano. Sono questi i veicoli più frequentemente utilizzati dal terrorismo, più che i canali dell’immigrazione, specialmente irregolare. Maggiore attenzione è richiesta per la concessione abusiva di visti di entrata a chi possa compiere atti terroristici, intensificando gli accertamenti del background di chi sia un potenziale terrorista. Controlli saranno necessari per gli immigranti provenienti da paesi con molte attività terroristiche, ma questo non equivale a bandire immigranti a seconda del paese d’origine, perché ciò significa attribuire una matrice terroristica a chi professa una certa religione, ha un certo aspetto, veste in un certo modo, o parla una certa lingua. Anziché combattere il terrorismo, riusciremo forse a impedire a una nonna irachena di raggiungere il suo nipotino, ma le persone ‘pericolose’ troveranno altri mezzi per passare inosservati, magari cambiando tipo di passaporto. 

Chi sostiene che il miglior modo per difenderci dal terrorismo è chiudere le frontiere agli immigranti, ignora che l’aumento dell’estremismo di matrice terroristica dipende dalla marginalizzazione sociale degli immigranti e dei loro figli. Questa conclusione contrasta con l’approccio seguito dopo il 9/11, ispirato dal ‘panico’ generalizzato che ha rafforzato il legame tra misure antiterorristiche e legislazioni restrittive sull’immigrazione. È chiaro che, oltre alle misure di pura sicurezza antiterroristiche, abbiamo bisogno di azioni che minino le reti terroristiche nelle loro fondamenta. Per questo, non basta avere politiche d’immigrazione che soccorrano i rifugiati che scappano dagli orrori della guerra, della fame, da disastri ambientali globali e dalle violenze di società disfunzionali ed estremamente fragili. Occorre anche fare in modo che questi immigranti non siano esclusi dal processo di sviluppo delle società in cui entrano, adottando politiche d’integrazione che affrontino i problemi della disoccupazione, l’accesso alla casa, l’accesso ai servizi sociali essenziali quali quelli sanitari ed educativi, come condizione per non sentirsi esclusi e relegati in gruppi sociali marginalizzati. La risposta alla minaccia terroristica via immigrazione o alla criminalizzazione degli immigranti irregolari perciò non consiste nel considerare tutti gli immigranti come terroristi o criminali, ma evitando che essi si rendano disponibili per questi comportamenti devianti in conseguenza della loro esclusione sociale.

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N O T E

[1] Per una rapida rassegna di queste misure, si veda la seconda parte di questo mio saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO” apparsa su Partecipagire il 10 marzo 2018 con il titolo “Un’analisi critica delle politiche di contenimento dell’immigrazione”.

[2] Vedi “Un Piano Marshall per l’immigrazione: una novità, una soluzione, un’illusione o cos’altro?”, prima parte del saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO”, apparso su Partecipagire il 28/1/2018 

[3] Vedi, ad esempio, Ted Perlmutter, Italy, capitolo 11 del volume “Controlling Immigration” a cura di J.F. Hollifield, P.L. Martin e P.O. Orrenius, Stanford University Press (2014, terza edizione), nonché il commento a detto capitolo di Giuseppe Sciortino, riportato nello stesso volume.

[4] Si veda “Rapporto sui Centri di Identification e di Espulsione”, della Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani del Senato della Repubblica, gennaio 2017, pag.11.

[5] L’estensione del periodo di detenzione può essere oggetto di proroghe, o rimanere indefinita (come è possibile negli Stati Uniti, dopo una recente interpretazione della Corte Suprema) finché il provvedimento di espulsione non sia emesso e finalmente eseguito.  

[6] Vedi, Maria Laurino, (2015) “The Italian Americans – A History”, W.W. Norton, New York, capitolo dal titolo “Who Killa da Chief?” e il documentario apparso nella televisione americana nel 2016 su PBS dallo stesso titolo. 

[7] “La differenza tra italiani e stranieri si concentra tra i ventenni e i trentenni, il periodo in cui gli immigrati iniziano la vicenda migratoria e compiono il massimo sforzo, mentre dai 40 anni in poi, avviato il processo di inserimento ed essento forte il desiderio degli immigrati di inserirsi proficuamente nella nuova società, italiani e stranieri hanno un tasso di delinquenza simile, anzi più basso per i cittadini stranieri.” citazione in “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e preguidizi”, Dossier Caritas/Migrantes – Agenzia Redattore Sociale, Ottobre 2009, pag. 14.

[8] Dalla vasta letteratura diponibile, cito alcuni lavori: G. Papadopoulos (2014), “Immigration status and property crime: an application of estimators for underreported outcomes” in  Vol. 3 (1); M. Bianchi, P. Buonanno, P. Pinotti (2012), Do Immigrants Cause Crime?” in Journal of the European Economic Association, Vol. 10 (6); L. Nunziata (2015), "Immigration and crime: evidence from victimization data" in Journal of Population Economics, Vol. 28 (3); B. Bell, F. Fasani, S. Machin (2012), "Crime and Immigration: Evidence from Large Immigrant Waves" in Review of Economics and Statistics, Vol. 95 (4); B. Bell,S. Machin (2013). "Immigrant Enclaves and Crime" in Journal of Regional Science, Vol. 53 (1); L. Jaitman, S. Machin (2013). "Crime and immigration: new evidence from England and Wales", in IZA Journal of Develoment and Migration, Vol. 2 (1); T. Wadsworth (2010), "Is Immigration Responsible for the Crime Drop? An Assessment of the Influence of Immigration on Changes in Violent Crime Between 1990 and 2000" in Social Science Quarterly, Vol. 91 (2); M. Piopiunik, J. Ruhose (2015), " Immigration, Regional Conditions, and Crime: Evidence from an Allocation Policy in Germany",  in IZA Discussion Paper N. 8962, 6 April 2015;  M.T. Lee, R.T; Martinez Jr., Ramiro (2009), "Immigration reduces crime: an emerging scholarly consensus" in W.F. McDonald (ed.) “Immigration, Crime and Justice”, Emerald Group Publishing.

[9]  J. Doleac, (2017) “Are Immigrants More Likely to Commit Crimes?” in ECONOFACT, http://econofact.org/are-immigrants-more-likely-to-commit-crimes

[10] J.I. Stowell, S.F. Messner, K.F. McGeever, L.E. Raffalivich (2009), “Immigration and the Recent Violent Crime Drop in the United States: A Pooled, Cross-Section Time-Series Analysis of Metropolitan Area” in Criminology Vol. 47 (3)

[11] G. Papadopoulos (2014), “Immigration status and property crime: an application of estimators for underreported outcomes” cit.

[12] H. Zhang (2014), "Immigration and Crime: Evidence from Canada",  Vancouver School of Economics, CLSRN Working Paper N. 135.

[13] Y. Aoki, Y. Todo (2009), "Are immigrants more likely to commit crimes? Evidence from France" in Applied Economics Letters, Vol. 16 (15).

[14] F. Bovenkerk, T.Fokkema (2015), "Crime among young Moroccan men in the Netherlands: Does their regional origin matter?" in European Journal of Criminology, Vol.13 (3).

[15] J. Banks (2011), “Foreign National Prisoners in the UK: Explanations and Implications” in The Howard Journal of Criminal Justice, Vol.  50 (2).

[16] B. Bell, F. Fasani, S. Machin (2012), "Crime and Immigration: Evidence from Large Immigrant Waves" cit.; e anche L. Jaitman, S. Machin (2013), "Crime and Immigration: new evidence from England and Wales" in IZA Journal of Development and Migration, Vol. 2 (1).

[17] J. Banks (2011), “Foreign National Prisoners in the UK: Explanations and Implications” cit.

[18] A. Mohdin (2017), “What effect did the record influx of refugees have on jobs and crime in Germany? Not much”, in Quartz. https://qz.com/901076/what-effect-did-the-record-influx-of-refugees-have-on-jobs-and-crime-in-germany-not-much/ ; M. Gehrsitz, M. Ungerer (2017), “Jobs, Crime, and Votes: A Short-Run Evaluation of the Refugee Crisis in Germany” in IZA Istitute of Labor Economics, IZA Discussion Paper No. 10494,

[19] Deutsche Welle (2016), “Report: refugees have not increased crime rate in Germany” in http://www.dw.com/en/report-refugees-have-not-increased-crime-rate-in-germany/a-18848890

[20] A. Beckley, J.Kardell, J.Sarnecki, in S. Pickering (2014) “The Routledge Handbook on Crime and International Migration”, Routledge, pag.42-47.

[21] C. Hadjimatheou (2012), “Greeks confront crime wave amid austerity”, in http://www.bbc.com/news/world-radio-and-tv-19269891

[22]  R. Martínez, A.Valenzuela (eds) (2006). “Immigration and Crime: Race, Ethnicity, and Violence”, New York University Press.

[23] Vedi studio condotto da Donato Di CarloJulia Schulte-Cloos e Giulia Saudelli, illustrato dagli autori in “Has immigration really led to an increase in crime in Italy?”, EUROPP – European Politics and Policy of the London School of Economics, in http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2018/03/03/has-immigration-really-led-to-an-increase-in-crime-in-italy/

[24] Citata in “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e preguidizi”, Dossier Caritas/Migrantes – Agenzia Redattore Sociale, Ottobre 2009, pag. 12.

[25] È questa anche una delle ragioni che ha portato lo stato della California e le municipalità di alcune metropoli americane che si dichiarano “santuari” dell’immigrazione ad aprire una disputa con l’autorità federale americana, per rompere questo circolo vizioso del profiling che ha prodotto un’ingerenza eccessiva dell’ICE con accertamenti casuali ingiustificati sull’identità di persone che “appaiono” straniere.

[26] Paolo Pinotti, “Clicking on Heaven’s Door: The Effect of Immigrant Legalization on Crime”, apparso su The American Economic Review, January 2015,

https://www.diw.de/documents/dokumentenarchiv/17/diw_01.c.514334.de/pinotti_bams_oct2015.pdf

[27] European Monitoring Centre for Drug and Drug Addition (2016), “Perspective on Drugs – Cocaine trafficking to Europe” http://www.emcdda.europa.eu/cocaine-trafficking-europe_en

[28] European Monitoring Centre for Drug and Drug Addition – EUROPOL (2016), “EU Drug Report – In-depth Analysis – 2016”, EUROPOL Publications,  https://www.europol.europa.eu/publications/

[29] European Monitoring Centre for Drug and Drug Addition – EUROPOL (2016), “EU Drug Report – In-depth Analysis – 2016”, cit., pag. 74.

[30] Per molti dettagli sul traffico di droga in Europa sono in debito all’articolo di L. Paoli e P. Reuter (2008), “Drug Trafficking and Ethnic Minorities in Western Europe” apparso su European Journal of Criminology, vol. 5(1), che può essere trovato in http://euc.sagepub.com/cgi/content/abstract/5/1/13.

[31] Vedi a questo riguardo L. Paoli e P. Reuter (2008), “Drug Trafficking and Ethnic Minorities in Western Europe” cit.

[32] Su questo sfruttamento degli emigranti, si veda R. Walser, J. Zuckerman (2011),The Human Tragedy of Illegal Immigration: Greater Efforts Needed to Combat Smuggling and Violence”, anche se l’articolo adotta un approccio negativo nei confronti dell’immigrazione irregolare in generale. https://www.heritage.org/immigration/report/the-human-tragedy-illegal-immigration-greater-efforts-needed-combat-smuggling

[33] Vedi https://www.kinoborderinitiative.org/.

[34] R. Walser, J. Zuckerman (2011),The Human Tragedy of Illegal Immigration: Greater Efforts Needed to Combat Smuggling and Violence”, cit.

[35] V. Bove e T. Böhmelt, “Does Immigration Induce Terrorism?”, October 29, 2015, pubblicato anche su The Journal of Politics, Vol. 78 (2), April 2016.

Vedi: https://www.researchgate.net/publication/294106471_Does_Immigration_Induce_Terrorism

[36] V. Bove e T. Böhmelt, “Does Immigration Induce Terrorism?”, cit., in particolare il Capitolo 2, dal titolo “Theory: Immigration as a Vehicle for Terrorism Diffusion”. 

[37] Ibidem pag. 25.

[38] Alex Nowrasteh, “Terrorism and Immigration: A Risk Analysis”, CATO Institute, September 13, 2016, https://www.cato.org/publications/policy-analysis/terrorism-immigration-risk-analysis

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