IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO (IV)

(parti: I - II - III )

di Massimo D’Angelo

LOTTA AL “TRAFFICO” DI IMMIGRANTI

  • Sul terzo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare

Per i sostenitori della linea dura del respingimento, l’immigrazione irregolare è una grande messa in scena gestita dalla criminalità organizzata, un complotto tra emigranti quasi tutti criminali (ladri, terroristi, trafficanti di droga, prostitute), appoggiati da criminali pericolosi (i trafficanti). Per questo sarebbe necessaria una gigantesca operazione di polizia, con leggi rigide, impedendo le traversate degli scafisti, aumentando i servizi di controllo (anche elettronico) ai confini, intensificando le misure di difesa anche armata, erigendo muri sempre più alti o barriere di fili spinati, arrestando tutti i criminali e accelerando i processi di espulsione, bloccando gli immigranti nei paesi d’origine o di transito. Le organizzazioni umanitarie che assistono questi immigranti vengono accusate di complicità.  Gli aspetti sociali, economici e politici dell’immigrazione vengono ignorati, come se fossero solo un tentativo di distrazione rispetto alla difesa della sicurezza nazionale.

Nella Parte III[1] di questo saggio, ho parlato di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, articolata in tre diversi tentativi:  

  • Tentativo di considerare il soggiorno illecito nel paese di destinazione come un crimine;
  • Tentativo di supporre che gli immigranti irregolari siano tutti potenziali criminali comuni;
  • Tentativo di focalizzarsi sulle attività criminali che il processo di immigrazione direttamente o indirettamente genera, anche se non commessi dagli immigranti.

Ho già esaminato i primi due tentativi, che se la prendono con gli immigranti, considerandoli, per un motivo o per l’altro, come dei criminali. Le basi su cui si basano queste accuse, come abbiamo visto nella Parte III, sono alquanto fragili. In questa Parte IV mi concentrerò sul terzo tentativo di criminalizzazione, preferito dai governi perché si riferisce a “criminali “diversi dagli immigranti, che sono a volte addirittura le “vittime”. Con questi criminali gli immigranti interagiscono, in qualche modo, spesso perché sono strumentali per realizzare il trasferimento fisico attraverso la frontiera. Ma alcuni di questi crimini non hanno nulla a che vedere con il processo di emigrazione, anche se sono commessi in concomitanza con questo processo.

Questo terzo tentativo di criminalizzazione include due gruppi di criminali:

  • I professionisti dell’emigrazione, che organizzano e facilitano il viaggio degli immigranti irregolari, gli intermediari dell’emigrazione o i suoi facilitatori, che le autorità pubbliche preferiscono chiamare “trafficanti di migranti. Costoro operano sia nei paesi d’origine che nei paesi di transito o quando l’immigrante sta attraversando la frontiera, e spesso hanno basi di appoggio anche nei paesi destinatari. Le legislazioni nazionali sull’immigrazione considerano l’attività di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare un vero e proprio reato. Su di essi si scagliano tutte le accuse dei vari governi e delle forze dell’ordine.
  • Coloro che commettono crimini contro gli immigranti, che ne sono le “vittime”, come violenze, abusi fisici, sfruttamenti, o asservimento. Possono essere commessi dagli stessi intermediari dell’immigrazione o da altre persone con cui l’immigrante entra in contatto durante il processo di migrazione (nei campi profughi, lungo il viaggio, o alla frontiera, o dopo aver attraversato il confine). I criminali sono singoli individui o bande organizzate, come trafficanti di droga e trafficanti di persone. A volte questi crimini sono commessi addirittura dal personale di sicurezza che dovrebbe proteggere i migranti. Possono essere atti isolati (come stupri, furti, assalti fisici, sequestri, ricatti), o reati ripetuti o sistematici, come nel caso del traffico di persone (human trafficking), della promozione del contrabbando di stupefacenti, o del terrorismo transnazionale (questi due ultimi reati sono stati esaminati nella Parte III di questo saggio). Questo secondo gruppo di crimini non riceve la stessa attenzione dai media o dagli oppositori dell’immigrazione rispetto al primo tipo. Infatti, nel clima politico attuale, è sul primo di questi crimini (il traffico di immigranti) che si concentra l’attenzione delle misure di respingimento, e altrettanto farò io in questa Parte IV, anche se dedicherò una breve sezione per sottolineare le sofferenze cui gli immigranti sono sottoposti quando subiscono crimini perpetrati nei loro confronti nel contesto dell’immigrazione.

In pratica non è sempre facile distinguere tra immigranti e chi commette questi due tipi di crimini. C’è molta ambiguità nel modo in cui questi reati vengono perseguiti, e frequentemente gli immigranti (e non solo i “terzi”) sono colpiti dalle repressioni perché considerati in qualche modo complici. Questa confusione è anche dovuta al fatto che gli individui che commettono questi reati “appaiono” fisicamente simili agli immigranti, vestono o parlano in modo uguale, sono stranieri in ambedue i casi, a volte della stessa nazionalità. Spesso sono gli stessi criminali che, quando sono colti in fragrante, cercano di “mimetizzarsi” tra gli immigranti per sfuggire alla cattura. Questa ambiguità a volte è anche voluta dai promotori delle politiche di repressione dell’immigrazione clandestina, perché funzionale alla logica della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare in generale, e contribuisce al prolungamento della detenzione degli immigranti irregolari nei centri di “accoglienza”, anche se sospettati di crimini che non hanno commesso. Colpendo nel gruppo, anche a costo di vite umane, la repressione dei crimini identificati in questo terzo tentativo, trasforma facilmente gli immigranti irregolari in vittime innocenti, considerate come danni collaterali, perfino attribuendone la responsabilità agli immigranti stessi, in quanto avrebbero accettato il rischio di mescolarsi tra i criminali dal momento che hanno deciso di intraprendere un percorso illecito.

  • Perseguendo chi organizza e facilita l’immigrazione irregolare

Il primo di questi crimini consiste nella facilitazione del processo di immigrazione irregolare offrendo una serie di servizi per permettere di arrivare al paese di destinazione attraversando illegalmente il confine. Le legislazioni dei paesi d’immigrazione considerano questo un grave crimine e sperano che, colpendo i responsabili, si riesca a bloccare il motore centrale del processo migratorio. Senza questi facilitatori, dice questa ipotesi, gli immigranti non riuscirebbero a compiere il loro viaggio. La facilitazione del processo migratorio sarebbe il punto debole della catena dell’emigrazione. Forse hanno ragione: la facilitazione dell’emigrazione è essenziale. L’unico errore di questa ipotesi è illudersi che reprimendo gli intermediari si riesca a fermare il processo migratorio. Ignorano il vecchio detto che dice “morto un papa se ne fa un altro”.  Arresti un intermediario, e ne esce fuori un altro. Perché? Perché c’è una domanda così forte per questa funzione, legata al desiderio e alla necessità di emigrare, che esiste sempre un’offerta di professionisti dell’immigrazione clandestina, che si rinnova continuamente, nonostante le misure repressive cerchino di far svanire lo spazio operativo di alcuni facilitatori, perché simultaneamente questa repressione genera opportunità per nuovi facilitatori che apriranno nuovi canali.

Concentrare le misure repressive in quest’area ha però i suoi vantaggi per chi è incaricato di accelerare politiche di contenimento: riescono così a presentare alla loro base sociale, agli elettori, un’immagine credibile della natura criminale delle attività di cui questi individui sono accusati (cosa che non riescono sempre a fare con altrettanta efficacia nei tentativi di criminalizzazione dell’immigrato stesso). Dopotutto questi trafficanti stanno cercando di “sfondare” i confini nazionali per far passare gli immigranti con espedienti che sono o per lo meno appaiono atti decisamente criminosi, tanto che sono clandestini. In più, se si riesce a contenere questo crimine, l’ipotesi è che così si raggiunga l’obiettivo di ridurre l’entità dei flussi migratori. Per questo questa ipotesi è accettata anche dai governi che complementano le misure repressive contro l’immigrazione con approcci più tolleranti verso l’accoglienza. Ne deriva che è fondamentale colpire l’organizzazione del traffico degli immigranti, nella convinzione (o nell’illusione) che colpendo costoro si riesca a ridurre, per lo meno nel breve periodo, il numero degli immigranti sbarcati o il numero di persone che attraversano il deserto, o che scavalcano le staccionate, i muri, il filo spinato, passano i varchi alpini. Il numero elevato di arresti effettuati tra questi trafficanti, o il numero di pescherecci o gommoni distrutti, o il numero di gruppi clandestini bloccati alla frontiera sarebbero un sufficiente deterrente per gli immigranti irregolari ad intraprendere il loro viaggio.  Si rafforzano così le polizie di frontiera, si moltiplicano gli sforzi della guardia costiera per controllare le rotte marittime seguite dagli scafisti, e si fornisce assistenza a paesi “terzi” che conducano operazioni repressive contro i “trafficanti di migranti’. Il successo ricercato sarà dimostrato dal numero di arresti o di navigli disabilitati, anche se queste statistiche non sono sufficienti per attestare un contenimento dell’immigrazione. Ma questi dati sono semplici da comprendere e richiamano facilmente l’attenzione del pubblico. 

  • Sugli “intermediari” dell’emigrazione

Chi sono questi intermediari dell’emigrazione che le autorità tanto perseguono come criminali primari? Qual è il loro ruolo?  Perché sono tanto importanti?

Nel paese d’origine, sono coloro che a volte pianificano il viaggio dell’emigrante, spesso organizzano gruppi di migranti per evitare viaggi isolati, suggeriscono gli itinerari da seguire, per lo più alternativi alle rotte commerciali, meno rintracciabili da parte dei controlli di frontiera. Possono offrire informazioni preziose su come prepararsi per la partenza, anche su come procurarsi i documenti per il viaggio, e li mettono in contatto con chi li accompagnerà durante tutto o parte del tragitto. Spesso forniscono i mezzi di trasporto (terrestri o marittimi), non di rado di fortuna, per il trasferimento fisico dei migranti, anche se parte del viaggio può essere fatto a piedi. Spesso offrono alloggi temporanei ove sostare durante il tragitto. Sono loro a decidere i tempi precisi e le modalità del viaggio. Sono attività di cui i futuri emigranti hanno disperato bisogno, se non possono sperare di ottenere simili servizi attraverso i canali legali. Per questo ricorrono alla loro assistenza e alla loro protezione, anche quando non se ne possono fidare completamente, tanto è vero che spesso vengono traditi, derubati, colpiti, violentati e sfruttati. E di questa dipendenza dai servizi dei professionisti dell’emigrazione sono ben consapevoli.

L’emigrante spesso incontra più facilitatori durante il suo lungo viaggio, non necessariamente collegati tra di loro. O se ne avvantaggia soltanto per una parte del suo viaggio, se ha intrapreso un’altra parte del percorso per suo conto. Spesso si tratta di un complesso sistema di gruppi indipendenti tra di loro, anche se in contatto reciproco, che flessibilmente interagiscono, ma non necessariamente legati ad accordi di lunga durata. A volte, infatti, questi accordi hanno applicazione solo per brevi periodi, o addirittura sono validi solo per singole operazioni. Gli intermediari lavorano con sistemi organizzativi molto diversi tra di loro, molto flessibili, e non necessariamente strutturati in rigide gerarchie.

Non è raro, ma non è generalizzabile, che alcuni “facilitatori” forniscano anche documenti o visti contraffatti per entrare nel paese di destinazione, e questi sono senz’altro reati perseguibili anche a carico degli emigranti, ma questi ultimi, se disperati, possono essere disposti a varcare la soglia della legalità se queste infrazioni aprono porte a loro completamente precluse. In verità, però, la maggioranza degli emigranti dispone dei propri documenti di espatrio ottenuti in forma legale, salvo il caso in cui le autorità del paese d’origine pongano particolari difficoltà al rilascio di passaporti, o i documenti siano andati persi durante il viaggio (il che succede spesso nel caso di trasporto marittimo), o siano stati sequestrati da chi dovrebbe solo facilitare il viaggio, o non siano disponibili per le condizioni miserrime in cui possibili profughi abbiano abbondonato il proprio paese, la propria casa ed ogni bene personale, nella fretta di fughe precipitose. In tal caso, i documenti personali potrebbero essere forniti da entità internazionali come la UNHCR, ma i profughi dovrebbero rivolgersi a questa agenzia delle Nazioni Unite e molti di loro sono ignari di questa possibilità, per lo meno inizialmente, ed apprendono a proprie spese delle opzioni e delle difficoltà che si presentano loro durante il viaggio. In mancanza di agenzie pubbliche o internazionali che assistano il processo migratorio in modo sicuro, trasparente, e affidabile, la maggioranza dei migranti irregolari, viste le condizioni in cui si trovano o da cui si allontanano, ricorrono ai servizi di professionisti dell’immigrazione clandestina come l’unica soluzione di cui dispongono, anche se questo significa procurarsi un passaporto falso. Questa può non apparire un’idea tanto malvagia a chi è disperato.

A volte il “facilitatore” è un singolo individuo (chiamato il coyote, nel contesto del latino-americano), ma più spesso fa parte di una rete di intermediari, se non di una vera e propria organizzazione, per lo più clandestina. In alcuni casi, si tratta di organizzazioni di tipo familiare, con pochissimi membri, che non hanno bisogno di grandi mezzi finanziari per avviare quest’attività, anche se fanno affidamento su collegamenti con individui che possano svolgere una funzione di appoggio, e dispongono di un minimo di mezzi di trasporto, quali automobili o imbarcazioni. Ma nella maggioranza dei casi, questo ruolo di facilitazione è svolto da organizzazioni più sofisticate, che richiedono mezzi (e capitali finanziari) più ingenti, anche per procurarsi documenti, contraffarli, fornire “case-rifugio” ed una varietà di mezzi di trasporto.  A volte questi gruppi di professionisti sono vere e proprie organizzazioni criminali, pur se è possibile svolgere la facilitazione del processo migratorio senza intenti criminali. Ma la clandestinità è dominante, anche perché occorre evitare l’interferenza di coloro che si potrebbero opporre al viaggio, cominciando dalle autorità del paese di origine (anche se esiste un diritto internazionale ad emigrare, salvo che si tratti di criminali ricercati per reati comuni); oppure l’opposizione all’emigrazione può provenire da gang di delinquenti da cui l’emigrante vuole scappare perché perseguitato; o è esercitata da singole persone che stanno abusando del potenziale emigrante (un marito violento, un padre abusivo, un ex-fidanzato aggressivo, una famiglia d’origine possessiva); e sicuramente dalle autorità del paese d’immigrazione o del paese (o dei paesi) di transito che si oppongono all’immigrazione irregolare. La clandestinità non necessariamente implica un approccio criminale all’organizzazione del viaggio migratorio, ma favorisce l’interferenza di entità con intenti criminosi. Esistono inoltre alcune organizzazioni di volontariato o addirittura delle forme associative auto-gestite di reti di emigranti che possono svolgere, per lo meno in parte, questo ruolo di “facilitazione” (si veda in questa Parte IV la sezione sul ruolo delle ONG). Ne abbiamo degli esempi significativi nelle “carovane” organizzate in America centrale per portare emigranti, prevalentemente dall’Honduras, al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, per garantire un viaggio “sicuro” senza interferenze di bande criminali durante il percorso migratorio; o il caso di Alarm Phone operante in Marocco, che rappresenta una forma auto-gestita dagli emigranti per opporsi alle misure di respingimento violento nei confronti dei migranti prese in questi ultimi anni dalle autorità spagnole e marocchine.  Tutto questo complica il quadro complessivo di chi siano veramente questi intermediari, anche perché rende meno ovvio il facile cliché di “bande criminali “che gestiscono l’organizzazione e la facilitazione dell’emigrazione.

La nazionalità di questi facilitatori varia. Nel paese d’origine, sono probabilmente della stessa nazionalità dell’emigrante. Lungo il tragitto o nell’ultimo tratto per l’attraversamento del confine, la nazionalità varia considerevolmente. In America, sono per lo più latino-americani.  Per attraversare il Mediterraneo verso la Grecia o l’Italia, la varietà delle nazionalità cresce considerevolmente, implicando intermediari che fanno base in città come Algeri, Bengasi, Tunisi ed il Cairo, ma anche in basi ausiliarie come Istanbul, Smirne, Amman  e Beirut. Questi ultimi “facilitatori” hanno un’amplia rete di contatti nelle città europee, includendo Roma, Parigi e Berlino.  L’estraneità di questi intermediari rispetto agli emigranti prevale e ne complica i rapporti, essendo più facile l’interferenza di gruppi criminali.

Il costo del “servizio” di intermediazione per l’immigrazione

Per i loro servizi, i “facilitatori” richiedono ai migranti alti compensi, computando un elevato elemento di rischio. Gli emigranti sono spesso costretti a indebitarsi per sostenere questo costo, richiedendo aiuto a familiari, o usando risparmi accumulati in anni. Richieste di pagamenti successivi a quello iniziale non sono infrequenti, costringendo a volte i migranti a cercare lavoro (spesso per vie illegali) durante il tragitto.  Il livello del prezzo da pagare varia considerevolmente, dipendendo anche dal mezzo di trasporto utilizzato, la distanza da percorrere, la grandezza del gruppo di migranti e dai rischi affrontati. 

Per traversare il confine meridionale degli Stati Uniti via terra, il costo va da un minimo di $3.000-5.000 fino a $7.000-10.000 per chi viene dal Centro-America, ma può arrivare fino a $9.000-10.000 se fatto via mare (per es. in California), o addirittura fino ad un massimo di $75.000-130.000 per migranti cinesi, anche se il costo medio per gli immigranti provenienti dall’Asia è di $26.000.  Spesso gli emigranti centro-americani pagano l’intero costo prima alla partenza, includendo trasporto, vitto e alloggi di fortuna, anche se le condizioni di viaggio possono essere particolarmente disagiate. Per il mero attraversamento della frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, la tariffa può aggirarsi attorno ai $1.500-2.500. Il costo più basso del servizio di intermediazione per i latino-americani rispetto agli asiatici riflette la distanza più breve ma anche il maggiore rischio di essere arrestati per i primi. Molti immigranti cinesi arrivano direttamente nelle grandi città portuali come San Francisco e New York con maggiore garanzia di “successo” (ma a volte il Messico viene utilizzato come tappa intermedia). Il costo stimato è più basso per i provenienti dall’Europa (più di $6.000) e ancor meno per gli africani ($2.200),[2] ma l’attendibilità di queste ultime stime è dubbia.

Il costo per entrare illegalmente in Europa non è di facile stima, perché i viaggi iniziano da luoghi molto distanti, con soste intermedie a volte molto lunghe e varia a seconda della rotta utilizzata.[3] Per l’attraversamento del Mediterraneo lungo la rotta orientale (dalla Turchia verso le isole greche), parliamo di un costo di circa €1.000-1.500 per un percorso di un minimo di un’ora. Per la rotta centrale dalla Libia (ma anche dall’Egitto o dalla Tunisia), i migranti pagano da un minimo di €800 ad un massimo di €10.000, ed il percorso che può avere una durata fino a diverse settimane. Non dispongo di stime accurate sul costo dell’attraversamento lungo la rotta occidentale. Il tragitto più breve è quello dello stretto di Gibilterra o delle isole Canarie, o il superamento della frontiera terrestre di Ceuta e di Melilla, ma le difficoltà opposte sono enormi, e ciò spiega la popolarità della rotta centrale nel corso degli ultimi anni (anche se recentemente questo può cambiare con l’avvento del governo Conte in Italia e del governo Sanchez in Spagna). In ogni caso, il compenso spropositato richiesto dai facilitatori ai migranti irregolari è di gran lunga superiore al prezzo commerciale di un regolare biglietto di trasporto aereo, marittimo, ferroviario o via autobus.

Il mercato per i servizi di ‘facilitazione’ dell’immigrazione clandestina è estremamente competitivo e volatile, e richiede una considerevole flessibilità operativa. Oggi ci sono clienti, domani no; una rotta si chiude, un’altra se ne apre; una modalità diventa impraticabile, bisogna pensarne un’altra; alcuni facilitatori sono arrestati o scompaiono, e si crea spazio per nuovi operatori. Questi intermediari possono intervenire in momenti e con ruoli diversi, tra i quali possiamo individuare i seguenti:

  • I primi contatti (i promotori d’affari), che incontrano i futuri migranti nel loro paese d’origine (e che in America Centrale vengono a volte chiamati enganchadores) o nel paese di transito (quando gli emigranti, disperati, ricercano assistenza per proseguire il proprio tragitto e attraversare la frontiera o imbarcarsi).
  • Coloro che organizzano concretamente il viaggio migratorio (chiamati vaquetones in America Centrale), includendo le guide o gli accompagnatori (anche a piedi, nei percorsi via terra) o i conducenti di veicoli, scafisti o simili, che fisicamente accompagnano l’emigrante nel viaggio e nel passaggio della frontiera.
  • Gli esattori, che riscuotono i pagamenti dovuti dal migrante (possono coincidere con i primi due). Sono spesso molto vicini ai capi delle organizzazioni, che gestiscono gli aspetti finanziari dell’intermediazione o l’organizzazione generale di quest’attività. Le modalità di riscossione del prezzo dell’intermediazione variano, e includono trasferimenti monetari con mezzi commerciali.
  • I cosiddetti chequeadores, che monitorano il percorso complessivo, ed in particolare le tappe intermedie (checkpoints) e aree controllate dalle forze dell’ordine in prossimità del confine (normalmente sono dotati di mezzi di comunicazione per inviare rapidi messaggi per superare eventuali ostacoli al tragitto).
  • Persone che non necessariamente entrano in contatto diretto con gli immigranti, come i contraffattori di documenti, i fornitori dei mezzi di trasporto (imbarcazioni o veicoli vari) o persone che svolgono una funzione ausiliare (per esempio di collegamento). Tra costoro, vi sono quelli che in America Latina chiamano cuidanderos, che possono essere anche cittadini del paese d’immigrazione, che possono svolgere azioni di distrazione per confondere gli agenti della frontiera mentre vengono effettuati attraversamenti in altri luoghi da parte degli immigranti, o si occupano di assicurare luoghi di rifugio “sicuri” (case-rifugio o safe houses) ove gli immigranti restano temporaneamente una volta attraversata la frontiera, in attesa di proseguire il loro viaggio, procurando veicoli a questo scopo.
  • Funzionari pubblici o “persone che sanno”, contattati per superare ostacoli e penetrare la frontiera, spesso implicando atti di corruzione.

I “facilitatori” non sono necessariamente collegati né si conoscono tra di loro e, pure se si trattasse di un solo gruppo, possono essere organizzati come una serie di staffette che si passano il “testimone”, mantenendo la riservatezza richiesta dalla clandestinità dei loro rapporti reciproci, così che ciascun anello della catena sia ignaro degli altri.

Il modo in cui l’emigrante entra in contatto con il suo “facilitatore” o con la sua rete non è uniforme.  Nel paese d’origine, si può cominciare con un conoscente o un altro emigrante; rispondendo ad un annuncio, magari su Internet o su Facebook. I suggerimenti dai social media, però, se non affidabili, possono creare seri problemi. È difficile stabilire un rapporto di fiducia con un “facilitatore” che non si conosce.  Spesso il canale preferito è la rete di immigranti (una comunità virtuale di conoscenze tra migranti futuri, presenti e passati, fondata su scambi di esperienze e di conoscenze) che offre solidarietà ed un sostegno affidabile, perché basato su operazioni che hanno già avuto lieto esito e sulla lealtà dei propri membri. Ma in mancanza di questi contatti, gli emigranti ricorrono a individui non vagliati, alcuni di sospetta fama, a ciarlatani, o, peggio ancora, ad avventurieri pericolosi che si approfittano di emigranti ignari o sprovveduti, specialmente se il viaggio viene interrotto, e l’emigrante è costretto a sostituire un canale di assistenza con un altro, cercando un nuovo facilitatore.

  • Sulla repressione e prevenzione dell’attività criminale degli “intermediari” dell’immigrazione

L’immagine proiettata dai media e dalle stesse autorità presenta questi “facilitatori” come dei criminali violenti che si macchiano di sangue in continuazione. È un’immagine che purtroppo corrisponde alla verità in alcuni casi, forse troppi, ma non in tutti i casi. Questa immagine ha subìto un forte deterioramento in questi ultimi anni, grazie all’accumularsi crescente di violazioni di diritti umani a carico di questi “intermediari”, che le autorità preferiscono chiamare trafficanti (si veda la sezione sul traffico di esseri umani e quello sui Crimini contro i migranti in questa Parte IV). L’aumento dei decessi di migranti nel corso del loro viaggio ha posto l’attenzione sulle responsabilità dei trafficanti, specialmente nella misura in cui si è assistito ad una sempre più intensa interazione tra costoro e i trafficanti di droga ed i trafficanti di esseri umani, ed una crescente frequenza di omicidi commessi nei percorsi a piedi, ed il ripetersi di tragedie di migranti stipati in TIR, morti per soffocamento durante tragitti prolungati.

Eppure, il vero reato di cui devono rispondere i trafficanti di migranti è solo l’assistenza fornita ad attraversare illegalmente il confine, avendo favorito e reso possibile questo attraversamento (in italiano si usa frequentemente il termine di reato di favoreggiamento), e per questo sono arrestati e processati. La repressione non colpisce i trafficanti tanto per gli atti criminosi e violenti a danno degli immigranti (sui quali mi soffermerò alla fine di questa Parte IV), che eventualmente aggravano il precedente crimine. Questo approccio è in diretto collegamento con il primo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare (vedi Parte III di questo saggio), ove gli immigranti sono criminalizzati solo per aver infranto le leggi sull’immigrazione.  

Le pene imposte per questo reato variano da paese a paese, e sono inferiori rispetto al reato di traffico di persone (Human Trafficking). Negli Stati Uniti, la pena va da una semplice multa all’incarcerazione fino ad un massimo di dieci anni, o una combinazione delle due. La pena aumenta a seconda della dimensione del gruppo di immigranti che il trafficante ha cercato di far entrare illegalmente.  La pena aumenta se, durante l’attraversamento della frontiera, gli immigranti subiscono danni fisici (in tal caso può estendersi fino a 20 anni), o addirittura muoiono (fino all’ergastolo). Probabilmente queste pene sono superiori a quelle imposte da molti paesi europei, ma comunque la loro imposizione concreta si presta ad una notevole discrezionalità in fase giudiziaria, e possono essere molto inferiori, se è la prima volta che il trafficante commette questo crimine. Molto dipende anche dalle modalità con cui il tentativo di immigrazione illegale è stato portato avanti, con pene minori per chi è percepito come un “facilitatore” isolato o commette questo reato senza una finalità di lucro (ad esempio, un “semplice passaggio” in macchina per attraversare il confine), mentre maggiori sono le pene per chi è percepito come membro di una organizzazione criminale. 

I mezzi utilizzati dalle autorità dei paesi d’immigrazione per catturare questi trafficanti sono di una notevole varietà. Coloro che gridano a viva voce la necessità di contenere i flussi migratori, sollecitano misure severe di polizia di frontiera, erigendo muri invalicabili, instaurando blocchi navali, fino a chiedere di sparare a vista contro qualunque trasgressore. A questi richiami, rispondono le autorità moltiplicando controlli ai confini, intensificando il pattugliamento e l’uso della guardia costiera per prendere scafisti,  introducendo tecnologie sofisticate di tipo biometrico che identificano a distanza la presenza di esseri umani in ampli territori desertici o in mare, impiegando elicotteri o altri mezzi aerei di ricognizione, in combinazione con mezzi navali o con mezzi motorizzati a terra, addirittura esigendo controlli polizieschi e giudiziari durante operazioni di salvataggio e soccorso (Saving and Rescue, SAR) . Questi mezzi includono anche la fornitura di aiuti tecnici a paesi “terzi”, per ottenerne la collaborazione nella repressione dei traffici clandestini di migranti (ad esempio, gli aiuti alla guardia costiera libica).

Un esempio significativo di quest’azione repressiva è quella condotta, a livello europeo, dall’agenzia Frontex[4] (dall’espressione “Frontières extérieures”), con sede a Varsavia, che intende assicurare un’azione intensiva e tempestiva a difesa dei confini europei, con l’uso della polizia di frontiera dei paesi membri e della loro guardia costiera, utilizzando mezzi navali e aerei degli stati europei dell’area Schengen. La difesa dei confini comunitari meridionali dell’Europa, coordinata da Frontex, può contare su tecnologie sofisticate di sorveglianza,[5] che includono radar, satelliti, velivoli senza pilota (drones), un centro per il monitoraggio dei flussi migratori e relativa analisi di rischio (specialmente per attività criminali e terrorismo), e conta sul sostegno del sistema Copernico[6] e del sistema Eurosur.[7] Queste tecnologie mirano a colpire scafisti o trafficanti di immigranti, permettendo il riconoscimento del movimento, del luogo di provenienza, della grandezza e della velocità di ogni natante, che, combinato con sistemi di rilevamento aereo, offre in tempo reale immagini dettagliate anche del movimento delle persone sui natanti.  L’impiego massiccio di queste tecnologie rafforza la trasformazione della politica europea d’immigrazione, che è concepita sempre più come difesa della “sicurezza” della Fortezza Europa, assecondando un processo di “securitization” dell’immigrazione irregolare.

Simili tecnologie vengono utilizzate non solo nell’area del Mediterraneo ma anche in regioni come il confine meridionale degli Stati Uniti, nei Caraibi, in California, nel golfo di Aden, nelle le zone asiatiche del Pacifico e le coste australiane, con risposte sempre più difensive.

  • Lotta contro il traffico di migranti o contro il traffico di esseri umani?

Coloro che attaccano i facilitatori dell’immigrazione irregolare, siano essi gli scafisti che attraversano il Mediterraneo o i coyote che tentano di passare la frontiera al sud degli Stati Uniti, o simili intermediari con altri appellativi in altri contesti geografici, sempre più frequentemente si riferiscono a costoro come “trafficanti di esseri umani”, rafforzando l’intento di criminalizzarne il ruolo. Il traffico di persone (human trafficking) è un grave reato, ovunque sia compiuto, anche nel territorio nazionale, e va represso con decisione. Se questo è quello che fanno gli scafisti o i coyote, meritano il massimo biasimo e una sanzione esemplare, proporzionale a tale crimine.  Quante persone (uomini, ma specialmente donne e bambini) “spariscono” per essere incanalate nel traffico di persone lungo i sentieri più turpi della malavita, dando luogo a nuove forme di schiavitù, promuovendo prostituzione, forzando il reclutamento di manovalanza per criminalità (compreso contrabbando e spaccio di stupefacenti)! 

Tuttavia, immigrazione irregolare e traffico di essere umani si riferiscono a fenomeni che non si equivalgono, anche se ci può essere confusione tra i due. Questa confusione è anche ingigantita dal fatto che chi traffica in persone può cercare di approfittare dei flussi internazionali di migranti per inserirsi nei processi migratori, tentando di mimetizzarsi.  La confusione è ulteriormente fomentata dal modo in cui i denigratori dell’immigrazione irregolare la designano come traffico di esseri umani, per evitare che ci sia alcun dubbio che si tratti di attività criminale. E ciò serve a gonfiare la retorica della criminalità associata all’immigrazione irregolare. Chiamare il traffico di migranti come traffico di esseri umani aggiunge peso psicologico all’accusa di criminalità attribuita ai facilitatori dell’immigrazione, ma non è altro che un espediente per rafforzare l’immagine negativa da assegnare all’immigrazione irregolare, e decisamente è funzionale alla criminalizzazione di chi favorisce questi flussi. Lo slogan “combattiamo il traffico di esseri umani”, ripetuto con megafoni, ha un effetto sull’opinione pubblica ben più altisonante che parlare del reato di “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”, e se parlassimo più modestamente solo di “assistenza ad attraversare illecitamente il confine.

Stiamo assistendo ad una “guerra di parole”, che travisa la realtà con un uso sconsiderato di espressioni con diverso significato. Ma l’immigrazione irregolare, che sicuramente si realizza in condizioni rischiose e pericolose, non è una nuova “tratta degli schiavi” ove gli emigranti vengono rapiti nel paese d’origine per essere venduti all’estero. Solo in tal caso, infatti, l’uso del termine traffico di persone sarebbe giustificato. L’immigrazione dal sud del mondo, con tutti i suoi connotati sociali, economici e politici, è ben altro. Le istituzioni preposte a reprimere rispettivamente il traffico di migranti ed il traffico di esseri umani sono ben consapevoli della differenza, anche se i dibattiti politici e la stampa contraria all’immigrazione amano confonderli. Esiste un dettaglio non tanto trascurabile che spiega la distinzione: quando l’emigrante sta per intraprendere il suo viaggio che lo porterà in un altro paese, è lui stesso che chiede l’assistenza di una persona o di una organizzazione per assisterlo in questa impresa. Quando l’emigrante è a metà del suo cammino e incontra difficoltà, perché abbandonato o tradito dal suo “accompagnatore” o è confrontato da impedimenti apparentemente insormontabili, è l’emigrante che ricerca nuovi appoggi, richiedendo l’assistenza di un nuovo facilitatore.  L’intervento del trafficante di migranti non è una imposizione, ma la risposta ad una domanda per servizi indispensabili espressa dall’emigrante.  Le vittime del traffico di esseri umani non “domandano” i servizi dei loro aguzzini.

È vero, tuttavia, che anche se il trafficante di migrante risponde ad una domanda di servizi espressa dal migrante irregolare, non si tratta di un mercato perfetto, e la domanda e l’offerta di questi servizi di intermediazione sono soggette a severi condizionamenti. In particolare, l’offerta di questi servizi può essere concentrata nelle mani di poche organizzazioni che la controllano monopolisticamente, ed il potere del facilitatore può essere enorme, mettendo il migrante in condizione molto subordinata. Ma l’emigrante non è costretto a ricorrere ai suoi servizi. A volte può scegliere un altro intermediario, un altro coyote o scafista, può invertire il suo itinerario o andare in altri paesi, e spesso intraprende il processo di emigrazione senza alcun intermediario. L’analisi degli itinerari[8] seguiti dagli emigranti africani che percorrono il continente dal sub-Sahara per raggiungere le coste settentrionali mostra che gli emigranti percorrono itinerari tutt’altro che lineari, seguendo rotte contorte, a volte ripetute in direzione inversa, riflettendo flessibilità e mutevolezza di fronte a situazioni volatili ed imprevedibili. È probabile che in quei frangenti, il migrante, nomade in terre estranee, faccia richiesta di assistenza a trafficanti con cui si incontra per far fronte a queste circostanze, ma non ne è obbligato a farlo: piuttosto ritiene che questa assistenza sia utile, anzi, indispensabile. Questo non esiste nel rapporto tra trafficante di esseri umani e le sue vittime.

Forse l’equivoco è anche dovuto al fatto che in italiano usiamo il termine traffico sia per traffico di migranti, traffico di persone e traffico di esseri umani, mentre in inglese i termini migrant smuggling e human trafficking suonano ben distinti.  Il termine traffico rischia di considerare l’emigrante come un oggetto, un pacco da trasferire, mentre l’intermediario (il trafficante) può essere visto come il vero soggetto che prende decisioni ed effettua il trasferimento fisico dell’emigrante attraverso la frontiera. E questo è quello che le autorità vogliono sottolineare, e in certi momenti può essere anche vero. Ma questa impostazione ignora che il vero soggetto è il migrante, con la sua individualità, altrimenti adottiamo un approccio sbagliato ai problemi dell’immigrazione. Ma soffermiamoci sul significato del traffico di persone per capirne la differenza con il traffico di migranti.  Il traffico di persone riguarda tipicamente queste attività:

  • Traffico interno o internazionale per induzione alla prostituzione ottenuta con violenza, frode o altro mezzo coercitivo, sia di adulti che di minorenni;
  • Traffico al fine di costringere persone a lavoro forzato;
  • Traffico al fine di indurre a lavoro servile (semi-schiavizzato), quando persone vengono obbligate con la forza od altri mezzi coercitivi, per esempio, a eseguire lavori domestici per le famiglie;
  • Commercializzazione di organi o tessuti umani e relativa estrazione.

Essenziale nel traffico di persone è lo sfruttamento di un essere umano da parte di un altro o di una organizzazione criminale, così come l’elemento coercitivo di questo commercio, che può riguardare sia operazioni individuali (ad es. procurare una moglie per un matrimonio non consensuale), che operazioni sistematiche volte a colpire più individui sottoposti alla stessa condizione di costrizione e di sfruttamento. Human trafficking include il reclutamento, il trasporto, e il sequestro di persone effettuato esercitando minacce, coercizione, o frode al fine di poter perpetuare queste diverse forme di sfruttamento. Human trafficking più spesso colpisce donne e bambini, ma può anche riguardare individui di sesso maschile, e comprende anche contratti di lavoro che possono essere considerati come forme camuffate di asservimento obbligato (bonded labor).

Il traffico di persone è un crimine “nascosto”, nonostante si tratti di uno dei crimini che sta crescendo più rapidamente nel mondo intero, grazie ad un grande coinvolgimento della criminalità organizzata. Nella maggioranza dei casi viene scarsamente riportato dalle vittime, che sono perseguitate ed hanno paura di ritorsioni.  È considerato un reato internazionale gravissimo, punito in tutti i paesi del mondo con pene distinte da quelle previste per il traffico di migranti, normalmente inferiori. La distinzione tra i due concetti fu definita solo alla fine degli anni 1990, e fu sancita in chiari termini il 25 dicembre 2003, con l’adozione di un Protocollo per la Prevenzione, Soppressione e Punizione del Traffico di Persone, specialmente Donne e Bambini, normalmente chiamato Protocollo di Palermo, da parte delle Nazioni Unite, inquadrando la protezione delle vittime nell’ambito della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il traffico di persone è oggetto anche di altre convenzioni internazionali e legislazioni nazionali. Il consenso della vittima è considerato irrilevante per la sussistenza del reato, se risulta da rapimento, frode, abuso di potere e inganno, che generano la vulnerabilità della vittima e la sua soggezione. Il traffico dei minori (chi ha meno di 18 anni) è trattato con particolare severità nel Protocollo.

  • Differenze e sovrapposizioni tra traffico di migranti e traffico di esseri umani

Confrontando questi due tipi di fenomeni, possiamo identificare le seguenti differenze:

  • Il consenso della persona che emigra è essenziale nel traffico di migranti. Il ruolo del trafficante non altera la natura volontaria della partecipazione dell’immigrante all’attraversamento della frontiera. Nessuno lo obbliga a farlo se non la situazione oggettiva di disagio e di necessità che lo ha spinto ad emigrare. Il consenso è completamente assente o, se presente, solamente estorto (con minacce, violenza o inganno) nel caso di traffico di persone. L’immigrante irregolare richiede volontariamente i servizi del trafficante-facilitatore perché non ha i necessari permessi o visti o altre condizioni per passare la frontiera per le vie legali. Se i paesi d’immigrazione introducessero riforme per rendere più accessibili i visti regolari, molti migranti preferirebbero i canali leciti. È la mancanza di questi accessi che spinge il migrante clandestino a sottomettersi ai pericoli e alle condizioni degradanti dell’immigrazione irregolare, sottoponendosi ai rischi che essa comporta volontariamente. Nel traffico internazionale di persone, la vittima non ha mai acconsentito ad essere trasferita in un altro stato, né glielo hanno mai chiesto, ma è obbligata a farlo o, se ha acconsentito, lo ha fatto perché sotto minaccia, sottoposta a violenza fisica o coercizione, dopo aver subìto raggiri, frodi, sotterfugi o inganni.
  • Sia il traffico di migranti che il traffico di persone comportano un commercio, ma con un oggetto diverso: nel traffico di persone, si commercia in persone umane che vengono sfruttate; nel traffico di migranti si commercia un servizio (per facilitare l’attraversamento della frontiera).
  • Il trasferimento internazionale: il traffico di persone si può realizzare sia a livello internazionale che nell’ambito di uno stesso paese, e a dire il vero non necessariamente implica il trasferimento fisico della vittima da un luogo ad un altro (può infatti avvenire anche nell’ambito delle pareti domestiche); il traffico di migranti richiede un trasferimento internazionale. In base all’UNODC, un quarto delle vittime di traffico di persone non lascia il proprio paese.
  • Infrazione delle leggi d’immigrazione. L’ingresso nel paese destinatario nell’immigrazione clandestina è sempre in contravvenzione delle leggi d’immigrazione; il traffico di persone può anche avvenire sia rispettando quelle leggi che infrangendole.
  • Libertà di movimento dopo l’immigrazione. Una volta entrati nel paese di destinazione, l’immigrante irregolare è normalmente libero di decidere dove vivere o quale lavoro fare, o come impiegare il proprio tempo o continuare il suo percorso, senza altre costrizioni che quelle imposte dalle autorità o dalle sue condizioni di povertà e marginalizzazione, salvo che intervengano nuovi vincoli che ne cambino la posizione. Il suo rapporto con l’intermediario si conclude quando l’immigrante raggiunge la sua destinazione. Il traffico di persone colpisce i diritti umani fondamentali delle vittime. Dopo aver attraversato le frontiere, alle vittime vengono spesso sottratti i documenti personali, per evitarne il libero movimento. Le vittime non possono scegliere dove e come proseguire il proprio cammino, ma rimangono costrette nella condizione di sfruttamento in cui sono state indotte sin dal momento del loro sequestro. 

Esiste, tuttavia, un’area grigia che accomuna i due fenomeni, con una possibile sovrapposizione:

  • Anche le vittime del traffico di persone possono essere immigranti irregolari, anche se non necessariamente, pur essendo una percentuale modesta del flusso di immigranti.
  • Ambedue i traffici possono essere gestiti da organizzazioni con intenti illeciti, ma ciò non è sempre vero nel traffico di migranti. Il traffico di persone implica spesso il coinvolgimento della criminalità organizzata, con complesse strutture di tipo mafioso e reti di contatti non episodici per il sistematico sfruttamento delle vittime. Nel caso dell’immigrazione clandestina, queste organizzazioni possono non essere così complesse, ma spesso hanno dimensioni modeste, basate solo su una “rete” di contatti tra coyote o “accompagnatori” che aiutano i migranti nell’attraversamento del confine, non compiendo altro reato a danno degli emigranti. Nel traffico di persone c’è sempre una vittima di un grave crimine: la persona che è stata sfruttata.  
  • Ci sono, però, frequenti casi in cui nel traffico di migranti si aggiungano altri crimini più gravi, particolarmente a danno degli emigranti, quando i trafficanti “maltrattano” i migranti con atti di violenza o abusi. Questi atti possono essere commessi anche da altri che non sono i trafficanti (compresi membri delle stesse autorità preposte alla sicurezza) e che, in concomitanza con l’attraversamento della frontiera, compiono gravi reati a danno dei migranti. Nel traffico di persone lo sfruttamento è una caratteristica sistematica e strutturale del rapporto tra il criminale e la vittima. La violenza del “trafficanti di migranti” non è un evento sistematico, anche se frequente, e non è inevitabile.
  • Le legislazioni nazionali fanno una netta distinzione tra i due reati, punendoli con pene diverse. 

    Un doppio rischio

    Quante volte, immigranti irregolari debbono scappare dai tentativi di bande di criminali, lungo la frontiera del Messico con gli Stati Uniti, per evitare di essere sequestrati per essere costretti a divenire strumento dei loro traffici illeciti. Quante volte donne immigrate vengono avvicinate e raggirate da reti della prostituzione per essere soggette a questo tipo di sfruttamento. ONG operanti in quella frontiera o nei paesi destinatari continuamente offrono rifugio a questi immigranti, nel tentativo di sottrarli da queste forme di aggressione.  Così gli emigranti debbono fuggire da due rischi: il rischio di essere presi dalle autorità del paese destinatario, per aver infranto le leggi sull’immigrazione, ed il rischio di essere messi in trappola dalle gang criminali che organizzano varie forme di traffico di persone.

     Tuttavia, il confine tra immigrazione clandestina e human trafficking diventa nebuloso quando la prima si trasforma nel secondo. Ciò avviene quando il ruolo del ‘trafficante’ si trasforma da quello di mero facilitatore dell’emigrazione in vero e proprio sfruttatore dei migranti, e affinché questo avvenga, cambia la natura dei reati commessi. Questa evoluzione avviene anche quando nuovi attori criminali intervengono (non necessariamente coloro che hanno facilitato l’immigrazione), interferendo nel processo migratorio, prima, durante o dopo l’attraversamento fisico della frontiera, sottomettendo i migranti ad un controllo totale, imponendo con violenza, ricatti o minacce (incluso il sequestro fisico delle persone) comportamenti tipici del traffico di esseri umani. In tal caso, gli immigranti irregolari divengono vittime di traffico di persone e i due fenomeni si soprappongono. Questo cambiamento è favorito dalla fragilità e dalla debolezza degli immigranti irregolari, che li rende vulnerabili al rischio di asservimento, subendo ogni sorta di violenza e di sfruttamento (prostituzione, lavoro forzato o altre forme di abuso) da parte di criminali che ne approfittano. In tal caso, nonostante la distinzione concettuale tra human trafficking e migrant smuggling, la differenza praticamente svanisce se il migrante, pur avendo consentito volontariamente ad attraversare il confine, diviene vittima di coercizione in modo da condizionarne completamente il comportamento dopo aver affrontato il processo di emigrazione. Tuttavia, dobbiamo essere attenti a questa estensione del concetto di coercizione, perché rischiamo di estendere troppo facilmente il concetto di human trafficking oltre misura, ignorando le specificità dell’immigrazione irregolare. Infatti, questa estensione non si applica a tutti gli immigranti irregolari ma ad una loro minoranza. E non tutti i trafficanti di migranti si trasformano in trafficanti di esseri umani.

Concludendo, se l’obiettivo delle autorità è colpire chi “facilita” o “favoreggia” l’immigrazione clandestina, continuare a parlare di traffico di persone è fuorviante, proprio per le caratteristiche di quest’ultimo che non sono presenti nell’appoggio all’immigrazione irregolare.  Confondere l’immigrazione clandestina con il traffico di persone produce due effetti non desiderabili: (a)  trasforma tutti gli immigranti irregolari  in vittime di un crimine atroce; e (b) trasforma tutti gli intermediari, anche le semplici guide alpine che attraversano clandestinamente i passi tra le montagne e le valli delle nostre Alpi per aiutare gli immigranti a passare dal confine italiano a quello francese o austriaco, in colpevoli del crimine di traffico di esseri umani, reato che non hanno commesso.

È vero che il trafficante di migranti può maltrattare i suoi “clienti”, esercitando una violenza che si assomiglia a quella esercitata dal trafficante di esseri umani nei confronti delle sue vittime, ma questi reati di violenza normalmente non sono quelli di human trafficking. Sono reati specifici come stupro, furto, ricatto, violenza fisica, e come tali andrebbero trattati e perseguiti. Restano inoltre due fondamentali differenze tra i due fenomeni, sopra citate: (i) la scelta volontaria di chi decide di emigrare è completamente assente nelle vittime di traffico di persone; e (ii) gli eventuali abusi dei trafficanti di migranti terminano dopo aver terminato il processo di attraversamento clandestino della frontiera, mentre continuano in modo sistematico nel traffico di persone. Alcuni obiettori dell’immigrazione irregolare, pur ammettendo queste distinzioni, sostengono che nella fase finale dell’immigrazione irregolare, quando si affronta il passaggio furtivo della frontiera, o l’attraversamento drammatico di tratti di mare, gli immigranti si affidano ai trafficanti in modo totale, rinunciando completamente alla propria libertà di scelta e pertanto, da quel momento in poi, sarebbe corretto riferirsi al trafficante di migranti come ad un trafficante di essere umani. Anche se i migranti subiscono angherie analoghe a quelle sofferte dalle vittime di human trafficking, questa coercizione sarà temporanea nel caso di traffico di migranti, diversamente dal traffico di esseri umani, ove l’assoggettamento sistematico è duraturo.  Naturalmente, quando un immigrante viene costretto a lavori obbligatori di semi-schiavitù (basta pensare alle conseguenze del fenomeno del caporalato in Italia, che ha portato a nuove “schiavitù” di immigranti, obbligati a condizioni sub-umane in ambienti rurali) siamo di nuovo di fronte a manifestazioni assimilabili al fenomeno di traffico di esseri umani: ma queste situazioni non sono inevitabili conseguenze dell’immigrazione irregolare.

  • Lotta contro il traffico di migranti ed esternalizzazione dei confini

La lotta contro il traffico di migranti ha i suoi limiti, nonostante l’impiego di tecnologie sofisticate per controllare i confini terrestri.  Lo dimostra la frustrazione delle autorità preposte che, nonostante il gran parlare di misure radicali di respingimento, barriere formidabili e muri invalicabili, e “tolleranza zero” verso chi penetra la frontiera, non riescono a contenere i flussi migratori che continuano ad arrivare. La verità è che la riduzione della pressione migratoria avviene solo quando gli emigranti decidono di non emigrare più, e non perché esistono misure di respingimento. Negli ultimi anni, il flusso di messicani che emigrano verso gli Stati Uniti è diminuito, non perché la lotta contro il traffico di migranti sia efficace ma perché la dinamica economica e sociale in ambedue i paesi ha favorito il ritorno di messicani verso il Messico (migrazione circolare), in risposta a giudizi di convenienza economica degli interessati. La lotta contro i trafficanti di migranti continua sostenuta contro i migranti dal El Salvador, Honduras e Guatemala, con arresti alla frontiera, e imposizione di deterrenti come la separazione dei bambini dai genitori immigrati,[9] e l’impiego di potenti mezzi di controllo a difesa della “Fortezza America”, ma non ha permesso la riduzione della pressione dei  migranti provenienti da quei paesi, i quali preferiscono rischiare la repressione alla frontiera, pur di fuggire dalla violenza e da situazioni di disfunzionalità da cui provengono. I tentativi di blindare i confini terrestri non sembrano ridurre il desiderio di emigrare.

Questa realtà è più complessa lì ove la penetrazione fisica dei confini è più facile, nell’Unione Europea, la cui frontiera meridionale è molto porosa ai flussi migratori essendo rappresentata dal Mediterraneo, anche se molti immigranti irregolari entrano tranquillamente con un viaggio aereo ed un visto turistico, salvo poi estendere il proprio soggiorno infrangendo così le leggi d’immigrazione. Ma gli sbarchi dalle coste nord-africane sono al centro dell’attenzione delle autorità europee, perché il confine marittimo non può essere difeso facilmente: non ci sono muri o fili spinati in alto mare.    

Il Mediterraneo: l’ultima barriera?

L’immigrazione massiccia verso l’Europa assunse dimensioni gigantesche a partire dalla fine degli anni ottanta, anche se quell’aumento fu causato maggiormente dalla fine della Guerra Fredda e dagli eventi bellici degli anni ’90, che produssero un enorme flusso di richiedenti asilo. Negli ultimi anni, ha visto una intensificazione di flussi che arrivano lungo le sponde meridionali del vecchio continente, che ebbero una esplozione nel 2015, per i motivi più diversi: fuggendo da persecuzioni, da violenza, da povertà, spinti da cataclismi ambientali, alla ricerca di libertà, di migliori condizioni di vita e di sopravvivenza.

Quel percorso però incontra un ostacolo formidabile: il Mediterraneo, una barriera fisica imponente ed insidiosa, che si è trasformata in un cimitero immenso, per il numero elevato di naufraghi tra questi migranti. La risposta europea è stata incerta all’inizio, con un ibrido tra misure di contenimento e di respingimento, da un lato, e misure di soccorso per i profughi in pericolo di naufragio, dall’altro. Tuttavia, recentemente, le misure ‘difensive’ hanno preso il sopravvento, con l’approccio adottato dall’agenzia europea Frontex, e soprattutto con le sue operazioni Triton e Sophia (v. Parte V per dettagli su queste operazioni).

Le autorità europee si rendono anche conto che i fenomeni migratori si stanno evolvendo, seguendo percorsi in continuo cambiamento, con itinerari diversi che li portano a transitare in luoghi non utilizzati in precedenza, e una composizione demografica (in termini di paesi di origine) ed una consistenza numerica che varia, con tattiche diverse per la penetrazione delle frontiere. Questo spiega la necessità di adottare risposte flessibili per difendere i confini, coprendo aree geografiche più ampie rispetto ai “confini” in senso stretto. La relazione tra spazio e controlli di frontiera cambia. L’azione difensiva delle istituzioni europee o nazionali incaricate di realizzare politiche migratorie si è spostata dal confine strettamente giuridico delle acque territoriali dei paesi membri dell’Unione Europea o delle frontiere terrestri, per aprirsi al di là di questi limiti doganali per una più efficace “sorveglianza dei confini” (border surveillance). Questo approccio è definito “esternalizzazione dei confini” (“border externalization”) ed è un aspetto centrale del modo in cui la politica europea d’immigrazione si è espressa in questi ultimi anni, in particolare attraverso l’operato di Frontex, ma anche dei suoi paesi membri, inclusa l’Italia,[10] con il convincimento che – nonostante il riferimento di alcuni movimenti politici anti-immigrazione alla necessità di difendere la “Fortezza Europa”, e l’urgenza di sorvegliare i confini europei come una frontiera completamente sigillata – il contenimento dell’immigrazione irregolare non può essere limitata alla difesa della frontiera, anche perché non c’è niente di più indefinito di un confine stabilito da un mare così vasto e articolato come il Mediterraneo, con acque territoriali definite soltanto ad una distanza di 12 miglia nautiche,[11] penetrabili dagli scafisti che tentano di raggiungere le coste europee.

L’esternalizzazione dei confini comporta una “deterritorializzazione” delle misure di contenimento dell’immigrazione: dal respingimento fatto nei “territori” di competenza esclusiva della sovranità nazionale del paese d’immigrazione si passa ad azioni in zone extra-territoriali (come le acque internazionali nel Mediterraneo o nell’Atlantico), o in territori di esclusiva sovranità nazionale di altri paesi (sia di transito che d’origine), con la collaborazione delle autorità di questi paesi.  Questa deterritorializzazione è stata introdotta anche perché l’emigrazione non è più solo il risultato di fenomeni legati al mercato del lavoro, in risposta ad una domanda insoddisfatta di lavoro nei paesi d’immigrazione, ma dipende sempre più da determinanti molto complesse, che influenzano la natura dei flussi migratori, la loro intensità e dimensioni. Si tratta di determinanti legate a complessi processi politici e fenomeni destabilizzanti che prevalgono nel mondo, che generano una mobilità migratoria elevatissima, che si somma e trasforma continuamente in una pressione migratoria collettiva sempre più difficile da gestire e controllare. Di fronte a migranti che “scappano” dal proprio paese non solo per cercare lavoro, ma fuggendo da situazioni di violenza e di sfruttamento, da calamità naturali, da persecuzioni e da discriminazioni, i paesi d’immigrazione si trovano di fronte ad una pressione collettiva sempre meno controllabile, che non si affronta con la sola difesa dei lavoratori nazionali e dei loro salari.

L’esternalizzazione dei confini è un tentativo di rispondere alla mobilità irriducibile dei migranti, una forza che appare inarrestabile, perché troppo potenti sono le spinte che la alimentano, e che spiegano anche la disponibilità degli immigranti a sottoporsi ai sacrifici più duri (comprese le angherie imposte dai trafficanti) e a rischiare difficoltà enormi, anche a costo di scontrarsi contro le difese più agguerrite, pur di proseguire il sogno della speranza. Alcuni studiosi definiscono questa caratterizzazione di forza inarrestabile dell’emigrazione come “autonomia dell’emigrazione”,[12] fenomeno imprevedibile ed in continua evoluzione, che si muove senza alcuna considerazione dei limiti imposti dalle legislazioni statali sulla protezione dei confini e sulla concessione dei permessi di soggiorno, esercitando un’azione collettiva che trasforma la nozione di spazio nazionale, infrangendo qualsiasi barriera doganale.

Quando si pensava all’emigrazione come causata solo da un meccanismo di domanda e di offerta nel mercato del lavoro, si sperava di controllarla con modalità che definivano le compatibilità con il mercato del lavoro nazionale, gestendo la concessione di visti d’ingresso, ed esercitando i consueti controlli nei punti di frontiera. Oggigiorno, l’emigrazione massiccia e la complessità delle sue cause rendono impossibili regolare i flussi solamente attraverso quei controlli nei punti d’entrata. L’imprevedibilità di massicci flussi migratori dall’Africa sub-sahariana e dal Medio Oriente si associa alla mutevolezza continua degli itinerari percorsi, che seguono direzioni spesso contraddittorie che si adattano agli ostacoli posti dalle forze di sicurezza che vogliono bloccarli, invertendo il senso di marcia, inventando nuovi mezzi organizzativi, pur di continuare nel proposito migratorio. Non basta dire che “il futuro degli africani è in Africa, perché nessuno, in nessuna parte del mondo, deve essere costretto ad andarsene di casa[13] per comprendere l’entità di queste enormi pressioni migratorie.

L’esternalizzazione dei confini è un tentativo di istituzionalizzare interventi di resistenza a questi massicci flussi migratori, ridisegnando l’architettura dei sistemi di controllo delle frontiere, ammettendo che ci sono limiti a realizzare il controllo dei flussi migratori lungo le frontiere nazionali convenzionali, seguendo i confini doganali. La dimensione spaziale delle operazioni di controllo viene ampliata, richiedendo una integrazione tra iniziative di diverso genere – diplomatiche, militari, finanziarie, di cooperazione allo sviluppo – con l’adozione di accordi innovativi tra entità diverse (nel contesto europeo, queste entità sono sia europee che extra europee), che includono istituzioni nazionali, multinazionali, locali, pubbliche, semi-pubbliche e non governative. Assistiamo all’abbandono crescente della pura difesa a tutti i costi dei posti di controllo delle frontiere, rigidamente definiti sulla cartina dei confini territoriali, per passare ad un concetto flessibile di confini meno definiti, spesso contraddittori e mutevoli, non più basati su precise linee territoriali o geografiche, superando l’esclusività della competenza giuridica (rendendo dubbio l’esercizio della sovranità nazionale in senso formale), adattandosi a circostanze in continua evoluzione, tenendo conto della mobilità dei flussi migratori e della varietà di condizioni in cui i migranti si trovano nei paesi di transito. 

Questa esternalizzazione dei confini si è tradotta in tentativi dell’Unione Europea di bloccare gli scafisti lontano dalle sue acque territoriali con l’intervento di mezzi militari in acque internazionali, o concludere accordi bilaterali o multilaterali con paesi africani o medio-orientali di transito per evitare che i migranti giungano in Europa.[14] Centinaia di presunti trafficanti di migranti sono stati arrestati durante operazioni compiute dalla Marina Militare italiana e dalle autorità militari di altri paesi europei in acque internazionali. Navigli di tutte le dimensioni, inclusi pescherecci, gommoni, e “mother ships” (“navi madri”) – che sono le navi di maggiori dimensioni utilizzate per trasportare gli emigranti, prima di essere trasferiti in alto mare su natanti di piccole dimensioni – sono stati sequestrati e/o distrutti nel tentativo di reprimere il traffico di migranti.  Le guardie costiere della Turchia, della Libia e del Marocco hanno bloccato viaggi in mare, riportando i natanti verso i loro rispettivi porti. In Marocco, la collaborazione tra la Guardia Civil spagnola e le Forze Speciali marocchine ha portato ad una vera e propria repressione dei movimenti migratori verso le città spagnole di Melilla e di Ceuta nel nord Africa, con detenzione su grande scala dei migranti in campi profughi in Marocco. La detenzione dei migranti nei campi profughi libici ha rappresentato una forma particolarmente violenta per bloccare il traffico di migranti verso l’Europa. Accordi sono stati tentati tra la Spagna e la Mauritania, il Mali e il Senegal per ridurre i flussi migratori, così come l’Italia ha cercato analoghi accordi con paesi come la Libia, il Niger, la Tunisia e la Costa d’Avorio, tra gli altri, per spostare il controllo dei flussi migratori all’interno dei loro confini.

Di fronte ad una realtà in cui, per ogni rotta migratoria che si chiude grazie a misure repressive, nuovi itinerari vengono tracciati dai migranti, alla ricerca di alternative per superare i nuovi ostacoli, l’esternalizzazione dei confini si adatta a questa flessibilità con una crescente aggressività nelle misure di respingimento, una militarizzazione degli interventi, metodi sofisticati per riconoscere i nuovi itinerari dei migranti, impiego intensivo di arresti e detenzione in carceri, centri di detenzione o campi profughi, e trasferimenti obbligati (espulsioni e rimpatri). Queste misure di lotta contro il traffico di migranti seguono logiche non sempre sufficientemente razionalizzate, dominate dalla preoccupazione per la difesa della sicurezza nazionale, interpretata spesso come difesa nazionale “contro” gli immigranti.  Questa difesa si è manifestata a volte in misure dure di respingimento, con contenuti di violenza che gli emigranti sopportano solo se messa a confronto con le violenze da cui sono fuggiti nei loro paesi d’origine, e con il contesto altrettanto violento in cui sempre più spesso si trovano nelle zone di transito. Caratteristica chiave di questo approccio è che questi interventi non avvengono ai confini del paese d’immigrazione ma in un contesto “esterno” (aree extra-territoriali o paesi “terzi”). 

Questi interventi “esterni” riescono solo in parte nei loro scopi. La riduzione degli sbarchi in Grecia e il loro contenimento nelle coste italiane e spagnole, sono citati come indicatori di successo, ma le pressioni migratorie non sono diminuite, perché quando gli sbarchi diminuiscono, il numero di migranti che affollano i campi profughi in Turchia, in Libia ed in Marocco aumenta considerevolmente, rendendo futile qualsiasi richiamo ad un successo delle politiche di contenimento dell’immigrazione. Inoltre, la decentralizzazione degli sforzi di contenimento, compiuti al di fuori dei territori nazionali dei paesi d’immigrazione, rende difficile assicurare un efficiente monitoraggio. Per questo i tentativi di traversata marittima continuano, perché i migranti riescono spesso ad aggirare le misure repressive, reinventandosi itinerari e approcci. Inoltre, la qualità ‘umanitaria’ degli interventi nei paesi terzi è spesso al di sotto degli standard accettabili sul piano internazionale, mettendo in discussione la legittimità degli interventi repressivi, vista la frequente violazione dei diritti umani fondamentali dei migranti.

A questo si aggiunga il problema della legittimità di operazioni condotte da paesi d’immigrazione in aree ove essi non hanno poteri di sovranità nazionale. Con l’esternalizzazione dei confini, concetti tradizionali di sovranità nazionale e di cittadinanza vengono messi in forte discussione, anche se non possiamo parlare di una forma coloniale di nuova egemonia. Assistiamo piuttosto ad una modalità plurima di interventi con responsabilità multiple che interagiscono tra entità diverse per il controllo dei flussi migratori in modo multi-giurisdizionale e spesso congiunto, ma non sempre ben coordinato. La coerenza degli interventi è spesso carente e contraddittoria, e spesso in contrasto con la tutela dei diritti umani e le protezioni internazionali garantite ai migranti e ai rifugiati.  Esamineremo questa esternalizzazione più in dettaglio con riferimento alla difesa europea del Mediterraneo nella Parte V di questo saggio.

  • Lotta contro il traffico di migranti e percezione del ruolo delle ONG

L’impostazione prevalente della lotta contro il traffico di migranti porta molti politici e persone che si oppongono radicalmente a qualsiasi apertura verso i processi migratori a concepire qualsiasi “aiuto” offerto ai migranti durante o dopo l’attraversamento della frontiera come un “favoreggiamento” dell’immigrazione clandestina.  Non è infrequente che organizzazioni umanitarie, ben note per la loro attività di assistenza sociale in programmi internazionali, vengono beffeggiate come espressione di “buonismo”, neologismo con cui si tenta di ridicolizzare qualsiasi azione di assistenza sociale verso poveri e marginalizzati. Queste organizzazioni vengano spesso accusate di essere conniventi con i trafficanti di migranti, considerando la loro azione di sostegno a favore dei migranti come una forma indiretta di stimolo (pull factor) che favorisce l’immigrazione irregolare e quindi un ostacolo per il perseguimento del contenimento dell’immigrazione. Il loro operato incoraggerebbe i migranti a scegliere la strada dell’emigrazione internazionale, in quanto garantisce un “salvacondotto” sotto forma di forniture di cibo, vestiario, medicine, alloggio, e altre forme appoggio.  È sempre più frequente riferirsi a queste ONG – specialmente nei commenti letti nei social, ma anche nei discorsi roboanti di uomini politici – con epiteti denigranti, dubitando il valore umanitario del loro operato. Le ONG impegnate nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo, salvando i naufraghi da morte sicura, sono non di rado designate come “taxi del mare” o “vice-scafisti” (espressioni usate rispettivamente dai Vicepresidenti del Consiglio Di Maio e Salvini nei loro confronti). Giudici o procuratori della repubblica ne sequestrano le navi di soccorso, accusate di aver stabilito accordi di complicità per via telefonica con le bande di scafisti, garantendo loro il salvataggio in mare prima che i natanti salpino dalle coste della Libia. Le associazioni di volontariato che offrono assistenza agli immigranti irregolari che affollano i campi profughi spontanei che si creano in prossimità di città o di luoghi di frontiera nei paesi d’immigrazione o nei paesi di transito vengono spesso ostacolate nella loro attività umanitaria, con ogni sorta di espedienti (incluso vietando la distribuzione gratuita di cibo, o altre forme di assistenza). Quelle che offrono alloggio e vitto vengono accusate di essere dei centri d’affari, che assorbono preziose risorse finanziarie dei contribuenti fiscali.  Organizzazioni che promuovono “carovane” di migranti centro-americani per attraversare in condizioni di sicurezza il territorio messicano per raggiungere il confine con gli Stati Uniti vengono accusate di organizzare “invasioni di criminali” del territorio statunitense.

Il clima di sospetto nei confronti delle ONG che in misura crescente accompagna la radicalizzazione delle misure di respingimento contro l’immigrazione irregolare è sotto gli occhi di tutti e, mentre molti riconoscono il valore profondamente umano della loro azione, sempre più numerosi sono coloro che declamano ad alta voce la complicità delle ONG con il traffico di migranti.  Questa pressione denigratoria contro le ONG ha assunto dimensioni talmente macroscopiche che le ONG che organizzano il salvataggio marittimo nel mar Mediterraneo hanno cominciato a registrare una riduzione del flusso di risorse finanziarie con cui il pubblico sostiene le loro attività, mentre in precedenza aveva generosamente sostenuto le operazioni di salvataggio di naufraghi per il loro valore umanitario.  

Questo atteggiamento ostile nei confronti delle ONG perciò può essere visto come una manifestazione indiretta della lotta contro il traffico di migranti, anche se la funzione delle ONG non ha nulla a che vedere con la promozione dell’emigrazione, in quanto la loro azione è interpretata come quella di favoreggiatori dell’emigrazione. In realtà le ONG che operano nel settore hanno come finalità primaria l’assistenza a persone in grave stato di bisogno, in particolare ai migranti (regolari o irregolari), ai rifugiati, a profughi di qualsiasi tipo e questo ruolo non dovrebbe essere controverso.

È vero, tuttavia, che le ONG non hanno alcun ruolo di supporto alle politiche di contenimento o di respingimento dei flussi migratori, né alcun ruolo complementare a queste politiche.  Quando interagiscono con le autorità europee nelle loro operazioni nel Mediterraneo, non operano in appoggio alle misure difensive intraprese in quell’area. Se non fosse così, verrebbero meno alla loro stessa ragione di esistere, che è quella di assistere persone in difficoltà (si veda la Parte V di questo saggio per un esame dettagliato di queste tensioni). Anzi, a volte le ONG si trovano in posizione critica nei confronti delle autorità che portano avanti misure di respingimento, quando non ne condividono né le finalità né le modalità. Più spesso, tuttavia, si tengono lontano da queste misure repressive, esercitando soltanto il loro ruolo umanitario di “soccorso” agli individui in necessità, quando i migranti o rifugiati o profughi si trovano in condizioni particolarmente precarie che ne pregiudicano la sopravvivenza, offrendo alloggi di emergenza, assistenza sanitaria, soccorso alimentare, assistenza sociale e psicologica. 

Le autorità pubbliche incaricate delle misure relative all’immigrazione hanno atteggiamenti diversi nei confronti delle ONG. A volte semplicemente ne tollerano gli interventi, nella misura in cui non interferiscano nelle modalità operative delle misure di controllo dell’immigrazione portate avanti dalle istituzioni pubbliche, anche se questa tolleranza non significa che ne appoggino il ruolo, perché in alcuni casi si tratta di una difficile coabitazione (quando nascono attriti sui limiti operativi reciproci, o quando le finalità perseguite appaiono in forte contrasto). Altre volte, sono le stesse autorità pubbliche a richiedere l’intervento sussidiario delle ONG, come quando gestiscono per conto del governo centri di accoglienza o coordinano azioni di soccorso e salvataggio in mare, offrendo ai migranti ciò che le istituzioni ufficiali non sono in grado di produrre, sia per mancanza di un mandato formale, per insufficienza di fondi, o per altre limitazioni operative. In tal caso, le autorità stabiliscono un rapporto collaborativo con le ONG, riconoscendo i benefici che la comunità sociale riceve dall’assistenza sociale che queste organizzazioni sono in grado di offrire in condizioni di particolare urgenza. In altri casi, i rapporti con le ONG sono visti come un vero ostacolo all’azione delle autorità, quando entrano in conflitto aperto sugli obiettivi da perseguire, e le ONG sono accusate di infrangere regole specifiche. Questi contrasti sono particolarmente accesi quando l’attività di contenimento dell’immigrazione avviene nel quadro dell’esternalizzazione dei confini.  Gli accordi con paesi “terzi” per realizzare operazioni di contenimento dell’immigrazione hanno spesso acuito questi attriti tra le ONG e le autorità di questi paesi “terzi” (vedi alcuni esempi di scontri nel riquadro che segue).

Nel contesto delle traversate di immigranti nel Mediterraneo, la frequenza dei naufragi ha motivato alcune ONG a promuovere attività di soccorso in mare per salvare vite umane e provvedere aiuti d’emergenza nei confronti dei malcapitati, con mezzi navali di loro proprietà o da loro noleggiati, coprendo un vuoto lasciato dall’azione pubblica in quei vasti tratti di mare ove altri navigli, compresi quelli della Guardia Costiera, non riescono ad intervenire tempestivamente con operazioni di salvataggio. Questo ruolo è stato finora riconosciuto dai governi italiani fino a data recente, nonostante le controversie di questi ultimi anni (si veda la Parte V di questo saggio per un’analisi dettagliata di questo tema). Le navi di soccorso marittimo di queste ONG salvano vite umane in acque internazionali, e la Guardia Costiera italiana, ed in particolare il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC), con sede a Roma, coordinano queste operazioni nel Mediterraneo centrale. Il rapporto con queste ONG è stato oggetto di accese polemiche quando queste ultime hanno dissentito sugli orientamenti della politica di contenimento.  Le ONG si sono sempre rifiutate di portare i naufraghi salvati in porti nord-africani (come avrebbero voluto gli oppositori radicali dell’immigrazione irregolare), ove i profughi non avrebbero sufficienti garanzie per vedere riconosciuto il loro diritto di protezionale internazionale riservato ai rifugiati. In ogni caso, la Libia è un paese ove le condizioni in cui i profughi si trovano non sono considerate accettabili dal punto di vista umanitario. Questi dissidi furono superati quando il ministero dell’interno adottò, in consultazione con la Commissione Europea, nel luglio del 2017 norme (Codice di Condotta) che chiarivano le modalità di accesso ai porti italiani dopo i salvataggi in mare. Ma queste modalità sembrano essere state recentemente ignorate dal nuovo ministro Salvini, che non ha concesso alle navi Aquarius e Lifeline l’accesso ai porti italiani, nonostante che i salvataggi compiuti nel giugno del 2018 erano stati coordinati con il MRCC di Roma. Effettuando questi soccorsi più vicino alle coste libiche rispetto al raggio d’azione normale delle navi sotto il controllo diretto dell’agenzia europea Fortrex (che si è imposto un limite operativo di 20 miglia nautiche dalla costa europea), dirigenti della Fortrex hanno spesso accusato le ONG di incoraggiare i migranti a scegliere la strada dell’emigrazione verso l’Europa, per il fatto stesso che le navi di soccorso delle ONG sono pronte a offrire assistenza in mare, anche se operano in acque internazionali, interpretando la loro presenza in quelle acque come un “ponte verso l’Europa”. Fortrex accusa le ONG di essere indirettamente responsabiliti di molti naufragi, in quando inciterebbero i migranti ad intraprendere le loro traversate in condizioni inaccettabili di insicurezza. Le ONG sono presentate come colpevoli, alla stessa stregua dei trafficanti di migranti, per aver incoraggiato le traversate che si traducono nella tragica morte di migliaia di migranti che giacciono nei fondali del Mediterraneo. Queste accuse accomunano le ONG alle responsabilità dei trafficanti di migranti, ritenuti colpevoli dei naufragi, ma anche alle migliaia di morti nei lager dei campi libici per profughi o lungo le lunghe marce nel deserto in Messico on nel Sahara. Queste accuse ignorano che sono state le ONG a salvare migliaia di naufraghi al largo delle nostre coste. MSF ha lanciato operazioni con proprie navi che hanno una capacità di salvare da 400 a 700 persone. Nel solo 2016, MSF con la sola nave Bourbon Argos ha soccorso 10.425 persone. Nello stesso anno, altre ONG hanno salvato con propri mezzi navali 46.882 naufraghi. Queste ONG rispondono ad un obbligo di soccorso in mare sancito dal diritto internazionale, cui gli stati europei non possono sottrarsi, nonostante il neoministro dell’interno Salvini intenda ignorarlo,[15] quando incoraggia la nostra Guardia Costiera a non rispondere a richieste di soccorso. Tale obbligo è previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare del 1982, nonché dalla Convenzione sul Soccorso e Salvataggio Marittimo del 1979, dalla Convenzione Internazionale sulla Sicurezza della Vita in Mare del 1974 e da altre convenzioni e risoluzioni internazionali.[16] Le ONG nelle acque internazionali di fronte alla Libia vogliono assicurare tempestività del loro soccorso (le navi della Frontex sono costrette ad operare entro 20 miglia dalla costa europea e sono spesso in ritardo quando cercano di soccorrere naufraghi che sono al di là di quel limite).[17]  

Alcuni episodi sconcertanti

Alcuni episodi registrati negli ultimi anni rivelano una situazione di contrasto diretto tra alcune ONG umanitarie operanti nel Mediterraneo con operazioni di Salvataggio e Soccorso (Saving and Rescue – SAR) e autorità libiche, che le hanno spesso trattate alla stessa stregua degli “scafisti” che salpano dalle coste dell’Africa settentrionale, nonostante che le ONG abbiano intenti puramente umanitari.

Il 17 agosto del 2016, la nave Bourbon Argos di MSF-Bruxelles subì un attacco da parte di un gruppo armato a bordo di un motoscafo non identificato a circa 24 miglia dalla costa libica (ufficialmente perciò in acque internazionali). Dopo aver sparato a distanza di 400-500 metri, uomini armati salirono a bordo, ove però non trovarono alcun naufrago ma solamente l’equipaggio della nave e personale di Médecins Sans Frontières (MSF). Nonostante l’anonimato dell’intervento, si trattava di personale ben addestrato e professionale, che ha proceduto senza alcuna comunicazione precauzionale per farsi identificare. Le persone armate sono rimaste a bordo della Bourbon Argos per 50 minuti. I danni alla nave sono stati minimi, causati dai proiettili usati durante la sparatoia iniziale. Le autorità libiche hanno dato varie versioni dell’episodio. Anche se MSF non ha accusato alcuna autorità, visto l’anonimato dell’intervento, si trattava chiaramente di una mossa intimidatoria ispirata da chi non vuole la presenza di ONG in queste operazioni SAR vicino alle coste libiche, sia questo intervento promosso indirettamente dal governo libico o da chi per lui o da altro gruppo indipendente.

Analogo episodio è stato riportato dalla NGO tedesca Sea-Watch, che salvò, nell’ottobre del 2016, 120 naufraghi che erano stati attaccati in precedenza da un battello con le insegne della Guardia Costiera libica, anche se le autorità libiche hanno negato che si trattasse di un loro natante. Secondo quella ONG, il gommone con circa 150 emigranti era stato attaccato in precedenza dal battello libico, quando si trovava a 14 miglia dalla costa libica, e uomini armati di bastone erano saliti a bordo, picchiando diversi profughi, e distruggendo uno dei tubi di gomma del natante, con la conseguenza di obbligare la maggioranza degli occupanti a finire in mare: quattro morti tra i profughi furono recuperati dopo lo scontro.

Il 7 agosto del 2017 la nave Open Arms della ONG spagnola Proactiva Open Arms, è stata intercettata dalla Guardia Costiera libica che ha sparato colpi di avvertimento in aria per far desistere la ONG da un tentativo di soccorso in mare. Il 15 agosto dello stesso anno, un’altra imbarcazione della stessa ONG, Golfo Azzurro, ha ricevuto ripetute minacce da una motovedetta libica, che l’ha accusata di essere in acque territoriali libiche, inizialmente ordinando di cambiare il proprio corso e dirigersi verso il porto di Tripoli, e alla fine ordinando di abbandonare le acque libiche (Proactiva sostiene che l’imbarcazione era a 27 miglia dalla costa, perciò in acque internazionali). L’imbarcazione fu alla fine scortata dalla motovedetta, che si assicurò in tal modo il suo allontanamento.

Il 26 settembre del 2017, un’imbarcazione della ONG Mission Lifeline, impegnata in un’operazione di soccorso è stata attaccata dalla Guardia Costiera libica, perché considerata ancora in acque territoriali libiche. Dopo aver sparato alcuni colpi intimidatori in aria, due ufficiali della Guardia Costiera salirono a bordo, ordinando il rilascio dei 70 profughi che erano stati soccorsi in precedenza, secondo la ONG in acque internazionali. La ONG si rifiutò di consegnare i naufraghi.

 Ci sono poi altre ONG, oltre a quelle che offrono servizi di assistenza ai migranti, il cui compito principale è sostenere la protezione dei diritti umani, esercitando una funzione di monitoraggio dell’azione pubblica e di sensibilizzazione (advocacy): sono le ONG che svolgono ricerche, inviano osservatori, operano verifiche sul campo, controllano la veridicità dei fatti, e che spesso entrano in collisione con le istituzioni pubbliche, specialmente nel quadro della esternalizzazione dei confini, se le misure intraprese violano i diritti umani dei migranti. 

Altre ONG offrono protezione diretta dei migranti durante il processo di emigrazione, per evitare che possano essere oggetto di attacchi e abusi da parte di bande criminali o di repressione violenta da parte delle autorità d’immigrazione. È quando successo con Pueblo Sin Fronteras in Messico, che promuove carovane verso gli Stati Uniti o Alarm Phone, che aiuta migranti e rifugiati in Marocco per tutelarne il trattamento quando tentano di emigrare in Spagna.

Alarm Phone è un’associazione autogestita di migranti basata in Marocco che promuove sensibilizzazione tra comunità interessate ad emigrare in Spagna, affinché l’attraversamento della frontiera sia sicuro.  Alarm Phone[18] utilizza una rete di contatti ubicati nelle città di Tangeri, Ceuta, Tetouan, Nador, Oujda e Laauoune, che operano come osservatori e organizzazioni che promuovono azioni di sensibilità politica. Distribuisce numeri telefonici ai migranti e ai profughi da usare in caso di rischio di naufragio o altra catastrofe per richiedere possibile assistenza. Nel giugno del 2017 un loro gruppo organizzò una carovana per trasportare 200 migranti, includendo 50 rifugiati siriani bloccati per ben due mesi al confine tra il Marocco e l’Algeria nella fascia extra-territoriale del confine. La carovana, sostenuta da 350 attivisti che organizzarono una pubblica protesta nella città di Figuig, percorse ben 400 km prima di essere respinta da forze marocchine di sicurezza. Attivisti di Alarm Phone organizzano proteste per esercitare pressione sulle autorità sia spagnole che marocchine in difesa dei diritti dei migranti. Nel 2016, Alarm Phone riuscì a ottenere l’ammissione di 119 migranti nella città di Ceuta (città spagnola in territorio nord-africano, sulla costa del Mediterraneo), ove hanno potuto esercitare il diritto di richiesta di asilo.

Assistiamo ad una crescita del fronte degli scettici contro l’immigrazione irregolare con una influenza crescente sull’opinione pubblica anche “moderata” che critica con insistenza l’operato delle ONG in quest’area, mentre le ONG continuano ribadire, non solo a parole ma anche con le loro azioni, la loro solidarietà verso le vittime dei processi migratori, gli immigranti. Basta un articolo di un giornale che accusi una ONG di connivenza con scafisti, che immediatamente si scatenano reazioni a catena sui social media contro i “corrotti” dell’aiuto umanitario e nessuno più se ne scandalizza. Mentre la gente si commosse di fronte alle immagini di un bambino naufragato che giaceva sulle spiagge della Turchia, la reazione nei confronti delle ONG che salvano vite umane in mare ignora il loro sacrificio ed i risultati raggiunti, e la mente va immediatamente al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e alla pretesa complicità delle ONG con gli scafisti, sospettati addirittura di finanziarle. Questa tendenza si spiega con l’ossessione per la riduzione dei flussi migratori, anche per mancanza di un’informazione obiettiva sulla loro natura e dimensione, che è alla base della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, indirettamente tradotta in un attacco alle ONG, nonostante il loro ruolo nelle operazioni di soccorso.

  Le “carovane” dall’Honduras

Il 9 aprile 2017 la ONG “Pueblo Sin Fronteras” organizzò una marcia di emigranti dall’Honduras verso gli Stati Uniti: alcuni furono respinti, 108 presentarono domanda di asilo, ma a giugno di quell’anno una metà si trovava ancora in centri di detenzione. Molte famiglie furono separate, con alcuni bambini rinviati nel paese d’origine, mentre i genitori restavano in detenzione. Un anno dopo, il 25 marzo del 2018, la stessa ONG organizzò una marcia con un gruppo più numeroso, inizialmente di 700 persone (prevalentemente dall’Honduras, in maggioranza donne e bambini), partendo da Tapachula, al sud del Messico, con destinazione a Matías Romero al confine con gli Stati Uniti, raccogliendo lungo la strada altre 500 persone. Dal 2010, l’ONG ha organizzato dozzine di “carovane”, processioni di veicoli che accompagnano gli emigranti per garantirne la sicurezza ed in segno di solidarietà.  La “carovana” della Pasqua del 2018 è divenuta famosa a causa della reazione del Presidente Trump, che accusò l’iniziativa come un tentativo di invadere spavaldamente gli Stati Uniti. I media anti-immigrazione la descrissero come un “piccolo esercito di emigranti che marcia verso gli Stati Uniti”.  I tweet di Trump trasformarono il fenomeno, trascurato dai media negli anni precedenti, in un incidente internazionale. Trump riconobbe nelle “carovane” una intensificazione dei tentativi di “invasione” del paese, un modo in cui il Messico manderebbe trafficanti di droga, e la risposta promessa prevedeva i consueti tagli ai trasferimenti finanziari, l’invio di truppe alla frontiera (anche se in verità sarebbero stati più necessari bavaglini e biberon) e l’uscita dall’accordo NAFTA.  Per Trump, le donne vengono stuprate in queste “carovane”, nonostante che esse siano organizzate proprio per evitare che questi episodi di violenza avvengano. Il governo americano richiese al Messico di impedire che queste carovane arrivassero al confine, esigendone la dispersione. Le autorità diplomatiche messicane cercarono di ridimensionare lo scontro ma il presidente messicano Peña Nieto minacciò la sospensione della collaborazione con gli Stati Uniti in materia di immigrazione e di sicurezza. Sul piano operativo, la risposta messicana mostrò un atteggiamento tollerante al confine, ove i funzionari messicani concessero permessi di transito temporanei, con una validità di 20 giorni, in attesa dell’attraversamento della frontiera con gli Stati Uniti, offrendo anche, in alternativa, la possibilità di conseguire visti umanitari per restare in Messico a coloro che ne facessero richiesta entro 30 giorni. Mentre molti migranti restarono in prossimità della frontiera, nella città di Matías Romero, in attesa di attraversare il confine, altri si trasferirono a Puebla, a 400 km di distanza, ove Pueblo Sin Fronteras organizzò, con avvocati volontari, seminari sulla legislazione messicana e quella statunitense d’immigrazione per aiutare i migranti a prendere le decisioni che ritenessero più convenienti al loro caso. Il fenomeno delle “carovane”, anche se in dimensioni più ridotte, probabilmente continuerà a manifestarsi, anche se “carovane” numerose saranno probabilmente ridirette verso Città del Messico, con l’intento di destare l’attenzione del grande pubblico. In tal caso, le “carovane” si dissolveranno una volta giunte nella capitale messicana, e gli emigranti saranno liberi di scegliere come e se continuare il loro cammino verso la frontiera con gli Stati Uniti, o cercare uno stato legale in Messico o altri paesi, specialmente per individui che non possono sperare di ottenere asilo secondo i criteri applicati dai tribunali americani per l’immigrazione.[19]

La caratterizzazione delle carovane come gruppo pericoloso di invasori indisciplinati ed arroganti è ben diversa dalla realtà.  Pueblo Sin Fronteras organizza queste carovane per salvare gli emigranti dai rischi di bande criminali e cartelli della droga che spesso attaccano gli emigranti durante il loro cammino verso la frontiera, per assicurare loro un viaggio sicuro fino al confine. Una volta portati gli emigranti al confine, il compito di Pueblo Sin Fronteras è finito.  Il ruolo di una ONG come Pueblo Sin Fronteras appare diverso da quello delle ONG che forniscono soccorso nel Mediterraneo, perché assistono i migranti nel processo di emigrazione. Questo è perché si tratta di organizzazioni auto-promosse dagli emigranti stessi, per garantire la sicurezza agli emigranti. Tuttavia, non si tratta di un’organizzazione che promuove l’emigrazione verso gli Stati Uniti.  Infatti, spesso i suoi dirigenti scoraggiano questa soluzione, vista la difficoltà di ottenere l’asilo in quel paese. Pueblo Sin Fronteras cerca piuttosto di offrire informazione legale utile per gli emigranti, esaminando strade alternative, inclusa la richiesta di asilo o permesso di soggiorno in altri paesi latino-americani. Se gli emigranti entrano negli Stati Uniti, la ONG spera che le autorità americane concedano loro il diritto a richiedere asilo, ma l’ONG non ha alcun ruolo in questo, né cerca di aiutare gli emigranti ad entrare clandestinamente nel paese. Ma questo non è sufficiente per Trump, perché non sopporta l’idea che migliaia di emigranti (organizzati in modo pacifico) si affaccino ai cancelli della dogana per il controllo dei passaporti, per richiedere la protezione internazionale riservata ai rifugiati. La novità di queste “caravane”, rispetto ai percorsi più tradizionali, è che il viaggio avviene alla luce del sole e negare il diritto ad essere ascoltati e presentare domanda di asilo è illegale anche negli Stati Uniti.

Anche se coloro che sostengono politiche di contenimento dell’immigrazione non si fanno illusioni sull’andamento dei flussi di immigranti, continuano a vedere le ONG che aiutano i naufraghi o assistono i profughi da questa o l’altra sponda del Mediterraneo o della frontiera messicana con estremo sospetto, perché perseguono l’obiettivo dell’accoglienza senza discriminazione, specialmente per chi fugge da situazioni di violenza, calamità naturali e povertà assoluta. Questa politica delle “porte aperte” è percepita con terrore dalla maggioranza dei politici, perché non popolare: un modo per perdere le elezioni. Anche quando il salvataggio di vite umane è considerate sacrosanto, il contenimento degli immigranti dall’Africa, dall’Asia o dall’America Latina è ritenuto preferibile.

  • Crimini contro i migranti

L’analisi della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare qui condotta ha affrontato varie forme di crimini legati ai processi migratori: la prima è la criminalizzazione dell’immigrato per il fatto stesso di aver trasgredito le leggi d’immigrazione del paese ospitante; la seconda riguarda i crimini comuni commessi da alcuni migranti; la terza si riferisce alla penalizzazione del traffico di migranti, consistente nel favoreggiamento dell’immigrazione irregolare.

Resta un ultimo tipo di crimini: quelli contro gli immigranti.  Stranamente le politiche dell’immigrazione non mettono mai l’accento su questa categoria, ma preferiscono dipingere la figura del migrante come un criminale e non come una vittima. Eppure, quante torture e violenze vengono esercitate durante il viaggio nei confronti degli emigranti o nei campi profughi in paesi “terzi”. Quante sofferenze subiscono anche quando hanno superato la frontiera, se le condizioni di ricevimento, anziché favorire l’accoglienza, impongono sfruttamento, abusi e restrizioni di qualsiasi tipo. Quante volte immigranti vengono derubati durante il loro tragitto. Quante volte giovani donne vengono stuprate o malmenate da coloro che dovrebbero solo facilitarne il viaggio, oppure vengono sequestrate e poi avviate alla prostituzione, magari trasferendole da un paese all’altro per farne perdere le tracce.  Quante donne sono rimaste gravide come effetto di atti di violenza sessuale durante il loro viaggio. Quante di loro sono state uccise. Quanti bambini sono rimasti vittime innocenti di operazioni rischiose, ove rappresentavano solo un peso, e potevano così essere disposti come spazzatura, o sono stati sequestrati per essere avviati al traffico di esseri umani o per essere reclutati forzosamente come nuovi quadri del terrorismo internazionale, possibili vittime di bombe-suicidi. Quante volte immigranti vengono gettati in mare se sono di peso, o picchiati per qualsiasi ragione o abbandonati al margine del deserto senza pietà, o bruciati vivi se non obbediscono a trafficanti spesso drogati. Fra i 20.000 rifugiati stimati alla fine del 2017 nei centri di detenzione libici (secondo fonti ONU basate su dati ufficiali libici), gli orrori verificati dall’Alto Commissariato dell’OHCHR confermano la violazione continua dei diritti umani, viste le condizioni disumane in cui si trovano i detenuti: sovraffollamento estremo nelle celle, prive di igiene, con scarso accesso a cibo, acqua potabile e cure mediche. Le donne sono violentate. I bambini vengono reclutati dalle milizie che combattono in Libia. Testimonianze registrate con video hanno rivelato fenomeni di vera e propria tratta di schiavi organizzata presso questi campi, con gare all’incanto di ragazzi da vendere per lavori forzati.

I racconti raccapriccianti riguardano anche la condizione degli immigranti che hanno superato la frontiera e che, anziché essere accolti ed assistiti, incappano in tutte le possibili forme di sfruttamento. Sentiamo di immigranti africani che dovrebbero essere inseriti in campi di accoglienza, che invece lavorano dieci ore al giorno, ma a volte fino a 12-14 ore al giorno, nei campi, magari per €1-2 all’ora, per essere impiegati stagionalmente nella raccolta di frutta e ortaggi, o per coltivare fragole e patate o guardare le pecore in Calabria, nelle Puglie, in Sicilia.  Parliamo delle vittime del caporalato e delle agromafie, che colpiscono più di 400 mila persone in Italia, sia tra italiani che stranieri, con una organizzazione del lavoro che recluta lavoratori alla giornata e li trasporta sui campi o nei cantieri edili, per essere sottoposti ai lavori più faticosi, con turni impossibili, e con un reddito da fame. Si muovono stagionalmente, in estate nella provincia di Foggia per raccogliere i pomodori; in autunno in Calabria e Sicilia per raccogliere arance e mandarini ed in inverno nel Trentino per la raccolta delle mele. Vivono in accampamenti spontanei inabitabili, senza acqua e corrente elettrica, sotto il sole ardente durante l’estate, al freddo senza riscaldamento in inverno, alloggi troppo spesso tollerati dai tutori dell’ordine. Subiscono intimidazioni e maltrattamenti continui: “Se alzi la testa, non mangi”.  Grazie a raggiri di autorità e intermediari vari, alcuni provengono dai centri di accoglienza che li dovrebbero assistere, mentre gli

“Bandierine” nel deserto

Testimoni oculari mi hanno raccontato la loro esperienza quando hanno visitato i luoghi ove i migranti si recano a piedi verso il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in particolare in prossimità delle zone che portano verso Nogales in Sonora (Messico), prima di tentare l’attraversamento della frontiera in prossimità di Nogales in Arizona. Questi visitatori hanno deciso di provare direttamente cosa significhi camminare per alcune ore sotto il sole cocente in un terreno semi-desertico, facendo gli stessi passi degli emigranti, negli stessi sentieri, cercando così di rivivere in miniatura i sacrifici di coloro che camminano in quelle zone per molto giorni. Ma sono incappati con una testimonianza che non si attendevano.

Durante questo percorso simbolico, si sono imbattuti ogni tanto con cespugli che offrivano rare zone ombreggianti adatte per sostare e riposarsi dalla fatica. Queste zone erano spesso contrassegnate da “bandierine” appese sugli arbusti. Ma guardando più da vicino, non si trattava di “bandierine”: erano “mutandine” da donna. La guida della ONG locale che li accompagnava spiegò loro cosa fossero quelle “bandierine”. Sono state lasciate appositamente, in modo ben visibile, da giovani donne che hanno subìto, proprio in quel luogo, uno stupro ad opera di un accompagnatore, il cosiddetto ‘coyote’, che ha approfittato della sosta per abusare della giovane donna, violentandola, ma esigendone, al tempo stesso, il silenzio assoluto. 

Le donne che subiscono questo abuso non hanno scelta: o subiscono quella violenza o sono abbandonate nel deserto, o addirittura uccise. Così lasciano quell’indumento intimo appeso sui cespugli, per testimoniare al mondo che lì, in quel luogo, è stato commesso un crimine di cui sono state vittime, un crimine di cui nessuno mai risponderà in alcun tribunale, ma loro vogliono lasciare una testimonianza del loro sacrificio. 

Quante donne gravide si presentano ai tribunali d’immigrazione degli Stati Uniti, non osando menzionare che sono state vittime di queste violenze sessuali durante il tragitto, ma è inutile menzionarlo ai giudici di quei tribunali, che non ne terranno conto, anche perché non ci sono prove. Resta la testimonianza simbolica di quelle “bandierine” colorate, sventolanti, lasciate sui cespugli affinché nessun dimentichi che in quel punto è avvenuto un reato, che non sarà dimenticato completamente. Le carovane di emigranti che passeranno in quei luoghi potranno vederle, ricordando così che il viaggio dell’emigrazione è pieno di dolore e di sofferenza.

approfittatori assorbono il contributo pubblico di €35 stanziato per ogni immigrato ospitato, minacciato di essere espulso se protesta. Vengono per lo più selezionati tra i più robusti e i più miti, come in un mercato degli schiavi. In quelle condizioni, non è frequente che gli immigrati muoiano senza che si sappia perché, sotto l’indifferenza dell’opinione pubblica. Queste forme di sfruttamento spesso si mescolano con altre attività illegali come il traffico di droga e l’avvio alla prostituzione, sottoponendo gli immigrati ad ogni forma di sfruttamento, spesso dopo che sono stati loro sottratti i documenti personali per trasformarli in vere vittime di traffico di persone.

Racconti di sofferenze umane di questo genere sono frequenti e non c’è bisogno qui di illustrarle in dettaglio: è sufficiente guardare la cronaca quotidiana o consultare le reti sociali degli immigranti per accedere ad ampia documentazione (per es. La voce del migrante in https://lavocedelmigrante.com).  Purtroppo, molti di questi reati rimangono impuniti. Le cronache registrano solo un numero limitato di questi fatti, che spesso rimangono nell’oblio dei sentieri nel deserto, nascosti dall’omertà, o dalla vergogna vissuta dalle vittime, o dal desiderio dei migranti di dimenticare gli orrori che hanno vissuto come testimoni durante il loro tragico viaggio, o perché gli immigranti sono soggetti ancora a ricatto. Ma colloqui con immigranti irregolari sono ricchi di aneddoti di questa natura, storie di tragedie infinite.

I reati sono di tutti i tipi. Ricatti sono imposti (come verificato nei campi libici) da chi sequestra gli immigranti in custodia forzata, richiedendo riscatto alle famiglie nei paesi d’origine, come frequente anche in Messico da parte di bande criminali che prendono in ostaggio i migranti per indurli al traffico della droga o alla prostituzione, o per esigere una ricompensa pecuniaria (vedi Parte III di questo saggio). 

Convenzioni internazionali esistono a protezione delle vittime di questi abusi, e sforzi sono compiuti da singoli governi e da organizzazioni internazionali per combatterli. ONG internazionali o locali sono molto attive nel proteggere i migranti che sono vittimizzati, offrendo loro un santuario, da ambedue i lati della frontiera,[20] per ridurre il rischio di imbattersi in bande criminali ed evitare di entrare nelle reti dello sfruttamento sistematico.  Le forze dell’ordine dovrebbero proteggere le potenziali vittime, ma sembra che le autorità incaricate siano più preoccupate a contenere i flussi migratori che a garantire la sicurezza dei migranti. La repressione di questi abusi è minima o assente, e quando viene esercitata, porta a scarsi risultati. Gli sforzi si concentrano sulla lotta al traffico di droga, o all’arresto di scafisti o coyote, trascurando il fatto che reati gravissimi siano stati commessi contro l’immigrato.

Esiste una fase grigia del processo d’emigrazione, in cui gli immigranti sono abbandonati a sé stessi, sparendo dallo schermo di controllo delle autorità pubbliche, forse perché ancora nascosti nella loro clandestinità, o perché sequestrati dai veri criminali. È la fase in cui la repressione delle autorità pubblica contro i crimini verso gli immigranti è particolarmente inefficace. Solo quando l’immigrante esce fuori da questo tunnel della clandestinità, è possibile proteggerlo dai crimini che ha subìto. Ma in pratica, la mancanza di prove da produrre in tribunale e l’aver infranto le leggi sull’immigrazione, rendono la protezione di queste vittime molto aleatoria, anche per la carenza o assenza di assistenza legale, salvo eccezioni. È più facile arrestare prostitute, trafficanti di droga, o fare retate di lavoratori clandestini in sweatshops e ambulanti non autorizzati, che non colpire le cosche criminali che infieriscono contro i migranti. Non parliamo poi delle violenze sessuali e altri abusi fisici subiti dagli emigranti durante il loro viaggio: sono reati per lo più trascurati e quasi mai perseguiti.

Mentre possiamo essere tutti d’accordo che i reati di cui gli immigranti irregolari sono vittime dovrebbero essere combattuti, spesso le misure di repressione si dirigono contro gli immigranti stessi, per la loro condizione ambigua di “vittima-criminale”, che discende dai vari tentativi di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare esaminati in questo saggio. È così che, anziché colpire i perpetuatori delle violenze contro i migranti, spesso si colpiscono prima le loro stesse vittime, confondendo criminali e prede. Come al solito, gli immigranti sono l’anello più debole di questa catena di tragedie umane.

Legislazioni nazionali, ma forse anche una migliore protezione del diritto internazionale, dovrebbero offrire una maggiore protezione agli immigranti da questi reati, in aggiunta a quanto già previsto dalle leggi e dalle convenzioni internazionali vigenti. A volte lo fanno, ma non sempre in misura sufficiente.  Per esempio, secondo le leggi degli Stati Uniti, una donna che ha subìto un serio abuso durante il processo di emigrazione, potrebbe usare questo reato a sua difesa addirittura per ottenere una soluzione a suo favore per l’immigrazione nel paese, anche se inizialmente era nella condizione di aver infranto le leggi sull’immigrazione. Tuttavia, i tribunali d’immigrazione sono riluttanti a concedere questa possibilità, richiedendo prove non facili da produrre in sede giudiziaria, vista l’assenza di evidenze fisiche irrefutabili o testimonianze attendibili. Questi reati spesso sono stati commessi nell’anonimato delle aree ove i trasporti clandestini hanno luogo (vedi il riquadro sulle “Bandierine” nel deserto), quando l’omertà prevale, i colpevoli non sono catturati, e la vittima si trova a sostenere il suo caso davanti al giudice forse con l’unica prova (considerata insufficiente) di una gravidanza non voluta o qualche livido sul proprio corpo.   

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N O T E

[1] Vedi “Sulla ‘criminalizzazione’ degli immigranti irregolari”, terza parte del saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO”, apparso su Partecipagire il 29/4/2018

[2] Vedi “Human smuggling fees” in https://openborders.info/human-smuggling-fees/

[3]  Vedi “Current Routes, Institutional Responses and Human Smuggling across the Mediterranean Sea” PowerPoint in  https://institute.eib.org/wp-content/uploads/2017/02/Presentation-Achilli-Luxembourg.pdf

[4] Fortex, nata nel 2005 per gestire in modo coordinato il controllo delle frontiere europe nell’area Schengen, inizialmente si limitava al coordinamento della cooperazione tra i paesi membri nella gestione dei controlli di frontiera, offrendo assistenza tecnica, formazione e studio dei modi per migliorare l’efficienza di queste attività. La debolezza gestionale, carenza di risorse, e non chiarezza del mandato spiegano l’evoluzione di Frontex di questi ultimi anni, con un profondo cambiamento della sua struttura, anche a seguito dell’esplosione dei flussi migratori.

[5] L’Unione Europea ha finanziato lo sviluppo di tecnologie per migliorare la sicurezza dei propri confini, con progetti come PERSEUS, SEABILLA, e 12C, per individuare pescherecci e gommoni in alto mare. Vedi Maria Gabrielsen Jumbert (2018)“Control or rescue at sea? Aims and limits of border surveillance technologies in the Mediterranean Sea”, in Autori Vari, “Disasters”, Overseas Development Institute, John Wiley & Sons Ltd, Oxford.

[6] Fornito dall’Agenzia Spaziale Europea, che gestisce sorveglianza satellitare in tempo reale.

[7] EUROSUR è il sistema di Sorveglianza dei Confini (Border Surveillance) dell’Unione Europea. Lanciato nel dicembre del 2013, permette lo scambio di informazioni attraverso una rete di centri nazionali di coordinamento (NCC), producendo immagini situazionali, permettendo l’accesso a tecnolgie avanzate sulla sorveglianza.

[8] Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles (May 2015), “Riding Routes and Itinerant Borders: Autonomy of Migration and Border Externalization”,  Antipode, Research Gate, in  LINK

[9] Questo deterrente ha destato una protesta universale, tanto da far desistere l’amministrazione Trump nel perseguirlo. Ma questo tentativo ha lasciato conseguenze negative, con più di 2000 minorenni ancora separati (al momento in cui scrivo) dai loro genitori, pur essendo passato più di un mese dalla decisione di separarli. Sembra che l’ICE è stata molto più efficace nel separare i membri delle famiglie immigrate che nel riunirle.

[10] Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles, “Re-bordering the Neighbourhood: Europe's Emerging Geographies of Non-accession Integration”, SAGE, European Urban and Regional Studies, 20 (1),: 37-58, January, 2013.

[11] Negli Stati Uniti, questi tentativi di coinvolgere nelle politiche di contenimento anche le autorità di paesi confinanti come il Messico ed i paesi dell’America Centrale da cui gli emigranti provengono, sono stati modesti e meno efficaci, sia per lo scarso interesse di questi paesi che per la sfiducia dell’ammistrazione statunitense che ha preferito concentrare questa collaborazione nel controllo del narcotraffico, e non in materia di immigrazione.

[12] Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles (May 2015), “Riding Routes and Itinerant Borders: Autonomy of Migration and Border Externalization” cit.

[13] Frase rilasciata da Alessandro Di Battista del Movimento 5 Stelle a San Francisco il 13 giugno 2018 in un’intervista alla parlamentare Laura Ravetto di Forza Italia per non aver preso una chiara posizione sull’episodio della nave Aquarius. http://www.polisblog.it/post/395543/aquarius-di-battista-futuro-africani-africa-video

[14] L’esternalizzazione dei confini è stata tentata anche altrove, per esempio in Australia, che impedisce l’arrivo sulla costa di quel continente di imbarcazioni irregolari di immigranti, creando enclave in strutture “offshore” al largo del territorio continentale dell’Australia, ove costoro rimangono bloccati, in territori considerati ancora esterni, rendendo impossibile per i profughi presentare domanda di asilo alle competenti autorità.

[15] Vedi quanto riportato da La Repubblica il 25 giugno del 2018: Per Matteo Salvini, il governo italiano dovrebbe dare disposizione alla Guardia costiera di non rispondere nel ai messaggi di soccorso delle ong che operano nel Mediterraneo, a volte con migranti a bordo. Il ‘piano’ è esposto dal ministro in conferenza stampa, quando gli domandano a bruciapelo se abbia dato disposizione di non rispondere agli sos. La replica è secca: ‘Dovete chiedere al ministro Toninelli, ma se così fosse - aggiunge con un sorriso - avrebbe il mio totale sostegno’."

[16] Il primo comma dell’art. 98 della Legge del Mare, sul “Dovere di prestare assistenza” dice, esattamente, quanto segue: “Every State shall require the master of a ship flying its flag, in so far as he can do so without serious danger to the ship, the crew or the passengers: (a) to render assistance to any person found at sea in danger of being lost; (b) to proceed with all possible speed to the rescue of persons in distress, if informed of their need of assistance, in so far as such action may reasonably be expected of him; (c) after a collision, to render assistance to the other ship, its crew and its passengers and, where possible, to inform the other ship of the name of his own ship, its port of registry and the nearest port at which it will call.”

[17] La polemica col Ministro Salvini si è ultimamente spostata dalle ONG alla disputa con gli altri paesi europei sul regolamento di Dublino, e sull’accesso delle navi di soccorso ad altri porti europei, anziché solo ai porti italiani.

[18] Su Alarm Phone e queste forme di opposizione organizzata alle misure di respingimento violento nei confronti degli immigranti, si veda Carla Höppner e Corinna Zeitz (2017) From Morocco to Spain and beyond: collective resistance against a deadly border cooperation” in

https://alarmphone.org/en/2017/10/26/from-morocco-to-spain-and-beyond-collective-resistance-against-a-deadly-border-cooperation/

[19] Nel 2017, 14.600 immigranti centro-americani hanno fatto richiesta di asilo in Messico (un increment del 66% rispetto al 2016, un numero di rifugiati 11 volte superiore rispetto a quello del 2012).

[20] Si veda l’informazione illuminante della KINO BORDER INITIATIVE al confine tra l’Arizona ed il Messico, in http://www.kinoborderinitiative.org e l’abbodanza di testimonianze lì riportate.

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