TEATRO DES-CONFINADO

¿PROVOCACIÓN SURREALISTA O MENSAJE PROFÉTICO?

 

 

     Conversación desde Buenos Aires con Fernanda Docampo (*) y Ariel Divone (**)  [Link trad. italiana]

A continuación compartiremos algunas reflexiones derivadas de nuestra experiencia teatral a partir de las preguntas/disparadores que la redacciòn de Partecipagire nos ha hecho.

Cuando hablemos de Teatro, nos referiremos a nuestra experiencia teatral basada en el trabajo que venimos realizando desde 2003 entre Argentina y Francia, como actores, pedagogos y directores teatrales.

 

¿Puede el Arte ser un instrumento intencional de lucha política? ¿Como se pone el teatro en esta perspectiva?

Consideramos que nuestra construcción teatral es política principalmente porque crea un espacio de encuentro con el otrx del que prospera un sentimiento comunitario entre lxs actorxs y directorxs, que a su vez, se transmite a los espectadorxs.

Teniendo en cuenta que el hecho teatral existe en el vínculo (puente) entre actores y espectadorxs, creemos en el teatro como

TEATRO S-CONFINATO

PROVOCAZIONE SURREALE O MESSAGGIO PROFETICO?

 

 

Conversazione da Buenos Aires con Fernanda Docampo (*) e Ariel Divone (**)  [Link orig. spagnolo]

 

     Condivideremo qui alcune riflessioni maturate nella nostra esperienza teatrale. Prenderemo come spunto le domande-sfida che la redazione di Partecipagire ci ha rivolto.

Quando parliamo di Teatro, ci riferiamo alla nostra esperienza teatrale. Un lavoro che abbiamo cominciato nel 2003, viaggiando tra l’Argentina e la Francia, come attori, pedagoghi e registi teatrali.

  • Può l’Arte essere uno strumento intenzionale di lotta politica? Come si pone il Teatro in questa prospettiva?

Crediamo che la nostra costruzione teatrale sia politica, principalmente perché crea uno spazio d’incontro con l’altro. Nasce, così, un sentimento comunitario tra attori e registi che, a sua volta, si trasmette agli spettatori. Tenendo in conto che il fatto teatrale

ORTI IN AMAZZONIA

 Per nutrire le famiglie e salvare il pianeta.

Conversazione in skype tra Gisella EvangelistiLili Avensur, psicologa sociale peruviana nata a Pucallpa, lungo il fiume Ucayali, un grande fiume che confluisce nel Rio delle Amazzoni.

G.E.: Ciao Lili, che piacere ritrovarti. Ho sentito che con Terra Nuova, una onlus italiana con cui collabori da anni a fianco delle popolazioni indigene amazzoniche in progetti educativi e produttivi, avete lanciato una campagna internazionale per raccogliere un modesto fondo di 8000 euro per rafforzare la produzione degli orti coltivati da madri capofamiglia nelle comunitá indigene dell'Ucayali. Ci vuoi spiegare di che si tratta?

L.A.: Salve!! Come sappiamo, in Amazzonia tradizionalmente sono le donne indigene a coltivare negli orti  i vegetali per la famiglia (soprattutto yuca, banane, arachidi, frutta locale), mentre gli uomini  provvedono a fornire le proteine, attraverso la caccia e la pesca.  Finché i popoli amazzonici vivevano isolati, tutti mangiavano a sufficienza,  perché sapevano come usare le risorse della foresta senza distruggerla. Ma le cose sono cambiate da quando sono stati invasi  dal cosiddetto “progresso”, rappresentato da imprese che abbattono la selva per impiantare coltivazioni di palma da olio o altri prodotti commerciali, piú i taglailegna illegali che si portano via le ultime piante di magnifico mogano o altri legni pregiati (che hanno impiegato decenni a crescere)...mentre le compagnie petrolifere e quelle dedicate all'estrazione dell'oro, legalmente o illegalmente,  inquinano irrimediabilmente i fiumi con mercurio e altri metalli pesanti. Per non parlare del progetto  interstatale di costruire in Amazzonia 350 dighe per rifornire di acqua le imprese minerarie, col risultato di distruggere  i preziosi e complessi ecosistemi che fanno della selva quello che é, fonte di vita di un'impressionante biodiversitá, habitat di migliaia di comunitá, e soprattutto,  un'indispensabile riserva di umiditá per il pianeta. Tutti siamo collegati, sia che tu viva a Bergamo, Canicattí o Iquitos.

RIACE SOTTO TIRO
MA NON E' DETTO

 di Gisella Evangelisti

Andiamo a conoscere Riace, “villaggio globale”, come si legge  su una iscrizione nel centro, in occasione di un incontro della rete Recosol, che unisce 300 comuni italiani impegnati nell'accoglienza dei migranti. Nell'intenso fine settimana del 25/26 maggio sono arrivate in Calabria piú di settanta persone  tra sindaci  e operatori sociali,  per scambiare esperienze e appoggiare Lucano. Sí, il famoso  Domenico Lucano e il suo “villaggio globale” che sono adesso in piena tormenta, lasciati da due anni senza fondi e con  guai giudiziari a babordo. Torniamo un attimo indietro per ricostruire questa peculiare vicenda.

Tutto cominció con un veliero

Riace é uno dei tanti borghi adagiati su una collina, tra campi di grano e ulivi, che sono parte integrante della storia e del paesaggio italiano. Negli anni '50 aveva 4000 abitanti, poi fu quasi abbandonato e le scuole stavano per chiudere. Oggi ci vivono 1500 riacesi e 500 stranieri, di 26 diverse nazionalitá. Il cuore del paese é un grande pino, che nel dopoguerra ha visto quasi tutti i giovani partire verso le Americhe o per Torino tra lacrime e fagotti.  Le donne anziane, ieri come oggi, continuano a percorrere le sue stradine con un rosario in mano, pensando ai figli lontani. Ma poi un giorno, come si racconta nelle favole,  un veliero sbarcó sulla spiaggia di Riace, e cambió la sua storia. Era l'estate del '98, e dal veliero guidato avventurosamente da un capitano turco scesero stremati 300 curdi, appartenenti a un popolo che tante battaglie lungo i secoli avevano lasciato  senza patria. Furono accolti con entusiasmo da un gruppetto di  giovani  di Riace  che alle elezioni del '95 non erano stati votati neanche dai loro genitori, perché considerati “teste calde”, troppo idealisti. Puntavano al recupero delle case abbandonate e alla costruzione di una vera comunitá, dove tutti fossero felici, sia i locali che gli stranieri, scambiando i loro saperi. Figuriamoci! Chiamarono questa utopia  “la Cittá Futura”.

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