Recensione di Andreina Russo
cinema
La pazza gioia
«Una passeggiata fuori da una struttura clinica che si occupa di donne con problemi
in quel manicomio a cielo aperto che è l'Italia»
di Paolo Virzì (2016)
Nel sottotitolo l’estrema sintesi, per di più per mano dell’autore, di un film invece ricchissimo di temi narrativi, che illustra condizioni umane ai limiti della sopportabilità col tocco incisivo e al contempo compassionevole di un regista capace di rendere con estrema delicatezza, ma anche con precisione chirurgica, ogni sfumatura degli animi e delle loro complesse relazioni.
L’assunto teorico, l’incrociarsi di due esistenze apparentemente opposte e inconciliabili, assume sostanza e forma concrete grazie alla carnalità e alla straordinaria espressività di due attrici di razza, di quelle che danno del dolore e della rabbia una resa plastica, corporea, che sembra di poter percepire più attraverso il tatto, che attraverso l’udito e la vista. Valeria Bruni
Tedeschi e Micaela Ramazzotti: due maschere tragiche, la prima più simile a una Menade danzante e la seconda ad una Niobe piangente, definite anche nella scelta di un abbigliamento che parla: quello di Beatrice, sedicente contessa dal cognome altisonante, sempre elegantemente trascurato, dai colori vivaci che ne fanno una farfalla svolazzante tra corpi pesanti piegati dalla vita, nella situazione claustrofobica di una ricoverata in un istituto per donne affette da disturbi mentali. Quello di Donatella ridotto a pochi stracci, dark come i capelli che le coprono scompostamente il viso scarno, scavato, che solo la bocca bellissima e gli occhi luccicanti di sofferenza rendono profondamente femminile. Il continuo, vacuo chiacchiericcio di Beatrice, altro carattere residuale della sua passata appartenenza al jet set, aggredisce Donatella, che giunge nell’ istituto praticamente resa muta da una vicenda umana devastante, chiusa su se stessa come un animale ferito, lo sguardo sfuggente, le reazioni esasperate. Eppure, nonostante quello che ci si potesse aspettare, nonostante gli sforzi del personale della struttura, nonostante la curiosità affettuosa delle altre ricoverate, è solo Beatrice a scalfire la corazza di solitudine di cui Donatella si è circondata e a trovare il filo di Arianna prima della comunicazione , poi della comprensione e della solidarietà. Il racconto si snoda come un poema classico: dopo i primi capitoli girati in interno, ecco l’occasione insperata di uscire nel vietatissimo mondo, il momento di distrazione del personale che concede alle due giovani donne un viaggio ulissiaco, di incontri e di conoscenza, alla ricerca del passato ma anche del futuro. Per entrambe infatti non si tratta di semplice, sterile nostalgia, ma del tentativo di riannodare fili spezzati nell’illusione di poter ritrovare la traccia dei percorsi esistenziali interrotti e di poter continuare il cammino, di poter ribaltare i loro destini che sembrano definitivamente avvitati su se stessi. La varietà degli incontri e delle situazioni apre a Beatrice e a Donatella inaspettati momenti di allegria, che le fa tornare alla spensieratezza degli anni migliori, ma il buio incombe soprattutto nell’animo di Donatella, che mantiene chiuso in sé ancora a lungo il segreto nucleo della sua angoscia.
La fase del viaggio mette in evidenza una serie di temi fondamentali, come quello del ruolo maschile nella vita delle due donne , un ruolo determinante ma al contempo sfocato, come di personaggi minori e mediocri che pure finiscono, consapevolmente o incoscientemente, per deteriorare fatalmente il destino delle loro compagne, oppure il ruolo del denaro, il dio che sembra dominare la vita di tutti, l’oggetto del desiderio che tutti, uomini e donne, rincorrono, e che pure è così facile trovare e disperdere in una girandola travolgente, mentre è così difficile trovare l’amore in una società inaridita e istupidita dall’infantile nevrotica esclusiva ricerca del piacere mordi e fuggi. Senza voler rivelare nulla del finale, c’è solo da aggiungere che in conclusione le traiettorie di queste due straordinarie, intense meteore si scoprono in qualche modo parallele e questa analogia viene alla luce, tra lo stupore delle stesse protagoniste, nella tenera scena in cui, mentre una traccia il suo ritratto da ragazzina “io sono nata triste….”, l’altra le fa eco dolcemente ripetendo come in trance “anch’io, anch’io, anch’io…”. Il ricordo mitico di un mondo dorato che Beatrice ha fissato nella memoria per poter sopravvivere si sgretola e il suo passato finisce per coincidere con la grigia, squallida esistenza che ha portato Donatella alla tragedia.
Eppure il film lascia aperta la strada alla speranza, grazie anche ad un linguaggio narrativo che alterna il tono cupo del dramma a quello più leggero della commedia (come accade, in fondo, nella vita vera), in certi momenti resa più graffiante grazie all’ambientazione in Toscana, dove la scabra battuta beffarda spesso interviene con naturalezza a fugare qualsiasi pericolo di melodramma.
Si riconosce nell’opera il contributo alla scrittura di Francesca Archibugi, anche lei maestra nello scavo della psiche femminile, mentre la potenza espressiva della fotografia di Vladan Radovic accresce il coinvolgimento emotivo dello spettatore, già catturato dall’intensità della storia.