E qui fu Napoli”

di Ida Verrei

Una luce bianca, punti neri in un bagliore confuso. Pian piano, mi abituo al chiarore.

Impossibile! Non ci credo: la strada è pulita. Scomparsi i bidoni colmi di spazzatura, i cassonetti traboccanti di fetidi rifiuti, i cumuli di sacchetti neri scoppiati lungo i marciapiedi.

Sembra di essere tornati all’antico, quando il Vomero era una collina di Napoli tranquilla e remota, profumata di limoni, accarezzata dal vento di mare che visitava una città-giardino.

Il cielo è ancora quello, rilucente, celeste, solcato da nuvole bianche. Il mare, in lontananza, di nuovo il lago turchino con candide creste d’onda dove, un tempo, un giovane corpo di donna giocava

inseguendo i flutti, col riso sul volto e nel cuore.

 

Cammino, respiro, vado verso il sole: guardo giardini rigogliosi oltre i cancelli di ferro arrugginito; sfioro antichi palazzotti d’epoca, con fregi e stemmi nobiliari sbiaditi dal tempo. Per strada, nessuno. Alzo il capo, finestre serrate, persiane chiuse.

Dov’è finita la gente? La Napoli-bene poltrisce ancora, chiusa nel suo mondo, cieca e sorda a pianti e lamenti, lontana, come sempre, dall’esercito di miseria che dal basso esala sospiri come i fetori immondi di quei rifiuti che oggi sembrano inghiottiti nel nulla.

Meglio. La città vuota mi appartiene, sembra stringermi in un abbraccio di sole e sorrisi ammiccanti. Un cane attraversa la strada, poi torna indietro, mi annusa, si struscia alle mie gambe. Mi chino ad accarezzarlo.

Proseguo. Arrivo alle antiche rampe che conducono alla bianca corona che circonda la collina e porta giù, fino al mare.

Mi aspetto di vedere per le ampie, vecchie scale, strana parentesi tra due oasi estranee, il popolo dei vicoli; di udire quel vociare scomposto che ha sostituito la “lingua” di un tempo, ricca di melodie, colori, significati. Anche il popolo dei vicoli è mutato, come tutta la città.

Persa la semplicità, la grazia. Perduta l’ironia gentile del gesto, svanita la vivacità generosa, la gaiezza. È un popolo in disfacimento. Gente offesa, respinta, ingannata, indurita da speranze deluse. Una moltitudine umana selvaggia, straniera nella sua stessa città. Quella città dove non esistono prospettive, non ci sono mai state. Quella città nata dal canto di una sirena e vissuta per generazioni nell’attesa sterile del miraggio, nutrendosi solo di musica e poesia.

Per le antiche rampe, niente comari scarmigliate, niente vecchi accasciati su seggiole sfondate, niente adolescenti ciondolanti con aria torva e occhi foschi, né bambini dal riso sfrontato. Il vuoto, nessuno. Anche qui tutto tace: balconcini in pietra, senza fiori, con scheletri di finestre senza vetri, porte dei bassi chiuse, scantinati sprangati. Solo magri, scarni gatti famelici. Eppure, sento palpitare una vita trattenuta, sento occhi cattivi e sospettosi spiarmi, seguirmi. Una nuova inquietudine mi rende la gambe molli. Scappo, percorro le scale, mi precipito verso il Corso.

E cammino, cammino ancora. Devo raggiungere il mare. Eccolo, ecco Via Caracciolo, la Villa Comunale. Imbocco i viali del parco ombroso, siedo su una panchina a riposare.

Prati puliti, curati, alberi lussureggianti, viottoli sgombri. Non resta neanche il ricordo di vecchi, luridi materassi squarciati, abbandonati in un angolo, o di carcasse di biciclette arrugginite buttate di traverso sulle aiuole, copertoni e giocattoli rotti ammonticchiati dietro muriccioli. Tutto risplende.

E i bambini? Dove sono finiti i bambini? Perché non si riappropriano dei loro spazi? Perché le altalene dondolano sole e sconsolate? Questa città fantasma inizia a darmi l’angoscia. C’è qualcosa di innaturale nel vuoto che mi circonda. Ho un brivido. Sono sola. Non c’è segno di vita.

Mi alzo, vado verso il lungomare. L’aria salmastra profuma, il sole regala brillii di fuoco all’orizzonte. Dalla bassa scogliera schizzi d’ acqua salata mi inumidiscono viso e capelli. Il vento gioca e  gonfia i tendoni degli chaletes deserti. Dio, che aria antica! Sembra di vedere da un momento all’altro le carrozzelle spuntare da S. Lucia e costeggiare, lente, il muretto basso e sbrecciato, mentre l’ostricaio lancia il suo richiamo: “còzzeche, fasulare, cannulicchie… ì c’addore ‘e mare!”

Risalgo per il Chiatamone, arrivo a Piazza del Plebiscito, è inondata di sole. Guardo, facendomi scudo con la mano, il Colonnato di S. Francesco di  Paola. I portici sono un’oasi di frescura.

È un’allucinazione? È un’illusione ottica? No, lì c’è vita. Qualcuno si muove. Una porta è socchiusa. Sì, la piccola, vecchia libreria è aperta! Salgo in fretta i pochi gradini. Il libraio dai capelli d’argento e gli occhi turchini è di spalle, incolla locandine sui vetri. Lo chiamo, si volta. Mi abbraccia ed accoglie con la solita simpatia.

«Vieni, vieni Ida, che piacere! Siedi e riposa. Io vado ad ordinare due caffè, aspettami qui.»

«Ma… è tutto chiuso», protesto piano,« non troverai nessuno».

Mentre va, si volta, sorride. Pochi passi più in là, bussa ai vetri del “Bar della finestrella”. Le persiane si socchiudono. Sul davanzale compaiono due tazzine fumanti. Il libraio le prende e le porta al tavolino di ferro collocato davanti al negozio. Il caffè è buono, forte, ristretto, come piace a me.

Seduta accanto a lui, guardo la Piazza, il Castello Reale.

«Quanto è bella oggi! È davvero “Una Piazza per la Poesia”». Il libraio sorride.

«Peccato, peccato quel palco al centro. Ma cos’è? C’è in programma un concerto? Musica? Balletti?» Il libraio scuote la testa, stringe le labbra: « No», risponde, «No. Aspetta, vedrai».

Intorno a noi il silenzio. Qualche piccione svolazza, si posa, cerca briciole che non ci sono.

Ad un tratto, un rumore, è come il ronzio di uno sciame d’api.

Cos’è? Da dove viene? Ma chi, cosa… cosa sono quelli? Una schiera di esseri strani sta invadendo la piazza. Non capisco, guardo meglio: sono pupazzi, fantocci. Una sorta di burattini col corpo di gomma e la testa di pezza, come quella delle bambole di un tempo. Non hanno occhi, non hanno naso, non hanno orecchie. Solo enormi bocche spalancate. È una visione inquietante. Stringo la mano del libraio, lui ricambia la stretta. Le “cose” si dispongono attorno al palco, riempiono la piazza, sventolano bandiere celesti, verdi, nere. Arriva una fila di macchine scure. Altri pupazzi scendono, sono tutti vestiti di blu. Poi, per ultimo, un Omino di Plastica. Sale sul palco. Ha piccoli occhi stretti, due fessure, un enorme naso e la bocca arricciata in un ghigno. Un boato sale dalla folla di “cose”. Lui non parla. Gesticola, gesticola soltanto e mette in mostra i suoi sessantaquattro denti. Ma le “cose” applaudono, sono in delirio.

E ora? Cos’è questo fetore, questa puzza nauseabonda? Salgo sulla sedia per vedere meglio: dalle strade limitrofe, dai vicoli, un mare di spazzatura scivola giù come lava, rotola, si sparge. È un’onda di rifiuti, putridume che si riversa sulla piazza, porcheria, lerciume. I pupazzi non si muovono. Loro non hanno naso, né occhi, né orecchie. Solo l’Omino di Plastica si accorge di quanto accade. Tenta di scappare, ma è tardi. Il mare di luridume investe lui e i suoi fan plaudenti, insieme a schiere di ratti che addentano teste di pezza, gonfie di segatura che fuoriesce dagli squarci e si mescola ai rifiuti. È una montagna immensa di marciume fetido.

Un razzo di fuoco arriva dal mare. Cade sulla massa di pattume. Un balenio. E le fiamme divampano, inghiottono ogni cosa.

Rifugiati all’interno della libreria, guardiamo sgomenti, attraverso i vetri, l’acre fumo nero che sbuffa verso il cielo.

La città brucia.

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[foto:Viaggi.Guidoni; e Il Manifesto]

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