Recensione di Luciano Carpo

libri

"FOOTBALL"

di Marc Augé (EDB,2016)

La Coppa del Santo Graal  Il campionato inglese di calcio è il più ricco del mondo, ma quest’anno la vittoria finale è stata conquistata dalla piccola e povera squadra del Leicester (guidata dall’italiano Claudio Ranieri), il che ha suscitato interesse e scalpore in tutto il mondo, oltre che orge di celebrazioni solenni   con pianti emozionati, balli e feste a non finire. Da qualche giorno il Real Madrid ha alzato al cielo la Coppa Campioni e, fra qualche settimana, tutti gli abitanti del Vecchio Continente che ha dato i natali a Kant e ad Hegel, sperano che la Coppa Europa sia vinta dalla squadra del loro vecchio Stato-nazione, in attesa del ritorno del grande duello planetario finale: la Coppa del Mondo.

 E, puntuale e non invecchiato, è ritornato in libreria Football, Edb, pp.48, euro 6, un volumetto che l’antropologo francese Marc Augè ha pubblicato già nel 1982.

                Il tema - il calcio come prima religione del globo- non è certo nuovo; è stato trattato da molti altri sociologi e pensatori. Comunque le osservazioni di Augè, condite di sottile triste ironia, sono sempre di attualità.
               Il Leicester incarna alla perfezione la grande epopea di Davide che sconfigge Golia. Il pianeta intero, pur diviso per mille questioni, fa il tifo per il piccolo club inglese, perché: “i gruppi che si scontrano si identificano fino a un certo livello: possono riconciliarsi a un livello superiore contro un avversario assoggettato allo stesso modo a questa logica segmentaria di identificazione-opposizione”; insomma, ci siamo tutti identificati contro un Golia immaginario, felici di verificare che può esistere “ il miracolo”; che almeno nel football tutto è possibile, fino all’ultimo minuto. Una storia farcita di simboli sui quali identificarsi.
               Ma veniamo, in generale, ai “luoghi” del calcio: secondo Augè, gli stadi come le cattedrali, sono un luogo di senso. Il calcio non è più un  rito di massa metaforico, bensì lo è in senso pieno: perché per moltissime persone “ è sufficiente a dare un senso a tutta la vita”.
               Una partita è come un rito  “ celebrato in un luogo posto al centro della scena da 23 officianti e qualche comparsa, davanti ad una folla di importanza variabile, ma che può raggiungere la cifra di cinquantamila individui.  Non solo. Come una Messa, trasmessa in diretta televisiva , è seguita con la stessa fede da milioni di praticanti a casa., talmente a conoscenza dei dettagli della liturgia che, apparentemente senza scambiarsi una parola, si alzano, gridano, strepitano o si rimettono a sedere allo stesso ritmo della folla riunita nello stadio”.
                Che il calcio sia una liturgia laica lo mostrano anche i cori che, osserva Augè, “ si sentono generalmente in alternanza e non si coprono quasi per niente”, come può accadere  ascoltando una comunità monastica che canta il Salterio.
                Fra tribune e gradinate dello stadio, si compiono “grandi rituali, gesti ripetitivi che sono anche delle iniziazioni. E se da ciascun rituale ci si aspetta che avvenga qualcosa – che la pioggia cada, che un’epidemia cessi, che i raccolti siano buoni- “nel rituale sportivo l’attesa  si colma con la celebrazione stessa: alla fine del tempo regolamentare le sorti saranno decise ma il futuro sarà esistito, frammento di Tempo puro, grazia proustiana a uso popolare”.
               E la Coppa Italia, Coppa Campioni, Coppa Europa, Coppa del Mondo, in fondo, mimano il Santo Graal, ambito da tutti fino al parossismo.
               Il pallone elevato a fede è “ caratteristico di un’epoca e di una società in cui si ritiene che questi frammenti di Tempo bastino alla nostra felicità”.            
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