Recensione di Aurelia Porvenir

libri - INCIPIT MON AMOUR

“Zero Gravity” (Ed. La Nave di Teseo, 2022)

               di Woody Allen

“Chiunque abbia gettato un fiammifero acceso nella stiva di una nave carica di munizioni può confermare che da un gesto insignificante possono scatenarsi decine di migliaia di decibel. Di fatto, per innescare lo tsunami che ha travolto la mia vita poche settimana fa è bastato un sintetico bigliettino fatto scivolare sotto la porta di casa nostra…”

Poche settimana fa? Ma come, Nave di Teseo! Un refuso dopo appena cinque righe dall’inizio? Proprio nell’incipit?

Hmm….. Ok, andiamo avanti. È l’inizio del primo dei 19 brevi racconti raccolti in Zero Gravity, l’ultima fatica letteraria di Woody Allen per ingannare il tempo mentre cerca di trovare (ma incredibilmente non li trova) i soldi per girare il suo cinquantesimo e pare ultimo film.

Che poi, insomma, fatica… Se pensiamo che quasi la metà di questi racconti è stata scritta parecchi anni fa ed è stata già pubblicata sul New Yorker non è che il nostro Woody ci avrà speso molte notti insonni nel suo attico di Manhattan dove passa quasi tutto il suo tempo scrivendo e suonando il clarinetto.

Ma cosa c’era scritto in quel biglietto fatto scivolare sotto la porta di casa del protagonista del primo racconto intitolato: “Non puoi tornare a casa e ti spiego perché”?  Che una produzione hollywoodiana in trasferta nella grande mela aveva individuato nel lussuoso appartamento del nostro eroe la location ideale per girare un film.

Invano il padrone di casa tenta di opporsi prevedendo la distruzione delle sue preziose collezioni d’arte e degli arredi d’epoca.

Neanche far presente che lui ha l’assoluta necessità di un’atmosfera tranquilla e rilassata per completare una monografia sul paguro Bernardo è sufficiente a distogliere i cinematografari dal loro insano progetto da cui deriveranno, ovviamente, incidenti a catena con un bilancio finale di vasi Ming ridotti in briciole ai quali faranno buona compagnia i policromi resti di lampade Tiffany, squarci grandi come quello del Titanic nelle tappezzerie di seta del primo novecento e grandi sbrodolate di cappuccino sui tappeti Aubusson.

Come giustamente dice Daphne Merkin nella sua prefazione non è facile essere divertenti sulla carta stampata, dove non si può fare affidamento ai gesti e alle espressioni del viso che accompagnano le battute e per lo più si suscitano sorrisi ma non sghignazzi o scoppi di risate.

E infatti Zero Gravity non sempre è divertente, a volte anzi quasi faticoso nella incessante e minuziosa citazione di strane locations, di situazioni e personaggi del mondo dell’arte, della politica o dell’economia così poco noti ai più che non di rado per capire il senso di una battuta bisogna prima fare una accurata ricerca sul web. Ma, fatta la ricerca e trovati gli agganci necessari a capire che la situazione fa ridere, la voglia di ridere in realtà è bello che passata.

Però l’importante è provarci. Come ancor più giustamente dice Daphne “In questi tempi ancora più cupi, in cui un mafiosetto russo sembra determinato a scatenare caos e distruzione in tutto il pianeta, uno dei pochi rimedi affidabili alla cupezza e alla disperazione che ci è rimasto è l’umorismo”. Però, però….

Noi che adoravamo le battute di “Misterioso omicidio a Manhattan” (Ti piace Wagner? Certo, ma ogni volta che lo sento mi viene voglia di invadere la Polonia).

Noi che andavamo pazzi per il rapinatore pasticcione di “Prendi i soldi e scappa” che non riesce a convincere il cassiere della banca ad alzare le mani perché nel biglietto minaccioso, ma scritto male, che gli ha passato, lui legge: “Mani in alto, siete sotto giro”.

Noi nostalgici, dicevo, vaghiamo da una pagina all’altra speranzosi e via via un po’ delusi e frastornati da situazioni quasi sempre astruse e popolate da personaggi surreali che non riescono a catturarci.

Per poi arrestarci di colpo, deliziati e increduli quando ci imbattiamo nel perfido agente immobiliare che, mentre il cliente firma un contratto, sorride biecamente e si sfrega le mani con la stessa espressione che aveva Hitler quando guardava nell’atlante la cartina della Polonia. Sì, è vero, la battuta è ormai abusata ma ridiamo lo stesso di cuore in memoria dei bei tempi andati.

Sempre gli agenti immobiliari, pasticcioni e spregiudicati al tempo stesso, ispirano a Woody battutine degne di nota quando racconta che i clienti che riescono a convincere a firmare esosi contratti capestro non di rado si ritrovano costretti a vendere un rene al mercato nero mentre i biechi personaggi osservano il loro annaspare nei debiti con una “compassione degna del dottor Mengele”.

Ah, Woody, così ti riconosciamo!

Degno invece davvero di nota l’ultimo racconto, il più lungo, che si intitola “Crescere a Manhattan”.

Dopo un primo matrimonio giovanile breve e deludente, Sachs, ragazzo ebreo un po’ imbranato protagonista del racconto e per molti versi identificabile con il regista, trova il grande amore in Lulu, bella e ricca ragazza che abita proprio in uno di quei magnifici attici affacciati sul Central Park che ogni giorno Sachs si ferma ad ammirare da una panchina del parco. E incredibilmente anche Lulu un giorno si siede su quella panchina. I due si conoscono, simpatizzano, in breve si innamorano. La loro storia va avanti alla grande tra i crescenti impegni di autore teatrale e televisivo di lui e le rapide incursioni di Lulu nella vita culturale della grande mela dove cerca di giocare un suo ruolo consapevole del fatto che, al sicuro dell’affetto un po’ distratto dei genitori e soprattutto del loro cospicuo conto in banca, non riuscirci non avrebbe comunque gravi conseguenze. Tutto bene, dunque? Non proprio.

Tutto bene finché un giorno Lulu si presenta a un appuntamento e dice a Sachs di essere stata invitata da un suo amico a un’orgia alla quale gli chiede di accompagnarla. Programma: tutti faranno sesso con tutti. Inutile dire che Sachs pensa che sia solo una battuta. Solo dopo un po’ si rende conto con sgomento che Lulu non scherza affatto e che è fermamente intenzionata a partecipare all’orgia con o senza di lui. Dopo lunghe discussioni, preghiere, ordini, recriminazioni e accuse, come quella di Lulu che accusa Sachs di essere un bacchettone (ma lui le risponde che non può essere definito bacchettone solo perché non gli va di fare sesso con il Coro del Tabernacolo Mormone al gran completo!), Sachs alla fine cede e accetta di accompagnarla all’orgia alla quale si presenta, da vero schlemiel, insolitamente vestito con giacca e cravatta.

Quando i due entrano nel grande appartamento che ospita l’orgia intravedono in fondo a un lungo corridoio un groviglio di corpi nudi che Sachs cerca di non guardare per paura che la visione di un uomo nudo gli faccia vomitare le patate al forno. E mentre Lulu è girata e comincia a spogliarsi lui si dirige silenziosamente alla porta ed esce nella fresca aria della notte.

Fine della storia. Niente male, no?

Ma che vuol dire schlemiel? Sciocco.

Nel libro compaiono varie parole in yiddish. Perché non impararne qualcuna?

In fondo adesso se non sai un po’ di yiddish non sei nessuno!

 

Schmutz: sporco

Mazel: destino

Tsuris: problemi

Pupik: ombelico

Klutz: imbranato

Schlepping: che si muove con riluttanza

Kishkes: intestino

Farkakte: coperto di …

Oy: guai!

DESIGN BY WEB-KOMP