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Una primavera calda

Era primavera inoltrata, quel 1974, cinque anni dopo lo scoppio della rivoluzione studentesca, quando il presidente della Repubblica di allora, Giovanni leone, firmò il decreto n.416 che, convertito poi in legge, avrebbe cambiato il volto della scuola italiana fino ai nostri giorni. Era una primavera calda e splendente, avevo ventisette anni e insegnavo in un liceo scientifico della periferia romana, combattendo la mia quotidiana battaglia tra lavoro e famiglia.

Ma le battaglie dure erano quelle che si svolgevano a scuola, la lotta politica tra gli studenti accesissima, la contestazione degli insegnanti, e in genere dell’autorità, feroce. Mi ricordo, di quegli anni, le suole delle scarpe dei ragazzi di quinta che, seduti agli ultimi posti, spiegavano polemicamente davanti a me le pagine di Lotta Continua, accavallando le gambe sui banchi mentre spiegavo Manzoni; ricordo la porta dell’aula che si spalanca di colpo e l’irrompere di una faccia da galera che strilla “Ah professore’, la repressione ha colpito ancora!”, e poi i collettivi senza fine, le assemblee caotiche con centinaia di ragazzi pericolosamente accatastati gli uni sugli altri, urlanti, rossi di rabbia nel tentativo di sovrastare con la propria voce quella degli altri, i mesi passati nella nuova biblioteca a catalogare libri su libri durante le occupazioni, mentre fuori gli studenti si affrontavano in masse che avanzavano e indietreggiavano come maree impazzite a scatti, a spintoni, a pugni. Le botte: quanti lividi, quanti occhi neri ho visto. E le minacce, la paura dei più deboli, il bullismo di alcuni che si insinuava cinicamente tra le fila di quelli che ci credevano.


La differenza

Perché questo è il punto: ci credevano, ci credevamo. Si lotta quando si ha fiducia che le nostre azioni portino a unrisultato, si diventa cinici e passivi quando ci si accorge che i poteri forti, le cupole, ci sovrastano inesorabilmente, soffocano ogni speranza, rendono inutile e ridicola la nostra partecipazione. E’ quello che si è reso sempre più evidente in Italia da quando è iniziato il fenomeno Berlusconi, una piovra dalle mille braccia che ha, all’inizio più copertamente, oggi in modo arrogante e ostentato, svuotato di significato, dall’interno del mondo politico, ogni dibattito, ogni confronto di idee e di ideologie, lo scontro ma anche la faticosa cooperazione tra visioni del mondo differenti, in nome di un efficientismo padronale che oggi, a distanza di quasi vent’anni, si è dimostrato più di facciata che di sostanza. Lo Stato sognato da un imprenditore è fatto di dipendenti, non di cittadini. I dipendenti di qualsiasi grado non discutono, eseguono, per perseguire un unico scopo comune che è l’utile dell’azienda. Ma l’utile dell’azienda non si identifica, se non in misura del tutto secondaria, con il bene dei dipendenti. Oggi il parlamento è una sentina oscena fatta di avvocati, leccapiedi e donnine del premier, di gente comprata a botte di soldi e carriere tanto più fulminanti quanto più immeritate (o basate su meriti che non hanno nulla di decente).

 

Come si va a votare, oggi, sapendo che il tizio che abbiamo votato, il cui partito si scalmana ogni giorno a sbraitare contro il berlusconismo, si potrà vendere domani per un posto di sottosegretario? Siamo un popolo di peones, di ex poveracci da poche generazioni usciti dall’assillo della pagnotta quotidiana, siamo disposti a vendere dignità, figlie e mogli per un posto al sole.

Cambiare il mondo: solo utopia?     Ma allora era diverso, i ragazzi del ’68 e dintorni erano ancora, senza saperlo, i figli dell’Illuminismo e dell’800 rivoluzionario e dei

loro oppositori storici, i ragazzi del ’68 hanno messo a ferro e fuoco le università e le scuole perché davvero credevano di poter cambiare il mondo. E, con tutte le contraddizioni e gli errori, ci sono riusciti. La scuola e l’università non sono state più le stesse: l’insegnamento cattedratico, che salvo rare meravigliose eccezioni faceva degli studenti pre – ‘68 dei graziosi vasi destinati a riempirsi acriticamente di nozioni mal digerite, ha dovuto confrontarsi con le istanze di rinnovamento, ha capito che non poteva più contare sul disciplinato assorbimento dei contenuti delle discipline, ma doveva aprirsi alla critica e alla discussione, al rifiuto e alle proposte di visioni alternative. I testi scolastici sono stati riscritti seguendo linee più problematiche, moltissimi insegnanti (non tutti, ovviamente) hanno introdotto nella loro didattica la riflessione critica e il dibattito con i loro alunni, grazie anche a successivi interventi ministeriali finalizzati al rinnovamento dei programmi come quello Brocca. E tutto cominciò allora, nei primi anni ’70, una stagione bellissima della storia della scuola italiana. Mi contraddico con quanto ho scritto all’inizio? Ma proprio per niente: al di là degli aspetti dirompenti e dissacranti, al di là delle violenze fisiche e verbali, al di là di tutto ciò che di torbido e oscuro si insinuava nel confronto degli opposti, il panorama delle scuole di allora, anche di quelle particolarmente “calde” – come si diceva – era magnifico: la maggior parte dei ragazzi “impegnati” da una parte o dall’altra della barricata (ma in particolare quelli di sinistra, che dovevano fondare “il mondo nuovo”) erano informati, leggevano libri e giornali, partecipavano attivamente ai dibattiti, si appassionavano partendo da dati concreti, documentati. Era normale che fossero presenti ad assemblee e collettivi portando con sé i testi che citavano, da Gramsci a Marx, da Don Milani a Brecht, da Bertrand Russel a Herbert Marcuse. Anche il rapporto che essi avevano con il mondo degli adulti, per quanto di critica e di opposizione, costituiva un canale aperto, dove le idee, spesso in modo convulso e infuocato, scorrevano in entrambe le direzioni. Se io spreco energia e tempo a lottare con un avversario, implicitamente riconosco il valore o almeno la forza dell’avversario, la sua esistenza. Gli adulti che pure, in quell’epoca, non avevano certo alle spalle grandi meriti storici, tranne la minoranza che poteva vantarsi di aver “fatto” la Resistenza, esistevano eccome per i giovani: alcuni come oggetto di scherno e di disprezzo, altri come modelli di pensiero e di comportamento, amati e seguiti. In ogni facoltà, in ogni scuola c’era il professore colto, coraggioso, non allineato, che diventava anche senza volerlo un mito per i suoi studenti.

Il silenzio

 

Oggi è tutto finito. Lì dove tempestavano le voci è silenzio, dove bruciavano le passioni c’è il vuoto, nei rari casi in cui pochi individui cercano di risvegliarle c’è una reazione fiacca e svogliata, vicina allo zero. L’assemblea di Istituto: questa adunanza generale mensile, voluta e decretata nel 1974 assieme ai collettivi di classe e di interclasse e a tutto il sistema degli organi collegiali per imbrigliare e regolamentare la protesta caotica e velleitaria dei giovani e per dare alla scuola una gestione democratica, è morta, ossia vive come pallido fantasma e, di fatto, come giorno di assenza legale che nemmeno entra nel computo delle assenze ai fini della valutazione finale. Quindi otto mesi di scuola, sette giorni in meno al calendario scolastico, visto che Maggio per ragioni didattiche ne è sempre stato fuori. Sono passati quasi quarant’ anni da quella primavera calda che prometteva un futuro luminoso, giovane, diverso dal passato grigio, compunto, conformista: “una risata vi sommergerà” recitava lo slogan, e in quella risata c’era tutta l’infinita bellezza di migliaia di intelligenze giovani e appassionate.

Un tentativo di analisii

Che cosa è successo nella scuola? Come si è verificato questo “riflusso” che ha portato, dopo quasi mezzo secolo, ad una situazione che, se da un lato, per una parte minoritaria di essa, ancora conserva e perpetua i frutti positivi del ’68, dall’altra si presenta generalmente con un quadro per molti versi peggiore della scuola degli anni ’60? Quali i protagonisti ? Quali le responsabilità? La risposta che cercherò di dare a queste domande così impegnative è assolutamente soggettiva e discutibile, perché nasce dallo stretto angolo visuale di una persona che in questi quarant’ anni ha insegnato solo in quattro licei, di cui tre classici, ma ha vissuto anche un’esperienza tutta particolare, rimanendo nella scuola e tuttavia uscendone, a tratti, per vivere quinquennali periodi all’estero, che le hanno permesso di osservare la realtà scolastica italiana con maggiore distacco e lucidità. Il luogo dove però dove è iniziata la mia crescita è stato il primo liceo dove ho insegnato, nell’allora estrema periferia della città, pericolosamente vicino alle famigerate zone popolari di Tufello e Valmelaina. I miei alunni sono stati i miei docenti, i conflitti di quegli anni mi hanno aperto gli occhi su realtà che avevo vicine ma non vedevo, nella beata cecità di chi non è stato mai toccato dal bisogno o dall’ingiustizia.


 

Le assemblee

Quelli erano una scuola e un tempo in cui veramente si imparava, in cui volenti o nolenti si dovevano aprire occhi orecchie e cervelli, in cui ho visto poche persone, tra professori ed alunni, passare stolidamente indenni attraverso le fiamme della rivoluzione. Le assemblee in particolare erano momenti forti, dal duro impatto emotivo, le parole ti si attaccavano addosso e ti tormentavano, non ti facevano dormire la notte, suscitavano rabbia e sorpresa, scavavano un solco tra il tuo io di ieri e quello di domani, rovesciavano le certezze, facevano intravedere altri universi mentali, altre prospettive. Qualcuno aveva scritto a grandi lettere di vernice bianca sul cemento del cortile d’ingresso "Finché la violenza di stato si chiamerà giustizia, la giustizia del popolo si chiamerà violenza”. Uno dei motti vincenti di quella rivoluzione velleitaria, che non sapeva ancora a quali estremi sarebbe arrivata nelle sue frange più tenaci e tragicamente coerenti. La scritta mi faceva paura, suscitava davanti agli occhi scenari orrendi, ma, letta giorno dopo giorno, insinuò in profondità nella mia mente l’idea di “violenza dello Stato”. Per me, figlia e nipote di magistrati, professori, presidi, lo Stato era l’ordine di fronte al caos, la giustizia di fronte all’arbitrio, la regola tesa a salvaguardare tutte le parti sociali. “La violenza dello Stato”: l’anomalia, l’errore, la devianza in un organismo che nella mia ingenuità ritenevo sostanzialmente perfetto. Mio nonno, è vero, alla fine della sua carriera, ormai in Cassazione, ripeteva amaramente “La giustizia è una bilancia scassata”, nel senso, spiegava poi, che funziona solo contro i più deboli, mai contro i forti. Ma mio nonno era morto quando avevo quindici anni, ed ero troppo ragazzina per capire ciò che, con altre parole, mi avrebbe detto quella scritta per terra.
Ma torniamo alle assemblee studentesche: fino all’80, mediamente, funzionarono bene: moltissimi studenti della scuola partecipavano, venivano invitati a parlare “esperti” di valore che venivano ascoltati con interesse e subissati di domande pertinenti. Anche i Presidi a volte intervenivano come relatori quando si parlava di problemi scolastici e parecchi docenti, pur non obbligati, andavano ad ascoltare i dibattiti che alcuni di loro continuavano poi in classe con i propri alunni. Abbiamo visto in quegli anni, ma anche in epoche successive, sfilate di giornalisti, scrittori, magistrati, registi, filosofi, uomini politici invitati a coppie secondo le regole della par condicio, partecipare con molto impegno a queste riunioni, di fronte a un pubblico che sfiorava, nei grandi istituti, i mille alunni. Una delle ragioni di tanto afflusso erano i regolamenti dell’epoca, che non permettevano agli studenti di andarsene a casa in alternativa all’assemblea, consacrata dalla legge come momento di didattica alternativa "in funzione della formazione culturale e civile degli studenti", di prezioso confronto di idee in un contesto regolamentato e in un clima costruttivo. Chi non era interessato poteva rimanere in classe e svolgere esercizi con i professori dell’ora: è inutile dire che questo spingeva tutti a “scendere” in assemblea, casomai per sedersi accanto alla bella ragazza della classe vicina e tentare un approccio con lei. Altri chiacchieravano, altri potevano distrarsi in altri modi, ma la maggioranza partecipava. Erano di là da venire tutti quegli apparecchi elettronici forniti di auricolari che oggi ogni ragazzo ha in tasca o nella borsa e gli permettono di “assentarsi” comodamente in ogni momento della lezione, della gita scolastica, della conferenza dell’esperto di turno. Oggi abbiamo davanti platee di omini autistici, chiusi nella loro “bolla” personale, assolutamente indifferenti a qualsiasi cosa fuori di quella bolla. Allora la scuola, attraverso le assemblee, respirava, riceveva dal di fuori ventate di aria nuova, si apriva alle teorie che svecchiavano i vecchi saperi scolastici, forniva agli alunni anche la consapevolezza di ciò che avveniva nella società e nel mondo, permetteva loro di reagire e divenire soggetti attivi. La stessa scuola, in realtà, attraverso le trasformazioni positive verificatesi nei decenni successivi, si farà a partire da quell’epoca sempre più carico di aprire l’orizzonte dei ragazzi quando questi smetteranno in larga parte di essere soggetti propositivi, ma lo farà in forme diverse, attraverso l’inserimento nel curricolo di corsi secondari, seminari, progetti, conferenze, tutti affidati ad esperti esterni (è diventato persino un business!). Di tutte queste lodevolissime attività gli studenti saranno però i fruitori, chiamati, non sempre con successo, ad una partecipazione attiva, mai o quasi mai i promotori.

Tuttavia, impercettibilmente, la spinta propulsiva del ’68 andava calando, la gravità degli eventi degli anni di piombo generò un’ondata di orrore e di ripulsa anche tra molti di coloro che avevano partecipato o soltanto simpatizzato per il movimento studentesco. Ne approfittavano a piene mani tutte le forze che si erano opposte ad esso, mettendo in luce la paternità delle idee che stavano portando tante aberrazioni. Così, piano piano, cominciò nelle scuole un lento ma inesorabile cambiamento, che accelerò nel momento in cui alcuni Presidi, in particolare quelli più conservatori, o semplicemente quelli più pavidi, che vedevano nelle assemblee solo delle adunate sediziose, si resero conto che, permettendo agli studenti di starsene a casa nel giorno dell’assemblea mensile, il numero dei partecipanti calava sensibilmente: per molti anni questo avvenne solo in alcune scuole e venne osteggiato da molti capi di Istituto, non necessariamente progressisti, perché questa interpretazione della legge andava contro lo spirito e le finalità per cui essa era nata, e dava la possibilità di fatto agli studenti di “marinare” la scuola legalmente. In realtà all’inizio si richiedeva agli studenti la giustificazione come per qualsiasi altra assenza, ma dagli anni ’90 , dilagando ormai quasi in tutte le scuole superiori la tendenza a disertare le assemblee, si è permesso agli studenti minorenni di portare soltanto una dichiarazione preventiva dei genitori che il figlio sarebbe stato assente il giorno dell’assemblea. Oggi nel mio liceo, che conta mille e cento alunni, si canta vittoria se hanno partecipato all’assemblea del mese un centinaio di studenti; gli esperti di valore intervengono sempre meno per un pubblico così ridotto; molte assemblee, come quelle di dicembre e di febbraio, si sono convertite in feste di Natale e di Carnevale, ma non per questo godono di una frequenza molto più numerosa.


 


E i professori?

E i professori in tutto questo? Nella massa dei docenti le posizioni, è ovvio, rispecchiano le stesse variabili presenti nella popolazione adulta in generale: a fronte di esigue minoranze estreme di arrabbiati o retrivi, la maggioranza silenziosa, dopo i primi anni di sdegno e frustrazione provati nel vedere i propri alunni uscirsene spavaldamente dalle aule lasciando solo il professore col suo Dante e il suo Platone per andare a sentire vaneggiamenti di coetanei ubriachi di politica, se ne fece una ragione e pian piano, in molti casi se non in tutti, cominciò ad apprezzare quei giorni di vacanza in più, sia che dovessero rimanere comunque a scuola, sia che ne potessero uscire grazie a presidi più comprensivi. Occorre qui ricordare che la grande maggioranza dei docenti della scuola superiore è composta da donne, sempre alle prese, e lo dico senza falsi pudori, con la quadratura del cerchio quotidiana che è il far convivere in una sola persona il ruolo di lavoratrice, madre, moglie, figlia, massaia, badante e così via. Anche se si doveva rimanere a scuola benedette erano comunque le mattinate di assemblea, quando nella calma inusitata delle aule si potevano correggere quei compiti che altrimenti avrebbero occupato le ore serali e notturne… Oggi tutto è più facile: quando in una scuola di cinquanta classi partecipano all’assemblea solo una sessantina di persone, basta la presenza dei collaboratori del DG e dei bidelli per assicurare la sicurezza dei ragazzi, anche perché solo in casi eccezionali i dibattiti assumono toni aggressivi. La partecipazione, quindi, è calata progressivamente anche nel corpo docente, sempre meno coinvolto dall’assemblearismo studentesco e sempre più preso da preoccupazioni molto concrete, come il precariato e le restrizioni economiche.

Gli organi collegiali

Lo stesso destino hanno subito negli anni gli organi collegiali, che dovevano permettere a tutte le sue componenti, quindi non solo ai docenti e non docenti, ma anche ai genitori e agli alunni, di partecipare alla gestione della scuola. Ancora oggi quegli organi funzionano regolarmente, ogni anno si organizzano le elezioni degli alunni e degli altri membri che hanno esaurito il loro mandato. Il Collegio docenti, che dovrebbe avere potere deliberante sulle questioni didattiche, viene regolarmente riunito dai Dirigenti Scolastici, gli alunni eleggono i rappresentanti di classe che si riuniscono in Comitato studentesco, i Consigli di Istituto continuano a svolgere il ruolo di consigli di amministrazione e così via. Intorno al 2000 è stato cambiato per legge lo stato giuridico dei presidi che hanno raggiunto, dopo lunghe lotte, il grado di dirigenti, trasformazione che ne ha accentuato il ruolo di manager attenti alle questioni di gestione finanziaria e posto in secondo piano quello di capo di una istituzione culturale, come tale non solo sensibile ai contenuti e alla qualità dell’insegnamento, ma anche vicino agli studenti sotto il profilo umano e didattico. Da quell’epoca successive circolari hanno cambiato inoltre la natura dei rapporti tra DG e docenti della scuola: mentre il Preside era un primus inter pares che manteneva la consapevolezza di essere anzitutto un docente, ed aveva con i docenti un atteggiamento di fattiva collaborazione, oggi si è accentuato il dirigismo di tipo aziendale che ha fatto dei docenti degli impiegati sottoposti ad un dirigente spesso lontano sia fisicamente che mentalmente, innalzato in sfere superiori da cui egli guarda i docenti con un atteggiamento di diffidenza e incomprensione. Un esempio per tutti è quello della nomina dei collaboratori del preside, che il decreto del 1970 faceva eleggere al collegio docenti. Un decreto successivo ha modificato questa norma e dal 2000 i collaboratori vengono direttamente nominati dal DG, che ne dà solo comunicazione ai docenti. Le conseguenze sono ovvie: secondo la logica aziendale, oggi i collaboratori del DG sono dei bravi yesmen e yeswomen che salvo, anche qui, rare eccezioni, non si sognerebbero mai di proporre linee di gestione diverse da quelle dei DG, tantomeno di rappresentare presso di lui la voce dei docenti. E i DG, professori spesso fuggiti dalle aule per frustrazioni di vario tipo, più che per una reale capacità di dirigere, raramente sfuggono al pericolo di diventare, arrampicandosi come tanti nanetti sull’irresistibile altura della parola d-i-r-i-g-e-n-t-e, dei ducetti spocchiosi che conferiscono con i loro ex colleghi solo previo appuntamento, non rispondono ai loro saluti nei corridoi, li accolgono con freddi “lei chi è?” quando si arrischiano a varcare il sacro soglio. Mi hanno detto che una ambiziosissima DG scolastica ha avvertito i docenti della sua scuola che preferisce essere chiamata col titolo di dottoressa e non con quello di professoressa, che evidentemente costituisce ormai per lei una deminutio! Quando invece si presentano da loro i rappresentanti degli studenti, quegli stessi DG assumono atteggiamenti paternalistici e untuosi, che ingannano i ragazzi e li fanno sentire forti contro i professori, spesso odiati non per colpe particolari, ma per l’unica grande incancellabile colpa, quella che loro chiamano “l’arma” del voto.


Un dialogo interrotto

Gli studenti sognano professori disarmati come i corrotti sognano giudici disarmati, e questa è, una volta passata nei cunicoli tortuosi degli anni e delle generazioni, l’ultima deforme, irriconoscibile traccia della sana ribellione all’autorità degli anni ’70. Quelli che bisogna, ora come allora, attaccare senza pietà sono i professori ignoranti, i magistrati nullafacenti, i poliziotti corrotti, i medici superficiali, gli ingegneri irresponsabili, gli avvocati menzogneri, i politici senza scrupoli, i commercianti disonesti, gli impiegati lavativi, tutti coloro, insomma, che abusano consapevolmente del loro ruolo e della loro competenza, per truffare noi e lo Stato (che siamo ancora noi), ma non si possono e non si devono privare (sarebbe un suicidio collettivo) tutti i professori, tutti i magistrati, tutti i medici e così via delle prerogative insite nel loro compito istituzionale, che è quello di insegnare, applicare le leggi, lottare contro il crimine, tagliare la pancia dei pazienti per asportarne tumori. Un professore ha bisogno del registro per registrare le fasi di apprendimento di un allievo: è come un allenatore sportivo – dico sempre ai miei alunni – che allena seriamente gli atleti perché devono raggiungere un certo grado di preparazione se vogliono partecipare degnamente o addirittura vincere una gara. Se l’atleta non arriva al livello richiesto viene fermato, lo si mette in panchina, lo si esclude dai tornei o dalle Olimpiadi. Il voto serve a dire al docente “non sei arrivato al livello richiesto, devi studiare di più, devi ripetere il percorso”. Perché una cosa così serenamente accettata nello sport è vista con orrore nella scuola? Eppure il fenomeno è evidente anche negli studenti che praticano seriamente lo sport! Tagore scrisse “Lo scopo principale dell’insegnamento non è quello di spiegare i significati, ma di bussare alle porte della mente”: ma per bussare occorre una porta, e quella si apre solo attraverso lo studio e l’impegno. Dunque questa, secondo me, è l’eredità negativa del ’68: l’incapacità di riconoscere la competenza degli adulti e in particolare dei docenti (quando c’è), l’arroganza mentale che vediamo ogni anno in ragazzi sempre più giovani, che arrivano a noi dalle scuole medie già convinti di aver capito tutto della vita e di non aver necessità di imparare nient’altro, in particolare tutto ciò che la scuola propone (che poi è lo stesso, con varianti più o meno significative, in tutte le parti del mondo). E i professori, nella scuola, si sentono sempre più in trincea, anche quelli più competenti ed aperti, quelli che sono pronti ad ascoltare critiche e contraddittorio e ad accoglierle e discuterle come parte del loro lavoro. Ma i ragazzi delle scuole oggi preferiscono tacere e ignorare del tutto il mondo degli adulti, preferiscono chiudersi in una dimensione autoreferenziale dove sono ammessi solo i loro coetanei (le cui opinioni riflettono pienamente le loro) e i loro interessi giovanili. Gli adulti vengono educatamente messi da parte o usati solo nella misura in cui essi risultino utili ad uno scopo ben preciso (leggi, ad es., la gita scolastica); nella scuola i professori ormai raramente sono contestati in un confronto aperto, ma si affida ai genitori, quando è possibile, il compito di toglierli dai piedi. E questo ci riporta agli organi collegiali: il consiglio di classe, che nei primi tempi era occasione di un interessante scambio di punti di vista tra studenti, docenti e genitori, un momento in cui si dava la possibilità a tutti di motivare i propri comportamenti e chiarire le proprie aspettative di fronte all’importante scopo comune, sono anch’essi diventati, con gli anni, stanchi rituali che si esauriscono, da parte dei docenti, nel riferire in modo schematico e ripetitivo generiche notizie sull’andamento della classe, da parte dei genitori nel riportare le lamentele dei ragazzi su questo o quel professore (raramente per palese ignoranza, più spesso per eccessiva severità), da parte dei rappresentanti degli studenti per avanzare richieste ancora più meschine di avere meno esercizi di matematica il lunedì o una versione di greco più breve il martedì. Rarissimamente mi è capitato di sentire da parte dei genitori o degli alunni una proposta per arricchire, variare o approfondire l’offerta formativa: quando avviene, anche il più retrivo dei docenti generalmente accoglie la richiesta con entusiasmo. Molti docenti, da parte loro, hanno reso difficile la comunicazione nei consigli perché vedono la presenza dei genitori nei consigli di classe come interferenze indebite e fastidiose e a volte sono loro a rendere vano ogni tentativo di scambio di idee più profondo. Comunque i rappresentanti delle due categorie presenti nel consiglio di classe o negli altri organi a loro aperti vengono guardati come eroi o almeno come cittadini meritevoli: costituiscono infatti quell’esiguo numero di persone che si rendono ogni anno disponibili a svolgere questo compito. A volte bisogna combattere per trovare non solo due candidati per classe (le elezioni scolastiche sono quasi sempre bulgare…), ma anche 3-4 genitori per classe che vengano ad eleggerli !


 

Conclusione

Siamo un popolo stanco? Che cosa ha acuito negli ultimi vent’anni la nostra tendenza a non partecipare, a lasciar correre, a far decidere agli altri? E’ il benessere, è il paese dei balocchi generosamente costruito per noi da industria e pubblicità che ha fatto di noi tanti omini autistici chiusi nella nostra minuscola bolla personale? La società del futuro è fatta di tanti bambini–a–vita, governati da un benevolo Grande fratello che fornisce loro giocattoli elettronici, realtà virtuali e gadgets colorati?
E il dolore? Il dolore che irrompe prima o poi nella vita di ciascuno di noi come sarà gestito? Il dolore degli altri che bussa alle pareti trasparenti della nostra bolla personale fino a quando potrà non bucarle? In fondo la cultura che si acquisisce a scuola ed oltre la scuola non è che un mezzo potente per poter capire il dolore dell’esistenza, e poi imparare ad affrontarlo, ad incanalarlo in percorsi positivi, a trasformarlo in amore per l’umanità.
Niente paura: di sicuro, in qualche avveniristico laboratorio di qualche Sylicon Valley del mondo hanno già inventato quell’aggeggino che appena nati ci applicheranno al cervello e ci guiderà, ebeti e sorridenti, attraverso una vita tutta rosa sotto un cielo eternamente, inesorabilmente azzurro.


MAD

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