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Le assemblee

Quelli erano una scuola e un tempo in cui veramente si imparava, in cui volenti o nolenti si dovevano aprire occhi orecchie e cervelli, in cui ho visto poche persone, tra professori ed alunni, passare stolidamente indenni attraverso le fiamme della rivoluzione. Le assemblee in particolare erano momenti forti, dal duro impatto emotivo, le parole ti si attaccavano addosso e ti tormentavano, non ti facevano dormire la notte, suscitavano rabbia e sorpresa, scavavano un solco tra il tuo io di ieri e quello di domani, rovesciavano le certezze, facevano intravedere altri universi mentali, altre prospettive. Qualcuno aveva scritto a grandi lettere di vernice bianca sul cemento del cortile d’ingresso "Finché la violenza di stato si chiamerà giustizia, la giustizia del popolo si chiamerà violenza”. Uno dei motti vincenti di quella rivoluzione velleitaria, che non sapeva ancora a quali estremi sarebbe arrivata nelle sue frange più tenaci e tragicamente coerenti. La scritta mi faceva paura, suscitava davanti agli occhi scenari orrendi, ma, letta giorno dopo giorno, insinuò in profondità nella mia mente l’idea di “violenza dello Stato”. Per me, figlia e nipote di magistrati, professori, presidi, lo Stato era l’ordine di fronte al caos, la giustizia di fronte all’arbitrio, la regola tesa a salvaguardare tutte le parti sociali. “La violenza dello Stato”: l’anomalia, l’errore, la devianza in un organismo che nella mia ingenuità ritenevo sostanzialmente perfetto. Mio nonno, è vero, alla fine della sua carriera, ormai in Cassazione, ripeteva amaramente “La giustizia è una bilancia scassata”, nel senso, spiegava poi, che funziona solo contro i più deboli, mai contro i forti. Ma mio nonno era morto quando avevo quindici anni, ed ero troppo ragazzina per capire ciò che, con altre parole, mi avrebbe detto quella scritta per terra.
Ma torniamo alle assemblee studentesche: fino all’80, mediamente, funzionarono bene: moltissimi studenti della scuola partecipavano, venivano invitati a parlare “esperti” di valore che venivano ascoltati con interesse e subissati di domande pertinenti. Anche i Presidi a volte intervenivano come relatori quando si parlava di problemi scolastici e parecchi docenti, pur non obbligati, andavano ad ascoltare i dibattiti che alcuni di loro continuavano poi in classe con i propri alunni. Abbiamo visto in quegli anni, ma anche in epoche successive, sfilate di giornalisti, scrittori, magistrati, registi, filosofi, uomini politici invitati a coppie secondo le regole della par condicio, partecipare con molto impegno a queste riunioni, di fronte a un pubblico che sfiorava, nei grandi istituti, i mille alunni. Una delle ragioni di tanto afflusso erano i regolamenti dell’epoca, che non permettevano agli studenti di andarsene a casa in alternativa all’assemblea, consacrata dalla legge come momento di didattica alternativa "in funzione della formazione culturale e civile degli studenti", di prezioso confronto di idee in un contesto regolamentato e in un clima costruttivo. Chi non era interessato poteva rimanere in classe e svolgere esercizi con i professori dell’ora: è inutile dire che questo spingeva tutti a “scendere” in assemblea, casomai per sedersi accanto alla bella ragazza della classe vicina e tentare un approccio con lei. Altri chiacchieravano, altri potevano distrarsi in altri modi, ma la maggioranza partecipava. Erano di là da venire tutti quegli apparecchi elettronici forniti di auricolari che oggi ogni ragazzo ha in tasca o nella borsa e gli permettono di “assentarsi” comodamente in ogni momento della lezione, della gita scolastica, della conferenza dell’esperto di turno. Oggi abbiamo davanti platee di omini autistici, chiusi nella loro “bolla” personale, assolutamente indifferenti a qualsiasi cosa fuori di quella bolla. Allora la scuola, attraverso le assemblee, respirava, riceveva dal di fuori ventate di aria nuova, si apriva alle teorie che svecchiavano i vecchi saperi scolastici, forniva agli alunni anche la consapevolezza di ciò che avveniva nella società e nel mondo, permetteva loro di reagire e divenire soggetti attivi. La stessa scuola, in realtà, attraverso le trasformazioni positive verificatesi nei decenni successivi, si farà a partire da quell’epoca sempre più carico di aprire l’orizzonte dei ragazzi quando questi smetteranno in larga parte di essere soggetti propositivi, ma lo farà in forme diverse, attraverso l’inserimento nel curricolo di corsi secondari, seminari, progetti, conferenze, tutti affidati ad esperti esterni (è diventato persino un business!). Di tutte queste lodevolissime attività gli studenti saranno però i fruitori, chiamati, non sempre con successo, ad una partecipazione attiva, mai o quasi mai i promotori.

Tuttavia, impercettibilmente, la spinta propulsiva del ’68 andava calando, la gravità degli eventi degli anni di piombo generò un’ondata di orrore e di ripulsa anche tra molti di coloro che avevano partecipato o soltanto simpatizzato per il movimento studentesco. Ne approfittavano a piene mani tutte le forze che si erano opposte ad esso, mettendo in luce la paternità delle idee che stavano portando tante aberrazioni. Così, piano piano, cominciò nelle scuole un lento ma inesorabile cambiamento, che accelerò nel momento in cui alcuni Presidi, in particolare quelli più conservatori, o semplicemente quelli più pavidi, che vedevano nelle assemblee solo delle adunate sediziose, si resero conto che, permettendo agli studenti di starsene a casa nel giorno dell’assemblea mensile, il numero dei partecipanti calava sensibilmente: per molti anni questo avvenne solo in alcune scuole e venne osteggiato da molti capi di Istituto, non necessariamente progressisti, perché questa interpretazione della legge andava contro lo spirito e le finalità per cui essa era nata, e dava la possibilità di fatto agli studenti di “marinare” la scuola legalmente. In realtà all’inizio si richiedeva agli studenti la giustificazione come per qualsiasi altra assenza, ma dagli anni ’90 , dilagando ormai quasi in tutte le scuole superiori la tendenza a disertare le assemblee, si è permesso agli studenti minorenni di portare soltanto una dichiarazione preventiva dei genitori che il figlio sarebbe stato assente il giorno dell’assemblea. Oggi nel mio liceo, che conta mille e cento alunni, si canta vittoria se hanno partecipato all’assemblea del mese un centinaio di studenti; gli esperti di valore intervengono sempre meno per un pubblico così ridotto; molte assemblee, come quelle di dicembre e di febbraio, si sono convertite in feste di Natale e di Carnevale, ma non per questo godono di una frequenza molto più numerosa.

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