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La differenza

Perché questo è il punto: ci credevano, ci credevamo. Si lotta quando si ha fiducia che le nostre azioni portino a unrisultato, si diventa cinici e passivi quando ci si accorge che i poteri forti, le cupole, ci sovrastano inesorabilmente, soffocano ogni speranza, rendono inutile e ridicola la nostra partecipazione. E’ quello che si è reso sempre più evidente in Italia da quando è iniziato il fenomeno Berlusconi, una piovra dalle mille braccia che ha, all’inizio più copertamente, oggi in modo arrogante e ostentato, svuotato di significato, dall’interno del mondo politico, ogni dibattito, ogni confronto di idee e di ideologie, lo scontro ma anche la faticosa cooperazione tra visioni del mondo differenti, in nome di un efficientismo padronale che oggi, a distanza di quasi vent’anni, si è dimostrato più di facciata che di sostanza. Lo Stato sognato da un imprenditore è fatto di dipendenti, non di cittadini. I dipendenti di qualsiasi grado non discutono, eseguono, per perseguire un unico scopo comune che è l’utile dell’azienda. Ma l’utile dell’azienda non si identifica, se non in misura del tutto secondaria, con il bene dei dipendenti. Oggi il parlamento è una sentina oscena fatta di avvocati, leccapiedi e donnine del premier, di gente comprata a botte di soldi e carriere tanto più fulminanti quanto più immeritate (o basate su meriti che non hanno nulla di decente).

 

Come si va a votare, oggi, sapendo che il tizio che abbiamo votato, il cui partito si scalmana ogni giorno a sbraitare contro il berlusconismo, si potrà vendere domani per un posto di sottosegretario? Siamo un popolo di peones, di ex poveracci da poche generazioni usciti dall’assillo della pagnotta quotidiana, siamo disposti a vendere dignità, figlie e mogli per un posto al sole.

Cambiare il mondo: solo utopia?     Ma allora era diverso, i ragazzi del ’68 e dintorni erano ancora, senza saperlo, i figli dell’Illuminismo e dell’800 rivoluzionario e dei

loro oppositori storici, i ragazzi del ’68 hanno messo a ferro e fuoco le università e le scuole perché davvero credevano di poter cambiare il mondo. E, con tutte le contraddizioni e gli errori, ci sono riusciti. La scuola e l’università non sono state più le stesse: l’insegnamento cattedratico, che salvo rare meravigliose eccezioni faceva degli studenti pre – ‘68 dei graziosi vasi destinati a riempirsi acriticamente di nozioni mal digerite, ha dovuto confrontarsi con le istanze di rinnovamento, ha capito che non poteva più contare sul disciplinato assorbimento dei contenuti delle discipline, ma doveva aprirsi alla critica e alla discussione, al rifiuto e alle proposte di visioni alternative. I testi scolastici sono stati riscritti seguendo linee più problematiche, moltissimi insegnanti (non tutti, ovviamente) hanno introdotto nella loro didattica la riflessione critica e il dibattito con i loro alunni, grazie anche a successivi interventi ministeriali finalizzati al rinnovamento dei programmi come quello Brocca. E tutto cominciò allora, nei primi anni ’70, una stagione bellissima della storia della scuola italiana. Mi contraddico con quanto ho scritto all’inizio? Ma proprio per niente: al di là degli aspetti dirompenti e dissacranti, al di là delle violenze fisiche e verbali, al di là di tutto ciò che di torbido e oscuro si insinuava nel confronto degli opposti, il panorama delle scuole di allora, anche di quelle particolarmente “calde” – come si diceva – era magnifico: la maggior parte dei ragazzi “impegnati” da una parte o dall’altra della barricata (ma in particolare quelli di sinistra, che dovevano fondare “il mondo nuovo”) erano informati, leggevano libri e giornali, partecipavano attivamente ai dibattiti, si appassionavano partendo da dati concreti, documentati. Era normale che fossero presenti ad assemblee e collettivi portando con sé i testi che citavano, da Gramsci a Marx, da Don Milani a Brecht, da Bertrand Russel a Herbert Marcuse. Anche il rapporto che essi avevano con il mondo degli adulti, per quanto di critica e di opposizione, costituiva un canale aperto, dove le idee, spesso in modo convulso e infuocato, scorrevano in entrambe le direzioni. Se io spreco energia e tempo a lottare con un avversario, implicitamente riconosco il valore o almeno la forza dell’avversario, la sua esistenza. Gli adulti che pure, in quell’epoca, non avevano certo alle spalle grandi meriti storici, tranne la minoranza che poteva vantarsi di aver “fatto” la Resistenza, esistevano eccome per i giovani: alcuni come oggetto di scherno e di disprezzo, altri come modelli di pensiero e di comportamento, amati e seguiti. In ogni facoltà, in ogni scuola c’era il professore colto, coraggioso, non allineato, che diventava anche senza volerlo un mito per i suoi studenti.

Il silenzio

 

Oggi è tutto finito. Lì dove tempestavano le voci è silenzio, dove bruciavano le passioni c’è il vuoto, nei rari casi in cui pochi individui cercano di risvegliarle c’è una reazione fiacca e svogliata, vicina allo zero. L’assemblea di Istituto: questa adunanza generale mensile, voluta e decretata nel 1974 assieme ai collettivi di classe e di interclasse e a tutto il sistema degli organi collegiali per imbrigliare e regolamentare la protesta caotica e velleitaria dei giovani e per dare alla scuola una gestione democratica, è morta, ossia vive come pallido fantasma e, di fatto, come giorno di assenza legale che nemmeno entra nel computo delle assenze ai fini della valutazione finale. Quindi otto mesi di scuola, sette giorni in meno al calendario scolastico, visto che Maggio per ragioni didattiche ne è sempre stato fuori. Sono passati quasi quarant’ anni da quella primavera calda che prometteva un futuro luminoso, giovane, diverso dal passato grigio, compunto, conformista: “una risata vi sommergerà” recitava lo slogan, e in quella risata c’era tutta l’infinita bellezza di migliaia di intelligenze giovani e appassionate.

Un tentativo di analisii

Che cosa è successo nella scuola? Come si è verificato questo “riflusso” che ha portato, dopo quasi mezzo secolo, ad una situazione che, se da un lato, per una parte minoritaria di essa, ancora conserva e perpetua i frutti positivi del ’68, dall’altra si presenta generalmente con un quadro per molti versi peggiore della scuola degli anni ’60? Quali i protagonisti ? Quali le responsabilità? La risposta che cercherò di dare a queste domande così impegnative è assolutamente soggettiva e discutibile, perché nasce dallo stretto angolo visuale di una persona che in questi quarant’ anni ha insegnato solo in quattro licei, di cui tre classici, ma ha vissuto anche un’esperienza tutta particolare, rimanendo nella scuola e tuttavia uscendone, a tratti, per vivere quinquennali periodi all’estero, che le hanno permesso di osservare la realtà scolastica italiana con maggiore distacco e lucidità. Il luogo dove però dove è iniziata la mia crescita è stato il primo liceo dove ho insegnato, nell’allora estrema periferia della città, pericolosamente vicino alle famigerate zone popolari di Tufello e Valmelaina. I miei alunni sono stati i miei docenti, i conflitti di quegli anni mi hanno aperto gli occhi su realtà che avevo vicine ma non vedevo, nella beata cecità di chi non è stato mai toccato dal bisogno o dall’ingiustizia.

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