Indice articoli

Dalla teoria alla pratica

 

Negli organismi internazionali è ormai frequente incontrare concetti come partecipazione e sviluppo dal basso (“grass-root development”) come parte integrante delle procedure operative nei programmi di cooperazione. Su di essi sono fondati i criteri per la formulazione

di nuovi programmi o per valutare l’efficacia degli interventi. C’è da chiedersi, tuttavia, se questi concetti corrispondano sempre alla realtà o piuttosto non siano, il più delle volte, slogan usati come formule vuote, applicati meccanicisticamen te tanto per essere politicamente corretti, disattendendoli poi in pratica nella loro sostanza. Non è un caso, infatti, che si senta parlare di loro più che altro come ostacoli, quasi come incidenti di percorso, che bisogna purtroppo adottare nella pratica conduzione degli interventi, principî spesso considerati di difficile applicazione, pertanto trattati come criteri teorici o di rilevanza minore o addirittua retorici.

Così, in pratica, ogni volta che si lancia un nuovo intervento di cooperazione, non è raro assistere ad una specie di rituale procedurale, secondo il quale tutti questi contetti vengono rievocati solo sulla carta, senza però che ci sia la

certezza della loro applicazione sostanziale. Si prendono tutte le misure affinché essi siano inseriti tra gli ingredienti indispensabili dell’intervento. Si fa di tutto perché ci sia una piccola dose di partecipazione dei beneficiari in qualche modo dimostrata con qualche meccanismo istituzionale che ne garantisca la presenza (anche se soltanto simbolica). Si esige che il rispetto per la dimensione “genere” risulti dimostrata dall’adozione di criteri che tengano conto di qualche indicatore sulla condizione femminile. Si richiede il rispetto della dimensione “ambientale” con qualche variabile eco-sensibile. Si fa sì che l’intervento sia, per lo meno sul piano formale, sempre una risposta ad una richiesta di un ente locale così da rispettare il principio del “demand-driven approach”. E infine, perché no, si inserisce qualche espediente per dimostrare l’applicazione del principio della “national ownership”, in qualunque modo sia essa definita. Con tutte queste componenti, combinate come ingredienti di una ricetta dal sicuro successo, perché rappresentative di principî sacrosanti, ci si illude di poterne ottenere l’applicazione sostanziale grazie alla loro mera presenza.

La realtà, però, dimostra che non basta assicurarsi la presenza di questi ingredienti per realizzare una partecipazione effettiva ed efficace dei destinatari degli interventi di sviluppo. Ci vuol ben altro. Né è sufficiente indicare qualche requisito in un documento di progetto per tradurre un approccio partecipativo allo sviluppo in una realtà tangibile.


 

Un esempio diretto: un progetto in Cambogia

Purtroppo, però, parlare di tutto ciò in termini astratti serve a ben poco. Si rischia di disquisire all’infinito di tematiche che appaiono solo teoriche. Per questo, ho pensato che potrebbe essere utile verificarne la portata concreta attraverso esperienze concrete, con un esempio diretto da me vissuto personalmente due anni fa in Cambogia.

Lavoravo come consulente della FAO alla prepazione di una strategia di quell’agenzia dell’ONU in quel paese. Per portare avanti il mio incarico, dovevo visitare alcuni programmi specifici, quelli che nella terminologia anglosassone sono definiti “progetti”. Un progetto in particolare mi è rimasto impresso, realizzato nel nord del paese nel settore della riabilitazione dei sistemi d’irrigazione di piccola scala.

Il progetto si era appena concluso. Aveva goduto di un finanziamento della cooperazione italiana. Condussi la mia visita insieme ad un mio giovane assistente, brillante economista di  Arezzo, pieno di entusiasmo e di curiosità sociali ed intellettuali (ora studente ad Harvard). Appena arrivati nel pomeriggio, incontrammo il direttore provinciale del ministero delle acque e dell’irrigazione (il settore agricolo è così specializzato che ci sono diversi ministeri che si occupano di agricoltura), il quale ci aiutò ad organizzare una visita al progetto per l’indomani , includendovi un’incontro di un paio di ore con l’associazione della comunità dei “water users”, i contadini che sono gli utilizzatori finali dei sistemi d’irrigazione. Quell’incontro era ciò cui tenevo di più.

Mi avvisarono che avrei avuto bisogno di un interprete, perché i contadini parlavano solo khmer (la lingua cambogiana):  contattai così l’ex segretaria del progetto, che si rese disponibile a farci da interprete per l’intera giornata.


 

L’incontro con la comunità locale

L’incontro con la comunità di “water users” fu sorprendente. Durò due ore e mezzo, più del previsto.  Nessuno dei presenti aveva fretta di andarsene, e la discussione fu molto intensa.  Erano presenti circa una quindicina di persone, di età variabile tra i venti e i quarant’anni. C’era solo una donna nel gruppo, a dimostrazione che anche in quel caso le posizioni di chi decide sono dominate dai “maschi”, come del resto è frequente anche negli altri settori del paese. Ciò nonostante, la presenza di donne nell’agricoltura (dominata dalla coltivazione del riso) è notevole ma sempre in posizione subordinata, una realtà che si estende a tutti gli aspetti della vita sociale del paese.

La conversazione si sviluppò con calma. Per prima cosa chiesi loro di spiegarmi la storia della loro associazione, come erano nati, e come funzionavano. Il capo del gruppo, una specie di presidente dell’associazione, prese la parola e cominciò a rispondermi. Altri partecipanti cominciarono a integrare le sue spiegazioni, e notai che il presidente dell’associazione non era infastidito dai loro interventi, evidentemente abituato ad un rapporto di dialogo con i suoi colleghi . Purtroppo, la sola donna membro dell’associazione non fece mai domande, ma fui io stesso a coinvolgerla nel dialogo con qualche domanda diretta.

La descrizione del progetto

Il progetto aveva avuto una durata di tre anni, dopo una lunga fase di formulazione e di negoziazione, seguita da un’altrettanta lunga fase di preparazione. Sul piano operativo si era concentrato in alcuni lavori strutturali su chiuse che collegavano un bacino – alimentato in parte da un ramo secondario di un fiume e in parte dal raccoglimento delle acque piovane – con una serie di canali di irrigazione, articolati in una rete capillare di piccoli canali che copriva una vasta zona, continuamente intervallati da altrettante chiuse di piccola dimensione che ne regolavano I flussi di erogazione. C’era stato bisogno di tanti interventi per ripulire i canali non funzionanti intasati e riparare le paratie stagne che regolavano l’afflusso dell’acqua. Ma prima dei lavori ingegneristici, c’era stato un intenso lavoro preparatorio di tipo legale, per ottenere permessi, chiarire i limiti territoriali dell’intervento, complicati dalla difficoltà di definire i titoli legali della proprietà della terra, che è un intrigo giuridico di enormi dimensioni e di difficile soluzione in Cambogia, una eredità del collettivismo assoluto imposto dall’ormai tramontato regime dei Khmer Rouges.


 

 

L’associazione degli utilizzatori di acqua

Per rispettare l’aspetto partecipativo dell’iniziativa, il progetto aveva previsto la costituzione di in un’associazione di “water users”, con un sostegno formativo iniziale. Dopo il compimento del progetto, l’associazione avrebbe avuto la responsabilità della manutenzione dei canali d’irrigazione da tutti i punti di vista: manuale, organizzativo ma anche finanziario. Tutti i presenti lamentarono, tuttavia, che l’avvio dell’associazione era stato fatto solo negli ultimi sei mesi di vita del progetto, con un corso di addestramento organizzato tre mesi prima della fine dell’intervento esterno del personale tecnico del progetto.

Tutti i presenti avevano partecipato a quel corso di formazione, e ne erano rimasti soddisfatti, ma ne lamentavano la brevità e sottolinearono la mancanza di un qualche seguito (visto che il progetto era finito). Né era stato previsto alcun collegamento con altri corsi di formazione in tecniche agrarie, come quelli promossi dal servizio nazionale di estensione rurale. Alcuni di loro però avevano seguito questi corsi grazie ad altre iniziative e li avevano trovati interessanti, anche se poco frequenti e limitati soltanto ad aspetti introduttivi. L’unica donna presente all’incontro aveva frequentato uno di questi corsi di capacitazione agraria, e questo fu l’unico tema su cui potei dialogare con lei. Era evidente una condizione di timidezza della donna, che non osava prendere la parola in un ambiente con forte maggioranza maschile.

Man mano che parlavamo con i membri dell’associazione, ci rendemmo conto che stavamo di fronte ad un gruppo di persone preparate, più di quanto ci aspettassimo, e sicuramente interessate a migliorare la propria capacità tecnica e desiderose di impegnarsi di più. Dagli interventi notammo una notevole competenza dei contadini presenti, ben consapevoli delle convenienze economiche e produttive della loro attività. Non ci fu domanda cui non seppero dare risposte esaurienti.

Ci spiegarono il funzionamento dell’associazione, come venissero organizzati i turni di manutenzione dei canali e delle chiuse, e come avessero creato un fondo comune per le spese di manutenzione, finanziato con una forma di autotassazione. Mi illustrarono i problemi iniziali incontrati nel varare questo sistema associativo di lavoro di manutenzione,causati da forme di disorganizzazione quasi anarchiche, malintesi, soprusi di chi si era approfittato dell’accesso ai canali d’irrigazione per accaparrarsi quantitativi d’ acqua eccessivi a danno degli altri soci dell’associazione, e le correzioni introdotte per attutire i danni così prodotti.


 

La Partecipazione alla luce dei fatti

La spiegazione del funzionamento dell’associazione era un modo per capire meglio come si attivasse l’aspetto partecipativo. Chiesi chi avesse nominato il presidente dell’associazione e come si erano autotassati per creare il fondo comune per le piccole spese di riparazione delle chiuse e altre spese di manutenzione. Mi illustrarono come il lavoro di manutenzione fosse organizzato con turni di ciascun membro dell’associazione, sulla base di ritmi di lavoro e frequenze concordati dall’associazione, così che nessuno potesse considerare le decisioni dell’associazione come imposizioni esterne.

A detta dei presenti, la nomina del presidente era stata espressione di una decisione democratica dal basso, ma non sarei in grado di giurarci sopra, visto che il sistema politico in Cambogia non brilla di trasparenza democratica. Non escludo che la nomina sia stata influenzata da un suggerimento dall’alto, magari proveniente dalla direzione provinciale del ministero. La dinamica della riunione mostrò però un rapporto molto franco tra tutti i partecipanti, e non ebbi mai la sensazione di alcun condizionamento gerarchico tra di loro, e questo vuol dire molto in un paese come la Cambogia ove le gerarchie, invece, sono molto presenti, e si traducono spesso in comportamenti assolutamente reverenziali. Tuttavia, la barriera linguistica non ci permise di approfondire quest’aspetto, vista l’impossibilità di seguire i dettagli delle loro conversazioni.

Sul piano più oggettivo dei fatti, potemmo constatare la franchezza con cui ci avevano confidato gli errori commessi, mostrando come la vita associativa aveva loro permesso di acquisire una nuova consapevolezza su come gestire un bene comune essenziale per la produzione del riso, l’acqua, utilizzando criteri di gestione ispirati alla saggezza operativa e al buon senso, criteri concordati fra tutti i membri dell’associazione. Man mano che l’associazione aveva accumulato esperienze di gestione partecipativa, i singoli soci erano cresciuti in una maggiore coscienza che il loro beneficio individuale, alla fin fine, richiedesse al tempo stesso la tutela degli interessi di tutti, una coscienza che solo le perdite idriche dovute agli sprechi iniziali aveva fatto maturare. L’esperienza aveva loro insegnato qualcosa che nessun corso di formazione sarebbe stato in grado di far accettare: che l’interesse privato si protegge salvando l’interesse collettivo.

Avevano anche scoperto, con sorpresa, una capacità di risparmio del gruppo finora insospettata: attraverso l’autotassazione varata per sostenere le spese di manutenzione, si erano resi conto che potevano risparmiare ed accumulare piccoli fondi di risorse finanziarie che, proprio perché messi in comune, avevano una capacità d’impatto che sarebbe stata irrilevante se i risparmi fossero rimasti al livello individuale. I partecipanti alla riunione non mi nascosero che questa novità aveva già fatto maturare altre idee sulla possibilità di sviluppare questo risparmio collettivo per altri scopi.

In mancanza di un sistema di credito rurale equilibrato e diffuso a favore dei coltivatori proprietari di piccoli appezzamenti d terreno, il finanziamento del ciclo di produzione (particolarmente per l’acquisto delle sementi prima che il ciclo produttivo cominci) rappresenta un problema spesso insormontabile se non attraverso il ricorso a prestiti a tassi d’interesse elevatissimi offerti dagli intermediari della commercializzazione o dai fornitori delle sementi (che possono coincidere). Questi finanziatori ci furono descritti come dei veri e propri usurai, che godono di particolare potere grazie al ruolo monopolistico che svolgono localmente sia nella fornitura delle sementi che nella commercializzazione della produzione di riso. La dipendenza dal loro finanziamento riduce i margini di profitto dei piccoli agricoltori, confinandoli ad una condizione di miseria.

L’autorisparmio collettivo, però, potrebbe permettere la creazione di un fondo rotativo di assistenza finanziaria, con prestiti a tasso d’interesse più ragionevole, che potrebbe crescere nel tempo, grazie all’autorisparmio. I soci dell’associazione erano consapevoli che una simile evoluzione non sarebbe avvenuta senza frizioni: l’associazione avrebbe dovuto essere pronta a creare sbocchi commerciali alternativi ai soliti intermediari, se questi ultimi avessero cercato di sfruttare la loro posizione monopolistica per imporre il loro ruolo di finanziatori del ciclo produttivo. Così la necessità di assicurarsi fonti alternative di approvigionamento di sementi poteva richiedere appoggi di altre istituzioni, comprese quelle governative, per superare inefficienze di mercato. Lo sviluppo di nuove capacità organizzative di tipo associativo, comunque, dipende dalla traduzione delle nuove forme partecipative di gestione in nuovi comportamenti del gruppo di coltivatori.

Dal dialogo con questi contadini, trapelava la consapevolezza di queste potenzialità ma anche un timore di non farcela, e di essere stati lasciati a se stessi nel tentare queste scalate così ardue. La fragilità del gruppo era legata in parte alla sua età così giovane: dopo tutto il gruppo si era appena costituito da pochi mesi. C’era anche la paura che un qualsiasi inceppo esterno di entità notevole avrebbe compromesso il risultato finale: avrebbero retto l’associazione di fronte ad una stagione di scarsa pioggia, o di fronte ad alluvioni eccessive? E come affrontare il costo crescente delle sementi e dei fertilizzanti? Dopo tutto, i contadini cambogiani erano perfettamente consapevoli della tendenza mondiale all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, anche se non avevano letto l’ultimo numero del Financial Times o del Wall Street Journal.


 

Conclusioni

Man mano che la conversazione si evolveva, mentre apprendevamo elementi interessanti sul funzionamento di questo progetto, mi veniva naturale riflettere sulla capacità degli interventi di cooperazione di capire la propria funzione rispetto a certe forme participative dello sviluppo. Non potevo non constatare le carenze di sostegno che il progetto appena concluso aveva offerto ai suoi interlocutori, proprio nel momento in cui i coltivatori stavano affrontando queste nuove sfide. Il ritardo nella creazione dell’associazione non aveva scuse. Ma ancor di più, mentre tanto sforzo era stato messo negli aspetti tecnici di riparazione delle dighe e dei canali, l’aspetto sociale ed organizzativo del funzionamento dell’associazione era stato lasciato alla buona volontà dei soci membri. Tutto sommato, era andata bene. Ma se il presidente dell’associazione fosse stato meno abile, o se i soci fossero stati più litigiosi e meno solidali, facilmente l’intervento si sarebbe tradotto in un fallimento. La dipendenza del successo da questi fattori umani ed organizzativi era enorme, e c’è da chiedersi come mai gli enti di cooperazione siano così superficiali nel tenerne conto: non c’è da meravigliarsi, perciò, se ci siano così tanti fallimenti in giro.

Inolltre, la condizione dei finanziamenti della cooperazione allo sviluppo, spesso collegata a cicli finanziari di breve durata, non oltre i due o tre anni, condanna i progetti di assistenza esterna ad interventi di breve durata, con interruzioni artificiose di alcune operazioni che dovrebbero avere durata ben più prolungata. Di certo, il progetto aveva trattato la creazione dell’associazione con una superficialità incredibile, avviandola all’ultimo momento, offrendo un’assistenza soltanto al suo avviamento ma non al suo funzionamento. Molti dei problemi discussi nella riunione, circa le problematiche legate agli approvvigionamenti di sementi e di fertilizzanti, le difficoltà di accesso ai mercati di sbocco della produzione o accesso a mulini per il trattamento del riso, o quelle collegate alle tecniche agricole utilizzate e alla produttività dei terreni, erano state o ignorate o appena accennate nel corso dell’attività formativa offerta dal progetto, legata solo alle operazioni di manutenzione dei canali d’irrigazione. Ignorata era stata tutta una serie di altre tematiche di loro interesse: lo sfruttamento da parte degli usurai locali, la mancanza di capitale di funzionamento per finanziare il ciclo produttivo, e l’inesistenza di credito rurale. Queste erano solo alcune delle tematiche che erano centrali per gli agricoltori cambogiani, ma di questo il progetto non si era occupato. È vero che ogni progetto ha una sua specializzazione tecnica legata alla sua specificità, in questo caso legata all’irrigazione, ma questa frammentazione tematica non poteva che essere portatrice d’inefficienze, e i coltivatori non potevano essere lasciati soli a risolverli.

Non dovremmo affrontare il funzionamento degli aspetti associativi dei progetti di cooperazione in un modo diverso? Perché non chiediamo ai beneficiari dei nostri interventi quali siano i loro problemi prima che il progetto sia definito in tutte le sue componenti? Sembra una domanda banale, ma quante volte i progetti sono redatti da tecnici specialisti che ignorano queste dimensioni umane?

E per quale motivo il progetto appena terminato in Cambogia non aveva avviato la creazione dell’associazione degli utilizzatori di acqua sin dalla prima fase della sua esecuzione? Dopo tutto, la sosteniblità e la durabilità di un intervento di sviluppo di questo genere dipendono proprio dalla partecipazione locale, da cui dipende l’esito finale dell’iniziativa. Ma come farlo capire ai capi progetto, alla sede della FAO, al rappresentante FAO a Phnom Pehn, al ministero dell’irrigazione e alla sua direzione provinciale? Ma a quel punto c’è anche da chiedersi se la partecipazione locale veramente rientri nelle priorità di queste entità. Avendo cominciato tardi l’addestramento alle tecniche di irrigazione e di manutenzione degli impianti idrici, la participazione delle maestranze locali al buon funzionamento del progetto non può essere stata che affrettata. Inoltre, aspettarsi che un’associazione maturi in pochi mesi un senso dei valori comuni, un’autodisciplina e una capacità collettiva che dia valore al lavoro congiunto, è a dir poco azzardato. È come sperare nella fortuna: costituisci un’associazione sulla carta, fai qualche riunione, un ciclo rapido di corsi informativi, e …che Dio te la mandi buona. Non c’è da sorprendersi se tanti progetti di cooperazione vadano a finire nel nulla. Se conducessimo i nostri impegni personali con lo stesso approccio, la nostra vita sarebbe un disastro.

Ma altre preoccupazioni mi si accavallavano nella mente. Chi aveva veramente scelto il presidente dell’associazione? Quali erano i veri rapporti tra i soci, al di là di quanto avevamo potuto capire nell’incontro? Come si fa ad aiutare dall’esterno la partecipazione senza essere uno dei membri del gruppo? Quale responsabiità hanno le autorità locali nel favorire o nell’impedire il funzionamento di queste forme participative di gestione dello sviluppo? Che dialogo esiste tra la base sociale e le autorità pubbliche a livello locale, provinciale e nazionale?

Queste domande e tante altre che potevano essere poste, valevano lì in quella realtà ma anche qui da noi in circostanze analoghe ma anche diverse. La partecipazione alla gestione dello sviluppo è determinante affinché lo sviluppo avvenga. Ne è una condizione necessaria. Tuttavia, la partecipazione non è facile da aquisire, e anche quando si realizzi, non necessariamente produce gli effetti voluti: i gruppi hanno dinamiche interne difficili da prevedere. I rapporti reciproci tra i singoli membri richiedono la costante verifica di equilibri decisionali e di comportamenti, in cui semplicismi come l’applicazione automatica della regola maggioritaria o l’uso di un sistema di gestione basato sull’unanimità obbligoria, possono essere solo espedienti che ignorano complessità ben più profonde, ove il rispetto della dignità individuale deve poter convivere con il perseguimento di finalità di bene comune, come il sostegno ai più deboli, per esempio. Non tutti i meccanismi partecipativi riescono ad essere compatibili con queste tre dimensioni (dignità individuali, bene comune, sostegno ai più deboli) in modo soddisfacente. Essere consapevoli di questa sfida, però, è già un passo in avanti.

--------------------

Orlando Sposi

 

DESIGN BY WEB-KOMP